Paesi occidentali e arabi sono in guerra contro il Daesh. Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, cresce e raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? E come si spiega la loro scelta?
2014-2016, i due anni dello «stato islamico»
La guerra (poco) santa del Daesh
Paesi occidentali e arabi sono scesi in campo contro il Daesh (il nome arabo dell’Is, il cosiddetto Stato islamico). Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? Da dove provengono? Come si spiega la loro scelta? In questo dossier – proseguimento di quello del gennaio 2015 – cerchiamo di fornire qualche risposta.
«I crociati divisi di Oriente e Occidente si pensavano al sicuro nei loro jet mentre bombardavano vigliaccamente i Musulmani del khil?fah (califfato, ndr) […]». Così inizia la prefazione al numero di dicembre 2015 della rivista «Dabiq», organo di stampa del Daesh. E prosegue: «Ma Allah ha decretato che la punizione si sarebbe abbattuta sui crociati guerrafondai da dove non si sarebbero aspettati. Così, i benedetti attacchi contro i russi e i francesi sono stati eseguiti con successo nonostante la guerra dell’intelligence internazionale contro lo Stato islamico. Entrambe le nazioni crociate hanno distrutto le proprie case con le proprie mani per mezzo delle loro ostilità verso l’Islam, i musulmani e il Califfato».
Il 13 novembre 2015 l’Occidente è scosso dagli attacchi terroristici a Parigi che provocano 129 morti tra Francesi, Europei e Arabi. Tale tragedia è preceduta da altre che non ricevono la stessa attenzione mediatica e politica: il 12 novembre in un quartiere sciita di Beirut vengono uccise 43 persone; il 31 ottobre, l’esplosione di un aereo russo sul Sinai dilania 224 tra adulti e bambini; il 10 ottobre, un attentato ad Ankara colpisce una manifestazione pacifica facendo 102 vittime; e poi ancora attentati, benché non tutti direttamente a firma del Daesh, in Iraq, Kenya, Mali, Somalia, Tunisia, Siria, Libia, Usa, Indonesia, Burkina Faso, sia precedenti che successivi ai fatti di Parigi.
L’elenco dei morti è lungo e, se guardiamo con attenzione ai luoghi e alle persone, notiamo che la stragrande maggioranza delle vittime degli attacchi è musulmana. Nella stessa Parigi, ad esempio, sono stati uccisi diversi arabi musulmani. Dunque, oltreché una guerra contro l’Occidente, è in atto una guerra intra e inter islamica, cioè tra fazioni e popolazioni musulmane, alimentata da odii settari, regimi e gruppi sanguinari, e da retaggi di guerre coloniali passate e presenti.
Dal 2011, gruppi legati ad Al-Qaida, di cui l’Is originariamente faceva parte, sono stati armati, addestrati, finanziati da Europa, Usa e alleati turco-arabi (tra cui l’Arabia saudita), per abbattere regimi e dittature non funzionali al dominio occidentale. Questi gruppi hanno contribuito a devastare Libia, Siria, Iraq e altri stati.
Testimonianze, documenti e foto dimostrano che organizzazioni armate e addestrate dalla Nato sono passate dalla Libia alla Siria. Esse hanno acquisito armi, competenze e conoscenze sufficienti per fare ciò che vogliono, e per sperimentare le loro tecniche di «guerra urbana» anche in Europa, com’è successo a Parigi. In questi casi non si tratta più di grandi organizzazioni terroriste, ma di «cellule» che, giunte dall’esterno o già presenti nel paese, si attivano dopo il «patto di alleanza» con il gruppo terrorista e l’ordine ricevuto.
Dabiq, manuali e war-game
Consultando la rete internet non è difficile incontrare la rivista dell’Is, «Dabiq», o «manuali del combattente» come l’How to survive in the west. A mujahid guide, 2015 (Come sopravvivere nell’Occidente. Una guida per il mujahid), da scaricare e leggere per apprendere l’arte della dissimulazione, o taqiyyah, e fingersi bravi cittadini allo scopo di preparare indisturbati l’attacco terrorista; per imparare i modi in cui ingannare gli odiati kuffar, miscredenti, tramite carte di credito clonate, phishing (furto di dati e informazioni personali), furti, o per imparare le tecniche della guerriglia urbana, descritte minuziosamente per la «cellula dormiente da attivare al momento giusto, quando la ummah (comunità dei credenti) ha bisogno di te», o, ancora, per diventare esperti nelle modalità «dark» di comunicazione tra combattenti via internet1, per non essere scoperti dalle polizie dei vari paesi.
«La guerra imminente per la conquista di Roma – si legge nel manuale del combattente – consisterà principalmente in guerra urbana dentro le città e le strade europee», come è accaduto a Parigi o a Tunisi. E per essere pronti, i combattenti islamisti si addestrano all’uso delle armi, si allenano in palestra, fanno arrampicata, giocano con videogame di guerra, tra i quali i famosi «Call of Duty».
Tutto, dall’uccisione del miscredente, al comportamento illecito, all’abuso, è giustificato attraverso ahadith2 (ovvero, i detti del Profeta) selezionati e menzionati ad hoc, e rafforzato dalla convinzione che governi e corporazioni occidentali si comportino da criminali. La distinzione, operata a volte da governi e media occidentali, tra jihadista «moderato» (utile ad esempio in Siria per destituire Al-Assad, ndr) e terrorista, non ha senso. Tutti attingono dalle medesime fonti.
«Tutti questi eccessi, il discorso del martirio, i comportamenti immorali, la dissimulazione, la violenza, costituiscono un abuso da parte dell’Is e degli altri gruppi, una strumentalizzazione politica della religione», ci dice Roberto Aliotta, musulmano sufi e responsabile di una comunità ad Albenga (Savona). «Senza una guida spirituale, il Sacro Corano diventa lo strumento per giustificare ogni genere di crimine. L’abbandono del sufismo da parte degli Arabi ha avuto effetti catastrofici e li ha fatti tornare all’epoca preislamica. L’Is, così come altri gruppi, utilizzano alcuni versetti del Corano e certi ahadith per giustificare le loro azioni e far scattare la trappola del takfirismo (l’ideologia che usa l’accusa di miscredenza e apostasia, cfr. il glossario). Purtroppo il salafismo attuale (che vorrebbe un Islam «puro» come quello delle origini) incoraggia l’interpretazione personale degli ahadith, inducendo all’esaltazione della propria visione, sia essa incline alle degenerazioni modeiste o alla superficialità dei “letteralisti”».
Alla conquista di «Roma»
«Conquisteremo la vostra Roma – si legge su «Dabiq» di aprile 2015 -, spezzeremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne, con il permesso di Dio, il Glorificato. Questa è la sua promessa fatta a noi. Egli è glorificato e non manca nelle sue promesse. Se non raggiungeremo quel momento, lo raggiungeranno i nostri figli e nipoti, e venderanno i vostri figli al mercato degli schiavi».
L’11 dicembre 2015, il sito del quotidiano britannico Dailystar pubblica un video dell’Is intitolato Incontrando Dabiq. In esso viene proposta una visione apocalittica degli ultimi giorni sulla Terra3. Roma è presentata come lo scenario della battaglia finale tra i «crociati» e i «credenti», con sequenze che mostrano la Città del Vaticano e un’unità corazzata dell’Is che avanza verso il Colosseo. La preparazione di jihadisti, da parte dell’Is, a una missione suicida viene mostrata in una parte del video intitolata Le ultime parole prima dell’operazione di martirio.
Quando lo Stato islamico parla di «Roma», traduce il termine arabo al-R?m, i Romani, cioè i Bizantini dell’Impero romano d’Oriente, rifacendosi alla omonima sura XXX del Corano che, al versetto 2, fa cenno alla conquista di Bisanzio da parte dei persiani: «I bizantini sono stati sconfitti». Tuttavia la stessa sura prosegue preconizzando la rivincita dei Romani: «Ma loro, dopo la sconfitta, vinceranno». Essa infatti si riferisce a eventi contemporanei al profeta Muhammad che videro quest’ultimo parteggiare per i Bizantini. Nel 614, i persiani politeisti di Cosroe avevano, infatti, occupato Damasco e Gerusalemme, compiendo saccheggi e devastazioni, avevano colpito anche l’Egitto ed erano arrivati a minacciare Costantinopoli. Alla Mecca, i nemici dei primi musulmani si rallegravano per le vittorie dei Persiani, ma la piccola comunità del profeta parteggiava per i Bizantini, monoteisti. Diciamo che il Corano, dunque, tiene le parti dei Romani in quanto cristiani, cioè genti del Libro, contro i Persiani.
Dove attinge allora l’Is, per giustificare le minacce a «Roma»? Come di consueto, dalla miriade di ahadith. Esiste una profezia riguardante la conquista di Roma menzionata da ahadith di Sahih Muslim, riportati nel già citato numero di aprile di «Dabiq», in cui vengono nominate Costantinopoli e Roma: «Questi ahadith indicano che i musulmani saranno in guerra con i cristiani romani – si legge a pagina 33 -. Roma, nella lingua araba del profeta si riferisce ai cristiani d’Europa e alle loro colonie in Siria prima della conquista della Siria stessa per mano dei Sahabah (primi musulmani). Ci sarà una pausa in questa guerra dovuta a una tregua o trattato. Durante questo tempo, musulmani e Romani combatteranno un nemico comune».
Dunque, dal punto di vista della tradizione ortodossa, la pretesa dell’Is di far guerra a Roma, dopo Costantinopoli, avrebbe un fondamento? Sia i versetti del Corano sia gli ahadith che citano la guerra contro Roma sarebbero da contestualizzare storicamente, ma nell’Islam la lettura storico-critica dei testi sacri è negata. «Dabiq» allora interpreta la profezia dandole un valore escatologico, da fine dei tempi, per avvalorare la conquista di Roma in questa epoca storica. A partire da questa visione profetica «senza tempo» e «senza territorio», e mancando un capo religioso riconosciuto da tutta la ummah, chiunque, con un po’ di potere, può decidere di muovere guerra decodificando Corano e ahadith a modo proprio.
Contro i «crociati cristiani»
L’Is spiega il perché del suo odio contro i «crociati cristiani»: «Oh Americani ed Europei – si legge, sempre nello stesso numero di «Dabiq» -, lo Stato islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato la trasgressione contro di noi e dunque siete voi a meritare il biasimo e a pagare un alto prezzo. Pagherete il prezzo quando le vostre economie collasseranno. Quando i vostri figli saranno mandati a fare guerra contro di noi e toeranno a voi disabili, amputati, dentro bare o mentalmente malati. Quando avrete paura di viaggiare in altre terre. Quando camminerete per strada, girando a destra e a sinistra, temendo i musulmani. Non vi sentirete sicuri nemmeno nei vostri letti. Pagherete il prezzo quando questa crociata collasserà, e vi colpiremo nella vostra terra e voi, da quel momento in poi, non sarete più in grado di far male a nessuno. Pagherete il prezzo e noi abbiamo preparato per voi ciò che vi farà soffrire». Sarà la «campagna finale», la battaglia apocalittica che avverrà in Dabiq, territorio nella Siria settentrionale in cui la profezia pone l’atto conclusivo della guerra contro i Romani. Dunque, afferma l’Is, «preparatevi, colpiteci, uccideteci, distruggeteci. Non servirà a nulla. Sarete sconfitti, perché il nostro Signore, l’Onnipotente, ci ha promesso la vittoria contro di voi e la vostra sconfitta».
Fragilità psicologiche e sociali di chi si arruola
Il giovane jihadista – la ferocia dell’Is
Il desiderio del martirio, il sentimento di essere parte di una comunità eroica di invincibili, il senso di rivalsa verso un mondo che esclude e procura sofferenze, l’esaltazione religiosa, l’abuso di droghe, sono alcune delle caratteristiche dei giovani combattenti dell’Is, spesso con una vita poco o per nulla religiosa alle spalle.
Essere uccisi, è, per i combattenti dell’Is, una vittoria: «Questo è il segreto. Voi combattete un popolo che non può essere sconfitto», perché non ha paura della morte (cfr. «Dabiq», n. 4, 2015). Anzi, la invoca.
La componente tanatofila (amore per la morte) di questo radicalismo violento cavalca il concetto islamico di «martirio», shahadah, come potente arma di testimonianza e riscatto dei popoli contro l’oppressore, trasformandolo nell’aspirazione massima cui deve tendere il mujahid, il combattente. Diventa un fine, e non più un mezzo, della «teologia della liberazione islamica». In diverse pagine del citato manuale del mujahid viene ripetuta l’idea del sacrificio cui devono aspirare i «soldati» dell’Is: «Il vostro lavoro non finirà finché non otterrete il martirio. E chiediamo ad Allah che avvenga presto».
La martirologia fa parte del retaggio culturale religioso dei popoli musulmani, sia sunniti sia sciiti, e, secondo l’islamologo francese Bruno Etienne, nel suo libro L’islamismo radicale (Rizzoli 2001), ancora oggi termini come fity?n (giovane, eroe), muj?hid (colui che intraprende una lotta interiore, e anche militare, per il bene della comunità), fid?’o sh?hid (sacrificarsi per qualcuno o qualcosa), istishh?d (essere testimone tramite il martirio), «modeizzati dalle guerre di liberazione nazionale e rivoluzionaria, dall’Algeria alla Palestina», hanno una connotazione religiosa ed escatologica molto forte, soprattutto in relazione ad apostati, miscredenti, tiranni, oppressori. E, dunque, un fid?’?, uno che si immola individualmente, o un muj?hid, un combattente, morti, diventano martiri della fede: sh?hid.
Il giovane jihadista: chi è?
Ciò che hanno in comune i terroristi delle Torri Gemelle con quelli di Parigi e di altri attacchi in Europa e in altre regioni del mondo, è il fatto che non corrispondono al modello stereotipato del fanatico religioso: bevono alcornol, almeno fino a poco prima di immolarsi, hanno storie di droga, non frequentano le moschee, vanno con le prostitute e in locali equivoci, non pregano, i conoscenti li descrivono come allegri, socievoli, giovani che si divertono.
Queste considerazioni si applicano tanto ai jihadisti provenienti dalla classe media e alta, quanto a quelli delle classi popolari: sembrano semplici laici, per lo meno fino a poco prima degli attacchi.
Dunque, il jihadismo, tanto per i «nati musulmani», quanto per quelli che lo diventano, rappresenta una «conversione», una rinascita personale, una nuova vita. E ciò accade, in genere, poco prima che essi si arruolino nelle fila di qualche organizzazione.
In un certo senso la trasgressività delle loro vite anteriori alla conversione si trasferisce nella trasgressività di un Islam al di fuori della consuetudine ortodossa. Un fenomeno che assomiglia molto alle conversioni, nell’America Latina, alle sette evangeliche militanti da parte di giovani con dipendenze da alcol o con altri problemi sociali.
Non è un caso che diversi studiosi – tra cui psicologi, sociologi, antropologi e medici – parlino di forme di sofferenza psichica e sociale comuni ai vari jihadisti: depressione, isolamento, instabilità psicologica, ipersensibilità, debolezza, sentimento di alienazione o di non appartenenza a un luogo, un tempo, un territorio, una società.
Questo sembra, dunque, il retroterra comune sia al jihadista che arriva dai borghi ricchi delle città, sia a quello delle periferie, banlieue o bidonville, sia al musulmano di nascita, sia a quello convertito.
In tutti questi casi, la persona disagiata trova nelle reti sociali dell’Islam radicale le risposte che cerca.
Oltre a ciò, una sensibilità e un idealismo particolarmente spiccati, e la rabbia causata dalle ingiustizie sociali (presenti sia nel proprio territorio che nel resto del mondo), rappresentano una spinta per cercare giustizia e legge nell’Islam, percepito come «rivoluzione permanente» e, in particolare, nell’Islam più estremo e politicizzato, al di fuori della società occidentale, o dei regimi arabi corrotti.
Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Israele, ma anche Iran e alcuni governi arabi, sono considerati da questi giovani (e anche adulti) come il male che infesta il mondo e aggredisce la ummah islamica, e che deve essere combattuto.
Ecco, allora, che l’Is, con la sua propaganda di eroi, «giovani leoni», forti, palestrati, belli, cosmopoliti e «antagonisti» dei corrotti, riesce ad attrarre molti giovani in crisi di identità.
Islamisti radicali in Italia
In una nostra precedente inchiesta, risalente alla fine degli anni ‘90, per la quale intervistammo diversi uomini e donne, musulmani di origine o convertiti, di varie città italiane e distinte classi sociali, era emersa, tra le donne convertite a un Islam più radicale, l’alta incidenza di sofferenze psicologiche o familiari. Molte erano le persone con un passato di instabilità emotiva e affettiva, segnato da droga o etilismo, con esperienze di abbandono familiare, di padri fuggitivi o violenti, madri malate o incapaci di occuparsi di loro. Molte avevano esperienze di militanza in organizzazioni molto militarizzate di estrema sinistra o estrema destra.
Questa vita passata, segnata da sofferenze o rigida disciplina, veniva solitamente raccontata dalle interessate per indicare un prima e un dopo la «conversione» o, meglio, il «ritorno all’Islam», (secondo il concetto islamico per cui tutti, alla nascita, siamo musulmani, nel senso etimologico del termine, ossia creature sottomesse a Dio).
Anche tra diversi uomini emergeva un passato di droga, alcol, violenza personale, ex militanza in partiti estremisti. Le letture principali, per molti di loro, erano i testi classici del salafismo: Ibn Taymiyya, Sayyid Qutb, Albani, Mawdudi.
Negli anni tale situazione non è mutata, e, anzi, si è acutizzata. Spiega il già citato Roberto Aliotta: «Tra i convertiti che ultimamente si presentano nel nostro centro, vediamo soprattutto individui con disturbi gravi della personalità. E ci sono stati vari casi di musulmani immigrati che hanno manifestato attitudini violente nei confronti dei non musulmani, effetto di disordini mentali che la lettura di testi salafiti o l’ascolto di sermoni violenti, via internet, esasperano».
Le persone alla ricerca di un cammino spirituale si avvicinano all’Islam tradizionale e non hanno bisogno di aderire alla visione estremista della dottrina wahhabita neosalafita e delle sue diramazioni come il jihadismo e il takfirismo (cfr glossario).
Disordine mentale o reazione all’emarginazione politica e sociale?
Le testimonianze di 160 famiglie francesi con figli jihadisti costituiscono la base di una relazione redatta dal Cpdsi (Centre de Prévention contre les Dérives Sectaires liées à l’Islam, Centro di prevenzione contro il settarismo in relazione all’Islam)4. La ricerca ha messo in evidenza come una percentuale abbastanza elevata di giovani (40% degli intervistati) che si era unita a gruppi jihadisti soffriva di depressione o mostrava fragilità psicologiche. Ciò ha portato i ricercatori a supporre che «l’indottrinamento funzioni più facilmente con i giovani ipersensibili che si pongono domande sul significato della loro vita».
«Le famiglie che entrano in contatto con il Cpdsi – si legge nella relazione – sono tutte di cittadini francesi. Soltanto il 10% ha nonni che emigrarono o si installarono nella Francia metropolitana, dopo aver vissuto nei territori francesi in America, in Germania, in Algeria, Tunisia, Marocco o in Asia. Questi giovani influenzati dal radicalismo dichiarano di sentirsi “senza territorio”, appartenenti al “niente”, e cresciuti in un “blackout”».
Un altro dato interessante della ricerca, che riguarda l’84% dei jihadisti intervistati, è la loro provenienza dalla classe sociale media o medio alta, con una forte presenza di genitori insegnanti e con una formazione universitaria (50% dell’84%). Il restante 16% è diviso tra la classe popolare e quella alta. Oltre a ciò, l’80% delle famiglie si dichiara atea. Solo il 20% si definisce buddhista, ebrea, cattolica o musulmana.
La fascia di età più colpita è quella tra i 15 e i 21 anni (63%). Quella tra i 21 e i 28 anni corrisponde al 37%.
La ricerca, inoltre, mostra che, rispetto a un tempo passato nel quale le conversioni al radicalismo (islamico o evangelico) erano caratteristiche soprattutto delle classi popolari, con bassa scolarizzazione e instabilità, delle seconde generazioni di immigrati, e delle minoranze, negli ultimi tempi riguardano invece tutte le classi sociali. Come spiega Oliver Roy, esperto di geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi, nel suo volume Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam: «L’islamizzazione della periferia dell’Europa è un fenomeno reale, ma marginale […]. In realtà, non si può vedere nel radicalismo islamico la conseguenza dell’esclusione sociale, non fosse altro che per l’evidenza che molti militanti (e lo stesso Bin Laden, ad esempio) non hanno nulla di marginale, in termini socio economici».
Tuttavia, per altri studiosi, il radicalismo islamico (anche se non necessariamente quello di al-Qaida o dell’Is) rappresenta un potenziale di «rivoluzione» e ribellione contro lo status quo e contro l’emarginazione sociale e politica di masse di persone, sia in Occidente sia in Oriente. Per questo, anche noi crediamo che sia importante tenere accesi i riflettori sul tema dell’esclusione sociale dei musulmani in paesi come la Francia e l’Italia: la patria di «Liberté, Egalité, Frateité», infatti, secondo un’inchiesta di The Telegraph, «emargina, impoverisce e perseguita i musulmani. Delle 67.500 persone attualmente in carcere in Francia, circa il 70% è musulmano. Nelle prigioni, lasciati a se stessi, i giovani più vulnerabili trovano rifugio nei sermoni infiammati di alcuni personaggi radicali».
Per l’islamologo Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici presso l’Università di Trento, il radicalismo islamico è, per sua natura, un’ideologia di opposizione che produce un islamismo politico.
Secondo Hrair Dekmejian, docente di scienze politiche all’Università della Califoia meridionale di Los Angeles, l’Islam radicale, in quanto movimento globale, nei confronti dei giovani europei e arabi può esercitare un potere di attrazione che si basa su sei punti: 1) offre una nuova identità a individui alienati che hanno perso il loro orientamento sociale e spirituale; 2) definisce una visione del mondo in termini inequivocabili, identificando le fonti del bene e del male; 3) offre forme alternative di confronto con un ambiente ostile; 4) fornisce un’ideologia di protesta contro l’ordine stabilito; 5) fornisce un senso di dignità e di appartenenza, e un rifugio spirituale contro l’incertezza; 6) promette una vita migliore in questa Terra e nei Cieli.
Più fragilità psicologica che economica
«Migliaia di giovani lasciano la vita confortevole in Europa per aderire allo Stato islamico, dove fanno addestramento per prepararsi alla guerra, e per morire, poi, in un attentato suicida, come gli attacchi di Parigi». Secondo Lamya Kaddor, autrice del libro Zum Töten Bereit (Pronto per uccidere), il ruolo degli europei – discendenti di immigrati e convertiti – nelle fila dello Stato islamico, è sempre maggiore. Lamya, figlia tedesca di immigrati siriani, vede il terrorismo islamico come un movimento di protesta di una generazione che si sente vittima della società, della scuola o della famiglia. «Cinque dei miei alunni, un giorno scomparvero e furono successivamente localizzati in Siria, dove erano andati a lottare con l’Is. Rimasi perplessa, tentando di capire le possibili cause. In tutti loro c’era una sensazione di esclusione, un deficit emozionale o semplicemente una mancanza di amore nella famiglia, che li rendeva facili vittime di moschee radicali. Gli imam radicali trovano ascolto dove ci sono giovani già disponibili, che tendono al jihadismo come manifestazione di un movimento di protesta di una generazione nata in Europa, che soffre per la mancanza di radici e perché vede i genitori vittime di discriminazione e dell’assenza di possibilità di mobilità sociale».
La voce di Ahmad Mansour (psicologo israelo palestinese, direttore del programma European foundation for democracy, attivo nella lotta contro l’estremismo islamico tra i giovani musulmani in Germania) si unisce a chi afferma che «i problemi che conducono i giovani ad aderire al jihad sono più psicologici che socio economici. Circa il 40% dei nuovi jihadisti soffre di depressione e scopre un’ideologia che va a riempire una vita giudicata come vuota. L’aspetto della violenza arriva successivamente».
La ferocia dell’Is
Tra i giovani seguiti dal Cpdsi per il suo studio, molti presentano sintomi come depressione, anoressia, autolesionismo, isolamento. Non si sono mai sentiti «connessi con il mondo», «capiti dagli altri», ma sempre «differenti», perché «Dio mi ha eletto come persona pura, capace di ricevere la verità per salvare il mondo dalla perversione». I ricercatori francesi spiegano che «in un primo momento, la fragilità dei giovani […] è il terreno fertile per l’ingresso nei movimenti radicali; […] la rottura con la società e la famiglia è una conseguenza dell’indottrinamento settario».
Instabilità e sofferenza, alcolismo e altri vizi, sembra fossero caratteristiche anche dalla personalità della giovane Hasna Ait Boulahcen, morta nell’esplosione provocata dal mujahid con cui stava nell’appartamento di Saint-Denis, a Parigi, durante il blitz della polizia, pochi giorni dopo gli attachi del 13 novembre. Un altro kamikaze di Parigi sembra frequentasse bar di trafficanti di droga.
Certamente i comportamenti border-line, tipici di ambienti di emarginazione sociale, potrebbero far parte anche della «dissimulazione» richiesta dalle regole del bravo jihadista. L’Is, però, mostra una ferocia così spettacolare che è difficile non pensare che i suoi membri non facciano uso di droghe o non siano vittime di qualche patologia.
Esistono diversi ahadith molto chiari in tema di «guerra»5: non si devono uccidere donne, bambini, vecchi; non si deve distruggere la natura; non si devono smembrare i cadaveri, ecc. Anche in questo, dunque, l’Is mostra inquietanti innovazioni verso un uso personale, strumentale della religione.
La diffusione del «Captagon»
In questi ultimi anni stanno emergendo dati sulla distribuzione e il consumo di droghe da parte di jihadisti in Siria e in altre zone di guerra.
Secondo quanto riportato dal quotidiano the guardian nel gennaio 2014, indagini realizzate separatamente dall’agenzia di notizie Reuters e dal Time magazine hanno portato alla luce il crescente commercio di Captagon, di fabbricazione siriana, un’anfetamina utilizzata in Medio Oriente, quasi sconosciuta in altre aree del mondo. Il Captagon genera proventi di milioni di dollari, alcuni dei quali sono usati per comprare armi.
In base alle fonti citate, il Captagon fu prodotto per la prima volta negli anni ‘60 per curare la narcolessia, la depressione, ma fu poi proibito negli anni ‘80 perché dava dipendenza. Tuttavia, ha continuato a essere usato in Medio Oriente, compresa la puritana e salafita Arabia Saudita, dove sembra essere molto popolare.
Uno psichiatra libanese, Ramzi Haddad, intervistato dal Time, ha affermato che il Captagon ha «gli effetti tipici di uno stimolante e produce una sorta di euforia. La persona diventa molto comunicativa, non dorme, non mangia, è energica».
Il narcisismo di combattenti «pop star»
Jihad: sesto pilastro dell’Islam radicale
Non sono rari i casi di islamisti militanti riconvertiti in Europa dopo una vita di indifferenza verso la propria religione di origine. È il desiderio di ritrovare un’identità e un’appartenenza. Il problema, in una comunità islamica che a volte si incontra più facilmente su internet che altrove, è la facilità di incappare in versioni fai da te della religione del Profeta.
Secondo Katherine Brown, del Dipartimento di Studi della Difesa al King’s College di Londra, intervenuta sul quotidiano brasiliano O Globo: «Lo Stato islamico non ha mai contato sui “lupi solitari”, come si è supposto recentemente. […] È, invece, molto comune […] la struttura di cellule con relazioni di fiducia stabilite soltanto tra “scelti”». Di un’analoga struttura selettiva, tra fiduciari, all’interno dei gruppi di combattenti in Libia, ci parla anche il libro Soldier for a summer (Soldati per un’estate) di Sam Najjair, ex foreign fighter, non Is, in Libia e Siria.
Nei loro testi, Daniele Conversi (professore presso la Facoltà di Scienze Sociali all’Università dei Paesi Baschi, Spagna) e il già citato Olivier Roy (autore de L’echec de l’Islam politique – Il fallimento dell’Islam politico), sottolineano come il radicalismo islamico rappresenti un veicolo e un prodotto della globalizzazione. In modo analogo, l’islamologo Bruno Etienne descrive la nascita dei movimenti islamici come risposta alla modeizzazione e come «islamizzazione della modeità».
Scrive Roy: «La religione, concepita come un insieme di norme decontestualizzate, può essere adattata a ogni società, proprio perché ha tagliato i propri legami con una determinata cultura e permette alla gente di vivere in una specie di comunità virtuale, deterritorializzata che include qualsiasi credente».
Negli ultimi decenni lo spostamento a Occidente di molte persone provenienti da paesi musulmani e la loro condizione di minoranza, incoraggiano la creazione di comunità religiose slegate dalle realtà islamiche d’origine. L’Islam stesso, come sistema di interconnessioni sociali e religiose, si reinventa: laddove in patria la comunità era il referente supremo, in «diaspora» i musulmani si riscoprono «individui» che operano scelte personali, spesso in rottura con la tradizione e la cultura della terra natale. Il proprio gruppo è percepito come «accerchiato», circondato da un ambiente ostile – dai kuffar -, tra cui è costretto a vivere, e dai quali va protetto, possibilmente chiedendo allo stato di riconoscee l’identità in quanto minoranza. Si vedano, ad esempio, i numerosi tentativi, iniziati già a fine anni ‘90, di «intese» tra Stato e comunità islamiche in Italia, tutti falliti anche per la mancanza di una leadership rappresentativa e «unitaria» dell’Islam italiano6.
In terra d’immigrazione molti musulmani riscoprono «radici» che non sapevano di avere, e un’identità specifica, in contrapposizione e antagonismo con quella dei «miscredenti». La reislamizzazione, la «rinascita» di molti musulmani (spesso laici nel paese d’origine) non è solo un fenomeno identitario, ma anche un processo di occidentalizzazione che, giocoforza, è un lasciare dietro di sé la propria cultura d’origine e le tradizioni.
Il jihad, sesto «pilasto» dell’Islam radicale
La modeità emerge in modo particolare nel rapporto tra l’Islam radicale e l’uso della violenza. Si tratta, come spiegano i musulmani tradizionalisti, di una innovazione, o bid’a, dunque un paradosso per i fondamentalisti. Questa innovazione si esplicita, per esempio, nel concetto di jihad (qui nel suo significato di sforzo minore, cioè militare), manipolato dall’ideologia wahhabita neosalafita, che diviene una priorità, trasformandosi in una obbligazione dell’individuo, fard al-’ayn, e, in questo modo, è imposta a ciascun musulmano, in qualsiasi momento, mentre nella tradizione ortodossa è considerato, invece, un obbligo collettivo limitato nel tempo e nello spazio, e obbligatorio nelle situazione di minaccia, cioè quando il D?r al-Isl?m, il territorio islamico, è in pericolo.
Tale innovazione, come sottolineano Roy e altri studiosi, fu introdotta da islamisti come Sayyed Qutb, teorico della Fratellanza Musulmana, un movimento neosalafita creato nel 1928 in Egitto, e da altri. Il jihad divenne, nel corso degli anni, un obbligo, il sesto «pilastro dell’Islam» da aggiungere ai cinque tradizionali: professione di fede, preghiera, digiuno nel mese di Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca ed elemosina.
I gruppi del neofondamentalismo – sviluppatosi a partire dagli anni ‘80, di cui al-Qaida è una delle organizzazioni più note e a cui si aggiunge, oggi, anche l’Is -, che fanno del jihad un obbligo individuale vengono chiamati, appunto, jihadisti.
Tuttavia, come afferma Roy, la maggior parte dei conflitti definiti «religiosi» sono, in realtà, «etnico-nazionali», e in vari casi, non ultimi quelli in Iraq e in Siria, il jihad viene strumentalizzato dai neofondamentalisti così come dai governi occidentali, i quali esagerano la dimensione islamica per questioni di politica intea o estera. Spesso la violenza «islamica» è, in realtà, antimperialista e antiamericana (e antisionista). Sono, come spiega Roy, «i postumi della decolonizzazione».
I mezzi utilizzati dai jihadisti – ad esempio gli attentati suicidi – sono considerati antislamici dalla tradizione ortodossa, e sono un’introduzione modea mutuata da altre tradizioni e dalle lotte secolari di movimenti e gruppi nazionalisti. I militanti di al-Qaida, come quelli dell’Is, hanno tagliato i contatti con la famiglia di origine e con la propria patria (elementi anche questi in totale contrasto con la tradizione sociale e culturale dei paesi islamici), e sono molto criticati anche per questo dai musulmani tradizionalisti. Molti combattenti jihadisti, infatti, come dicevamo, si sono reislamizzati in Occidente o in paesi considerati «laici», come la Tunisia (da dove arriva la maggior parte degli aderenti ai gruppi del jihad uniti all’Is o alle reti di al-Qaida). Qui l’Islam è individuale, «fai da te», costruito attraverso i sermoni ascoltati in certe tv o siti internet, prodotti da predicatori improvvisati e con scarsi studi alle spalle. «Questi neofondamentalisti – scrive Roy – non riconoscono alcun maestro nell’Islam e, del resto, conducono spesso una vita molto poco conforme ai precetti della religione. […] È impressionante la continuità dell’azione di Bin Laden (e del “califfo” al-Baghdadi, leader dell’Is, nda) con il movimento antimperialista e terzomondista occidentale degli anni sessanta e ottanta». Probabilmente, ipotizza Roy, i giovani proletari o della buona borghesia che ora entrano nell’Is, sarebbero stati membri di gruppi rivoluzionari antimperialisti solo pochi decenni addietro. Tant’è che capita di leggere, nei social network, commenti ammirati di donne e uomini, un tempo militanti antisistema, di fronte alle gesta delle truppe dell’Is.
Tecniche di seduzione
Secondo il Cpdsi, quasi 20mila stranieri si sono uniti ai jihadisti in Siria e in Iraq: quattromila sono Europei. Come già accennato, raramente la radicalizzazione avviene nelle moschee o nei centri islamici: non è nei centri religiosi che i giovani si incontrano, ma nei cyber-café, nelle università, nelle librerie, nella rete internet.
Nei libri diario scritti da combattenti di ritorno dalla Libia o Siria, si apprende che uno dei percorsi comuni a molti giovani è l’incontro e la sensibilizzazione alla «causa» in un internet-café in qualche grande città europea o araba. La «riconversione» religiosa e la militanza politica arrivano quasi simultaneamente con la decisione di arruolarsi. È quanto è avvenuto con molti «ribelli» europei o arabo europei andati a combattere in Libia e in Siria a fianco di una delle formazioni della galassia di al-Qaida alleate della Nato.
Questi diari trasudano narcisismo, autoesaltazione e autoreferenzialità, e sono intrisi di racconti di violenza e abuso di armi. Gli autori si dipingono come «leoni», eroici guerrieri senza macchia e senza paura. Sono invece persone violente, amanti del potere, coinvolte in traffici loschi e retribuite generosamente. Infatti, un elemento comune a molti jihadisti è quello di essere arruolati come mercenari.
È proprio a partire dall’elemento narcisistico che Nazir Afzal, ex procuratore del Regno Unito, sentito dal The Guardian, descrive i terroristi dell’Is come persone disposte a correre dietro alla gloria vendendosi tramite video professionali che li fanno apparire affascinanti e sexy. Essi perseguono una propria autornaffermazione allontanandosi da amici e famiglia. Afzal vede una somiglianza emotiva tra gli adolescenti radicalizzati adescati on line dal jihadismo e quelli che in internet cercano un partner sessuale: «Le tecniche di seduzione sono le stesse». La radicalizzazione è veicolata on line e attraverso predicatori carismatici, che incentivano i ragazzi ad «andare verso il proprio lato oscuro». L’ex procuratore britannico crede, dunque, che tale fenomeno debba essere affrontato con l’aiuto di specialisti, come si fa con una dipendenza psicologica. E aggiunge che una delle questioni importanti è che i giovani attratti dal radicalismo considerano i predicatori salafiti e i leader dell’Is come «stelle» del cinema o pop-star.
A tal riguardo, una musulmana italiana ha scritto su Facebook: «Il problema è che i giovani di origine francese o algerina, o molti altri come loro, non apprendono l’Islam con l’aiuto di un imam vero, con una solida preparazione teologica, ma preferiscono ascoltare dei matti su YouTube. Questo succede in tutta l’Europa. Quando un centro islamico invita un teologo di al-Azhar, del Cairo, poche persone vanno ad ascoltarlo, ma quando è invitato un tele-predicatore, una “stella” radicale di YouTube, che usa un linguaggio violento e incolto, con scarsa conoscenza dell’arabo dotto e un uso massiccio della parola kuffar (miscredente), moltitudini di giovani affluiscono nelle moschee. Ci sono pure donne che sognano di diventae la terza o quarta moglie, sbavando come altre ragazze davanti a divi della musica. C’è un vuoto nelle comunità islamiche che va colmato da veri sapienti e sottratto agli shaykh fai-da-te».
Inteet, la nuova «ummah»
Inteet è un mezzo di comunicazione, uno spazio di sostituzione di una comunità, ummah, che è rimasta virtuale a lungo. È uno spazio virtuale sacro, divenuto l’unico territorio reale dal punto di vista del gruppo radicale, a partire dal quale è possibile proteggersi e lottare contro il «caos del mondo perverso».
Come rileva il Cpdsi, i giovani «infettati» da questo discorso, prima vivevano come individui globalizzati, ma non si sentivano parte di una cultura e di una comunità nazionale. E, così, il califfato dello Stato islamico, proclamato a giugno del 2014, «ha aperto il cammino per il riconoscimento di uno spazio territoriale comune, accettato dalla ummah globale», anche se internet continua a essere comunque il principale mezzo di comunicazione per il «passaggio dal territorio virtuale a quello specifico», dovunque l’Is si sia radicato fino a ora, dalla Libia all’Iraq.
Inteet è un potente mezzo di reclutamento e di scambio di informazioni per comunità con «valori» condivisi. Ed è solo dopo la seduzione virtuale che arriva il momento del sospirato incontro fisico con il gruppo jihadista, là, nel territorio dell’Is, dove il war-game si trasforma in realtà.
Angela Lano