Gli stati dell’Unione birmana da sempre in guerra sono quelli con maggiori risorse. Sembra impossibile che paesaggi tanto belli, abitati da gente tanto vivace e attiva, siano stati, e in certi casi siano ancora, teatri di guerra e violenze.
La seconda parte del racconto di viaggio della nostra corrispondente si snoda nelle terre meno turistiche, perché più colpite dal regime, in cui si attende con speranza il cambiamento.
Ho deciso di spostarmi nell’estremo Sud Est del Myanmar, nella regione del Thanintharyi, al tempo degli inglesi conosciuta come Tenasserim. Sull’aereo che mi porta a Myeik incontro Leon, ingegnere cinese. Siamo gli unici visitatori di questa antica città di commerci, famosa da secoli per il suo porto. Raggiungiamo insieme la guest house, poi scendiamo a piedi verso il lungomare. La vista del fango nero, dell’immondizia e della plastica sul bordo mare mi urta. L’aria è calda e umida, il cielo grigio, ma la gente è vivace e attiva. Lo si deduce dal traffico di moto che rende difficile attraversare le strade.
Incontriamo Michel, ragazzo dall’aspetto sveglio, che si offre di accompagnarci nei dintorni. Visitiamo gli allevamenti di aragoste, esportate in Cina, Hong Kong e Singapore, e di pipistrelli, venduti a caro prezzo. Queste sono attività che, con le miniere e la pesca, danno ricchezza alla città.
Michel, il suo vero nome è Thu Yain Tun, lavora da quando aveva dieci anni. Ha imparato a fare il falegname e il meccanico. Dato che era bravo a scuola, lo hanno mandato per tre anni a Yangon: ora parla benissimo l’inglese e dà lezioni, anche nella scuola della Chiesa battista.
Tenasserim
La regione Thanintharyi è ricca di minerali preziosi come oro e platino. Al tempo della colonia, la sua produzione di zinco copriva il fabbisogno indiano. Per molti anni è stata off limits per gli stranieri perché in pochi conoscono l’inglese. John Kin Maung, un anziano ottantaseienne, invece lo parla molto bene. «La mia famiglia era originaria del Tamil Nadu, India – mi spiega -. Gli inglesi avevano bisogno di forza lavoro, non riuscivano a far lavorare i birmani, che non erano motivati». John ricorda con piacere la sua Convent school. «Quando c’erano gli inglesi tutto funzionava bene e le scuole cattoliche davano una buona istruzione. Quelle statali invece sono tuttora di livello molto basso. Si è cominciato a insegnare l’inglese quando la figlia del generale Ne Win, che studiava medicina, aveva voluto andare a Londra e si era scoperto che non era preparata». Scuote il capo e mi invita a casa sua, dove abita con figlia e nipoti. La sera, prima di cena, un gruppo di giovani si raduna per fare conversazione in inglese. Sono ragazzi svegli, curiosi. Hanno tutti lo smartphone e ci mettiamo a cantare le vecchie canzoni americane dei pionieri.
Per il fine settimana sono previste due celebrazioni. La prima è l’Union day, giornata simbolo di un paese diviso. Domani sarà il 13 febbraio, anniversario della nascita del generale Aung San, padre di Aung San Su Kyi.
Scopro che John ha una moglie che vive a Nay Pyi Taw, la nuova faraonica, assurda capitale del paese. Dopo 12 anni di carcere duro, nello stesso periodo in cui Aung San Su Kyi era ai domiciliari, lei ora è parlamentare del partito National League for Democracy. «Non ci vediamo molto. Raramente mia moglie viene a Myeik».
Matrimonio karen
Gregory è il giovane vice parroco di Myeik. Nato in un villaggio karen della regione che ha visto violenze inaudite durante la dittatura, a dieci anni fu inviato a Yangon per studiare. Il padre fu ucciso dall’esercito governativo un decennio fa nel suo villaggio, mentre cercava di difenderlo.
Ci sono sette moschee a Myeik, porto importante da almeno cinque secoli. La grande pagoda dorata sulla collina fin dall’alba è meta di fedeli che pregano e porgono offerte al Buddha. Oggi sono invitata a un matrimonio karen nella Chiesa battista, quella che è riuscita a fare più proseliti nel paese sin dall’ottocento. Arrivo che la cerimonia è già terminata e si sta facendo colazione, nel cortile tra la chiesa e il dormitorio dei ragazzi. Sono i Pwo Karen, tutti in costume bianco rosso e blu. Amici e parenti sono arrivati da Yar Aye, una delle isole che punteggiano la costa Sud Est del Myanmar e formano l’arcipelago Mergui. Sono agricoltori e pescatori e hanno viaggiato per otto ore su barche veloci. Con la marea bassa non si può partire: il mare qui è molto basso, oltre che caldissimo.
La mamma della sposa è una bella donna dall’aria serena: ha sei figli. La maggiore, di 39 anni, vive sull’isola e dirige la scuola per i sei villaggi. Gli altri figli hanno studiato e trovato lavoro a Yangon.
Loikaw, stato Kayah
Dall’aeroporto di Yangon sono partita per Loikaw, la capitale dello stato Kayah, il più piccolo del Myanmar, ma il più ricco di tradizioni ed etnie: Kayah, Kayoh, Karenni, Pa O, Kayen, Shan. Il bimotore a elica con 18 passeggeri si alza in volo su una coltre di polvere rossiccia, il colore di questo paese durante la stagione secca. Sorvolando Yangon noto la rete di canali che consente l’irrigazione delle risaie, verdissime.
Brenda è una giovane olandese, unica straniera, oltre me, sul volo: lavora per una Ong che opera a Loikaw, città aperta ai visitatori individuali da pochi mesi. La città si trova a circa 1000 metri di altitudine, circondata da monti e ricca di orti e giardini. Fa caldo, siamo sui 36°, ma verso sera la temperatura si abbassa molto. Esco dalla Guest house dell’Amicizia in cui sono alloggiata e sulla via principale trovo pronta una grigliata di spiedini vari: verdure, patate, pesci e code di maiale. La cuoca è abile, spennella gli spiedini con una salsa piccante e il prezzo molto basso: un dollaro.
U Soe Htwe è il padrone di casa che mi accoglie con grande gentilezza. È molto prudente nel parlare della difficile situazione di questa regione. U Soe aveva studiato ingegneria a Yangon, e nel 2002, ma a causa della guerra, ha dovuto lasciare il suo lavoro nelle miniere dello stato Kayah. Le due figlie sono riuscite a emigrare negli Usa, dove lavorano come infermiere, e la casa di famiglia è stata trasformata in pensione. Dei figli maschi, uno lavora a Nay Pi Taw, l’altro è rimasto in casa, con la famiglia. La moglie di U è una signora molto attiva in un’associazione per la promozione della donna birmana, ed è spesso in viaggio per Nay Pi Thaw. Nella locanda, immagini di Aung San Su Kyi sono appese ovunque. Gli altri ospiti sono quasi tutti operatori di Ong e volontari. I soli turisti sono una giovane armena di Boston e un canadese con i quali combino una gita nei dintorni. Il nostro autista è un geologo colto, che ha perso il suo lavoro in miniera anch’egli nel 2002. Ci porterà nelle vallate dove vivono le donne Padaung. Qui anche le bambine portano gli anelli al collo e vivono molto meglio delle loro sorelle senza anelli. Hanno case pulite e vendono monili e sciarpe colorate. Stanno anche asfaltando la strada che porta nei loro villaggi sulle montagne, rimasti isolati finora. Non vedo turisti.
Chiese
Loikaw ha alcune belle pagode, ma quello che colpisce è il numero delle chiese cattoliche. Una nuova cattedrale è stata costruita in stile locale, con decorazioni dorate, in contrasto con la semplice chiesa dei primi missionari.
Frequento la parrocchia di san Giuseppe, situata non lontano dall’ospedale nuovo, donato dai giapponesi. Partecipo alle funzioni del pomeriggio e conosco il parroco, padre Giulio, un Karen molto ospitale che mi offre gustose fette di mele e si propone di portarmi a visitare i villaggi dove i missionari del Pime, molti anni fa, hanno portato il Vangelo. «Arrivavano a piedi, da Taungoo, 500 km di strade impervie. Si era ai primi del Novecento. Hanno vissuto come i nostri contadini, lavorando la magra terra di queste montagne». Terra povera per coltivare, ma ricchissima di minerali, oro e pietre preziose.
Padre Galbusera è morto nel 2000, aveva 89 anni. La prima tappa la faremo nel villaggio in cui operò, dove troviamo la sua tomba ricoperta di fiori bianchi. Visitiamo alcune chiese, incontriamo i parroci. Avevo notato povertà nei villaggi, ma quando facciamo visita alla zia di Giulio, mi rendo conto del dramma di questa gente. Non c’è acqua, né luce, mentre nei grandi complessi militari che troviamo lungo la strada arriva luce, telefono, tutto. La zia ha 86 anni, un viso nobile, asciutto come tutto il corpo. I piedi credo non abbiano mai visto scarpe, veste una maglia piena di macchie, un loungji e un turbante. Ha avuto dieci figli, di cui quattro morti. Una figlia si avvicina, anche lei ha dieci figli di cui due morti. Un pronipotino le salta in grembo, li fotografo. Lei ci offre un sacchetto di foglioline. Si raccolgono da un albero e si cuociono col curry.
Nonostante tanta presenza cattolica, alcune piccole pagode spuntano sulle cime di questi monti ricchi di minerali. Gli stati birmani in guerra da anni sono proprio quelli più dotati di risorse naturali. Gli inglesi sapevano che questa era la loro colonia più ricca.
Hpa An, stato Kayin
Ritoo a Yangon e prendo il bus per Hpa An, la capitale del Kayin, altro piccolo stato da sempre in guerra, abitato dai Karen. Mi aveva detto qualcuno: vai nel Nord, sulle montagne, a Hpa Pom, ti siedi in riva al fiume, e vedrai tutti i tipi di pietre preziose. Pare sia vero.
Continuo a conoscere persone che lavoravano nel settore: geologi, ingegneri minerari e altri che hanno perso il lavoro nel 2002, all’inizio della guerra.
Questa regione del Myanmar è meravigliosa. Siamo in una piana alluvionale, percorsa da un grande fiume, il Thanlwin, che scende dalle montagne della Cina, e finisce il suo corso nel mare delle Andamane. Nelle fertili risaie a perdita d’occhio vedo case coloniche ombreggiate da grandi alberi che ricordano il Tirolo. Le famiglie hanno tanti bambini che ci salutano. Pare impossibile che questo territorio sia stato per anni devastato dalla guerra. Le montagne sono guglie di calcare in cui si aprono profonde grotte in parte ricoperte da vegetazione dove gli abitanti hanno creato luoghi di culto buddhista. Ne ho vista una, grandiosa, dove si trovano stupa dorati, migliaia di buddha di ceramica, piccoli e grandi, serpenti sacri e le immagini dei Nat, gli spiriti ancora venerati dal popolo. Una lunga fila di monaci di pietra si allinea lungo la strada che conduce dalla grotta alla fonte miracolosa. La popolazione è buddhista-animista, ma il conducente del mio taxi sostiene di essere buddhista-cattolico. Al tramonto scendo sulla riva del fiume, quando i pescatori rientrano nei villaggi. Come la mattina, anche la sera si alzano fumi dalle case. Si bruciano i rifiuti, le foglie secche, e si accendono i fornelli per cuocere e friggere il cibo.
Domenica delle Palme
Con qualche difficoltà riesco a trovare la chiesa cattolica della città. Mi siedo in un banco accanto a due giovani, Claire e Aye Pyone, che mi offrono le palmette che hanno intrecciato per la festa. Sono l’unica straniera e dopo la messa si avvicina un giovane prete, padre Ignazio. Ha trentanove anni ed è nato in un villaggio remoto nel Nord dello stato Kayin. La mamma è morta giovane, non si sa di cosa, perché non esiste assistenza sanitaria. Il papà era catechista e si recava nel villaggio materno, Le Too Po, per insegnare i canti. Là si sono conosciuti i suoi genitori. I villaggi e il Knu (Karen National Union) devono gestire le scuole, dove si parla la lingua kajin, molto diversa dal birmano. Qui gli alberi di teak sono stati tagliati da molti anni e non ricrescono più. Hpa An è diocesi dal 2009, prima dipendeva da Yangon. Davanti alla chiesa ci sono due belle case, una per le suore e l’altra per gli studenti dei villaggi remoti.
Campi profughi
Faccio colazione alla Guest House con ceci e chapati che la giovane moglie del padrone ha comprato al mercato. Khin Myo Thite è musulmana e appartiene al gruppo etnico più antico, i Mon, che ha dominato per secoli il paese. «Mio marito non sa l’inglese, appartiene alla generazione che non ha avuto la scuola superiore a causa della guerra». Da un anno la frontiera con la Thailandia, molto vicina, è stata riaperta. Arrivano da Bangkok giovani con zaino in spalla, e Khin dà loro una sistemazione e le indicazioni di cui hanno bisogno. Esco per andare a comprare frutta al mercato. Il pozzo davanti alla moschea è sempre attivo, con donne e uomini che riempiono i bidoni d’acqua. Sono in compagnia di Lillian, medico inglese che lavora da anni nei campi profughi in Thailandia. «Conosco il popolo del Myanmar – mi dice -, ora voglio conoscere il paese e rimango fino all’ultimo giorno consentito dal visto».
Parliamo dei campi profughi, dove vivono ancora molti birmani che sono stati cacciati dai villaggi. Vivere in un campo significa avere cibo, acqua e sanità, ma non è una vita normale. Difficile avere un lavoro, svolgere un’attività. Chi ha lasciato gli orrori della guerra non vuole più ritornare a casa.
Claudia Caramanti
(fine seconda parte – continua)