Roraima, Brasile: le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei venezuelani

Testo e foto di padre Jaime C. Patias

Warao, accampati in una piazza di Boa Vista

«Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo dormendo in piazza. Non
possiamo entrare nel rifugio». Questa richiesta di aiuto viene dal giovane
indigeno warao Jean Luís Jimenez, ed è inviata da Boa Vista, Roraima, a padre Vilson
Jochem, missionario del Consolata a Caracas. Jean Luís è uno dei 3 milioni di immigrati
che hanno lasciato il Venezuela per i paesi limitrofi.

A seguito di questa richiesta, andiamo al quartiere
Pintolândia, a Ovest della città, dove si trova il rifugio destinato agli
indigeni, e vi troviamo fuori 17 Warao, nove adulti e otto bambini accampati in
Plaza Augusto Germano Sampaio. Due giorni dopo, gli indigeni sono già 30, con
17 bambini sotto i 12 anni. Il rifugio può ospitare fino a 665 indigeni e non
riceve nessun altro.

La nostra attenzione è richiamata da Mardelia Rattia, 25
anni, arrivata qui con cinque bambini, compreso un piccolo di due mesi: «La
nostra situazione è difficile. Penso ai bambini», ci dice Mardelia preoccupata.
Vuole continuare il viaggio e raggiungere Manaus (nello stato brasiliano di
Amazonas), dove si trova già sua suocera con altri parenti.

Malato e indebolito, Jean Luís è stato ammesso all’ospedale
generale di Roraima, che è anch’esso pieno di gente. «Qui almeno sto meglio che
in piazza», osserva sdraiato su una barella nei corridoi accanto a diversi
pazienti, molti dei quali venezuelani. Quando lo dimetteranno sarà lui a essere
nuovamente in strada.

Indigeni Warao a Boa Vista durante incontro col team itinerante dei Missionari della Consolata

L’insicurezza della piazza

Il 18 gennaio, di notte, alcuni soldati dell’esercito che
sono i responsabili della struttura e della sicurezza nei rifugi, passano nella
piazza e abbordano alcuni Waraos dicendo che non possono più dormire lì. La
minaccia spaventa tutti. La sera del 19 andiamo sul posto per evitare una
possibile ritirata. Dopo aver dialogato con i rappresentanti dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), responsabili della
protezione dei profughi, i Warao hanno ricevuto la garanzia di poter continuare
a restare nella piazza. Durante la notte i soldati arrivano in due auto, ma non
si avvicinano al gruppo. In ogni caso la situazione è insicura per i Warao, ed
è per questo che è urgente trovare una soluzione.

Tra gli immigrati ci sono diversi professionisti
qualificati, come da dottoressa Fiorella Lisenni R. Blanco, Warao arrivata qui
con un bambino, una sorella insegnate e un fratello formato in diritti umani.
Lei improvvisa consulenze con coloro che hanno bisogno e organizza un registro
del gruppo. «Perché il Brasile offre un’accoglienza di questo tipo? Senza un
dignitoso benvenuto? Stanno minacciando di buttarci fuori dalla piazza», dice
Fiorella. Le popolazioni indigene godono dei diritti garantiti dalla
costituzione e dalle leggi internazionali. Inoltre, gli antropologi ricordano
che i Warao dovrebbero poter esercitare la libertà transfrontaliera di andare e
venire grazie a una base culturale che storicamente precede la nascita delle due
nazioni Brasile e Venezuela.

Indigeni Warao accampati in una piazza di Boa Vista

Pablo Mattos, del coordinamento dell’Unhcr a Boa Vista,
spiega che «la decisione di creare nuovi rifugi è una responsabilità del
governo brasiliano». L’Unhcr monitora i flussi migratori, sostiene l’accoglienza
nei rifugi e l’integrazione. Per quanto riguarda i Warao, Mattos s’impegna a
proseguire la ricerca di soluzioni in dialogo con le istituzioni coinvolte nel
lavoro.

Il problema non è di oggi. Un rapporto pubblicato nel giugno
2018 dalle Nazioni Unite ha fatto 35 raccomandazioni per garantire i diritti
degli indigeni venezuelani su tre assi: i diritti universali, i diritti dei
migranti, e i diritti specifici dei popoli indigeni. Essi devono essere
trattati come immigrati, ma soprattutto come indigeni. Secondo i dati della Ong
Fraternidad
Humanitaria Internacional
, almeno 957 Warao e E’ñepá sono accampati
nelle città di Pacaraima e Boa Vista. Hanno viaggiato più di 900 chilometri su
una strada rischiosa.

Il posto di registrazione offre diversi servizi di
documentazione e indirizza verso i rifugi e il programma di integrazione. Gli
immigrati ricevono sostegno dalle istituzioni in altri sei luoghi diversi per
fare i documenti. È evidente la carenza di posti nei rifugi. Tutti i lunedì
sono disponibili solo 40 posti a fronte di una richiesta di oltre 200. Il 14
gennaio, dopo aver camminato per almeno 8 km fino al primo posto di identificazione,
un gruppo di Warao è dovuto tornare in piazza senza aver ottenuto niente.

Mamma Warao e figlio in una piazza di Boa Vista

La squadra di emergenza dei missionari itineranti

Dopo una pausa, il team missionario itinerante dei
Missionari della Consolata ha ripreso le sue attività il 12 gennaio 2019. I padri
Luiz Carlos Emer (missionario impegnato in brasile), Jaime Carlos Patias (della
direzione Generale dell’IMC) e Manolo Loro (impegnato in Amazzonia) fanno parte
del secondo gruppo. La priorità del gruppo è quella di accompagnare le persone
più vulnerabili e gli indigeni warao originari della regione del Delta Amacuro
in Venezuela, dove ci sono i missionari del Consolata. «Il poco che possiamo
fare ora è già molto per alleviare la sofferenza di coloro che hanno lasciato
tutto per sopravvivere», dice p. Luiz Emer tornando da una visita al gruppo
indigeno.

Il team sostiene e indirizza le varie situazioni agli
organismi competenti, sapendo che non è possibile risolverle tutte. Ciò che
conta sono gli atteggiamenti evidenziati da Papa Francesco: «Accoglienza,
protezione, promozione e integrazione».

La diocesi di Roraima con i suoi pastori, parrocchie e
congregazioni come le suore Scalabriniane, San Giuseppe di Chambéry, la Madonna
Addolorata, le figlie della carità, le missionarie dei Consolata, i gesuiti, i
Maristi, tra gli altri, prestano diversi Servizi.

Per il vescovo di Roraima, Monsignor Mário Antônio, oltre
alla logistica, «vediamo la necessità di accoglienza da parte delle Comunità
attraverso l’integrazione tra la popolazione locale e i venezuelani, nuovi
residenti che vengono con la prospettiva di una nuova vita. Hanno il diritto di
arrivare e noi abbiamo il dovere di accogliere, promuovere, proteggere e
integrare», ricorda il vescovo. «Vogliamo che le nostre comunità cerchino di
integrare gli immigrati nelle celebrazioni in Portoghese, spagnolo o in lingua
indigena. Vedo la migrazione come un’opportunità per vivere il Vangelo: amatevi
l’un l’altro, come li ho amati», ribadisce Monsignor Mário.

José Miguel Pinto e sette altri amici e familiari, due donne
e due bambini, è venuto a piedi da Pacaraima, 215 km da Boa Vista. Quando sono
arrivati al posto di servizio della parrocchia Nostra Signora Consolata
mostrano le ferite sulle piante dei piedi e le scarpe rotte. Come tanti altri,
di notte il gruppo dorme sul marciapiede in una delle strade vicine al terminal
degli autobus. Il numero dei migranti nelle vie e nelle piazze impressiona. José
Miguel dice che una notte la polizia è passata e ha cacciato tutti. Questo è il
clima di insicurezza che molti di loro vivono.

Indigeni Warao a Boa Vista in un centro di identificazione e registrazione

Il secondo mandato di Maduro aggrava la crisi

Con l’inizio del secondo mandato del presidente Nicolas
Maduro, la cui elezione è contestata, e che non è riconosciuta dal Parlamento
venezuelano e da vari paesi e organizzazioni internazionali, la crisi in
Venezuela sta peggiorando. La previsione è che il flusso migratorio aumenterà.
Nel frattempo, cresce anche la pressione su Maduro. In Boa Vista, uno
striscione appeso su un viale chiede la fine del regime e il sostegno per il
leader dell’opposizione, il Presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó perché
diventi il presidente del paese.

Cartello contro Maduro a Boa Vista

La situazione di vulnerabilità aumenta il rischio di
sfruttamento, consumo di stupefacenti, furto, insicurezza, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dalla migrazione. Con così tante persone senza
occupazione e luogo per vivere, aumenta la tensione sociale. La recente visita
di cinque ministri governativi alla città di Boa Vista ha ratificato la prosecuzione
dell’operazione di accoglienza e internalizzazione.

I dati della Polizia federale mostrano che 85.000
venezuelani hanno cercato rifugio in Brasile dal 2015. Le stime del IBGE
sottolineano che più di 30.000 sono attualmente in Roraima.

Jaime C. Patias, IMC, consigliere generale per l’America.

Bambino Warao a Boa Vista assistito dal team itinerante dei Missionari della Consolata



Venezuela. I Warao in fuga dal delta dell’Orinoco

Testo e foto su i Warao di Zachariah Kariuki |


Coinvolto in una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela vive una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggio, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni peggiorano ogni giorno mettendo a rischio molte vite. Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà. Questa situazione di crisi ha causato enormi migrazioni verso i paesi vicini, in particolare la Colombia e il Brasile (Roraima).

Anche molti indigeni warao dello stato venezuelano di Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare le loro terre per stabilirsi inizialmente a Pacaraima, località brasiliana al confine, per dirigersi poi verso le periferie di città come Boa Vista e Manaus, dove attualmente sono accampati.

 

La crisi venezuelana

Il paese, pur con una quantità enorme di risorse naturali, sta attraversando una delle crisi più profonde della sua storia. Nel 1999 l’arrivo al potere dell’oggi scomparso Hugo Chávez Fria, con i suoi discorsi a favore dei poveri e la promessa di una nuova nazione ispirata da ideali socialisti – sostenuto dal patrocinio politico di Fidel Castro -, aveva aperto una nuova pagina, quella della Quarta Repubblica, nella storia del paese.

Approfittando dell’alto prezzo del petrolio sul mercato internazionale, Chávez aveva dato il via a una serie di programmi sociali che tendevano a favorire i poveri a discapito dei ricchi, della proprietà privata e di tutto ciò che sapesse di capitalismo. Si erano create missioni socialiste di ogni tipo, distribuendo denaro con facilità. Le conseguenze di tale politica non tardarono ad arrivare. Con l’esproprio delle proprietà private e la loro nazionalizzazione, la produzione agricola era diminuita rapidamente e il paese si era trovato a dover importare prodotti di prima necessità come riso e farina e altri alimenti.

La morte di Chávez e l’ascesa al potere dell’attuale presidente Nicholas Maduro erano coincise con la crisi economica globale e la caduta del prezzo del petrolio, ma il governo non aveva fatto nessun passo indietro. La crisi era diventata totale, non solamente economica, ma anche istituzionale, politica e sociale.

Ufficialmente il paese vive oggi in uno stato di iperinflazione. I prezzi continuano a crescere e sembra che non ci sia modo di frenarli (vedi box). La risposta del governo di Maduro e dei suoi è sempre quella di incolpare «la guerra economica» che sarebbe fatta dalla destra venezuelana e dagli Stati Uniti.

Si sono tentate molte strade per fermare l’inflazione, ma nessuna funziona: i buoni, il controllo del cambio, l’aumento frequente dei salari, e, ultimamente, il lancio della criptomoneta chiamata Petrodolar.

Il salario minimo (che è quello che la maggioranza dei venezuelani guadagna) è aumentato fino a due milioni e 500mila bolivares (inclusivi del bonus alimentare), però – come dicono gli stessi venezuelani – questo non ha risolto niente. A parte le produzioni sussidiate dal governo e vendute attraverso i Clap (Comité Locales de Abastecimiento y Producción) e che, di quando in quando, arrivano alle famiglie, i prezzi di tutte le cose necessarie sono astronomici. Così un salario minimo non basta a vivere per una settimana. Il futuro continua ad essere molto incerto.

Le conseguenze

La situazione di crisi generale porta con sé alcune consequenze macroscopiche. La prima e la delinquenza. Benché il governo insista nel dire che l’indice di delinquenza è diminuito, la realtà è un’altra. Tutti i giorni ci sono notizie di attacchi, furti e gente ammazzata durante rapine. Si dice che almeno otto persone su dieci abbiano subito atti delittuosi.

Altra conseguenza è l’aumento del contrabbando. La mancanza di prodotti essenziali, i prezzi elevati e la disoccupazione hanno fatto fiorire il contrabbando in quasi tutto il paese, soprattutto nelle città di frontiera o nelle zone ricche di risorse naturali (oro, diamanti o altri prodotti minerari). Cibo e medicine sono i prodotti più ricercati.

Terza conseguenza più evidente della crisi è la massiccia migrazione dei venezuelani verso i paesi limitrofi. I principali punti di partenza verso l’esterno sono San Antonio de Táchira, Santa Elena de Uairén con destinazione Colombia, Brasile, Perù, Cile, Ecuador e Argentina. Via mare molti vanno a Trinidad e Tobago, Curaçao e Aruba. Ovviamente chi ha soldi emigra in aereo verso l’Europa e gli Stati Uniti.

È una triste realtà. Si stima che ci siano più di 4 milioni di venezuelani che hanno lasciato il paese negli ultimi due anni.

La migrazione degli indigeni warao

La popolazione indigena warao vive tradizionalmente nello stato del Delta Amacuro, nel Sud-Est del Venezuela, attraversato dal fiume Orinoco che sfocia nell’Oceano Atlantico. La capitale è Tucupita. Essa, fino al 1964, era su un’isola. Con la chiusura di un braccio del fiume, il Caño Manamo, è ora su una penisola. (Questo è avvenuto nel 1966, quando fu attuato un grande progetto di bonifica che attraverso la costruzione di dighe doveva mettere sotto controllo le periodiche inondazioni del delta e favorire le grandi coltivazioni di grano e altri prodotti per un’agricoltura di tipo industriale. Il risultato è invece stato l’opposto, un vero disastro ecologico che ha destabilizzato l’habitat naturale dell’estuario. Vedi il video in spagnolo qui segnalato.)

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=glTvIOnSa8Y?feature=oembed&w=500&h=375]

Numericamente, i Warao sono il secondo più grande gruppo indigeno dopo i Wayúu di Zulia, e sono gli abitanti originari di questa regione del paese. Nel 2011 – secondo il censimento – erano 45.000, concentrati nel loro territorio ancestrale nei comuni di Antonio Días e Pedernales.

Tradizionalmente, i Warao sono soprattutto pescatori e, in misura minore, cacciatori e raccoglitori di miele e frutti selvatici. Per il loro consumo di energia dipendevano nel passato dai derivati della palma di moriche (mauritia flexuosa) che ha un ciclo annuale. Per questo, dai tempi antichi, i Warao si spostavano tra le coste e l’interno delle isole per soddisfare le loro esigenze alimentari.

Con l’introduzione della coltura della colocasia (colocasia antiquorum, chiamata anche taro, «pianta erbacea con foglie di grandi dimensioni – anche 80 cm di lunghezza -, di forma ovale o tondeggiante e margini ondulati, sostenute da grossi gambi carnosi e rigidi che si sviluppano da rizomi sotterranei») a opera di missionari dalla Guyana britannica 80 anni fa, i Warao sono diventati anche un po’ agricoltori.

È poi arrivata la scuola e diverse comunità sono diventate stabili abbandonando il seminomadismo. La vita tradizionale è stata così trasformata e sono nate nuove esigenze che hanno dato origine a un continuo movimento verso i centri urbani in cerca di migliori condizioni di vita e di quei servizi che non si trovano nelle comunità tradizionali.

La situazione attuale

Si stima che già dal 2001 circa 10.000 Warao siano emigrati fuori dal territorio ancestrale, la maggior parte in Tucupita, gli altri nelle altre città vicine: Barrancas de Orinoco, Uracoa, Barrancos de Fassi, Maturin nello stato Monagas e Ciudad Guayana nello stato di Ciudad Bolívar. Altri si sono trasferiti a Caracas o in altre grandi città. Molti di essi mendicavano lungo le strade e quando avevano raccolto abbastanza tornavano alle loro comunità.

Oggi però il numero di coloro che lasciano il proprio territorio è molto più alto ed è reso evidente dal moltiplicarsi delle colonie indigene attorno a Tucupita.

I Warao sono situati negli strati più bassi della società venezuelana con alti livelli di povertà e già prima della crisi attuale erano considerati tra le persone più povere e più svantaggiate del paese. È naturale, quindi, che siano tra i più colpiti dalle conseguenze dell’attuale crisi economica e siano costretti a lasciare la loro terra in cerca di migliori condizioni di vita.

All’inizio del 2017 sono stati segnalati i primi casi di Warao trasferiti in Brasile, prima a Pacaraima, la città di frontiera, e poi a Boa Vista e Manaus e fino Belém nel Pará.

Nel rifugio di Pacaraima

In Pacaraima la Chiesa cattolica, rappresentata da padre Jesús, parroco del Sacro cuore di Gesù, l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), l’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), e altre Chiese e persone di buona volontà, hanno creato un centro di accoglienza (detto refugio) per i Warao.

Nel mese di febbraio di quest’anno, quando l’autore di questo articolo in compagnia di monsignor Felipe González – vicario apostolico di Caroní, che confina con Roraima -, padre Aquileo Fiorentini – superiore dei missionari del Consolata in Brasile – e padre Peter Makau, superiore dei missionari in Venezuela, abbiamo visitato questo refugio, c’erano circa 700 persone tra adulti e bambini. Vivono grazie alle razioni che ricevono due volte alla settimana e che cucinano nel cortile, mentre ogni giorno fanno colazione nel salone parrocchiale.

All’interno del refugio, per una migliore coesistenza, sono stati creati dei gruppi di servizio incaricati a turno della pulizia generale. Mentre gli uomini escono per cercare lavoro, le donne si dedicano a preparare il cibo, altre si dedicano a prodotti artigianali che cercano di vendere per le strade di Pacaraima o andando anche a Boa Vista, che dista meno di tre ore di viaggio. Si è anche formato un gruppo di volontari che gestisce le diverse attività per bambini e giovani. La grande domanda è: «Fino a quando si riuscirà a mantenerli?». Perché una cosa è certa, se c’è il cibo, un Warao non va da nessun’altra parte.

In realtà, la migrazione continuerà fino a quando la crisi attuale del Venezuela non sarà risolta. Molti hanno già detto chiaramente che non torneranno alle loro case perché là «si muore di fame». Gli unici a rientrare sono quelli che tornano a portare cibo ai famigliari che non sono stati in grado di viaggiare.

Che fanno i missionari della Consolata?

Per i missionari, soprattutto per coloro che lavorano nel Delta con le comunità indigene, tutto questo è motivo di grande preoccupazione. Tutti i Warao che sono emigrati sono membri conosciuti delle nostre comunità che ora si sono svuotate. Per esempio, nella comunità di Yakariyene in Tucupita, sono rimaste meno della metà delle 78 famiglie che la componevano. Dal Vicariato di Caroní, monsignor Felipe, che ha trascorso più di 40 anni nel Delta, di cui 28 come vicario apostolico di Tucupita, segue da vicino questa situazione. In collaborazione con il parroco di Pacaraima e le suore scalabriniane, sta fornendo loro accompagnamento religioso e ascolto per aiutarli nel loro adattamento a una nuova realtà senza perdere la loro identità umana e spirituale.

Ma ci sono molti altri aspetti su cui i missionari, in collaborazione con gli agenti pastorali indigeni del vicariato apostolico di Tucupita, si interrogano e che richiedono un impegno preciso.

Primo tra tutti è l’educazione: una dimensione che non è stata affrontata dalle istituzioni brasiliane e che può essere attuata solo attraverso un approccio multiculturale e multilingue.

Un secondo aspetto è quello di una vita sana. Occorre un intervento integrale che tenga conto di tutti gli aspetti della vita: dal mantenere il legame con il loro luogo di origine e la loro cultura, alla prevenzione e cura delle malattie, all’alimentazione di bambine e ragazzi al fine di evitare episodi di malnutrizione infantile.

Per questo nella loro assemblea continentale di Bogotà i missionari della Consolata hanno deciso l’invio di una équipe che lavori insieme con gli agenti pastorali di Pacaraima e si sono fatti carico di un programma di assistenza medica e alimentare nel refugio (sostenuto anche dagli aiuti finanziari forniti da Missioni Consolata Onlus).

Cominciare da Tucupita

Non basta però l’intervento di emergenza fuori del paese. Occorre affrontare la situazione partendo da Tucupita per offrire alle famiglie mezzi alternativi di sopravvivenza, senza che abbiano la necessità di migrare.

Per questo si stanno mobilitando forze per fornire alle famiglie che non vogliono migrare dalle terre tradizionali, ma non hanno abbastanza risorse, gli strumenti necessari per lavorare e diventare autosufficienti.

In Venezuela si dice che la speranza è l’ultima a morire, ma vista la situazione, per molti non c’è speranza e non ci sono segnali di miglioramento.

Come missionari non ci vogliano arrendere e continuiamo nel nostro impegno a stare vicini sia a coloro che sono stati costretti a migrare come a quelli che ostinatamente vogliono rimanere nella loro terra.

Zachariah Kariuki
missionario a Tucupita


Qualche cifra al 1° maggio 2018

  • 1 dollaro = 69.564 bolivares al cambio ufficiale / +o- 700mila bs al mercato parallelo (o nella calle), con grandi variazioni tra contanti, carta di credito e trasferimento bancario.
  • Salario minimo: 1 milione
  • Bonus alimentare mensile: 1.555.000
  • 1 l benzina regolare = 1 bs.
  • 1 l benzina premium = 6 bs.
  • 1 kg farina di mais = 180 (uff.) / ca. 1.000 (par.)
  • 1 kg di farina di grano = 30mila (uff.) / in contanti: 360mila; carta di credito: 690mila; via banca: 900mila
  • 1 uovo= 53.000
  • 1 kg carne = 1.700.000 a Caracas / 1.200.000 in campagna
  • 1 kg pollo = 1.400.000 a Caracas / 1.300.000 in campagna
  • 1 kg riso = 900.000
  • 1 kg formaggio = 1.500.000


L’esodo dei Warao. Breve storia

  • 1880-1915: periodo di lavoro forzato o volontario nelle piantagioni di gomma (caucciù).
  • 1964: chiusura del Caño Manamo per dare accesso, via terra, alla città di Tucupita. Conseguenze: l’allagamento di vaste aree in riva al fiume e la salinizzazione dell’acqua (non più alimentata dal fiume ma dall’oceano). Effetti negativi su pesca e coltivazioni.
  • 1965-1979: intere famiglie si trasferiscono alla periferia di Tucupita; il governo costruisce la «casa degli indigeni» e pian piano l’insediamento provvisorio diventa una colonia semipermanente.
  • 1973: una leader warao, Maria Antonia, organizza gruppi di donne per andare a Caracas a chiedere aiuto al governo di Rafael Caldera. Non avendo risorse per il viaggio, cominciano a chiedere l’elemosina per la strada. Arrivate a Caracas, siccome il presidente non le riceve immediatamente, continuano a vivere mendicando. Il successo di questo modo di far soldi diventa un modello da seguire, e così, per i Warao, l’accattonaggio diventa un «lavoro».
  • 1992: epidemia di colera nel Delta inferiore, in territorio indigeno, con conseguente nuovo esodo verso la città.
  • 2000: aumento del fenomeno migratorio, soprattutto per gli studi. Famiglie intere si spostano stabilendosi temporaneamente alla periferia della città, mantenendo lingua, usi e costumi. Invece altri, soprattutto professionisti (insegnanti, infermieri, impiegati governativi, commercianti), prendono fissa dimora nei quartieri bene e si mescolano con la popolazione creola (creoli = non indigeni) assumendone lingua e modi di vivere.
  • 2017: diventa consistente l’esodo dei Warao verso il Brasile.

da sinistra: Makau Munguti p Peter, monseñor Felipe Gonzalez, vicario apostólico de Caroní, padre Aquileo Fiorentini a padre Zackari Kariuki


Dall’appello dei Missionari della Consolata a favore dei migranti venezuelani a Roraima

«In questi tempi di angustia le persone possono chiedersi: “Dov’è Dio?”. Che la presenza dei missionari della Consolata sia balsamo e riflesso dell’amore misericordioso. Dio accompagna sempre coloro che incontra nel cammino, come chiesa desideriamo assicurare loro che non sono soli, ma stanno con Dio e sotto il dolce sguardo della nostra Signora di Coromoto.

Gesù si identifica sempre con la persona sfollata perché visse questa situazione nella sua propria carne. Egli ci incoraggia a mantenere vive la fede e la speranza in un futuro migliore, sapendo che più oscura è la notte, più vicina la luce di un nuovo giorno che già albeggia.

Impegniamo il nostro cuore, la nostra mente e le nostre mani nella missione a favore dei più vulnerabili e chiediamo alla nostra Vergine Santissima, la Vergine Consolata, che dia consolazione in questo doloroso momento presente, e ai nostri protettori, il beato Giuseppe Allamano e san Oscar Romero, che infondano coraggio per sognare un avvenire dove la fraternità e l’attenzione verso l’altro siano segni di convivenza civile e solidale».

La Direzione generale (Bogotà, 27/03/2018)