Porta e pastore (Gv 10,1-21)


Giovanni presenta l’agire e il parlare di Gesù quasi sempre nel contesto delle feste giudaiche nel tempio. Alcune volte presenta un nuovo discorso di Gesù come se fosse una prosecuzione di quello precedente, nonostante sia chiaro che il tema è cambiato.
È quello che succede all’inizio del decimo capitolo del Vangelo, anche se al versetto 21 sembra che il testo accenni di nuovo alla guarigione del cieco nato di cui ha raccontato nel capitolo 9. Questo significa che l’evangelista ci sta suggerendo che i due brani andrebbero visti più o meno insieme? Può darsi. Nel Vangelo di Giovanni spesso succede così, benché questa volta fatichiamo un po’ a capire quale possa essere il collegamento. D’altronde, non è una novità che il quarto Vangelo ci stimoli a cercare di capire senza offrirci la certezza di avere colto davvero tutto.

Vanno probabilmente nella stessa direzione anche le due immagini che Gesù utilizza nel capitolo 10 per parlare di sé: la porta dell’ovile e il pastore del gregge. Si parla in entrambi i casi di pecore, ma verrebbe da dire che se Gesù è la porta da cui le pecore passano, non può essere anche il pastore che ce le fa passare. Sembra una contraddizione, però, al di là di una corrispondenza più o meno precisa dei dettagli, possiamo cogliere che quello che conta è il significato di fondo delle due immagini, ciascuna della quali suggerisce qualcosa su Gesù. E quindi sul Padre.

La porta (vv. 1-10)

Non siamo più abituati a vivere con gli animali «da fattoria». Pochi di noi, probabilmente, hanno visto dal vero una pecora e, meno ancora, un gregge nel suo ambiente consueto, fatto di pascoli e di ovile. Possiamo però immaginarlo. L’ovile è recintato, a volte addirittura chiuso e coperto: consente di difendersi le pecore da ogni minaccia esterna, che siano i predatori o il clima. Nello stesso tempo, però, il cibo si trova normalmente fuori dall’ovile, e occorre comprendere quando è il momento di uscire e di rientrare, quando preferire il riparo e quando il pascolo.

Gesù si presenta come colui che garantisce questo passaggio, dal dentro al fuori. Se volessimo ampliare l’intuizione dell’evangelista, adattandola meglio al nostro contesto, potremmo dire che anche per noi ci sono i momenti di vita privata, di preghiera al Padre nell’intimo della nostra stanza (Mt 6,6), di studio, di esame di sé e della propria vita, e ci sono, viceversa, i tempi in cui, come per il cieco nato, rispondere alle domande, dare testimonianza su Gesù e agire nel mondo in coerenza alle nostre scelte.

Il privato e il pubblico, possono sembrarci contesti talmente lontani da faticare a farli dialogare tra di loro: nella nostra cultura si pensa ad esempio che la vita spirituale, religiosa, vada benissimo se gestita in privato, purché non si noti all’esterno, mentre siamo ogni giorno messi davanti alle vite pubbliche e pubblicitarie di personaggi sui quali ci viene da interrogarci se e quale vita interiore possano condurre.

Gesù sembra proporsi come passaggio tra questi due mondi, che sono entrambi nostri. E lo fa non indicando le regole da seguire, ma appellandosi alla «voce». È un’immagine che sembrerebbe adattarsi meglio al pastore che alla porta, e infatti poi Gesù la riprenderà, ma, un po’ paradossalmente, la utilizza già qui per la porta, quasi che fosse la porta stessa a chiamare per nome le pecore.

Questo accenno alla voce è profondamente significativo: ciascuno aderisce non a una legge o a un programma, ma a una chiamata. Chi ci chiama per nome per farci proposte, o incoraggiarci, o darci suggerimenti, non si limita a offrire delle indicazioni, ma domanda di fidarci. In questo caso non ci adeguiamo alle parole perché convincenti, ma perché confidiamo in chi le dice. La relazione personale è più importante del contenuto del messaggio. È esattamente quello che suggerisce Gesù, nella ricerca del Padre e del pascolo: ascoltare lui, fidarsi di lui, restare in relazione personale con lui.

Nello stesso tempo, la porta – preziosa, ad esempio, per capire chi viene dentro per depredare, e anche perché permette di passare da dentro a fuori e viceversa – resta per così dire secondaria, a servizio. Centrale sì, ma umile, essenziale, ma funzionale. Passo dopo passo Gesù ci conduce a capire che lui è cruciale, sì, ma che l’obiettivo ultimo è il nostro incontro con il Padre, e con la nostra vita più autentica.

Il pastore (vv. 11-18)

Nei versetti successivi Gesù cambia immagine, in una direzione che in qualche modo ha già preparato: «Io sono il buon pastore», anzi, se dovessimo tradurre in modo proprio letterale, «il bel pastore». «Bello» in greco aveva una gamma di significati più ampia del nostro aggettivo, non indicava solo l’aspetto estetico, ma descriveva anche qualcosa come «affidabile, adeguato, generoso».

Gesù è il pastore modello, quello che non pensa a sé ma al bene delle pecore, che conosce per nome, che chiama perché riconoscono la sua voce. Gesù è il pastore che, quando dovesse venire il lupo, non fuggirebbe, ma gli si metterebbe davanti, pronto anche a dare la propria vita per le pecore.

Potremmo pensare che l’immagine sia persino esagerata: il pastore, alla fine, alleva le pecore per la loro lana, il loro latte e magari anche la loro carne. Di certo non difenderebbe la loro vita fino al punto da rischiare la propria. Può darsi, invece, che chi conosce dei pastori sostenga il contrario. L’affetto che li lega alle proprie pecore può portare fin lì. Chi vive con animali domestici in casa sa che il bene provato per quelle bestie, che dipendono da noi e ci donano e domandano amore, può spingerci a difenderli oltre ogni ragionevole limite. E in ogni caso, quello che Gesù dice, per quanto razionale o incredibile ci sembri, è che lui è disposto a dare la propria vita per le sue pecore. Lo farà, infatti, sul Golgota. E non sarà un errore, un incidente di percorso: già prima si è detto disposto a offrire tutto sé stesso per la vita delle sue pecore, che conosce e chiama per nome, che ama una a una.

E in questa relazione, Gesù dice di ripetere, verso le sue pecore, ciò che il Padre fa con lui. Come loro due si conoscono e si amano, così Gesù conosce e ama il suo gregge. Nel suo amore, quindi, si coglie l’amore del Padre che nessuno può vedere.

Come è già successo e ancora succederà nel corso del Vangelo, pare quasi che le direttrici dell’amore si confondano: non è più chiaro chi ami chi e chi dia la vita per chi. È la felice confusione dell’amore, nella quale ci si vuole bene e si è ognuno per l’altro, senza soppesare se qualcuno dà di più o riceve di più. Anzi, come potrebbe confermare chiunque ami, la contabilità del dare e dell’avere non ha senso, perché chi ama è felice di donare e fare il bene dell’amato.

Se allora Gesù si presenta come la porta da cui passare per avere la vita, e come il pastore da ascoltare e seguire perché quella vita sia nutrita e difesa, nel suo agire vediamo il sentimento stesso del Padre, che vuole la vita di chi ama senza mettersi al centro, felice di amare e donare.

Un altro gregge (v. 16)

A questo punto, a sorpresa, Gesù dice di avere anche altre pecore, di un altro ovile. I commentatori si sono sbizzarriti nel cercare di identificarle: saranno i cristiani che vengono dal paganesimo? Saranno quei giudei che non sono lì presenti e magari incontrano Gesù di nascosto? Sarà già un anticipo di quei cristiani divisi in tante chiese?

In realtà, non è difficile capire che non è poi così importante rispondere a queste domande. Quello che Gesù dice è semplicemente che bisogna restare aperti alle novità, all’arrivo di altre pecore. La tentazione di ogni gruppo umano, infatti, è quella di chiudersi, di escludere tutti gli altri, di restare «solo noi che ci vogliamo così bene». Gesù richiama a restare aperti, disponibili, fiduciosi e ottimisti anche nei confronti degli «altri», che saranno pecore buone perché in ascolto del medesimo pastore bello. È la dinamica della Chiesa: i credenti sono una comunità non perché vengano dallo stesso posto o abbiano lo stesso antenato o le stesse sensibilità o passioni, o ragionino allo stesso modo, ma perché tutti ascoltano la voce del medesimo pastore. È Gesù, porta di passaggio, a garantire che si possa essere un gregge solo.

È tanto importante questa armonia offerta dall’unico pastore che ci raduna e ci ama, che Giovanni si lancia anche in un gioco di parole affascinante: l’obiettivo dei discepoli, scrive in greco, sarà quello di essere «un solo gregge e un solo pastore» (mia poimnē eis poimēn).

Le reazioni (vv. 6.19-21)

Gesù ha impostato tutto il suo discorso sulla relazione, non sull’obbedienza a una legge. E in una relazione è sicuramente importante la proposta e l’offerta da parte di uno, tanto quanto lo è la risposta dell’altro. Giovanni, infatti, ne scrive dicendo che la prima reazione dei suoi discepoli è di incomprensione (v. 6). In tutto il Vangelo resta questo dramma della fatica dei discepoli a comprendere le parole di Gesù (la proviamo anche noi, spesso). Qui però è chiaro che, di fronte all’offerta di una relazione con Dio basata su affetto, ascolto e fiducia, la difficoltà dei discepoli non è tanto quella di non capire, quanto quella di accettare. Occorre rinunciare all’immagine di un Dio severo, giudice, che ci farà sentire belli e buoni espellendo dall’ovile e castigando gli altri. L’immagine che Gesù offre è diversa, è una voce che chiama e conosce per nome, che non fa violenza alle pecore, non le costringe, ma offre solo protezione e vita. Quando non si vuole accettare questa immagine di Gesù e del Padre, ci si rifugia nella incomprensione: «Non può essere così, non c’è severità, serietà, selezione».

Non a caso anche dopo la seconda parte del discorso di Gesù c’è una «divisione» tra i suoi ascoltatori, tra chi dice che è pazzo e chi, al contrario, fa notare che nessun pazzo può aprire gli occhi a un cieco. I dati sono lì, sono a disposizione. Ma Gesù non costringe a restare nell’ovile e a seguire la voce del pastore.

Anche noi,oggi, ci troviamo di fronte a un volto divino – trasmesso ed esemplificato da Gesù -, che è di affetto, di relazione personale, di fiducia. Possiamo decidere che è un volto non abbastanza severo e rigido, possiamo non capire, o respingerlo: oppure possiamo lasciarci avvolgere dall’abbraccio che lega il Padre e il Figlio e che si mantiene accogliente per chiunque.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 12 – continua)

 




Solo e in compagnia (Gv 6,1-59)

Con il sesto capitolo, il Vangelo di Giovanni ci stimola ad accelerare e approfondire il cammino. Lo fa innanzi tutto segnalando che ci troviamo a Pasqua (6,4), osservazione che può sembrare inutile se si dimentica che proprio a Pasqua dell’anno precedente Gesù aveva espresso il suo giudizio sul culto nel tempio (2,13-17) e che in quella dell’anno successivo morirà in croce.

Lo fa anche con un racconto, quello della moltiplicazione dei pani, che, a differenza dei Vangeli sinottici, qui fa da preludio a una riflessione sull’eucaristia che ci saremmo aspettati di trovare più avanti, ossia durante l’ultima cena (dove invece è assente).

Infine, l’evangelista inizia a parlare con insistenza del rapporto di Gesù con il Padre, e per la seconda volta nel suo percorso ricorre a un «Io sono» (6,20) su cui torneremo presto.

Si arriverà a un certo punto nel capitolo a esplicitare che nessuno ha visto Dio e solo Gesù lo può far conoscere (6,46), un tema che percorre sottotraccia tutto il Vangelo fin dall’inizio. Ciò che fa Gesù è ciò che farebbe il Padre. Guardare il Figlio, dunque, significa guardare anche chi lo ha mandato.

Diventa allora significativo il gioco di Gesù che un po’ si ritira in solitudine, un po’ si mostra ai suoi e alle folle.

Il capitolo 6 si apre con Gesù che si ritira con gli apostoli sul monte (6,2-3) per evitare le folle che lo seguono per le sue guarigioni. Ma da lì le vede venire verso di lui, e non solo non le scaccia, ma si chiede come fare a dare loro da mangiare. A quel punto Gesù intuisce che la gente vuole «prenderlo per farlo re» (6,15), quindi si ritira sul monte da solo. Mentre lui è sul monte, i discepoli passano senza di lui dall’altra parte del lago, ma vengono colti da una tempesta. D’improvviso Gesù compare camminando sulle acque, e li porta a destinazione invitandoli a non avere paura (6,16-21).

Infine, Giovanni si avventura in una descrizione abbastanza contorta dello stupore della gente, che cerca Gesù faticando a trovarlo (6,22-25). Il fatto che la descrizione non sia lineare non è un errore dell’evangelista. Anzi, egli, proprio in questo modo attira lì la nostra attenzione, perché ci rendiamo conto ancora una volta che Gesù, che è cercato, potrebbe sottrarsi alla folla, e un po’ lo fa, ma si lascia anche trovare, per commozione e perché vede che gli altri hanno bisogno di lui.

Il volto del Padre

Abbiamo già detto che l’«Io sono» è uno degli elementi che ci suggeriscono un «cambio di marcia» di Giovanni. Il momento è quello in cui Gesù, camminando sulle acque, compare ai discepoli che stanno faticando a gestire la barca nel mare in tempesta. Loro, come è comprensibile, al vederlo si spaventano, ma Gesù li rassicura dicendo «Io sono» (6,20). Si tratta di una formula che potrebbe essere banale, il nostro «sono io», ma già nel Primo Testamento sono parole che richiamano la rivelazione del nome divino a Mosè: «Dirai agli israeliti: “Io sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Nel Vangelo di Giovanni la formula diventa solenne. Gesù, infatti, dice molte volte «io sono»: il pane di vita (nel capitolo 6), la luce del mondo (8,12), la porta delle pecore (10,7.9), il buon pastore (10,11.14), la risurrezione e la vita (11,25), la vera vite (15,1.5). Addirittura, in alcuni casi non aggiunge nulla, ma si limita a dire «Io sono» (8,24.28.58; 13,19), che sicuramente ha un tono solenne e divino.

Già una volta Gesù nel Vangelo aveva usato questa formula, parlando con la samaritana (4,26), ma là poteva sembrare un uso più semplice e «banale»: la donna parla del messia, Gesù le svela «Sono io, che parlo con te». Nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque in tempesta, invece, le stesse cominciano a sembrare qualcosa d’altro, anche perché sono dette da chi sta compiendo un’impresa sovrumana.

In queste righe del Vangelo di Giovanni, Gesù inizia ad alludere alla propria dignità divina, e nello stesso tempo continua a dichiararsi inferiore e in comunione con il Padre, del quale è la visibilità.

Quello che mostra in questo capitolo è allora il volto di un Padre che non avrebbe bisogno della compagnia degli umani, eppure sceglie di mettersi a disposizione, di lasciarsi trovare, sapendo che sono loro ad aver bisogno di lui. Il volto di un Dio che è padrone degli elementi (moltiplica i pani, calma la tempesta facendo arrivare subito a riva), ma non si sostituisce alla libertà e alla fatica degli esseri umani: sfama cinquemila persone, ma a partire non dal nulla, bensì da cinque pani d’orzo e due pesciolini (pasto scarno anche per chi lo aveva portato, ma che intanto deve essere messo a disposizione, deve essere perduto per essere ritrovato), e fa giungere a riva marinai che però intanto avevano provato a remare. Un Dio al servizio degli uomini, ma senza sostituirsi a loro.

Quello che Gesù mostra è un Dio che non usa mai gli elementi di cui è Signore per arrecare un danno, ma sempre e soltanto per il bene.

Un Padre che, come Gesù, sarebbe autosufficiente, ma sceglie di non stare da solo. E un Padre che interviene poco, per salvaguardare la libertà degli umani, ma quando lo fa interviene solo salvando, sfamando, mai punendo.

 

Che cosa dobbiamo fare? (Gv 6,26-35)

Negli Atti degli Apostoli la reazione al primo discorso di Pietro in cui si racconta la vicenda di Gesù è «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Al versetto 28 del capitolo 6 di Giovanni, anche la folla che cerca Gesù sull’altra riva del lago e lo trova, gli domanda: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». È comprensibile, umano e anche ammirevole: di fronte alla scoperta di una interpretazione diversa della nostra vita, chiedersi in che cosa cambiare è generoso e onesto. Gli interlocutori di Gesù, insomma, non sono né superficiali né ipocriti. Ma la risposta di Gesù spiazza, sulla linea di ciò che aveva lasciato intuire nel dialogo con la donna di Samaria (Gv 4,23-24): «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (6,29).

A essere significativi e sorprendenti sono almeno due aspetti. Il primo è che il «da fare» non sia qualcosa che deve essere fatto. Se è vero che le parole senza azioni sono vuote, è però ancora più vero che a essere significative nelle relazioni umane sono le intenzioni: il bambino che vuole aiutare la mamma provando a farle trovare al rientro a casa una pietanza che però è immangiabile non verrà rimproverato, ma probabilmente la farà commuovere. E orientando il rapporto con Dio non nel fare, ma nel credere (pisteuete), nell’affidarsi, nel confidare (questo è il senso profondo di un verbo che resta un po’ ambiguo), Gesù riorienta il rapporto degli esseri umani con Dio sull’unica cosa che conta, ossia la relazione. Vuoi fare l’opera di Dio? Fidati di lui, affidati a lui, vivi in una relazione di amicizia, di affetto, dove a essere decisivo non è ciò che fai, ma l’intenzione con cui vivi. Questo sembra essere per Gesù il cuore della morale religiosa: vivere una relazione autentica, profonda, di affetto con Dio. Quello che si fa, di conseguenza, è frutto di questa relazione.

Ma c’è anche un altro aspetto decisivo, perché in realtà Gesù non invita a credere in Dio, ma «in colui che egli ha mandato», ossia in Gesù stesso. In modo chiaro si afferma ciò che era già stato intuito prima e che ora diventa più esplicito: il Dio invisibile si può vedere e incontrare in Gesù.

Di fronte alla comprensibile perplessità degli interlocutori («Che segno compi perché ti crediamo?»), Gesù, alludendo alla manna del deserto, donata ogni giorno da Dio al suo popolo nel tempo dell’Esodo, parla del pane. Non solo i pani moltiplicati, ma un cibo che possa nutrire. Gesù, cioè, non si limita a dire: «Guarda che miracoli faccio, guarda come sono potente!», ma invita a cogliere che quello che lui fa è al servizio della vita di chi incontra, è destinato a nutrire, a sfamare. Gesù mostra un Padre che non vuole essere adorato e riverito, ma che si dona perché i suoi amici non patiscano fame o sete. Colui che può sfamare e dissetare, sulla linea dell’incontro con la donna samaritana, è Gesù. Poi, dalla dimensione fisica siamo invitati a passare a quella esistenziale, perché non viviamo soltanto di pane, ma di relazioni e senso della vita che sono ciò di cui abbiamo più bisogno.

Non si tratta di qualcosa a cui Gesù arrivi marginalmente o di recupero: «La volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40).

Si parla della risurrezione nell’ultimo giorno, ma se ne parla al presente. Perché Gesù e il Padre vogliono la vita degli esseri umani, e questo desiderio non distinguerà tra il futuro e l’adesso.

Il cristiano non faticherà a capire che qui in fondo si parla dell’eucaristia, ma, persino più che nei sinottici, è chiaro che non la si potrà più intendere semplicemente come rito, bensì come gesto che rimanda a tutta l’esistenza di Dio: l’eucaristia raccoglie in un punto ciò che il Padre e Gesù fanno sempre, donare la vita per far vivere gli esseri viventi.

Figlio di Giuseppe o del Padre? (Gv 6,36-59)

Quello che Gesù afferma è pesante, intenso. Svela un volto di Dio che forse fatichiamo a immaginre: talora abbiamo la tentazione di pensare a un Dio giudice severo che castiga in modo durissimo chi si comporta male (cioè, gli altri). Invece, qui Giovanni ci mostra un Dio amante della vita e pronto a donarsi per nutrire l’umanità. Ma svela anche un Gesù che pretende di far conoscere il Padre, che si pone come tramite indispensabile: «Il pane della vita sono io!» (6,35).

Anche noi avremmo probabilmente reagito come gli interlocutori: «Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?» (6,42). C’è un primo livello di contestazione che capiamo immediatamente: «Chi ti credi di essere? Sappiamo chi sei!». Ma questo tradisce un sottinteso più profondo: ci aspettiamo che Dio sia completamente diverso dall’uomo, non abbia rapporti con la nostra quotidianità. È un pensiero che percorre gran parte dell’umanità, non solo cristiana: vedendosi limitati e imperfetti, gli uomini pensano che Dio sia completamente diverso da loro. Ecco perché ci sembra convincente che Dio non si capisca, parli lingue strane, si nasconda misteriosamente in riti incomprensibili, dietro a muri o fumi di incenso. Quello che Gesù ha suggerito, che il Padre sia visibile in lui, e che Dio sia interessato a fare vivere e nutrire l’umanità, invece, contraddice questa lontananza e divisione.

Gesù mostra un divino che poteva anche rimanere lontano dall’umano, ma che ha voluto abbattere le distanze, è entrato nell’umanità fino in fondo, si occupa degli esseri umani non per farsi servire e riverire ed è pronto a farsi cibo e bevanda, per farli vivere, di bene (6,55-56).

Questo è possibile a Gesù perché a tale scopo è stato inviato dal Padre, di cui è immagine (6,57). Gesù è così perché è il Padre a essere così, pronto a donare se stesso perché gli esseri umani abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza. Non a caso Gesù può dire che chi si nutre di questo cibo, vivrà in eterno (6,58).

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 07- continua)

© Jesus Mafa




Narrare la misericordiadi Dio

Il pensiero di papa Francesco
Papa Francesco ha una visione di Dio come luogo della misericordia. Essa è un vero e proprio baricentro del modo di vedere e operare di Dio. «Non c’è alcun limite alla misericordia», diceva domenica 6 aprile 2014. E ancora: «Dio ha tanta misericordia con noi. Impariamo anche noi ad avere misericordia con gli altri, specialmente con quelli che soffrono».

 

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Come papa Francesco, anche Giovanni Paolo II sottolineava il tema della misericordia: «Al di fuori della misericordia di Dio non c’è nessun’altra fonte di speranza per gli esseri umani», e aggiungeva: «In Cristo Gesù, Dio ha assunto davvero un cuore divino, ricco di misericordia e di perdono, ma anche un cuore umano, capace di tutte le vibrazioni dell’affetto». Questo spiega come mai Giovanni Paolo II abbia istituito un giorno dedicato proprio alla misericordia, la domenica dopo la Pasqua, nonostante tutta la liturgia sia già, di per sé, piena di termini che rimandano a essa.

Ciò che caratterizza la catechesi di papa Francesco è il primato della misericordia in tutta la sua azione pastorale.

Il primato della misericordia, riferito a una delle Beatitudini («Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», Mt 5, 7), è stato indicato dal papa anche come tema della giornata mondiale della gioventù che si terrà nel 2016 a Cracovia, la città polacca dove Giovanni Paolo II fu vescovo negli anni 1964-1978.

Ma il tema scelto da papa Bergoglio ci suggerisce che sono misericordiosi anche gli uomini capaci di sentire come proprie le miserie e le difficoltà degli altri, che si preoccupano e si danno da fare di fronte alla sofferenza altrui. È questa una grazia, un puro dono di Dio. Chi lo riceve rimane radicalmente orientato a comportarsi allo stesso modo di Dio con tutti gli altri, uomini e donne, di qualsiasi età e condizione sociale.

Papa Francesco parla continuamente di misericordia, e la gente ha recepito subito e bene. Uno dei ricordini che a Roma i pellegrini comprano di più è la «misericordina», una scatoletta simile a quelle dei farmaci con dentro un rosario. Non soltanto ai pellegrini papa Francesco parla in questo modo, ma anche agli intellettuali agnostici, come è successo con la lettera che ha scritto a Eugenio Scalfari, il fondatore del quotidiano la Repubblica: «La misericordia di Dio è infinita, non ha limiti, la verità di Dio è l’amore…». Papa Francesco definisce Dio come misericordia, così come l’evangelista Giovanni definisce Dio come amore; in fondo entrambi dicono la stessa cosa, perché per sua natura l’amore è misericordioso.


Vi è un testo molto bello nel libro del profeta Osea: «A Efraim io insegnavo a camminare, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincolo di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Come potrei abbandonarti, Efraim […]. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione […] perché sono Dio e non uomo; sono santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (Os 11, 1-9).

Efraim è il secondo figlio di Giuseppe, nato in Egitto, fratello di Manasse. I profeti usarono questo nome per indicare l’intero regno di Israele. Ma che cosa dice il testo?

  • * Dio si cura di noi e ci insegna a camminare, ci guida come un padre.
  • * Usa verso di noi legami di bontà e vincoli di amore.
  • * Ci porta in braccio fino a toccare la nostra guancia con la sua.
  • * Si china su di noi e non ci abbandona.
  • * Si commuove e freme di compassione.

E tutto questo perché è santo e non si adira contro di noi.

Siamo di fronte al paradosso incomprensibile dell’amore di Dio per noi. Dio è il santo, il trascendente: la sua santità, la sua natura misteriosa è il solo fondamento possibile della sua misericordia verso chi si allontana da Lui e lo abbandona con il peccato (Gr 3, 12-19; 31, 20).

Vi è un altro testo del profeta Osea che mette bene in luce la bontà amorosa di Dio: «Ella inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà; li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritoerò al mio marito di prima perché ero più felice di ora […]. Perciò, ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore […]. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2, 8-9. 16. 21-22).

Osea ha fatto l’esperienza di un amore che l’ha tradito, la sua donna lo ha lasciato. Attraverso l’esperienza del peccato Israele ha penetrato a poco a poco la profondità della bontà e della misericordia di Dio. Dio è sempre disposto all’amore per un figlio ingrato; è lo sposo sempre fedele, pronto ad accogliere la sposa infedele. Dio è solidale con il suo popolo, lo mette davanti al suo peccato e lo provoca al pentimento.

Ma fino a che punto Dio si può impegnare con gli uomini? Fino a che punto arriva il suo perdono e la sua misericordia? Gesù solo può rispondere a queste domande. Egli, infatti, ha il compito di rivelare la misericordia del Padre. Fin dall’inizio del suo Vangelo, Luca canta la misericordia di Dio: essa si estende di età in età, di generazione in generazione; si manifesta nella nascita di Giovanni Battista; Zaccaria proclama che Dio ha concesso la sua misericordia ai padri antichi e che, con la nascita di Giovanni, inaugura l’opera della sua misericordia.

Tutti gli atti di Gesù si pongono in questa linea: «Io voglio misericordia, non sacrifici», «Sono venuto per i peccatori, non per i giusti». È il suo programma di vita e di annuncio. È la misericordia di Dio. Per questo Gesù predilige i poveri, è l’amico dei pubblicani, siede alla loro tavola, lascia che gli si avvicini una peccatrice e con infinita delicatezza la perdona. Gesù è venuto a «cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10; cfr. Lc 4, 18; 7, 22.34.39; 19, 5).

Spesso gli evangelisti usano un verbo molto significativo per indicare la misericordia di Dio verso di noi: «Commuoversi fin nell’interiora», sentire uno sconvolgimento simile a quello della madre verso il figlio portato nell’utero. Misericordia è come la dimensione matea dell’amore. E questo termine è usato dagli evangelisti per descrivere le azioni di Gesù che ne evidenziano la missione. Ecco alcuni esempi: «Sbarcando, Gesù vide una folla numerosa e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6, 34; cfr. Mt 14, 14). Matteo usa un’espressione che riassume il mistero di Gesù: «Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore» (Mt 9, 36).

Gesù si comporta come il Dio di misericordia descritto nell’A.T., le cui viscere tremarono alla vista del popolo oppresso dai peccati e dalla schiavitù d’Egitto. Così Gesù appare senza difesa davanti alla miseria e alla sofferenza degli uomini, è la misericordia incarnata di Dio. La parabola del Figliol Prodigo o, meglio, del Padre buono e misericordioso, del Padre con viscere di madre, è una chiara testimonianza. Vi è evocata tutta la storia dell’A.T. Il figlio più giovane (come Israele), si allontana dal padre (da Dio), e fa esperienza di peccato, di povertà e fame. Ricorda il tempo dell’abbondanza e, come la sposa di Osea, dice: «Mi leverò e andrò da mio padre». Il padre è lì in attesa e, quando il figlio è ancora lontano, lo vede, si commuove, gli corre incontro e lo bacia. Di fronte a questo atteggiamento, scribi e farisei sono sconcertati.

La misericordia di Dio si estende a tutti gli uomini. Lo sottolinea in particolare Paolo: «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore di Dio vero, per compiere le promesse dei padri: le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia» (Rm 15, 8-9). Pagani e giudei, tutti sono uguali davanti a Dio, perché tutti hanno peccato e tutti hanno assoluto bisogno della misericordia di Dio. È questa la teologia contenuta nella lettera ai Romani, riassunta con incisività e vigore in Ef 2, 4-7: «Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo; per grazia infatti siete stati salvati e ci ha risuscitati in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù». A causa della sua misericordia Dio ci salva. La parola chiave di tutta la storia umana in relazione a Dio è dunque la misericordia.

Uno degli aspetti essenziali della misericordia di Dio è la gratuità. Dal momento in cui Dio ha deciso di avvicinarsi all’uomo per farsi conoscere, ha già preso la decisione di perdonarlo. L’incontro di Dio con l’uomo è sempre in vista del perdono, della pace, della riconciliazione. La storia della salvezza non è altro che la storia di questo incontro, che diventa totale e decisivo fino a farsi definitivo in Cristo Gesù. «Quando però si sono manifestati la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiuta, ma per sua misericordia mediante il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3, 4-7). Proprio perché totalmente gratuita, senza supporre nulla da parte dell’uomo peccatore, la misericordia chiede di essere accettata e creduta. Il Signore è vicino all’uomo per donargli la sua misericordia.

Dire misericordia è dire qualcosa di inaudito sulla vita intima di Dio. Non vuole dire quindi solo che Dio ci riconcilia a Lui, ma anche che egli si svela come misericordioso. È questo un mistero che supera le nostre capacità di comprendere Dio nella sua realtà. C’è un mistero di sovrabbondanza del dono di Dio, di misericordia, al punto che Paolo esclama: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza in rapporto al peccato, per usare a tutti misericordia […]. O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono impenetrabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? […] O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a ricevee il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui sono tutte le cose» (Rm 11, 32-36). La misericordia di Dio non è dunque un attributo secondario: è il volto stesso dell’amore di Dio per noi. Per questo Dio non si pentirà mai di essere misericordioso. La misericordia impegna l’amore infinito ed eterno che è Dio: «Dio è amore», ha scritto l’evangelista Giovanni.

Una misericordia che cancella totalmente il peccato. La misericordia che si manifesta attraverso la persona di Cristo non è mai arrogante, ma è quella di un servitore dolce e umile di cuore. Non cade dall’alto, non mantiene le distanze, si fa semplice, vicina. Non è sentimentalismo. È la misericordia di Dio che cancella veramente il peccato. Il suo primo effetto è di perdonare, rialzare, guidare.

A volte si dice che l’insistenza del cristianesimo sul peccato ha ossessionato patologicamente l’umanità. Un certo modo di presentare le verità cristiane può avere favorito una tale interpretazione, e avere dinanzi certi confessori anche. Occorre sempre ricordare che non si può mai slegare il peccato dal perdono e dalla misericordia di Dio. La misericordia ha la capacità di risvegliare il peccatore: «Se son caduto, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre il Signore sarà la mia luce» (Michea 7, 7-9).

Infine, la misericordia è la prima e ultima parola della fede. Le difficoltà e la durezza dell’esistenza, per chi accetta la parola di Dio, acquisiscono un tono, un significato diverso e nuovo. Il mondo nella sua concreta realtà di bene e di male appare più accettabile. Accanto alla durezza della vita, il credente scopre la misericordia materna e paterna di Dio. Solo in questa prospettiva si possono comprendere il senso degli avvenimenti della nostra vita e della nostra storia umana. È questa la sconcertante rivelazione di fronte alle tragedie umane: «Voi siete i miei testimoni, che io mi sono scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate chi sono io». Chi crede osa leggere gli avvenimenti nel linguaggio della misericordia, dell’amore e della bontà di Dio per noi, e acquisisce la facoltà di illuminare la durezza dell’esistenza e della storia umana. Lo dice il salmo 103/102, 8: «Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore», frase che l’evangelista Matteo invita a tradurre in una Beatitudine: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7).

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi