La dignità sotto i piedi

testo di Daniele Biella |


In Piazza Libertà, davanti alla stazione, una coppia si prende cura dei migranti che arrivano in Italia dopo le peripezie e le violenze alle frontiere. Curare le loro ferite sotto gli occhi di tutti, è un urlo contro la normalizzazione del male.

«Avevo un ricordo bellissimo dei boschi della ex Jugoslavia, mi sembravano paesaggi usciti da film della Disney. Ora, quando li guardo, penso alla tragedia che si sta consumando in quei luoghi. Decine di persone – non sapremo mai quante – vi perdono la vita tentando di migrare verso il Nord Europa. È straziante».

Lorena Fornasir ha uno sguardo al quale non si può sfuggire: nei suoi occhi chiarissimi si specchiano le immagini create dalle parole che ci ha appena rivolto.

Non sono immagini belle, ma questa è la realtà: benvenuti in Europa, dove le frontiere uccidono chi cerca di superarle con la speranza di una vita migliore, ma senza documenti validi.

© Daniele Biella

Unico obiettivo: la cura

Incontriamo Lorena in Piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, in un tardo pomeriggio di settembre, mentre la seconda ondata di Covid inizia a svegliarsi. È qui che la donna, psicologa 67enne, giudice onorario minorile con un’energia inesauribile, si fa trovare tutti i giorni assieme al marito Gian Andrea Franchi – filosofo e storico, ex professore di 84 anni – e ai volontari dell’associazione Linea d’ombra nata nel 2019. Dedicano tempo a presidiare il luogo con un unico obiettivo: la cura.

«Qui c’è un passaggio continuo di migranti che arrivano dalla “rotta balcanica”. Si fermano a Trieste giusto il tempo per riprendere le forze prima di provare ad andare a Nord», spiega Lorena. «Il problema è che molti arrivano a dir poco malridotti e bisognosi di attenzione. Noi veniamo qui proprio per questo, per curarli: medichiamo le ferite a piedi, gambe, braccia, e ascoltiamo i loro tremendi racconti».

© Daniele Biella

Respingimenti e violenze

Nessuna fake news in questa brutta storia. È tutto vero: la controprova dello scempio dei diritti umani in atto ai confini dell’Europa sono proprio loro, i sopravvissuti con i traumi che si portano addosso.

«Tentava di attraversare il confine italo sloveno insieme alla moglie e a un compagno, ma è morto cadendo in un burrone dopo un volo di venti metri, nei pressi del castello di San Servolo, in provincia di Trieste», riporta Radio Capodistria il primo gennaio 2020. È una vicenda che a Lorena Fornasir ritorna spesso in mente, perché ricorda la disperazione della moglie. Così come ricorda i tanti racconti di chi riesce ad arrivare in Piazza Libertà – ribattezzata da loro Piazza del Mondo – e narra di persone care e compagni di viaggio persi nel buio dei boschi, nelle settimane di cammino tra le frontiere balcaniche e, soprattutto, tra un respingimento e l’altro: «Le persone vengono rimandate indietro dalla polizia di confine, sia in Croazia che in Slovenia. Negli ultimi mesi anche all’arrivo in Italia», sottolinea Gian Andrea.

«Ci sarebbe il diritto del migrante a chiedere asilo politico, ma evidentemente non viene rispettato». E c’è di più: «Le persone che assistiamo in piazza arrivano spesso con evidenti segni di violenze, e denunciano pestaggi da parte delle forze di polizia una volta entrati nel confine croato».

Botte documentate da foto e video che anche gli europarlamentari di Bruxelles conoscono almeno dal 2017, grazie alle mobilitazioni di associazioni per i diritti umani di tutta Europa, compresa Linea d’ombra Odv (Organizzazione di volontariato – www.lineadombra.org), la onlus creata da Fornasir e Franchi. Violenze che nessuno pare riuscire a fermare, anche per la resistenza del governo croato ad ammettere le responsabilità delle proprie forze dell’ordine.

The game, il gioco

Gli stessi Lorena e Gian Andrea hanno visto con i loro occhi i segni di quelle percosse quasi in diretta, quando nel 2015 hanno iniziato a fare la spola con altri amici tra Italia e Balcani, portando vestiario e viveri nei campi profughi informali che si erano creati a Bihac e Velika Kladusa, al confine tra Bosnia e Croazia: «Non solo le botte. Alle persone vengono rotti i telefoni cellulari, requisiti gli zaini, e a volte addirittura tolti i vestiti che indossano», aggiunge Gian Andrea, lasciando intuire tutto il proprio sdegno.

Parecchi di quei migranti che avevano conosciuto al confine tra Bosnia e Croazia, ragazzi e giovani soli, ma anche famiglie con bambini e anziani, li hanno poi reincontrati nei pressi della stazione di Trieste: quelli fortunati che sono riusciti ad arrivare in Italia, nonostante tutto. Tra loro, alcuni hanno affrontato l’ultima parte del viaggio anche decine di volte: ogni volta venivano respinti, ma dopo avere recuperato le forze ripartivano, perché non c’era possibilità di tornare indietro nel posto da cui erano scappati. L’unica speranza era quella di andare avanti, raggiungere il Nord Europa.

Questo continuo procedere ed essere respinti, lo chiamano the game, il gioco: un nome che richiama il divertimento, usato però per qualcosa che di giocoso non ha nulla, forse per esorcizzare una realtà che fino a pochi anni fa non si sarebbe immaginata nemmeno nei peggiori incubi, se pensiamo che accade a ridosso di quell’Europa che nel 2012 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per il suo impegno a cancellare guerre e violenze dal proprio vocabolario.

Una straordinaria prova di quella solidarietà che abbatte i muri e crea legami di fratellanza. La comunità senegalese a Trieste si è mobilitata in sostegno di chi arriva dalla rotta balcanica, fratelli migranti che arrivano da altre terre e per altre vie. Un incontro toccante, ieri in Piazza Libertà, quasi un abbraccio. Un aiuto concreto, consegnato a Linea d’ombra, da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei confini, destinato a chi ancora è in viaggio.

Davanti alla stazione

Dal 2019, con un flusso di arrivi notevole (almeno 15mila persone secondo i dati ufficiali dell’Agenzia europea Frontex), l’impegno dei volontari di Linea d’ombra in Piazza Libertà è diventato quotidiano. I viaggi solidali si sono interrotti, in particolare con l’arrivo del Coronavirus, e oggi l’attività è concentrata proprio lì.

«Abbiamo appena ricevuto notizie da una famiglia iraniana che è passata qualche settimana fa da Trieste, dopo avere superato la rotta balcanica. È riuscita ad arrivare in Francia e, da lì, ha raggiunto la casa di un parente in Germania, dove ora sta bene», ci racconta Franchi a fine novembre con sollievo. «Li ricordo bene, perché ci ha impressionato il fatto che fosse la loro figlia di 7 anni, che parlava inglese, a relazionarsi con noi per fare capire i loro bisogni».

Storie. Tante storie che i volontari di Linea d’ombra e di altre associazioni con le quali Linea d’ombra collabora, incrociano ogni giorno. Oltre all’associazione di Lorena e Gian Andrea, infatti, in Piazza Libertà sono presenti quotidianamente l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà, che agevola le pratiche di asilo per i pochi che non vogliono continuare il viaggio verso Nord; l’associazione Strada SiCura, con dottoresse che medicano le ferite; e c’è chi si occupa di preparare un pasto caldo, di distribuire i vestiti e le scarpe donati.

Tra i migranti che arrivano a Trieste, alcuni si fermano per chiedere la protezione umanitaria: è la scelta di una giovane medico siro palestinese fuggita dalla guerra, che oggi aiuta a curare le ferite di chi arriva, così come quella emblematica e drammatica di Umar Adnan, un ragazzo pachistano oggi poco più che ventenne, partito da solo a 18 anni dal suo paese, dopo un’infanzia segnata dallo sfruttamento lavorativo, e arrivato in Italia dopo aver subito, tra le altre cose, le angherie di un gruppo di poliziotti croati al confine: «Mercoledì 25 settembre 2019 ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba», scrive inorridita Lorena in quello che è poi diventato un appello rivolto all’Unione europea intitolato «Torture ai confini d’Europa», diffuso tramite la piattaforma change.org, dove ha raccolto quasi 70mila firme.

Incontro in piazza con gli Scouts sloveni in Italia (Slovenska Zamejska Skavtska Organizacija), venuti per conoscere la realtà di chi arriva dalla rotta balcanica e portare un aiuto concreto e prezioso

La disumanità

Fornasir ricorda nel testo del suo appello anche un’altra persona che però non ce l’ha fatta: si chiamava Alì. «Nel febbraio 2019, Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre, a causa della disumanità».

Molte persone, non solo Lorena e Gian Andrea, hanno tentato di alzare la voce per Alì, ma nessuna autorità, Onu compresa, è riuscita a evitare la sua morte.

È andata meglio, nonostante tutto, a Umar Adnan che incontriamo in Piazza Libertà dove, una volta recuperato l’uso della gamba ferita, oggi offre aiuto a sua volta ai nuovi arrivati, e scatta foto molto utili a Linea d’ombra per documentare e diffondere informazioni su quello che accade. «I poliziotti croati volevano obbligarmi a dichiarare che ero un trafficante, e quando negavo arrivavano le botte», ricorda, aiutato dal mediatore volontario Raheem Ullah, suo connazionale arrivato a Trieste per il proprio lavoro di ricercatore in biologia. «È passato un anno e mezzo, qui mi trovo bene e posso dare una mano, oltre che ricominciare a vivere. Ma di certo sono ancora molto risentito. Non riesco e non voglio perdonare. Nessuno mi ha chiesto scusa», conclude mostrandoci i segni ancora ben visibili sulla gamba.

Tollerati perché utili

L’aspetto importante è che ora Umar Adnan ha ritrovato il sorriso, grazie anche a questa «normalità dell’aiutare» che, nella Piazza del Mondo, è visibile a occhio nudo. Una normalità quotidiana, anche se precaria. «Siamo tollerati dalle autorità locali perché siamo funzionali», analizza Franchi. «Medicando le persone, tamponiamo un problema, mettiamo in atto quello che dovrebbero fare loro di fronte a persone bisognose d’aiuto».

Anche durante tutto questo periodo di pandemia, infatti, a Linea d’Ombra è stato permesso di operare, ovviamente con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso.

L’unica opposizione esplicita al loro operato, di fatto, è arrivata dalle frange di estrema destra della zona, che un giorno di fine ottobre hanno indetto un presidio nella piazza. Quel giorno, dall’altra parte, si sono fatte presenti numerose persone solidali con i migranti e con i volontari che danno loro supporto.

«Dopo quel momento, a livello cittadino è nato un gruppo di persone che ora si ritrova per coordinarsi su come agire per affrontare le problematiche di Trieste. Partendo dai migranti», aggiunge Gian Andrea, «si riflette anche su altri aspetti, politici e sociali, come le condizioni carcerarie, ad esempio».

Scarpe, giacconi, tute

«Un’altra novità degli ultimi mesi è, nonostante le difficoltà causate dal Covid-19, la creazione di una rete organica di attivisti che arriva fino al confine con la Francia, seguendo gli spostamenti dei migranti tra Trieste, Veneto, Milano, Torino, Oulx e poi Briançon, in Francia».

I migranti scelgono la via più lunga per arrivare in Germania perché la frontiera austriaca è quasi del tutto inaccessibile da tempo. Del resto, la situazione, in questi flussi migratori, è in continuo cambiamento: per la paura di essere respinti al confine italo sloveno vicino a Trieste, le persone cercano sentieri tra le montagne e si spostano anche verso la provincia di Udine senza passare dalla città, con il rischio di diventare ancora più invisibili e di rimanere quindi senza assistenza in casi di emergenza.

Il 2021 si preannuncia un anno duro per tutti a causa della pandemia ancora in corso, ma sarà ancora più arduo per chi non ha una casa e sta cercando un luogo sicuro dove arrivare.

Con una meravigliosa catena di solidarietà, Linea d’ombra continua a ricevere donazioni sia di soldi che di materiale, entrambe molto importanti perché il bisogno è sempre alto: «In questo periodo nel quale fa più freddo, a volte ci sono 30 persone al giorno, a volte meno di una decina, dobbiamo essere sempre pronti», ci dice Franchi.

«Abbiamo bisogno più di tutto di scarpe, giacconi, pantaloni, tute e zaini, mentre usiamo i fondi per comprare in particolare cibo e medicinali».

dalla descrizione della foto su FB: “#BalkanRouteEurope Trieste 10 gennaio 2021 Piazza mondo: <>
Carrettino: “sarò anche pazzo ma sono qui in nome delle madri del mondo, amiamo la vita che mettiamo al mondo, ce la consegniamo l’una con l’altra, nel dolore ci rafforziamo. Aspetto i loro figli, giorno dopo giorno, cerco il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Ma, ti prego piazza del mondo, grida a tutti: APRITE LE FRONTIERE. Lipa è sempre, non solo ora che si è incendiato il campo”

La normalità del male

Mentre accompagniamo Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi lungo la strada che porta a casa loro, una volta lasciata la Piazza del Mondo, l’immagine che abbiamo di questa coppia è quella di un mix di umiltà e tenacia talmente forti da risultare sorprendenti, perlomeno a prima vista. Ma pensando alle storie e alle scelte di vita di tanti uomini e donne che hanno fatto la storia con la loro dedizione agli ultimi, dopotutto, capiamo che loro due fanno parte di questa categoria di persone: una coppia splendidamente normale. Due operatori di pace che hanno come orizzonte il bene dell’umanità.

«Tra di noi è un continuo scambio: io ho un approccio più politico e intellettuale, lei è più corporea e immediata», ragiona Franchi. «Ci completiamo», aggiunge la moglie prima di gettare uno sguardo all’indietro, verso Piazza Libertà e la stazione. «Il dolore che provo, a volte, quando volto le spalle alla piazza, è tremendo: so che le persone andranno a dormire in un posto di fortuna, e rimarranno lì, soli con i loro drammi personali, mentre io vado a casa al sicuro. Questo mi pesa tanto. Mi preoccupo soprattutto per i giovani soli, perché le famiglie che arrivano assieme hanno almeno il conforto di essere un gruppo, di avere dei bambini che, quando scherzano e ridono, portano gioia anche nei momenti peggiori. I ragazzi invece no, e spesso sono in giro da anni, tra Serbia e Bosnia, respinti da tutti e con danni psicologici irreversibili. Mi chiedo quale sarà il loro futuro».

Lorena ci confida poi un suo cruccio: quello di sentire dentro sé crescere l’abitudine, conseguenza dell’aver visto per troppo tempo troppe situazioni insostenibili: «Non sento più tanta rabbia come quella che provavo nel 2015, quando ho iniziato. E questo mi stupisce e mi amareggia, perché significa che ti abitui alla bruttura, alle deportazioni, alle violenze. Perdo di vista l’essere umano mentre mi sforzo di capire e poi denunciare i meccanismi con cui i governi respingono le persone alle frontiere. Ci vuole anche questo aspetto, certo, ma la rabbia, se ben canalizzata, è un collante sociale che genera la giusta reattività per chiedere conto a chi di dovere di quanto accade. Invece se il male diventa “normale”, un’abitudine, rischiamo la rassegnazione, l’assuefazione. Per questo il mio sentimento più forte oggi è resistere alla normalizzazione della barbarie in atto».

Sentendo le parole della moglie, Gian Andrea prosegue e rilancia: «La nostra resistenza è continuare a esserci, “esistere” in questa piazza, fare vedere che l’azione diretta è il modo migliore per evitare che quello che accade cada nell’oblio. Stiamo parlando di persone come noi che non chiedono altro se non di trovare un luogo dove stare che sia migliore di quello dal quale sono venute via».

Un gruppo di liceali triestini ha colto al volo il messaggio: a novembre, dopo che una loro professoressa ha invitato una volontaria di Linea d’Ombra in classe, ha raccolto decine di paia di scarpe in ottimo stato.

Quelle scarpe ora sono ai piedi di qualcuno che ne aveva un grande bisogno.

Daniele Biella

Archivio MC




Sicurezza e cooperazione, facciamo chiarezza

testo di Chiara Giovetti |


A ogni rapimento di personale delle organizzazioni non profit sul campo riemergono una serie di pregiudizi o semplicemente di luoghi comuni legati alla scarsa informazione su un mestiere, quello del cooperante, che in Italia fatica a essere considerato un lavoro vero.

«Alla fine, con i militanti eravamo diventati amici@». Non sono parole di Silvia Romano, la ragazza milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e liberata nel maggio del 2020 dopo essere stata per 18 mesi prigioniera dei terroristi somali di Al Shabaab, ma quelle – riportate dall’agenzia Adnkronos – di Cosma Russo, dipendente Agip rapito dai ribelli del Movimento per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) in Nigeria nel dicembre 2006 insieme ai colleghi Francesco Arena e Roberto Dieghi.

Cosma Russo e Francesco Arena, rapiti in Nigeria

«Torneresti laggiù?»

Quel sequestro si concluse con la liberazione degli ostaggi: il Mend decise di lasciar andare Dieghi nel gennaio del 2007 a causa delle sue condizioni di salute non buone, mentre Arena e Russo furono liberati due mesi dopo, in marzo. Il quotidiano La Repubblica riportando le parole della moglie di Arena ipotizzò che fosse stato pagato un riscatto, ma Eni, il gruppo di cui Agip fa parte, ha sempre smentito con forza.

In una intervista a un giornale on line, Girodivite, Francesco Arena si era detto pronto a ripartire non appena l’azienda gli avesse comunicato la sua nuova destinazione, aggiungendo di non essere interessato a lavorare al petrolchimico di Gela, la sua città d’origine, dove si sarebbe sentito più recluso che nella giungla@.

Il sequestro e la sua conclusione furono seguiti dai media italiani: Stefano Liberti del Manifesto riuscì anche ad andare a intervistare Arena e Russo durante la prigionia e al momento della liberazione erano presenti le telecamere delle Iene e il giornalista Massimo Alberizzi@. Ma la vicenda, una volta terminata con il rilascio, non ebbe lunghi strascichi di polemiche, di discussioni nei talk show e di particolari approfondimenti sui giornali. Nessun commentatore all’epoca accusò i rapiti di essere in combutta con i rapitori per aver detto di questi ultimi che erano stati gentili, né mise in discussione il fatto che un tecnico di un’azienda petrolifera potesse tornare a fare il proprio lavoro in aree pericolose.

Tre anni prima, Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti della Ong Un Ponte Per…, rapite a Baghdad da un gruppo di uomini armati che si definivano «Seguaci di Al-Zahawiri», e rilasciate dopo tre settimane, erano state duramente criticate per l’abito tradizionale iracheno che indossavano al loro rientro in Italia, dopo la liberazione, e per aver dichiarato che speravano di poter tornare in Iraq a lavorare@. Il quotidiano Libero le definì «vispe terese», diversi commentatori le accusarono di essere delle ingrate@ e nacque un dibattito – abbastanza scomposto e basato su notizie false – sugli stipendi dei cooperanti@.

Simona Pari e Simona Torretta, rapite in Iraq

Triste copione

A ogni sequestro di operatori della cooperazione si ripete in modo abbastanza simile questo stesso copione: i rapiti vengono accusati di leggerezza, di irresponsabilità o addirittura di connivenza. Se, poi, un sequestrato, una volta libero, dichiara di voler ripartire, questa sua volontà viene vista come un capriccio o addirittura come una provocazione. La stessa intenzione di tornare a fare il proprio lavoro anche in aree a rischio, se è manifestata da un ingegnere dell’Agip, viene invece a malapena commentata.

L’impressione è che molta parte dell’opinione pubblica italiana non veda la cooperazione come una professione, ma come un’attività che c’entra più con il fare del bene a tempo perso. Il fatto che nei dibattiti, sui social come in Tv, questa visione venga contrastata opponendole quella agli antipodi – la retorica della meglio gioventù, dell’Italia migliore, dell’eroismo, del sacrificio, eccetera – non solo complica un dialogo già difficile. ma impedisce alla cooperazione di acquisire il semplice, legittimo. status di lavoro a tutti gli effetti. Non un avventuroso passatempo, né un immolarsi alla causa degli ultimi: un lavoro.

Greta Ramelli (C) e Vanessa Marzullo, rapite in Siria / ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Cooperanti

I cooperanti sono le persone che lavorano per le organizzazioni che fanno cooperazione internazionale per lo sviluppo. Questa cooperazione è un ambito ben preciso, regolamentato da leggi dello stato – la più rilevante delle quali è la legge 125 del 2014 – e presente anche nel nome del ministero che contribuisce a regolarla e gestirla, il Maeci, cioè il ministero per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. L’altro ente che la regola è l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, che fra le altre cose tiene l’elenco di quelle che agenzia e ministero riconoscono come organizzazioni in possesso dei requisiti per svolgere attività di cooperazione e per gestire fondi pubblici. Prima della legge 125 si chiamavano Ong, organizzazioni non governative, oggi ci si riferisce a loro con l’acronimo Osc, organizzazioni della società civile, anche se di fatto l’espressione Ong è tuttora di uso comune.

È bene ribadirlo: Africa Milele, l’organizzazione con cui Silvia Romano ha lavorato a Chakama, in Kenya, così come Horryati, l’associazione con cui collaboravano Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite e poi rilasciate in Siria nel 2015, non sono Ong (o Osc) e non hanno un riconoscimento ufficiale da parte del Maeci. Nessuna delle tre ragazze all’epoca del rapimento era, quindi, una cooperante. Un Ponte per…, l’organizzazione di Simona Pari e Simona Torretta, invece è una Ong, così come lo è il Cisp, per cui lavorava nel Sahara occidentale Rossella Urru, rapita insieme a due colleghi nell’ottobre del 2011 e liberata nel luglio del 2012. Care International, l’organizzazione cui apparteneva Clementina Cantoni – sequestrata e poi liberata a Kabul nel 2005 – è una Ong internazionale (per la precisione una famiglia di Ong nazionali fra loro confederate) ma non ha una «filiale» italiana.

Tutto questo significa che le organizzazioni al di fuori dalla lista dell’Aics siano amatoriali e poco serie? No, o almeno non per forza. Ma chiamare cooperante chiunque si trovi in paesi a medio o basso reddito a svolgere attività nell’ambito sociale crea solo ulteriore confusione.

Rossella Urru rapita nel Sahara occidentale.

E volontari

I volontari sono un’altra categoria ancora: possono essere persone che operano in progetti di cooperazione nell’ambito del servizio civile internazionale – e in questo caso percepiscono un assegno di 439 euro mensili più un’indennità giornaliera che va dai 13 a i 15 euro a seconda dell’area geografica in cui si svolge il servizio@ – o persone non in servizio civile ma comunque impiegate dalle Osc nell’ambito di un progetto di cooperazione insieme ai cooperanti. Un decreto interministeriale del 2015 fissa la retribuzione mensile per i cooperanti a 1.519,67 euro, e per i volontari in 849,40 euro@.

Per tutto questo personale, la sicurezza sul campo e gli obblighi assicurativi sono stabiliti chiaramente per legge e per contratto.

La parola «volontario» si usa comunemente anche per definire tutti quelli che passano un periodo sul campo – a volte a proprie spese, altre godendo di vitto, alloggio e un minimo di rimborso – per svolgere delle attività che possono o no avere la forma di progetto o semplicemente per conoscere il paese ospitante. È il caso dei campi di lavoro offerti da congregazioni religiose o da associazioni di vario tipo e dimensioni, che di solito prevedono itinerari e attività chiaramente definiti, condizioni di sicurezza adeguate e una copertura assicurativa@.

Argentina 2018 foto del gruuppo dei volontari polacchi con padre Juan Araya / © Imc Polonia

Regole chiare per la sicurezza

Vi è, inoltre, un mondo di piccole associazioni che operano in modo meno rigoroso, come ha sottolineato su vita.it la deputata Lia Quartapelle, intervenendo nel dibattito sulla sicurezza di cooperanti e volontari@: «Purtroppo però nei Pvs operano non solo Ong con una professionalità consolidata, ma anche tante associazioni, anche molto casalinghe, come sembra essere l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia, che stanno in piedi con la logica del volontarismo e della buona volontà».

Quartapelle, poi, allarga il ragionamento oltre il contesto delle Ong: «Giulio [Regeni] era legato a una università straniera; Greta [Ramelli] e Vanessa [Marzullo] sono partite con un biglietto low-cost e una borsa piena di medicine comprate con soldi raccolti attraverso una colletta. [Luca] Tacchetto era in vacanza, appoggiato alla famiglia della sua fidanzata. Gabriele Del Grande era entrato in Turchia per fare il giornalista con un visto turistico, in quella che è la dura gavetta dei freelance-attivisti». «I soggetti che inviano persone in contesti di rischio», dice la deputata, «devono essere legalmente responsabili per la loro sicurezza»: le Ong sono responsabili del personale che inviano in quanto datori di lavoro, mentre le università, le associazioni e i giornali «non lo sono. Ma devono diventarlo».

«Vanno a cercare se stessi»

Non c’è, nel nostro paese, la cultura del gap year, dell’anno sabbatico, molto diffusa invece nel mondo anglosassone, per cui non solo è normale ma è anche visto generalmente di buon occhio che un ragazzo, appena finito il college o l’università, si prenda un anno per viaggiare, provare diversi lavori, fare volontariato e, in definitiva, farsi un’idea più concreta e realistica di quello che vuole sia il passo successivo nella sua vita.

Forse è anche per la mancanza di questa consuetudine che in Italia sono in molti a liquidare le partenze dei giovani verso paesi del sud del mondo come un non meglio definito, astratto e idealistico viaggio alla ricerca di se stessi. Può esserci del vero in questa lettura, ma non è la sola possibile: un periodo all’estero fa anche curriculum. Che intenda perseguire una carriera nella cooperazione o voglia far valere l’esperienza all’estero in altri ambiti lavorativi, chi include nel proprio profilo un’esperienza di volontariato in Africa, Asia, America Latina, lo fa anche per dimostrare che è in grado di usare una lingua straniera, che è incline a confrontarsi con culture e condizioni diverse da quelle di provenienza e, probabilmente, che è indipendente, capace di informarsi e organizzarsi. Questi sono requisiti che anche nel mercato del lavoro italiano pare comincino ad acquisire più interesse di un tempo@.

Etiopia 2017 Roksana, volontaria polacca, insegna matematica a scuola / © Imc Polonia

«Si può fare del bene anche nel proprio quartiere»

Chi identifica la cooperazione con l’idea di fare del bene non perde occasione, ad ogni rapimento o incidente che coinvolge personale sul campo, per commentare che il bene si può fare anche in Italia.

Ancora una volta, c’è del vero ma non è questo il punto. In un mondo nel quale le persone vanno in vacanza sulle coste italiane ma anche a Zanzibar e in cui le aziende commerciano con altre regioni del proprio paese ma anche con il Vietnam, anche i professionisti del settore sociale possono lavorare nelle periferie abbandonate delle città italiane quanto nelle aree remote dei paesi a basso reddito.

Un cooperante, in definitiva, è un professionista che decide di mettere le proprie competenze in un settore al servizio (stipendiato, certo) di un progetto di cooperazione in un paese che non è il suo, magari dopo aver lavorato nello stesso settore in patria e tornando a farlo alla fine del periodo passato all’estero.

Oggi ci sono anche decine di master universitari che contribuiscono a formare figure professionali con le competenze specifiche del cooperante, ma quello nella cooperazione era un lavoro anche prima dell’avvento di questi master e prima dell’introduzione stessa della parola «cooperante».

L’ambito sanitario ne è un esempio molto chiaro – sono decine, probabilmente centinaia, i medici attivi negli ospedali italiani che si sono impegnati e si impegnano tuttora in progetti di cooperazione sul campo – ma non è il solo. Ingegneri, amministratori, interpreti, giornalisti, contabili sono solo alcuni dei profili professionali che non di rado passano più volte nel corso della carriera da un impiego in un’azienda privata o nel settore pubblico a un lavoro nella cooperazione.

Chiara Giovetti

Bambino dell’Ufariji a Nairobi, Kenya, con Liliana Valle / foto di Liliana Valle




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




Diario semplice da Dianra:

Accogliere e donare Amore

Testo di Carla Paccoia, con foto sue e di padre Matteo Pettinari |


«Sono Carla, nata a Perugia e cresciuta a Chiaravalle, Ancona. Vengo dalla diocesi di Senigallia, stesso paese e diocesi di padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata a Dianra, nel Nord della Costa d’Avorio. Ho avuto la grazia di vivere là circa sei mesi in un momento molto intenso della mia vita. Li condivido con voi tramite le pagine di diario che ho inviato periodicamente ai miei amici in Italia».

Qui a Diarna mi accoglie una comunità composta da due giovani missionari, padre Matteo Pettinari e padre Raphael Ndirangu Njoroge. Sono già stata qui due anni fa con altre quattro persone con le quali avevo frequentato per due anni gli atelier missionari, incontri organizzati dalla nostra diocesi e tenuti all’inizio da padre Matteo e poi da padre Ariel Tosoni. Quando a Natale del secondo anno ci avevano chiesto se qualcuno avesse voluto fare esperienza diretta di missione, avevo perso da pochi mesi mio marito Giuliano (15 agosto 2015), che aveva frequentato con me il corso, e avevo già presentato la domanda per la mia pensione.
A me era sembrata subito una strada tracciata dall’Alto e perciò avevo detto: io vado!

È stata un’esperienza intensa ed emozionante che mi ha fatto sentire di nuovo viva. Colori, suoni, profumi, volti e sorrisi che mi hanno letteralmente conquistata. Purtroppo, però, il tempo è volato ed il mese è sembrato troppo breve.

Al rientro a casa, ho continuato a mantenere contatti telefonici e scritti con la missione, mentre in parrocchia mi sono dedicata all’animazione missionaria con il fermo desiderio di tornare a Dianra per conoscere meglio persone e luoghi.

Il 15 giugno sono di nuovo arrivata ad Abidjan. Il giorno dopo sono partita la mattina presto mentre era ancora notte perché c’erano da percorrere tanti chilometri. Yamoussoukro, Bouaké, poi la missione di Marandallah e, finalmente, la gioia di essere di nuovo a Dianra.

La stessa sensazione di due anni fa: sono a casa mia! Il tempo non ha scalfito la memoria, le cose sono al loro posto come le ricordavo, i luoghi belli e rigogliosi di verde, le persone gioiose, calde affettuose ed accoglienti.

I missionari a Dianra, a parte padre Matteo con cui avevo viaggiato, sono diversi: c’è padre Ramon (il superiore della delegazione dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, che ho già conosciuto nel 2016 e normalmente risiede a San Pedro, ma presente per un paio di settimane come aiuto extra) e padre William Wema, il primo tanzaniano che conosco ai suoi primi mesi di servizio missionario essendo sacerdote solo dal 2017. Lui è qui in attesa di stabilirsi a Marandallah, quando tornerà padre Raphael che è in famiglia per le sue vacanze.

La grande assenza è quella di padre Manolo Grau che purtroppo è malato e si trova in Spagna. La sua presenza, però, si avverte in ogni angolo della missione e in ogni parrocchiano che, con affetto, chiede sue notizie. Comunque siamo vicini con la preghiera che ci sostiene e ci unisce come un filo invisibile ma molto forte.

30 giugno 2018

Carissimi e carissime tutti, dopo ore di volo, km di jeep su strada e su pista di terra rossa, sotto un diluvio d’acqua, tuoni e fulmini (ma qui erano felici perché l’acqua mancava da novembre ed io che l’ho portata sono una benedizione!), sono finalmente arrivata e ritornata a Dianra, nel Nord della Costa d’Avorio, nella missione affidata alla Consolata, dove vive il nostro padre Matteo Pettinari.

Con gioia ho rivisto persone e luoghi a me molto cari che mi sono entrati nel cuore fin dal primo giorno dell’agosto del 2016. L’affetto ricevuto ed il sorriso dei bimbi hanno subito cancellato la fatica del viaggio. Adesso mi sto inserendo nelle varie, quotidiane attività della missione con il mio francese scolastico che migliora lentamente e con la certezza di vedere ogni giorno, nella vita e nell’opera dei missionari, la costante tenerezza di Dio verso i nostri fratelli africani. Sento il vostro sostegno e so di essere qui anche a nome vostro. Continuate ad accompagnare i miei passi con la vostra preghiera.

14 luglio

L’ultimo periodo di questo mio primo mese a Dianra l’ho trascorso al centro sanitario che è una piccola splendida realtà nel buio della sanità locale, espressione pratica della tenerezza di Dio. Dal niente, con l’aiuto di tante persone, anche di Chiaravalle e della nostra diocesi, è stata costruita una struttura sanitaria che comprende l’ambulatorio di primo soccorso, la farmacia, la maternità, l’ambulatorio odontoiatrico ed il laboratorio analisi. Purtroppo, quest’ultimo ha dovuto smettere di funzionare poco dopo la sua inaugurazione a causa della scarsa corrente elettrica erogata.

In queste ultime ore, con l’acquisto di uno stabilizzatore (acquisto reso possibile grazie a una donazione dall’Italia) potrà funzionare senza interruzioni a partire dalla settimana prossima. Sempre grazie a quella donazione, il centro ha potuto dotarsi da ieri di un ecografo che, possibilmente, inizierà ad essere a disposizione della popolazione entro breve.

Quanto a me, sono arrivata qui forte della mia quarantennale attività lavorativa come infermiera e pronta a spenderla, ma la realtà che mi circonda e con cui mi incontro ogni giorno è così lontana per mezzi, usi e costumi, necessità e lingue che, per ora, posso fare ben poco.

E quando arrivano soprattutto i bimbi con 40 di febbre per la malaria (qui endemica), con le convulsioni, malnutriti, anemici ed intorno non hai abbondanza di medicinali, di apparecchiature sanitarie, di medici (la nostra è l’unica per una popolazione di 45mila abitanti e non sempre è sul posto perché deve andare nella capitale), di strutture idonee perché l’ospedale più vicino è a non meno di 140 km di pista (circa tre ore di strada), mi sento impotente. Ammiro gli infermieri che lavorano in prima linea e con quasi niente, ma la mia impotenza di fronte ai problemi di questi pazienti mi pesa.

Ciononostante, condividendo, donando affetto, tempo e un po’ della mia professionalità riacquisto serenità e la voglia di vivere questa splendida esperienza di vita.

28 luglio

Cari amici, le giornate qui a Dianra scorrono veloci, piene di incontri, di visi sorridenti di bimbi, di preghiera, di chilometri e di lavori. Si inizia la mattina alle 6,15 con le lodi, la messa, la colazione e poi tutto il resto: le visite in moto a malati o famiglie in difficoltà, le riunioni per preparare il programma della attività, il riordino della sacrestia, l’acquisto ed il trasporto dei medicinali per l’ospedale, gli incontri serali con le comunità di base, etc.

Sabato sono andata con padre Matteo nel villaggio di Nahangamakaha (a circa 40 km da Dianra) per partecipare all’incontro dei giovani di varie zone. Dopo la cena tutti i giovani e i cristiani ci siamo riuniti attorno al fuoco, unica luce che illuminava la notte, per la recita del rosario. Poi i giovani hanno vegliato, danzando e cantando tutta la notte. La mattina seguente, prima della messa, abbiamo fatto una visita di cortesia al capo villaggio, all’imam e al responsabile della chiesa battista. Quest’ultimo ha poi partecipato per intero alla nostra celebrazione eucaristica. Nel pomeriggio iniziamo il viaggio verso Abidjan (1.200 km circa tra andata e ritorno, di cui 250 di pista di terra rossa resa impossibile dalle piogge) per andare ad accogliere padre Raphael, che torna dal suo paese, il Kenya, e Riccardo Lenci, seminarista di Corinaldo. Adesso Matteo, Riccardo e io siamo una piccola comunità della Chiesa di Senigallia in trasferta nel cuore dell’Africa.

5 agosto

Carissimi, sicuramente questi giorni dei miei primi due mesi a Dianra sono i più belli perché strapieni di avvenimenti, feste, conoscenze, viaggi, imprevisti, lavori anche artistici da me mai svolti prima d’ora.

L’imprevisto accolto è il filo conduttore della vita qui in missione. Qui niente è semplice. Tutto si complica: compri un apparecchio medicale per l’ospedale, fai tanta strada per andare a prenderlo, lo metti in uso, non funziona, chiami il tecnico che è a un giorno di distanza, quando tutto è pronto non c’è più corrente e così via. Dopo un po’ non ti stupisci più e accogli l’imprevisto, capisci che qui la vita scorre con un altro ritmo e l’accetti, e sorridi, come fanno i missionari della Consolata, che sono molto pazienti.

Il 4 agosto abbiamo partecipato all’inaugurazione dell’ultima di cinque casette della salute (progetto finanziato, tra altri benefattori, dai lettori della rivista Missioni Consolata) nel villaggio di Bebedougou.

La casetta è un ambulatorio nel quale, periodicamente, una equipe sanitaria dell’ospedale della Consolata (un infermiere, un’ostetrica, un’ausiliaria) si reca in moto o con motocarro per fare vaccinazioni, visite, promozione sanitaria alle mamme e ai loro figli, perché – come sempre – motore del cambiamento sono le donne.

Poi, il 7 agosto, siamo andati a Farabà per la festa dell’Indipendenza e Riccardo e io, seduti tra le autorità, eravamo un’importante delegazione. Il massimo, però, è stato il viaggio che abbiamo fatto con padre Alexander Likono (da Marandallah) e padre Matteo, per andare nella missione di San Pedro, nel Sud Ovest della Costa d’Avorio. Quindici ore consecutive di jeep con una foratura e problemi meccanici che ci hanno bloccato di notte lungo la strada. La nostra benedizione è stato un camionista si è fermato per soccorrerci, nonostante la notte. Da un vicino villaggio è arrivato un gruppo di giovani. Io subito sono rimasta perplessa, ma poi quasi mi sono commossa. Non solo, senza conoscerci, sono venuti per aiutarci (hanno spostato a mano la jeep), ma sono andati al villaggio per prendermi una sedia e una pila per far luce.

Viaggiavamo per partecipare alla festa per il 25° anno di sacerdozio di padre André Nekpala, un congolese parroco nella missione di Grand-Zattry: altri 400 km. Una fatica ben ripagata perché la celebrazione è stata molto intensa, emozionante, con tante persone e anche perché abbiamo conosciuto il mitico padre Silvio Gullino, decano dei padri qui in Costa d’Avorio. È un piemontese, da 50 anni in missione, adesso è anziano ma i suoi occhi brillano e il suo volto si riempie di gioia quando racconta le sue avventure in Congo o in Costa d’Avorio. Conoscerlo, ascoltarlo, avvertire ancora in lui tanto amore e tanta energia da spendere per il prossimo è sicuramente tra le emozioni più importanti e belle che sto vivendo.

22 settembre

Dopo il tempo bello dei viaggi è arrivato quello del duro lavoro. Infatti, l’ultima parte del soggiorno di Riccardo – il seminarista di Corinaldo che ha condiviso con me queste settimane – lo abbiamo dedicato ai lavori nella nuova chiesa in costruzione a Dianra Village. Questi lavori, che procedono a seconda delle disponibilità economiche e della manodopera, avevano come obiettivi la decorazione dell’altare principale e della cappellina feriale, la creazione ex novo dell’angolo mariano e la conclusione di alcuni mosaici del pavimento, particolarmente quello che percorre tutto l’asse centrale della chiesa, dal battistero all’altare.

Padre Matteo e Riccardo hanno dato fondo a tutta la loro creatività, trovando ottime soluzioni anche con i pochi mezzi e il poco tempo a disposizione. Non dimentichiamo che la missione sollecita a ogni momento, e con numerosi imprevisti, la quotidianità e bisogna ritagliarsi il tempo per questi lavori spesso rubandolo a tante altre necessità.

Con i padri Kizito e Makori – due missionari della Consolata qui di passaggio per un breve periodo a rifrescare il loro francese in vista di aprire una nuova missione in Madagascar – abbiamo messo a disposizione per i vari lavori le nostre mani e tutto il nostro tempo. Tra le attività, abbiamo pitturato una ad una le tante tessere del mosaico che, in alcuni casi, abbiamo anche assemblato: un lavoro certosino, di grande pazienza e di grande soddisfazione. È davvero un peccato che non possiate vedere di persona i risultati, ma vi assicuro che il tutto è molto bello. I mosaici e i lavori all’interno della nuova chiesa sono stati accompagnati dall’architetto Daniela Giuliani, della nostra stessa diocesi di Senigallia, e si ispirano liberamente all’arte spirituale dell’atelier del padre gesuita Rupnik.

L’angolo mariano è come una vela disegnata sulla parete. O meglio, vuol significare una tenda, rimandando simbolicamente al mistero dell’incarnazione per il quale Maria è colei che ha permesso a Dio di piantare la sua tenda nell’accampamento dell’umanità in cammino. La scritta Magnificat e tre colonnine di diversa altezza – il tutto fatto a mosaico con pezzi di mattonelle rotte e di vari colori – fanno parte di quest’angolino semplice e raccolto. Anche se principianti, devo riconoscere che abbiamo fatto un ottimo lavoro di squadra che potrà essere sorgente di preghiera e contemplazione per questo popolo e ciò mi rende felice.

Soprattutto vorrei condividere con voi il piacere e la gioia di aver coinvolto nelle attività tanti bambini che, prima guardavano da lontano curiosi e incerti, poi si avvicinavano e, infine, a forza di sorrisi e di gesti (non dimenticate che loro parlano senufo e io italiano), finivano per iniziare anche loro a pitturare e incollare, con le loro manine e pieni di entusiasmo, le varie tessere e mattonelle. Oserei dire che abbiamo dato vita a veri e propri laboratori per artisti alle prime armi, stupende occasioni di avvicinamento tra mondi lontani. Come tutte le cose belle, però, anche questi lavori sono terminati.

Riccardo è dovuto rientrare a Senigallia portandosi sicuramente via, nel cuore, le tante emozioni vissute. Quanto a me posso continuare a godere un po’dell’accoglienza serena e affettuosa di questa terra che è entrata nel mio cuore e vi resterà per sempre.

1° ottobre

Oggi sono passati 3 mesi dal mio arrivo. Non mi sembra vero che siano passati già tanti giorni. Sicuramente un tempo di grazia ricco di persone nuove, di sorrisi e abbracci di bimbi, di vita in fraternità con i padri, di preghiera e di conoscenza e approfondimento del mio io. Un tempo ricco anche di qualche giornata di buio e di sofferenza. Riconosco ora che, forse, proprio questi giorni sono quelli in cui sono cresciuta di più. Mi rendo conto che insieme a tutto questo nuovo che vivo e vedo, ho fatto un viaggio in me stessa. Mi sono posta tante domande: «Riuscirò, Signore, a capire qual è la mia strada? Cosa posso fare? Dove e come?». Fino alla domanda vera che fa male: «Sopravvivo o riesco a vivere senza mio marito?».

Ho riempito le mie giornate di cose da fare fino a sfinirmi proprio per rinchiudere questi interrogativi, questo dolore immenso che mi toglie il respiro.

Non lo pensavo possibile, ma è proprio qui, in questa missione sperduta, nella brousse (savana, ndr) che pensi dimenticata da Dio e dagli uomini, che ti rendi conto di quanto superfluo ti circonda, di quanto poco ti serve effettivamente per vivere felice. E allora grazie a un abbraccio stretto stretto di un bimbo che sente il tuo affetto, al calore e all’accoglienza di una comunità che apprezza il solo tuo esserci, alla gioia di una preghiera intensa e costante, giorno dopo giorno il vuoto del cuore torna, in parte, a riemergere e a riempirsi.
E comprendi quello che era sotto i tuoi occhi ma non vedevi: la vita continua, la vita deve continuare. Le lacrime possono allora trasformarsi in un altro amore, quello semplice del donarsi agli altri vedendo in tanti sconosciuti dei fratelli da accogliere e che ti restituiscono molto più di quel poco che offri.

Il mio soggiorno continua ancora per qualche settimana… ma sicuramente, già fin d’ora, ho tanti motivi per cui ringraziare il Signore, la Consolata e tutti i missionari che mi sono vicini.

21 ottobre

Buona domenica e buona giornata missionaria mondiale. Ringrazio Dio che mi fa vivere questo giorno a Dianra con la presentazione dei nuovi catecumeni e dei catechisti. Certo la parola missione qui acquista un significato più intenso ma missione è ogni gesto della nostra vita ovunque la viviamo. La mia gioia è ancora più grande pensando che tanti anni fa in questa giornata Giuliano ed io abbiamo celebrato il nostro matrimonio.

19 novembre 2018

Il mio permesso di soggiorno sta per scadere. Ancora pochi giorni e dovrò rientrare in Italia.

È difficile spiegare come questa terra, queste persone e questa missione mi siano entrati nel cuore, ma qui da subito mi sono sentita a casa e i giorni trascorsi non hanno un inizio e una fine ma solo il presente.

Il presente di una vita missionaria fatta di semplicità, di nessun grande progetto e di condivisione della vita quotidiana con la fatica del lavoro, degli spostamenti difficili per le piste impraticabili, con la gioia delle nascite e la sofferenza delle perdite.

In realtà domenica con padre Matteo siamo andati in moto, un’ora di pista tremenda perché la jeep ci aveva lasciati a piedi, a Sononzo per celebrare la messa, e ho salutato la comunità che per prima a giugno mi aveva dato il benvenuto, quella di Fotamana.

Oggi padre Raphael è partito per un corso di formazione a Sago nel Sud della Costa d’Avorio e così la fraternità che mi ha accolta, accettata e accompagnata con affetto in questi mesi, si è sciolta.

Quanti bei momenti: la recita delle lodi sul fare del giorno ancora assonnati, e la messa. Il profumo del caffè le chiacchiere della colazione. Poi gli impegni della giornata scanditi dal ritmo della preghiera. I fine settimana, dal sabato fino alla domenica pomeriggio, nei villaggi per celebrare i sacramenti, conoscere i bimbi nuovi, visitare i malati e condividere, alla luce delle pile, cibo e alloggio.

Infine, il piacere di ritrovarsi la domenica sera stanchissimi attorno alla tavola, ma con la voglia del racconto della condivisione. Padre Raphael e padre Matteo, i due giovani missionari (hanno l’età dei miei figli) di Dianra, sono veramente splendidi nonostante tutto il loro lavoro hanno detto sì al mio desiderio di fare un’esperienza lunga di missione. Fatto nuovo per loro e per me, ma passati i primi momenti di adattamento e conoscenza, giorno dopo giorno, si è creato un piacevole clima familiare, direi di madre e figli, fatto di tante piccole attenzioni gli uni per gli altri.

E ora siamo arrivati al momento difficile della partenza, ogni partenza è uno strappo, una ferita, un taglio netto. Io spero di lasciare qui il frutto del mio cammino personale, le tante piccole e grandi cose che pesavano sulle mie spalle e di partire con le valigie e il cuore pieni di quel l’amore di Cristo che ho ricevuto indietro centuplicato, in confronto a quello che io ho donato, da tutti: dai padri missionari, dalle mamme, dai papà e soprattutto dai tanti bimbi che felici ti sorridono e ti abbracciano forte.

In questo abbraccio c’è tutto il valore del mio tempo in missione: accogliere e donare amore riflesso dell’amore di Dio. La missione va vissuta ovunque viviamo, nella famiglia, nel lavoro, ma forse a volte per rendersene conto dobbiamo lasciare per un po’ le nostre comodità e le nostre certezze e tornare a guardare il tutto con occhi più semplici.

Carla Paccoia

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Foto: La nuova chiesa di Dianra

Foto della nuova chiesa pronta per l’inaugurazione.  A presto una descrizione più dettagliata della stessa e dei suoi simboli.

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I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TgTVdj1WXKQ?feature=oembed&w=500&h=281]

Versione italiana dello stesso documentario.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SpTCSEzDuk4?feature=oembed&w=500&h=281]

«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




Due missionari nominati cavalieri della Stella d’Italia


2 giugno 2018, festa dell’Italia a Nairobi

Grazie ai missionari e ai volontari italiani

Il 2 giugno scorso nella residenza dell’ambasciatore d’Italia a Nairobi, durante la celebrazione per la festa della Repubblica, l’ambasciatore, Mauro Massori, ha voluto ringraziare i missionari e i volontari italiani e ha insignito del titolo di Cavaliere della Stella d’Italia due missionari della Consolata, padre Gerardo Martinelli e suor Michelina Borra. Riportiamo le sue parole in una nostra traduzione.

“Tante grazie alle suore e ai preti italiani che senza stancarsi operano in Kenya seguendo (l’esempio) dei pionieri che arrivarono alla fine del 19° secolo; le vostre iniziative di sviluppo sono una vera testimonianza di quello che la frase impegno per l’umanità significa. Voi siete stati, e lo siete ancora, i migliori testimoni della presenza italiana in Kenya. Attraverso il vostro lavoro e la vostra missione, create davvero il terreno per l’amicizia tra i nostri popoli.

Tante grazie alle Ong italiane: la nostra voce, insieme a quella delle suore e preti italiani, negli angoli più dimenticati e poveri di questo paese. Grazie alla vostra dedizione, l’italia può giocare un ruolo importante che testimonia, anche più dell’impegno (più propriamente) politico, l’amicizia tra le nostre due nazioni. Grazie per la speranza e i sorrisi che voi continuate a mettere sulle facce che incontrate ogni giorno nel vostro lavoro. Forse non lo sapete, ma durante il mio servizio qui in Kenya, ho attinto proprio dal vostro lavoro l’ispirazione per andare avanti anche quando le cose sembravano difficili. Vi voglio dare solo alcuni esempi: le parole degli studenti della scuola Piccolo principe in Kibera (slum di Nairobi, ndr), fondata dall’AVSI, che hanno condiviso con me i loro sogni mentre rappresentavano Pinocchio; i sorrisi degli orfani e dei bambini vulnerabili ospiti in Nanyuki della Ong OSVIC, che grazie a Maria Grazia e al suo team ricevono amore e la possibilità di una vita dignitosa; e l’instancabile attività del dottor Morino nel Nehema Hospital (a Nairobi). Questo sono le cose che mi hanno dato il coraggio e la forza di andare avanti, affrontando le mie attività quotidiane con l’apertura e la gratitudine acquisite solo attraverso tali esperienze.

I Keniani probabilmente non ricorderanno mai quello che io ho detto o fatto negli ultimi quattro anni, ma non possono dimenticare quello che voi avete fatto e continuate a fare qui per loro e con loro”.

Cavalieri della Stella d’Italia

“Ho il piacere adesso di chiamare su questo podio suor Michelina Borra e padre Gerardo Martinelli (missionari della Consolata, ndr). Michelina e Gerardo, è per me un grande onore insignirvi del titolo di Cavaliere della Stella d’Italia per il vostro impegno senza fine qui in Kenya nell’assistere con amore, passione e compassione le persone più vulnerabili. Attraverso le vostre attività voi date un importante contributo a rafforzare i legami di amicizia tra il popolo del Kenya e quello dell’Italia.

Con questa onorificenza data dal presidente italiano Sergio Mattarella su richiesta dell’Ambasciata d’Italia a Nairobi, vogliamo celebrare non semplicemente due singole persone, ma anche l’incalcolabile ruolo giocato da tutti i padri e le suore dell’ordine della Consolata. L’ordine, stabilitosi in Kenya fin dal 1902, ha avuto un ruolo essenziale per lo sviluppo umano e spirituale del popolo di questa regione (permettetemi di ricordare qui la beatificazione nel 2015 di suor Irene che ha speso la sua vita in Kenya all’alba del secolo scorso, e la beatificazione, appena pochi giorni fa [26 maggio] a Piacenza, di suor Leonella Sgorbati, che, dopo aver speso più di trent’anni in Kenya, è stata uccisa nel 2006 a Mogadiscio da un estremista islamico).

Congratulazioni. Grazie. Viva la Consolata. Viva l’Italia. Ogni bene a voi e alle vostre famiglie”.

Massori Mauro
ambasciatore d’Italia in Kenya


Italian Day in Nairobi

Thanks to the Italian missionaries and Volunteers

“Many thanks to the Italian nuns and priests who effortlessly operate in Kenya following the pioneers who came at the end of the 19th century; your development initiatives are a true testament of what the sentence “commitment to humanity” means. You were, and still are, the best witnesses of the presence of Italy in Kenya. Through your work and mission, you do create the ground for the friendship between our peoples.

Many thanks to the Italian NGOs: our voices, jointly with that of the Italian nuns and priests, in the forgotten and poorest corners of this Country.  Thanks to your dedication, Italy can play a critical role which witnesses, even more than the political sphere, the friendship between our countries. Thank you for the hope and smiles you continue to put on the faces you encounter every day in your work. You might not be aware of this, but in the course of my service here in Kenya, I have drawn my inspiration to carry on, even when things seemed difficult, from your work. Just to give you a few examples, they have been the worlds of the students of Little Prince School in Kibera, founded by the Italian NGO AVSI, who have shared with me their dreams as they acted in the play “Pinocchio”, the smiles of the orphans and vulnerable children hosted in Nanyuki by the NGO OSVIC, who thanks to Maria Grazia and her team, receive love and a chance to live a life of dignity, and the tireless activity of Dr. Morino in Nehema Hospital, that have given me the courage and strength to go on, to face my daily activities with openness and gratefulness acquired only through such experiences.

Kenyans may never remember what I said and what I have done in the past four and a half years, but they cannot forget what you have done and continue to do here for them and with them.

New knights of the “Star of Italy”

It is my pleasure, now, to call to the podium Sister Michelina Borra and Father Gerardo Martinelli. Michelina and Gerardo, it is for me a really great honor to present you with the award of the Knight of the Star of Italy for your endless commitment here in Kenya to assist with love, passion and compassion, the more vulnerable people.  Through your activities, you give an important contribution also to the strengthening of excellent and friendly relations between the people of Kenya and the people of Italy.

With these awards, granted by the Italian President, Sergio Mattarella, on the proposal of the Italian Embassy in Nairobi, we intend to celebrate

not only the two single people but also the invaluable role played by all the sisters and fathers of the order of La Consolata. The order, established in Kenya in 1902, since then has played an essential role for the spiritual and human development of the people of this region (allow me just to recall the beatification in 2015 of Sister Irene who spent her life here in Kenya at the dawn of the last century and the beatification, just a few days ago in Piacenza, of Sister Leonella Sgarbati who, after spending more than thirty years in Kenya, was killed in 2006 in Mogadishu by Islamic extremists).

Congratulation!

Thank you. Viva la Consolata. Viva l’ Italia. All the best for you and your families.

Massori Mauro
Italian ambassador in Kenya

Padre Gerardo Martinelli Insignito il 2 giugno 2018 a Nairobi del titolo di Cavaliere della Stella d’Italia




Cooperazione: Da volontari a manager del bene

Testi di Antonio Benci |


Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?

In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».

Haiti (© Marco Bello)

Manager del bene?

È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.

In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.

L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.

In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?

Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.

(© Marco Bello)

Contro l’ingiustizia

Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».

Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.

(© Tommaso Degli angeli)

Un momento propizio

Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.

In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.

(Isiro – © Tommaso Degli Angeli)

Sviluppo come Pace

Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.

Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.

Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.

Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.

( © Marco Bello)

La prima legge

Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.

Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.

Niger (© Marco Bello)

Origine delle Ong

La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.

Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.

Chi forma i volontari?

In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».

Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.

Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.

Antonio Benci

(© Marco Bello)


I media e lo scandalo Oxfam

Tutti giù per terra

Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.

Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.

In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.

Marco Bello 




Vincitori del XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017


Il volontariato si tinge di rosa: tre donne e due Continenti, Europa e Africa, per il XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017.

Il volontariato per la XXIV edizione del Premio Volontariato Internazionale FOCSIV 2017 si tinge di colore rosa, assegnando il Premio Volontario Internazionale, quello per il Giovane Volontario Europeo e il Volontario del Sud a tre donne, legate tutte quante a due Continenti, l’Europa e l’Africa.

Pochi giorni prima del 5 dicembre, Giornata Mondiale del Volontariato, FOCSIV – Volontari nel mondo ha consegnato, nell’Aula Magna della John Cabot University a Roma,

  • a Anna Dedola, project manager COPE Iringa – Tanzania, il Premio Volontario Internazionale,

Tanzania, 10-11-2017. Villaggio di Nyololo. Anna Dedola, cooperatrice del COPE, vincitrice del Premio del Volontario Internazionale FOCSIV. Il centro per bambini Sisi Ni Kesho, gestito da Anna.

  • a Khadija Tirha, volontaria in Servizio Civile per LVIA Italia in Piemonte, il Premio Giovane Volontario Europeo

  • a Alganesc Fessaha, Presidente di Gandhi Charity candidata dal Centro Missionario di Trento, il Premio Volontario del Sud.

Tre donne, con radici culturali diverse alle spalle, che pongono al centro del proprio impegno quotidiano la persona, come portatore di necessità, cultura, speranza, diritti e la costruzione di ponti per il dialogo tra i popoli  e per un futuro di pace. Tre interventi in Tanzania, in Italia ed in alcuni paesi africani per la dignità, per i diritti umani, per lo sviluppo umano come sistema di crescita per le comunità ed i Paesi.

La cura e il diritto, fin dall’infanzia, a ricevere affetto ed un futuro sostenibile è il fulcro dell’impegno di Anna Dedola ad Iringa, in una delle regioni più povere e colpite dalla piaga dell’HIV di tutta la Tanzania, per i bambini orfani del Centro Sisi Ni Kesho dove sono accolti, nei primi anni della loro vita, e per i quali si garantisce una vita  il più possibile sana e la possibilità di ricongiungersi con le famiglie di origine o di andare in adozione. L’integrazione e l’inclusione come mezzi per costruire ponti tra le persone, questa la certezza che sostiene Khadija Tirha, cittadina attiva impegnata in Italia a realizzare una società coesa capace del rispetto reciproco e di una pacifica convivenza sociale tra culture e confessioni diverse. La dignità degli uomini, il loro diritto a una vita degna, la liberazione di uomini e donne, colpevoli solo di aver voluto cercare un futuro in altri luoghi lontani da quelli di origine, è la scelta di vita compiuta da Alganesc Fessaha da anni impegnata nel sostenere i profughi ed i rifugiati salvandoli da un destino che li condurrebbe alla morte e nel far conoscere il dramma vissuto da queste migliaia di persone in fuga.

A questi riconoscimenti si affiancano, come nelle scorse edizioni, le Menzioni speciali consegnate nelle mani del Sindaco di Catania, Enzo Bianco, come riconoscimento per il grande valore della solidarietà dimostrata dalla cittadinanza catanese verso i tanti migranti arrivati nel loro porto dal mare. A John Mpaliza, camminatore di pace, impegnato nel ricordare il dramma vissuto dalla povera popolazione della sua ricca terra di origine: la Repubblica Democratica del Congo ed al Venerabile Alessandro Nottegar, fondatore della Comunità Regina  Pacis a Verona, ritirata dalla figlia Chiara.

Al XXIV Premio Volontariato Internazionale FOCSIV 2017 è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica, è sotto l’alto Patrocinio del Parlamento Europeo ed ha ricevuto il Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, del Ministero del Lavoro e della Politiche Sociali, dell’Agenzia Nazionale per i Giovani e della Responsabilità Sociale RAI.

 “La vittoria di tre donne al Premio del Volontariato Internazionale sottolinea, ai miei occhi e a tanti di noi che da anni sono impegnati nel volontariato in Italia ed all’estero, come questo, nella maggioranza dei casi, sia un impegno, quando vissuto soprattutto in prima persona, al femminile. Tre età della vita, terre di origine lontane tra loro, culture diverse, ma un unico comun denominatore come scelta personale di un’intera esistenza: il garantire e tutelare il diritto alla dignità di esseri umani per tutti. – ha dichiarato Gianfranco Cattai, presidenteFOCSIV – È questo il valore profondo del volontariato che si adopera per l’altro, che si impegna nella crescita dei paesi di origine, che crede nei diritti umani, applicandoli ogni giorno in ciò che realizza. Sono i volontari le risorse preziose per la crescita culturale e sociale dei propri paesi, ma, soprattutto, sono portatori di un patrimonio di esperienze, valori e competenze capaci di generare un processo propositivo di inclusione ed integrazione nelle proprie comunità per il bene comune.”

Partner del Premio del Volontariato Internazionale 2017 sono: Fondazione Missio, Forum Nazionale Terzo Settore, CEI 8×1000 e Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo e John Cabot University. Media partner: Avvenire, Famiglia Cristiana, TV2000, Radio Vaticana, Redattore Sociale e Rete Sicomoro.

L’edizione di quest’anno, può sempre contare sulla presenza degli “Amici del Premio” che danno spazio ed eco all’iniziativa: Mondo e Missione, Missioni Consolata, Unimondo, Repubblica Mondo Solidale, Volontari per lo Sviluppo, Festival Ottobre Africano, Associazione Joint e On The Road TV.

Sponsor tecnico Raptim Humanitarian travel e con il contributo di UBI Banca. www.premiodelvolontariato.it #ViPremio2017

Ufficio Stampa FOCSIV – Volontari nel mondo

Giulia Pigliucci 335 6157253 ufficio.stampa@focsiv.it Valentina Citati comunicazione social 3495301102 Tel. 06 6877867 comunicazione@focsiv.it




Nawal Soufi: È il cuore che mi paga


Nawal Soufi, giovane donna siciliana, dal 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalle acque del mare Mediterraneo. I migranti che hanno il suo numero la chiamano quando sono in pericolo. E lei comunica le coordinate dell’imbarcazione alla Guardia costiera.

Nawal in arabo significa «dono». È il nome di una giovane donna italiana, nata in Marocco nel 1987, arrivata in Sicilia quando aveva un mese. Lei si definisce «attivista per i diritti umani». Molti la chiamano «lady sos». Dall’estate del 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalla morte in mare ricevendo le loro richieste di aiuto sul suo telefonino. Non si sa quante ne abbia aiutate. Solo lei, forse, potrebbe farne il conto consultando i quaderni sui quali appunta i dettagli di ogni singola richiesta di aiuto.

Oggi gli sos arrivano anche dalla terra ferma: dai confini dell’Europa orientale, dagli hotspot (i centri di identificazione), come quello greco di Moria, Lesbo, dove sono trattenuti richiedenti asilo che la chiamano per denunciare abusi e violenze. Il 24 luglio scorso1 lei stessa, presente durante alcuni scontri nel campo, sembra sia stata trattenuta alcune ore dalle forze dell’ordine greche.

Lo scorso maggio Nawal Soufi ha ricevuto a Dubai, dalle mani dello sceicco e primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammad bin Rashid al Maktoum, il premio «Arab hope maker 2017», fautrice della speranza araba, scelta perché, secondo al Maktoum, «con la sua azione ha fatto la differenza per 200mila persone».

Nel libro che ne racconta la biografia, Nawal. L’angelo dei profughi, di Daniele Biella (Paoline 2015), si parla di 20mila persone salvate. Alla domanda «chi te lo fa fare», lei risponde: «È il cuore che mi paga»2.

Con il cellulare (e la tenacia)

L’azione di lady sos, studentessa di scienze politiche a Catania e, grazie alla sua conoscenza della lingua araba, interprete e mediatrice culturale presso il tribunale, è molto semplice: riceve sul suo cellulare richieste di aiuto da parte di persone in difficoltà o in pericolo di vita, e le gira a chi può fare qualcosa per aiutarle.

La prima chiamata l’ha ricevuta nell’estate 2013: un uomo urlava in arabo che si trovava con altre centinaia di persone in mezzo al mare su una barca che affondava. La giovane – racconta Biella nel suo libro -, presa alla sprovvista, ha chiamato la Guardia costiera. Quando dalla sede centrale di Roma le hanno chiesto le coordinate del punto in cui si trovava l’imbarcazione, lei si è fatta spiegare come trovarle: il telefono satellitare da cui l’uomo l’aveva chiamata era in grado di fornire le coordinate esatte. Una volta comunicate alla Guardia costiera, questa ha salvato i migranti.

Da allora, Nawal ha ricevuto centinaia di chiamate. «La cosa continua tutti i giorni – ci dice Biella -, giorno e notte. Negli anni sono cambiati i luoghi da cui le persone la chiamano: all’inizio dalla Libia, poi dalla Turchia-Grecia. E oggi, quando non sono sos dal mare, sono richieste di aiuto di altra natura, legate alla violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, o in Europa, negli hotspot».

Mentre scriviamo, Nawal è a Lesbo e non riusciamo a contattarla direttamente, ma Daniele Biella ne ha notizie quasi quotidianamente: «Nawal va avanti, mettendo in difficoltà prima di tutto la sua persona, perché lo fa come volontaria, ma a volte, a livello fisico e mentale, è sfiancata».

Il periodo in cui Nawal ha ricevuto più chiamate è stato l’estate del 2014: almeno una al giorno. «Un po’ per volta le cose sono cambiate. Ora non ci sono più così tanti siriani che scappano. Chi doveva partire è già partito».

Siriani in fuga

La gran parte delle chiamate che riceve sul suo cellulare sono di siriani in fuga dalla guerra. Il legame di Nawal con la Siria risale al 2011: «Lei da tempo era un’attivista per i diritti umani – ci spiega Biella -. Quando è scoppiata la guerra in Siria le ha fatto molta impressione perché, come dice lei, era a due ore di aereo dalla Sicilia. Ha iniziato a contattare, tramite i social media, attivisti siriani che le mandavano video e informazioni dalle manifestazioni che in principio erano pacifiche. E lei ha preso a fare da cassa di risonanza, sia per i media che per la gente di Catania. Di sera andava con un proiettore in piazza Bellini per dire ai passanti: “Guardate che succede”».

Da quell’esperienza è nata l’idea di una carovana di medicinali per la popolazione civile in Siria. Nel marzo del 2013 Nawal stessa ha attraversato il confine turco-siriano con i medicinali e ha vissuto per 17 giorni ad Aleppo, dove ha incontrato gli attivisti con cui era in contatto da tempo. Sul suo canale di Youtube «Nawal Syriahorra» si possono vedere alcuni video girati durante quei giorni. Prima di venire via dalla Siria ha lasciato agli amici il suo numero di telefono.

«Proprio in quel periodo le barche cominciavano a partire. Nawal non immaginava che il suo numero di cellulare sarebbe finito in mano a migliaia di persone tramite il passa parola», un passa parola che si è moltiplicato attraverso Facebook, tramite i profili di siriani che man mano venivano salvati dal mare grazie all’intervento di Nawal e che poi la conoscevano di persona a Catania: «Quando i Siriani sbarcavano – soprattutto in quegli anni 2013-2015, in cui non c’erano gli hotspot e le persone venivano lasciate libere dopo la prima notte in accoglienza di andare verso il Nord Europa -, passavano da Catania e lì conoscevano Nawal».

È in quelle circostanze che nasce il soprannome «angelo dei profughi»: la persona che prima salva i migranti dalla morte in mare, poi li accoglie e aiuta nel loro viaggio sulla terra ferma. Li aiuta, ad esempio, a non finire nelle mani di quelli che approfittano del loro spaesamento e gonfiano i prezzi dei biglietti del treno, o delle schede telefoniche. «Questi migranti che hanno ricevuto da Nawal abbracci, consigli, alimenti, pannolini…, quando sono arrivati in Germania, in Svezia, hanno scritto ai loro parenti e amici: “Guardate che questa ragazza è fantastica, ci ha aiutati”. E, tramite i social, è girata la voce».

Una voce amica

Ma perché i migranti in difficoltà preferiscono chiamare lei invece della Guardia costiera? «L’idea che si è fatta lei a quei tempi è che preferiscono usare un numero di una persona che parla arabo. La Guardia costiera non ha un servizio di operatore arabo 24 ore su 24. È vero che i profughi potrebbero comunicare in inglese, però in quelle situazioni, in stato di panico, al buio, in una barca che rischia di affondare, per chiedere aiuto, se c’è una persona che parla la tua lingua e che poi avvisa la Guardia costiera, è più facile. Credo che il suo numero sia un po’ ovunque. I migranti si mettono i numeri di telefono dappertutto, se lo cuciono sui vestiti, per paura di perderlo. Il passaggio è semplice: sanno che a quel numero risponde una persona che li può aiutare».

Favoreggiamento?

Biella, nel suo libro, a un certo punto racconta di una strana chiamata ricevuta da Nawal: un uomo le dice che riceverà una denuncia – poi mai arrivata – per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ai tempi erano ancora distanti le polemiche che dalla primavera del 2017 e nei mesi successivi avrebbero colpito le Ong, accusate in modo generalizzato di essere complici dei trafficanti di uomini. «La cosa triste, in questo periodo in cui si attacca “l’umanitario” – ci dice l’autore del libro -, è vedere che anche Nawal è finita nel tritacarne3. Con conseguenti insulti sui social network. Sono cose che rischiano di distoglierla da quello che fa. Nawal dice: “Devo perdere tempo ad argomentare queste cose, quando sto solo aiutando nell’emergenza le persone”».

Dalle frontiere

Dall’estate del 2013, il nome e il numero di telefono di Nawal sono diventati sempre più di dominio pubblico. Questo comporta, oltre al disagio di venire coinvolta in polemiche politiche e ideologiche, anche il fatto che sono sempre più varie le chiamate di emergenza che la raggiungono. Nonostante siano ancora soprattutto siriani a contattarla, ora ci sono persone anche di altre nazionalità, e richieste di soccorso di altro tipo. «Se non chiamano dal mare, chiamano da altre situazioni problematiche. Ad esempio dalle frontiere. “Siamo in questo centro e abbiamo subito abusi”, “Sono mesi che siamo fermi qui, cosa facciamo?”. Lei vede qual è la situazione e cerca canali per risolverla: contatta avvocati, volontari, ecc. Ad esempio, poco tempo fa ha ricevuto una chiamata dalla Malesia da un profugo siriano – non fuggono tutti in Europa, alcuni vanno in Brasile, in Cina… Uno scappa dalla guerra e cerca di andare dove sa che può -. Alla frontiera ti fermano perché il tuo passaporto è falso, però tu dovresti riuscire a chiedere asilo, perché questo è l’obiettivo del viaggio. Nawal cosa ha fatto? – ci racconta Biella -. Ha chiesto via Facebook se qualcuno conosceva un avvocato in Malesia che potesse aiutare il profugo. Queste sono le emergenze degli ultimi tempi. Sono legate a una seconda fase, meno drammatica rispetto a quella dei naufragi, ma comunque piuttosto forti. Senza scordare che comunque i naufragi continuano, sia in Libia che vicino alle isole greche».

Cortocircuito europeo

Prima di ricevere il premio Arab hope makers 2017, Nawal ha ricevuto un certo riconoscimento del suo operato da diverse istituzioni. Per prima è arrivata la menzione speciale del Premio volontario internazionale 2015 Focsiv (Federazione ong cristiane). È stata poi ricevuta, nel giugno 2016, a Rabat, dal re del Marocco Muhammad VI. Nel settembre 2016 ha ricevuto il premio dell’Ue come cittadina europea dell’anno: «Bello il riconoscimento da parte dell’Ue – dice Biella -. Nel marzo precedente aveva anche fatto un discorso al Parlamento europeo4, però, nel concreto, le cose continuano a non cambiare».

Uno dei cavalli di battaglia di Nawal, portato anche nel suo breve e intenso discorso al Parlamento europeo è la richiesta di creazione di corridoi umanitari: «Quelli che ci sono già riguardano un migliaio di persone in tutto. In essi sono coinvolti la comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese, la Cei. Riguardano persone che vengono selezionate nei campi profughi in Libano. Persone vulnerabili, con famiglia, ecc. Si verifica in loco l’identità, se ne verifica l’effettiva fuga e il rischio di vita nei loro paesi di origine, e si fanno venire in Europa con canali sicuri e legali, con un aereo. Tra le soluzioni possibili, si parla anche di visti umanitari. I corridoi umanitari su grande scala non si riescono a fare, perché l’Ue non li vuole proprio fare. Forse perché arriva troppa gente? Ma i visti umanitari, come è successo per le guerre balcaniche, si potrebbero concedere. La direttiva 55 del 2001 del Consiglio dell’Ue ne parla. Visti umanitari temporanei. Poi, quando la guerra finisce, le persone ritornano in patria: se chiedi a un siriano se vuole tornare a casa sua, il 100% ti dice di sì, ovviamente quando le condizioni lo permettono. Quando l’Unhcr ha fatto i campi in cui le persone venivano selezionate, questi sono diventati dei parcheggi, a causa della lentezza della burocrazia. A un certo punto arrivava il trafficante e sapeva che lì c’erano persone che attendevano di partire da mesi.

A me fa un po’ impressione l’idea che l’Europa stia esternalizzando le frontiere facendo accordi con paesi singoli per tenere le persone lì. Ma se lì non stanno bene, se i loro diritti non vengono riconosciuti, cercheranno sempre di andarsene. Dove c’è un blocco, il trafficante aumenta i suoi guadagni. Questo è il corto circuito cui stiamo assistendo in Europa».

Nawal con Daniele Biella durante la presentazione del libro.

Fede, motore di solidarietà

Nawal Soufi, di origine marocchina, è di fede musulmana. Nel libro di Daniele Biella se ne parla, con molta discrezione: «Lei parla di fede in modo generale, ecumenico. La fede per lei è il motore che la spinge ad aiutare chiunque abbia bisogno. Nella sua visione, le religioni spingono a essere sempre pronti per gli altri. Lei è musulmana, io sono cattolico, mi sono trovato a parlare davvero la stessa lingua in questo senso: l’aiuto disinteressato. Lei dice che chi usa la religione per motivi terroristici la snatura da quello che è, e va fermato. Si parla di criminali e non di fedeli».

Luca Lorusso

Note:

1- O. Spaggiari, Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi, vita.it, 21/7/2017; Flore Murard-Yovanovitch, Moria, il laboratorio della brutale intolleranza anti-migrante, huffingtonpost.it, 28/7/2017.

2- F. Tonacci, Parla Nawal Soufi, lady Sos “I profughi siriani mi chiamano dai cargo e io lancio l’allarme”, repubblica.it, 6/1/2015.

3-Durante la trasmissione “Piazza pulita” del 1 maggio 2017, su La7, è andato in onda un servizio sul traffico di uomini nel quale veniva fatto il nome di Nawal. Il giornalista, fingendosi un migrante, ha chiamato un uomo, identificato come trafficante, per chiedergli informazioni su un viaggio dalla Libia. Nella videochiamata l’uomo ha citato Nawal dicendo che gli scafisti avevano il suo numero. Nel servizio il giornalista ha poi chiamato Nawal che, semplicemente, ha risposto ai sospetti con il buon senso: esattamente come la Guardia costiera, quando riceve una chiamata, non può verificare chi la stia chiamando, se sia uno scafista o meno. Raccoglie la richiesta, le coordinate e le trasmette.

Nonostante l’evidente infondatezza delle accuse, alcuni giorni dopo, Il Giornale ha pubblicato un pezzo nel quale l’articolista insinua la colpevolezza di Nawal (G. De Lorenzo, Nawal Soufi, “Lady Sos” d’Italia. Il trafficante: “Gli scafisti chiamano lei”, 10/5/2017): «“Lady Sos” ovviamente nega di sapere che dall’altra parte della cornetta ci siano scafisti. “Il mio numero di telefono è pubblico”, dice. […]. “Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate”, ha provato a difendersi. E ci mancherebbe che il ladro dichiari di essere un bandito».

4- M. Luppi, Il discorso di Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina che scuote il cuore dell’Europa, africarneuropa.it, 4/3/2016.


Richieste di asilo politico: +49%

Grafico dal Quaderno statistico della commissione nazionale per il diritto di asilo

Alla data del 20 giugno 2017, giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) calcola che le persone morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno erano 1.990. Quelle che lo avevano attraversato «con successo» 82.897, di cui 71mila in Italia.
In occasione della stessa ricorrenza, la Fondazione Ismu ha pubblicato un rapporto sui richiedenti asilo. Nei primi cinque mesi del 2017, le richieste in Italia da parte di persone provenienti da diversi paesi nel mondo sono aumentate del 49% rispetto allo stesso periodo del 2016.
«Tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2017 in Italia sono state presentate quasi 60mila domande di asilo […]. Se si considera che nel 2016 il numero […] ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio (oltre 123mila), si può, per il 2017, prevedere un nuovo record […]».
Tra i 59.579 richiedenti, l’85% sono uomini (come nel 2016). I minorenni sono 6.700, di cui 3.530 non accompagnati, una quota molto maggiore rispetto allo stesso periodo del 2016 (+89%).
La Nigeria, come nel 2016, è il primo paese di origine tra chi cerca protezione in Italia (12.300 richiedenti, un quinto del totale). Il Bangladesh è il secondo con 5.500 richieste (cioè più del triplo rispetto ai primi cinque mesi del 2016).
Gli esiti delle domande esaminate tra gennaio e maggio 2017 sono negativi per il 58,6%. Aumentano però, rispetto al 2016, coloro che ottengono lo status di rifugiato (8,7%, 2.900 migranti), mentre continua la prevalenza delle concessioni di permessi a titolo di protezione umanitaria (7.900, il 24% del totale).
In Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, per numero di richiedenti asilo, sia nel 2016, sia nei primi quattro mesi del 2017 (dati Eurostat).

Luca Lorusso




Cari Missionari: di cattiveria, di preghiera, di Banca Etica e volontariato

XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017

Si riaprono le candidature per le tre categorie del Premio del Volontariato Internazionale 2017.
Entro il 25 agosto sarà possibile candidarsi per le tre diverse categorie del XXIV Premio del Volontariato Internazionale Focsiv 2017: Volontario Internazionale, Giovane Volontario Europeo e Volontario del Sud, un riconoscimento che, in questo caso, può anche premiare gli immigrati che si sono distinti per le attività di co-sviluppo nel proprio paese d’origine oppure persone impegnate nel volontariato nella propria terra.

I premi saranno consegnati il prossimo 2 dicembre, in prossimità della Giornata Mondiale del Volontariato indetta dalle Nazioni Unite per il 5 dicembre.

Il Premio ha ricevuto, al momento, il patrocinio dell’Agenzia nazionale giovani, mentre sono partner Fondazione Missio, Forum nazionale terzo settore, Cei 8×1000, Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo e John Cabot University, accanto ai media partner storici, Famiglia Cristiana, TV2000, Avvenire, Radio Vaticana, Redattore Sociale e Rete Sicomoro. Missioni Consolata, insieme ad altre testate missionarie, sostiene il premio.

Per candidarsi in una delle categorie si potrà scaricare il Regolamento dal sito ed inviare la domanda entro il 25 agosto, allegando brevi video di presentazione, realizzati con la propria organizzazione di appartenenza. Nella seconda fase del concorso questi video potranno essere votati online. Dal sito www.focsiv.it vai alla sezione dedicata al premio.

Ufficio stampa Focsiv

Troppa cattiveria o troppo poca?

Dopo il 33° scudetto bianconero (il sesto consecutivo e anche il sesto della sua gestione…) Andrea Agnelli ha citato la «cattiveria» come uno dei segreti delle vittorie juventine («Passione, umiltà e cattiveria… domani più che ieri», scrive nel suo tweet del 21 maggio 2017) e qualche giorno dopo, commentando la sconfitta nella finale di Champions League con il Real Madrid, ha dichiarato che l’1-4 rimediato contro i galacticos: «Servirà a darci la cattiveria giusta per un altr’anno. L’anno prossimo dovremo andare in campo ancora più cattivi di come abbiamo fatto finora. Questa finale ci deve dare ancora più cattiveria. Cosa ho detto ai giocatori a fine partita? Che dobbiamo ricominciare con la cattiveria di sempre» (citazioni copiate da giornali e pagine web diverse, ndr).

Non credo che questa ostinazione nell’uso della parola «cattiveria» faccia onore al club torinese. Di cattiveria nel mondo del calcio ce n’è anche troppa e anche le persone che vogliono sdoganare la cattiveria sono troppe. Il messaggio che «senza cattiveria non si vince» è pericoloso, sia nel calcio che negli altri sport e soprattutto fuori dello sport. Certi concetti possono essere espressi in modo molto meno ambiguo usando parole come determinazione, coraggio, spirito d’abnegazione, disponibilità al sacrificio, mortificazione personale e molte, molte altre. Distinti saluti.

Silvano Montenigri e Mario Pace
07/06/2017

Svuotare le parole del loro vero significato, far diventare virtù quello che è vizio, non è un’operazione nuova nel nostro mondo. È quanto sta avvenendo con altre virtù importanti. Basta pensare a come sono bistrattate castità, onestà e modestia, per citarne solo alcune, senza poi contare quanto sta succedendo a istituzioni come la famiglia e la politica. Non credo, nel caso citato, che chi ha usato quel linguaggio lo abbia fatto di proposito, probabilmente si è adeguato al gergo di quell’ambiente. Ma come i nostri lettori hanno fatto notare, con la «cattiveria» non si scherza. Grazie a Silvano e Mario per aver attirato la nostra attenzione sulla pericolosità e ambiguità di questo tipo di messaggi. La cattiveria è cattiveria, sempre. Anche se poca è sempre troppa.

Preghiera

Caro confratello don Paolo Farinella,
leggo volentieri le sue riflessioni bibliche su Missioni Consolata, si impara sempre qualcosa anche con quasi 50 anni di Messa. Sulla preghiera di Gesù di maggio 2017, mi permetto di fare qualche appunto. Gesù è vero Dio e vero uomo, e si può esagerare nella divinità ma anche nell’umanità. Il mistero rimane. È cresciuto in sapienza, età e grazia, ma ha avuto anche doni particolari. Così pure tanti santi e sante hanno avuto doni di guarigione, preveggenza, lettura dei cuori, conservando tutta la loro fragilità umana. Lo stesso vale per la nota magico teologica sul Dio tappabuchi. Anche qui il mistero rimane, il senso del creato con tanta violenza, sofferenza, morte. A chi mi dice «ho dei dubbi», rispondo, «cara signora, caro signore, tra trenta, cinquanta anni avrà tutte le risposte, oppure, quando avrà due metri di terra sopra la testa, non avrà più tentazioni e sarà nella pace». Buon lavoro in Domino.

Don Silvano,
Oropa, 19/06/2017

Caro Don Silvano,
le sue osservazioni meriterebbero un trattato che per altro esiste già e si chiama «Cristologia» che i preti studiano in almeno 5 anni di teologia. Penso che il rischio di «esagerare» ci sia sempre o sul versante dell’umanità o sul versante della divinità. Nei tempi passati queste questioni hanno suscitato anche guerre e violenze a non finire (III e IV sec.) e non mi fermo a citare nomi perché si farebbe notte. Per fortuna oggi guardiamo la realtà «teo-andrica» che il grande teologo cattolico von Balthasar definì magistralmente «Teo-drammatica» non perché va in scena in teatro, ma perché va in scena nella storia di ogni giorno. Tutto questo, comunque, riguarda le teologia in quanto tale, mentre il biblista si limita a studiare i testi biblici, che non sono «immediati», per offrirne, per quanto possibile, il senso più vicino all’autore. Non è un segreto che il mondo cattolico ha conoscenza molto superficiale di essi. L’obiettivo non è schierarsi, ma «intuire» prospettive e possibilità che, per grazia di Dio, possono allargare il nostro rapporto con il Signore. Una cosa è certa: noi non conosceremmo il Padre se non facessimo esperienza di Gesù-uomo (Gv 1,18) perché l’ambito della nostra esperienza si compie e finisce entro i confini dell’umanità. Tutto il resto è, come dice lei, «mistero», ma non nel senso banale di non conosciuto o nascosto, ma nel senso di Tertulliano (sec. II) che traduce il paolino greco «mistero» con il latino «sacramento», cioè segno visibile di qualcuno che è oltre l’ordinarietà della nostra immaginazione. A me pare bello, comunque, sapere che, anche sulla preghiera, Gesù sia Maestro ed esempio perché solo così possiamo scoppiare come Tommaso: «Mio Signore e mio Dio». Un caro saluto e un abbraccio fraterno.

Paolo Farinella, prete, vecchio ma ancora
 in cammino

Maradona

Nel numero di maggio 2017 mi è saltato all’occhio l’articolo di Minà, un giornalista di cui ho la massima stima e che ho sempre seguito apprezzandone spesso le scelte mai facili. Detto questo, mi farebbe piacere scrivere a lui di non farsi tradire dalla voglia di enfasi perché alcune parti dell’articolo su Maradona gridano un attimo alla scorrettezza. Che l’Argentina, ad esempio, abbia perso il mondiale 1990 per scelte «superiori» mi sembra innanzitutto scorretto nei confronti della Germania vincitrice, e poi dimentica che, prima contro il Brasile e poi contro l’Italia, i biancocelesti avevano superato il turno perché fortunati dagli episodi di gara. E contro l’Inghilterra, il gol di mano non mi sembra testimoniare un presunto odio arbitrale. Quindi ritengo scorretto asserire che l’Argentina meritasse più di altri.

In generale nell’articolo, in particolare definendolo cocciuto nella lotta contro Equitalia lo disegna come un eroe che non è, dando una forma di schiaffo a tutti coloro che contro la burocrazia fanno battaglie senza avere casse di risonanza e soldi per avvocati. E magari l’avvocato dotato di testardaggine, è anch’esso alla facile ricerca della carriera in ascesa a difendere il Mito per eccellenza.

Maradona è stato un grande, Minà è un grande, ma per favore: non disegniamo il Pibe come un eroe, proprio no. In un mondo dove il trash sta imperando, non credo che il dono di raccontare bene le vicende della vita e i personaggi della storia, si possa sprecare preferendo fare il tifo piuttosto che mantenere l’equilibrio. Grazie.

Claudio Tartaglino
17/05/2017

Grazie da Dom Roque

Carissimo Paolo (Moiola, ndr), pace e bene a te. Ti ringrazio per il lavoro che fai per far conoscere la lotta e i sogni dei popoli indigeni del Brasile e l’impegno del Cimi. Qui ci dobbiamo confrontare con la Commissione d’inchiesta su Incra/Funai e i rinnovati attacchi contro i popoli indigeni e coloro che li aiutano. Molti missionari del Cimi sono stati posti sotto accusa e attaccati, ma siamo coscienti che non possiamo tirarci indietro proprio in questa ora che ci domanda di restare fermi nella lotta per superare questa macchinazione del governo che sta distruggendo i diritti dei poveri. Salutami i missionari. Con gratitudine.

dom Roque Paloschi
Porto Velho, 22/06/2017

Segnaliamo qui alcuni degli articoli più recenti dedicati alla causa indigena in Brasile: MC 07/2017, p. 10; MC 10/2016, p. 51; MC 1-2/2015, p. 51; 10/2015, pp.26-58; MC 11/2014, p. 27; MC 07/2013, p. 10; 10/2013, p. 21.

Carissimo professore

Lo scorso 6 giugno è morto a Quito, Ecuador, dove viveva da alcuni anni, François Houtart. Nato a

Bruxelles nel 1925, prete dal 1949, era teologo della liberazione e professore di sociologia nella famosa Università di Lovanio. È stato perito e consulente al Concilio Vaticano II, fondatore del Centro Tricontinentale per i rapporti Nord-Sud, del Forum mondiale delle alternative e del Forum sociale mondiale. Non amato da tutti a causa del suo spirito critico e delle sue posizioni politiche progressiste, Houtart si è sempre mosso all’interno della Chiesa cattolica. Da tempo era un amico e collaboratore di questa rivista. Di lui MC ha pubblicato articoli e lunghe interviste, l’ultima delle quali – raccolta a Quito nella sua modesta dimora (una stanza di pochi metri quadrati) – è apparsa nel giugno del 2016. Con François Houtart se ne va un persona di grandissimo spessore morale, culturale e umano. Ci mancherà.

Paolo Moiola e Marco Bello
24/06/2017

Banca Etica

Allora, cercherò di essere il più sintetico possibile e di non lasciare nulla di evaso.

1) Non sono mai stato socio, né tanto meno correntista, ma questo, per essere membri del G.I.T., allora non era nemmeno richiesto. Forse ora le cose sono cambiate.

2) Banche Armate: non ho mai capito le argomentazioni reali, segnalo solo che le banche già menzionate (Pop Emilia Romagna e Popolare di Sondrio) hanno fatto parte del pool che ha rinegoziato il debito di Finmeccanica nel 2015, come co-arrangers.

Popolare di Sondrio ha aumentato di 100 milioni di euro gli importi rispetto al 2015, mentre Bper li ha diminuiti a 40 rispetto ai 70 del 2015, scompare Bpm, ma questo è normale, essendoci stata la fusione col Banco Popolare, a sua volta parte del pool rinegoziatore. Dello stesso gruppo fa parte Banco Popolare Credito Cooperativo che nel 2016 riceve oltre 103 milioni di euro. Con le fusioni volute dal governo sarà sempre più difficile per una banca non partecipare al business degli armamenti.

Per un approfondimento del tema rimando al blog di Banca Etica «Non con i miei soldi» e all’articolo del 27/01/2015, «Banche armate a che punto siamo», di Giorgio Beretta che entra nel dettaglio delle argomentazioni offerte da Sabina Siniscalchi.

L’inchiesta per mafia in cui nel 2013 è rimasta coinvolta la Bcc di Borghetto Lodigiano insieme ad altre 2 Bcc, la Centropadana e quella di Offanengo, poi incorporata nella Bcc di Treviglio estranea all’inchiesta, è stata l’operazione Esmeralda.
Ho lasciato intendere che c’è una complicità di B.E.? Non mi pare, però proprio perché B.E. è tra i consulenti finanziari forse si imporrebbero dei criteri più stringenti almeno sui soggetti da finanziare, onde evitare cantonate clamorose come quella di Buzzi, che segna una debacle indelebile nella storia del gruppo. Cosa si insegna ai corsi di valutatori sociali? A non vedere certe cose? Meno male che non l’ho fatto.

Per quanto riguarda i fondi «valori responsabili» spiego come fare ad accedervi in modo che ognuno si possa fare un’idea del prodotto che stanno tentando di rifilargli e verificare se sono così in linea con gli standard etici. E se qualcuna non è incappata in qualche inchiesta un po’ inopportuna (tipo At&t negli Usa).

Si vada sul sito di Etica Sgr e si clicchi sui «nostri fondi». Una volta scelto il fondo, consiglio di analizzarli tutti, si clicchi su «portafoglio» e si scenda leggermente. Si troverà il Pdf con le imprese prescelte e con gli Stati inclusi. Non so se stati come Germania, Belgio e Olanda, possano definirsi virtuosi, forse dal punto di vista di un certo target di clienti dalle abitudini sessuali consolidate sì, per la Spagna ed il Portogallo si può chiudere un occhio, se non fosse che quello aperto nota che le rispettive economie non sono così solide ed i titoli del Portogallo sono ad alto rischio di insolvenza (rating BB, solo BBB- per la Spagna).

Quello che però è obbligatorio segnalare è l’improvvisa scomparsa dei rating sulle obbligazioni delle aziende che fino alla prima metà del 2016 era riportato e poi è improvvisamente scomparso. Questo vuol dire che l’investitore non è più in grado di farsi un’idea sul reale stato del debito di queste imprese.

Per quanto riguarda il Movimento 5 stelle non ho mai detto che controlla B.E., molto semplicemente andando sul loro sito si può appurare come Banca Etica sia stata la banca che hanno scelto sin dall’inizio anche per il deposito delle quote, e figura, sempre sul sito, tra le convenzionate per il famoso microcredito insieme ad altre, tra cui le «armate» Bnl, Unicredit e Banca Intesa.

Concludendo cito quello che fu il Catholich Ethical Balanced Found di J.P. Morgan, un tentativo fallito di fregare i cristiani che si accorsero presto di che natura era, di cui disse qualcosa il Corriere della Sera in un trafiletto che ancora oggi si può trovare sul sito di Etica Sgr. Approfonditene la storia […]. Spero di essere stato esaustivo, anche se mi piacerebbe scrivervi ancora.

Matteo Spaggiari
23/06/2017 

Su MC giugno 2017 abbiamo pubblicato una lettera di Matteo Spaggiari – seguita da una risposta di Sabina Siniscalchi – critica nei confronti di Banca Etica e di come essa fosse stata presentata nella rubrica Eticamente di MC aprile 2017. Come vedete, tempi lunghi! In seguito il sig. Matteo ci ha scritto due lunghe email, di cui pubblichiamo qui solo la seconda (come da lui stesso suggerito).

Il dibattito potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma non penso che queste pagine siano lo strumento più adatto.

Esso è rivelatore della realtà difficile, contraddittoria e spesso torbida del mondo della finanza in cui, come cristiani, siamo sfidati a fare delle scelte controcorrente, chiare, trasparenti, secondo giustizia e onestà e per il bene della persona, soprattutto quella più debole e meno protetta.

Un’impresa chiaramente controcorrente come la Banca Etica fa fatica a crescere sia per la diffidenza di cui molti la circondano, credenti compresi, sia per l’oggettiva difficoltà (o impossibilità?) a distinguersi da un sistema finanziario infiltrato a tutti i livelli dai profitti sulle armi, gli investimenti ad alto rischio, le speculazioni finanziarie, il riciclaggio di denaro, il traffico di materie prime ed esseri umani, droga, terrorismo, pornografia e mafie varie.

Di fronte a questo dico grazie a chi, come il sig. Matteo, ci invita a vigilare, e nello stesso tempo voglio incoraggiare chi è impegnato in Banca Etica per una finanza a servizio dell’uomo. È una strada in salita che richiede di essere «furbi come serpenti e candidi come colombe», ma anche «tenaci come lumache».