Trent’anni di missione


Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata  per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.

«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.

Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.

Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.

Ma andiamo con ordine.

1994. L’inizio di tutto

«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».

Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.

«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».

Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».

Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.

Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.

1977. Un’infermiera

«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».

Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.

«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».

Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».

1999. Il primo anno

Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.

«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».

Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.

«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.

Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».

2001. E missione sia

Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».

Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».

Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».

Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».

Riflessioni

I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».

Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».

Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.

2006. Il ritorno

Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.

Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.

Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».

In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.

Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».

2024. Nuove idee

Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».

Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».

Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.

«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».

Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.

Marco Bello

 




A scuola con Penny Wirton

Sommario


Quel ragazzo di nome Penny
Come nasce e si diffonde la rete

Insegnare l’italiano a stranieri di ogni estrazione, età e cultura è una grande sfida. Sedici anni fa, a Roma, una coppia di insegnanti la raccoglie e fonda il primo nucleo di una scuola molto speciale, «senza muri». Il modello si replica in tutto il Paese seguendo principi chiari e condivisi.

«La scuola Penny Wirton nasce da un sogno – scrivono i fondatori, la professoressa Anna Luce Lenzi e il giornalista e scrittore Eraldo Affinati -: insegnare la lingua italiana ai migranti come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza burocrazie. Lavorando al presente con chi c’è, con quello che abbiamo. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui, o lei, ha bisogno.

Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e si mette a sedere. Tu subito gli consegni il foglio con la matita e lo aiuti a imparare il verbo essere. Poi, a gruppi sparsi, arrivano gli altri: Abdi, Raissa, Dimitri, Kadigia… Noi crediamo nella qualità speciale del rapporto umano che si può realizzare nell’insegnamento a uno a uno. Negli anni abbiamo acceso passioni, elaborato esperienze, costruito legami, acquisito uno spirito, imparato uno stile. Non vogliamo fare semplice intrattenimento. Siamo legati al rigore didattico, consapevoli che, come sapeva il priore di Barbiana [don Milani], senza lingua non si può vivere. Senza nomi si muore».

È questa la mission della scuola di italiano Penny Wirton a Roma. Si tratta di un vero laboratorio antropologico da cui hanno preso forma altre 59 scuole con la medesima identità su tutto il territorio nazionale.

Le scuole Penny Wirton possono essere comprese in un’ottica di multi dimensionalità dei processi di integrazione. La questione dell’integrazione dei migranti e dei rifugiati impone di stabilire connessioni fra molteplici servizi sia istituzionali che del privato sociale, nella consapevolezza che, come viene affermato dal pedagogista M. Fiorucci e dalla dottoressa R. Cima (2022), «I soggetti a rischio di esclusione sociale – tra cui gli immigrati – e quelli afflitti “dai bassi livelli di scolarità” sono proprio quelli che meno utilizzano le opportunità loro offerte».

Come nasce

La scuola di italiano Penny Wirton nasce a Roma nel 2008 grazie alla volontà dei coniugi Affinati e Lenzi. Il primo, presidente dell’omonima associazione, è scrittore e giornalista da sempre legato al mondo della scuola. Lenzi è esperta di letteratura popolare è stata insegnante di italiano e ha curato diverse antologie scolastiche. Sono coautori dei due volumi: Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton (2011) e Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton (2015), che rappresentano i testi alla base del materiale scolastico utilizzato nelle diverse sedi della Penny Wirton.

Dalle parole dei fondatori emergono i due i pilastri che hanno portato alla nascita della scuola: da un lato l’esperienza alla Città dei ragazzi (fondata a Roma nel 1953 da monsignor Patrick Carroll-Abbing per accogliere i ragazzi di strada, ndr) e, dall’altro, gli insegnamenti di don Lorenzo Milani.

Come esplicitato da Affinati: «La particolarità della Città dei ragazzi è data dal fatto che è una comunità educativa basata sull’autogoverno, ossia un sistema pedagogico fondato sulla responsabilizzazione dei ragazzi. Al tempo di monsignor Carroll-Abbing i ragazzi ospitati erano tutti bambini italiani orfani e abbandonati. Quando sono andato io, invece, erano tutti stranieri. Ed è lì che mi è venuta l’idea di aprire una Penny Wirton, ossia una scuola italiana per immigrati. In questo senso la nostra scuola nasce da una costola della Città dei ragazzi. […] Poi vi è un altro riferimento, ossia don Lorenzo Milani. Anche lui è stato per me importante per indirizzarmi verso una scuola diversa da quella tradizionale, una scuola basata sul rapporto umano diretto. In altre parole: tempo scuola uguale tempo vita».

La scelta del nome «Penny Wirton» nasce dal fatto che entrambi i fondatori si sono laureati con una tesi su Silvio D’Arzo (1920-1952), autore di un romanzo per ragazzi intitolato «Penny Wirton e sua madre» (1978) che ha come protagonista un bambino povero e disprezzato, orfano del padre, alla conquista quotidiana della dignità e del riscatto. Come evidenziato dai fondatori «abbiamo chiamato così la scuola perché i nostri studenti sono i Penny di oggi, spesso orfani lontani mille miglia dalle loro famiglie».

La diffusione

La primogenita scuola di Roma ha rappresentato il punto di partenza di un fenomeno che, qualche anno dopo, è diventato capillare in tutto il territorio italiano. Anche grazie all’interesse mediatico ottenuto a livello regionale e nazionale, sempre più volontari hanno mostrato interesse per la scuola rendendosi disponibili a portare avanti gli ideali di don Milani nella Penny Wirton di Roma e nelle altre sedi in Italia. Ad oggi risultano essere più di cinquanta le scuole che portano il nome, il marchio e lo stile Penny Wirton: sia nel Sud, che nel centro e nel Nord Italia e in Svizzera. A fronte dell’aumento di richieste di nuove aperture e della crescente risonanza ottenuta dalla scuola, il 21 marzo 2016 è nata la «Carta d’intesa» della Penny Wirton, ossia un documento composto da 22 articoli nel quale sono esplicitati tutti i principi basilari che ciascuna scuola, indipendentemente dal territorio di riferimento, deve inderogabilmente sottoscrivere e rispettare. Il risultato è che ogni scuola risulta essere indipendente e autonoma da un punto di vista gestionale e amministrativo, spesso anche appoggiandosi ad associazioni locali, ma tutte sono legate nelle finalità e nel modo di operare alla scuola Penny Wirton di Roma.

La Penny Wirton non è solo un luogo di apprendimento, ma è anche tanto altro: un presidio di accoglienza nel territorio, uno spazio privilegiato di scambio e relazioni tra individui, un laboratorio antropologico nel quale ciò che conta, prima di tutto, è quello che Affinati definisce «la qualità delle relazioni umane».

Non esistono classi, lezioni frontali e burocrazia. La Penny Wirton è sì una scuola di italiano, all’interno della quale ciò che si cerca di raggiungere è il miglioramento della scrittura, della lettura, dell’ascolto e dell’oralità, ma è anche un luogo in grado di rovesciare e stravolgere il concetto stesso di scuola. Alla Penny Wirton non si mettono in pratica programmi didattici predeterminati e non è prevista l’attribuzione del voto, considerato uno strumento che crea false disuguaglianze e, per certi versi, disincentivante. L’apprendimento dell’italiano parte dallo studente e dalla relazione umana intrapresa assieme a lui dall’insegnante, nel rispetto del suo vissuto, delle sue difficoltà e ambizioni.

I principi della scuola

Così come esplicitato all’articolo 1 della Carta d’intesa, risultano essere tre i principi cardine della scuola: la gratuità, l’apoliticità e l’aconfessionalità.

La Penny Wirton è prima di tutto una scuola totalmente gratuita: agli studenti non è richiesta alcuna iscrizione formale, né tantomeno una contribuzione economica durante tutto il corso. È la scuola stessa che fornisce i materiali didattici indispensabili allo svolgimento delle lezioni. Libri, quaderni, fogli, penne, matite, sono acquistati tramite il meccanismo dell’autofinanziamento diretto da parte dei volontari insegnanti o donazioni da soggetti esterni.

La scelta di partenza da parte di Affinati e Lenzi è stata quella di creare uno spazio che fuoriuscisse dalla logica retributiva del do ut des. Accanto del principio della gratuità, la Carta d’intesa affianca il concetto di «aconfessionalità» e «apoliticità». Anche laddove gli spazi siano messi a disposizione gratuitamente da parrocchie, la lezione è un momento di interazione laico indipendentemente dal luogo nel quale si realizza. In generale, la ricerca di uno spazio fisico gratuito all’interno del quale essere ospitate ha rappresentato e rappresenta per molte scuole Penny Wirton un ostacolo complesso da superare.

Oltre al carattere aconfessionale, la scuola si pone all’esterno di qualsiasi logica politica. Non vengono pubblicizzati partiti e non si fa pressione sull’amministrazione locale. L’idea di fondo è che la non appartenenza religiosa e politica, favorisca una accoglienza inclusiva e senza barriere, riducendo le differenze tra studenti e insegnanti.

La Penny Wirton è una risorsa per il territorio nel quale si realizza l’ideale dell’uguaglianza e dell’accoglienza senza discriminazioni: principi che, esternamente, possono essere strumentalizzati, ma che per loro natura non nascono con un colore politico o religioso.

Uno stile unico

Tra i tratti caratteristici più salienti della scuola vi è l’approccio didattico utilizzato. Alla Penny Wirton, in primo luogo, l’insegnamento non avviene all’interno di classi ma attraverso il rapporto «uno a uno» tra volontario e studente. Alla base vi è il riconoscimento dell’unicità e della diversità di ciascuna persona, non solo da un punto di vista umano, ma anche prettamente scolastico. Infatti proprio a partire dallo studente e dalla sua specifica conoscenza della lingua italiana viene effettuata la scelta degli argomenti da affrontare.

Se i numeri a disposizione lo consentono, compreso quello dei volontari, ciascuno studente svolge le ore di lezione con un insegnante di riferimento o all’interno di piccoli gruppi di lavoro, senza che questo escluda eventuali interazioni con altri allievi o volontari vicini. Si tratta di ambienti nei quali è prioritaria l’attenzione relazionale e didattica per ogni singolo allievo, che, allo stesso tempo, si realizza in uno spazio di vita collettivo e movimentato. In altre parole, individualizzazione e senso comunitario, ossia due movimenti spesso considerati contrapposti, trovano un loro spazio comune alimentandosi vicendevolmente. Da questo punto di vista un ruolo importante è rivestito dalla figura del coordinatore, che raramente lavora con un solo studente, ma funge da collante fra i vari gruppi di studio durante l’attività.

L’insegnamento, sempre secondo la Carta, «non parte da teorie universali o da categorie grammaticali ma dalle persone». Assumendo tale presupposto, le lezioni non rappresentano comunque mai un semplice luogo di confronto o intrattenimento tra soggetti ma, al contrario, un momento nel quale «è perseguito un rigoroso percorso didattico per l’uso e la conoscenza della lingua italiana che segue la progressione da semplice a difficile».

Il materiale didattico utilizzato è solitamente suddiviso in due categorie: da un lato vi sono i libri di testo, e dall’altro è fortemente incentivato l’uso di strumenti per la ludo didattica. I due manuali «Italiani anche noi» rappresentano i due strumenti più utilizzati nelle lezioni di ogni Penny Wirton in Italia. Entrambi sono stati redatti dai fondatori sulla base dell’osservazione degli immigrati nel corso dei primi anni di attività, e sono stati illustrati con disegni originali dalla pittrice Emma Lenzi.

Il percorso

Oltre all’utilizzo dei libri di testo, in molte scuole viene dato ampio risalto anche agli strumenti di ludo didattica. Si tratta di piccoli giochi tascabili, talvolta collegati direttamente ai libri di testo, che permettono un insegnamento più sciolto, dinamico, in grado di «aprire» e stimolare lo studente all’apprendimento.

Lo scopo è quello di aiutare le persone nel miglioramento della lingua, senza in alcun modo quantificare il progresso ottenuto o creare classificazioni o gerarchie tra gli allievi, tenuto conto delle ampie differenze che si riscontrano tra loro. Allo stesso modo non vengono considerate negativamente le assenze effettuate, in quanto «stimiamo che gli allievi Penny Wirton siano assenti solo per cause serie e attendibili, ad esempio lavoro, anche saltuario». Nonostante questo, a ciascuno studente deve essere garantita una «continuità didattica collettivamente curata».

Al fine di ovviare alle intermittenze di frequenza di allievi e insegnanti, ogni studente possiede una scheda personale, sulla quale il volontario del giorno segna la data e gli argomenti svolti. Tale strumento consente all’insegnante della volta successiva di conoscere il lavoro già realizzato e agganciarsi agli ultimi argomenti effettuati. Al termine del percorso, che non ha una data conclusiva prefissata, ma termina quando viene liberamente stabilito dallo studente, la scheda personale rappresenterà il programma didattico svolto durante tutto il corso delle lezioni, e può risultare utile nel conteggio delle ore laddove egli richieda un attestato di frequenza.

Da sottolineare che la Penny Wirton non rilascia diplomi di valore legale, né certificati di livello di italiano validi per il permesso di soggiorno, per i quali è necessario l’intervento di un Ente certificatore.

Insegnanti volontari

Come già scritto, la scuola Penny Wirton si avvale di soli insegnanti volontari, nessuno dei quali, coordinatori inclusi, è in alcun modo retribuito per il servizio garantito. Diverse possono essere le modalità e i motivi per i quali una persona decide di insegnare alla Penny Wirton e questo rende l’insieme di volontari un grande calderone di umanità fortemente differenziato, all’interno del quale, comunque, ci si riconosce nel grande ideale dell’aiuto gratuito.

C’è chi giunge alla Penny Wirton perché mosso da principi politici, chi per questioni etiche, chi per sentirsi utile e chi per provare qualcosa di nuovo. Il risultato è che nelle svariate sedi possono avvicendarsi insegnanti di età e con percorsi di vita molto diversi.

Tra i volontari possono esservi ex docenti, pensionati e non, con esperienze lavorative differenti da quella scolastica. In molte sedi una cospicua fetta è costituita da studenti universitari, ma anche giovani liceali che giungono attraverso lo strumento dello stage formativo nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro.

Non è necessario che l’insegnante possieda qualifiche o diplomi specialistici, ma è importante che sia adeguato alla funzione: oltre ad assicurare un servizio gratuito è chiamato a garantire una certa continuità, e non un apporto solo occasionale, e a mettersi in relazione positiva sia con gli studenti che con i colleghi. In altre parole, deve essere un soggetto curioso, aperto alla conoscenza e allo scambio con l’altro e, anche in virtù della dinamicità e mutevolezza continua che caratterizza la scuola, deve rendersi interscambiabile, se necessario, con altri insegnanti.

Al fine di garantire il rapporto uno a uno, ciascuna scuola possiede, in genere, un numero di volontari insegnanti circa pari a quello degli studenti. Laddove ciò non fosse possibile, si cerca di predisporre piccoli gruppi di lavoro.

Le diverse Penny Wirton ricevono continuamente nuove richieste da parte di persone interessate a offrire il proprio servizio. A tal proposito la scuola di Roma predispone periodici momenti di formazione, coordinati e gestiti da Anna Luce Lenzi, sia per nuovi insegnanti che per volontari già attivi che necessitano di aggiornamento. Nelle altre scuole è la pratica sul campo lo strumento formativo prioritario utilizzato a fronte di nuovi arrivi. Generalmente, a tutti viene offerta l’opportunità di iniziare affiancando per alcune lezioni insegnanti più esperti e di consultare i materiali didattici presenti nelle diverse sedi.

Gli studenti

«La scuola – troviamo scritto nella Carta d’intesa – accoglie sempre e accoglie tutti lungo tutto il corso, fino all’ultimo giorno, anche per una volta sola» (Carta d’intesa). Le scuole Penny Wirton sono rivolte agli immigrati, chiunque essi siano. A differenza di altre realtà, si tratta di una scuola priva di criteri di accesso: indipendentemente dal genere, dall’età, dalla nazionalità, dalla situazione economica e dalla condizione di regolarità-irregolarità della sua presenza sul territorio italiano (che non viene richiesta), a nessuno è impedita l’accoglienza e la partecipazione gratuita ai corsi di italiano. Le uniche informazioni registrate rispetto agli allievi riguardano i dati anagrafici (nome, cognome e nazionalità) e il luogo o la struttura di residenza, laddove sia presente.

L’assenza di vincoli di accesso rende anche il gruppo di studenti un grande mosaico eterogeneo in continuo mutamento che varia a seconda del territorio di insediamento della scuola. Promiscuità, nel senso positivo del termine, e mescolanza sono le parole d’ordine che caratterizzano la vitalità di ciascuna di queste realtà. A popolare le Penny Wirton possono essere giovani, alcuni dei quali minori stranieri non accompagnati provenienti dai centri di accoglienza, o adulti, parte dei quali regolarmente insediati e integrati, altri in attesa dello status di rifugiato, altri ancora giunti tramite i ricongiungimenti familiari. Altri sono maggiorenni ospiti di centri di accoglienza.

In alcune sedi si registra un più ampio numero di donne, mentre in altre è preponderante la presenza maschile. Come già sottolineato, la composizione di genere, età e nazionalità è condizionata dal territorio di riferimento, oltre che dal periodo dell’anno. Anche i livelli di preliminare conoscenza della lingua possono, quindi, essere molto differenti. C’è chi è residente in Italia da diverso tempo, lavora e capisce l’italiano, chi è appena arrivato; chi conosce l’alfabeto latino e chi invece scrive da destra verso sinistra.

Spesso per i volontari è possibile trovarsi di fronte a persone non scolarizzate nel paese di origine, rispetto alle quali la scuola «dedica un’attenzione particolare e didatticamente accurata», come recita la Carta. La sfida che si pone in questi casi risulta estremamente complessa: si tratta non solo di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche di farlo in una lingua diversa dalla loro. Per questo motivo, sulla base dell’osservazione degli analfabeti in lingua madre in dieci anni di attività, i fondatori hanno creato e divulgato delle linee guida che oggi rappresentano un importante strumento di supporto ai volontari delle varie sedi che si trovano a interfacciarsi con studenti non scolarizzati.

Come arrivano

Gli studenti possono venire a conoscenza della scuola in diversi modi. In primo luogo, ogni Penny Wirton, tra le altre cose, si occupa anche di pubblicizzare sul territorio i corsi tenuti. Da un lato è fortemente incentivato l’uso di piattaforme tecnologiche: ogni scuola, oltre ad avere uno spazio sul sito internet ufficiale della Penny Wirton, possiede e gestisce un profilo Facebook di facile consultazione, nel quale comunicare i giorni, gli orari di lezione e pubblicare foto delle attività svolte. Un’altra modalità è quella del volantinaggio: è utile affiggere volantini pubblicitari alle fermate degli autobus, nelle moschee e in tutti quei luoghi di interesse frequentati da immigrati. Fondamentale, infine, è il contatto tra la scuola e i servizi sociali territoriali, gli sportelli, le associazioni, le cooperative e tutti quei soggetti che nel territorio si occupano di stranieri e migrazione. Talvolta può essere lo stesso centro di accoglienza a indirizzare e accompagnare in prima persona i soggetti ospitati presso i locali della scuola.

Nonostante questo lavoro, così come esplicitato da molti coordinatori, la modalità più usuale attraverso la quale molti stranieri giungono a conoscenza della scuola è rappresentato dal passaparola informale che si sviluppa tra i connazionali.

In virtù del numero crescente di scuole Penny Wirton, il coordinamento fra loro è sempre più importante. Lo scambio di esperienze, testimonianze e informazioni è fondamentale.

Al fine di incentivare gli scambi tra le scuole, da giugno 2018 è stato indetto a Roma il primo convegno nazionale delle scuole Penny Wirton, al quale hanno partecipato rappresentanti di quasi tutte le sedi. I convegni si sono ripetuti tutti gli anni. A seguito dell’ultimo incontro, nel giugno 2023, è stato creato un secondo sito internet intitolato «I quaderni della Penny Wirton», un’ulteriore piattaforma di incontro nella quale condividere e scambiare storie di vita, testimonianze, notizie delle attività nei diversi territori, rafforzando l’unione e l’identità della grande famiglia delle scuole Penny Wirton.

Elisa Sartori

Alcuni numeri

Non è possibile fornire un dato complessivo delle presenze di immigrati e di volontari di tutte le scuole attive sul territorio italiano, tuttavia, per comprendere la portata del progetto, può essere rilevante il recente report della scuola di Roma.

Nel 2022 a Roma sono state erogate 3.100 lezioni individuali su 80 giorni di apertura, con una media di 40 studenti stranieri alla volta, raggiungendo 500 lezioni individuali al mese. Gli studenti stranieri frequentanti in modo continuativo o intermittente sono 340 provenienti da 50 paesi, in prevalenza Egitto, Somalia, Afghanistan, Ucraina, Bangladesh, Nigeria, Perù.

I volontari coinvolti sono 130 a cui si aggiungono 66 studenti delle superiori coinvolti in progetti di alternanza scuola lavoro.

Si allinea al trend descritto per numeri e flussi la scuola di Milano. A dicembre 2023 le scuole Penny Wirton attive erano 59.

E.S.

Una comunità che accoglie
L’esperienza Penny Wirton a Pinerolo (Torino)

Un gruppo di studenti di liceo restano colpiti dal racconto dei fondatori della scuola Penny Wirton. Chiedono ai propri professori di poter attivare un’esperienza simile tra le mura del loro istituto. Così nasce qualcosa di particolare.

L peculiarità della scuola Penny Wirton di Pinerolo è data dal fatto che essa è ospitata da un istituto scolastico statale. Un’iniziativa formativa per sua natura informale e destrutturata, posta dentro a un ambiente istituzionale strutturato e radicato nel tessuto locale. L’istituto scolastico diventa contenitore di un’esperienza formativa rivolta agli immigrati, avente come presupposto un’apertura e un’accoglienza non giudicanti senza forme di controllo. Il progetto ha preso avvio nella primavera del 2018 da un incontro con Eraldo Affinati che presentò ad alcune classi del liceo Porporato il suo romanzo di recente pubblicazione: «Tutti i nomi del mondo». Affinati condivise con il pubblico anche la sua esperienza come fondatore della scuola romana. Su proposta degli studenti stessi nell’anno scolastico 2018-2019 è stato, quindi, presentato al collegio docenti il progetto pilota della scuola di alfabetizzazione per migranti che sarebbe stato inserito nel piano dell’offerta formativa del liceo.

Chi la frequenta

Per quanto riguarda gli stranieri che frequentano la Penny Wirton di Pinerolo, attualmente l’8% dichiara uno stato di non alfabetizzazione nel paese di origine, il 20% un livello elementare o intermittente di istruzione, il 30% un livello intermedio, il 35% un livello medio alto, il 7% un livello di formazione universitaria. Il 20% di loro conosce solo la lingua madre, il 70% la lingua madre e una seconda lingua diversa dall’italiano e il 10% conosce tre lingue.

Per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana, la maggior parte di loro, circa il 70%, è inserita in un percorso regolare di studio, in quanto all’interno dei percorsi dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati): frequentano regolarmente i Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) del territorio. Il 10% frequenta le scuole superiori, il 15% frequenta anche corsi regionali per la formazione professionale e il 10% richiede un aiuto per i corsi preparatori all’esame della patente di guida. Altri si avvalgono unicamente di questo servizio perché gli enti presso i quali sono in carico non sono ancora riusciti a inserirli in percorsi di formazione istituzionali.

L’età è molto varia: il 10% sono minorenni, il 40% si può comprendere in una fascia dai 18 ai 30 anni, il 30 % si colloca fra i 30 e i 45 anni, mentre il 20 % ha oltre i 45 anni, fino a un massimo di 60 circa.

Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno, per cui è possibile, per chi ne faccia richiesta, iniziare subito in qualsiasi momento.

No all’assimilazione

La mia esperienza diretta di questi anni mi permette di affermare che nella scuola Penny Wirton del Liceo Porporato è assente ogni logica neo-assimilazionista. Questa prevede che la scolarizzazione sia sempre più una moneta di scambio richiesta al soggetto migrante: se egli svolge corsi di italiano e dimostra di aver raggiunto un livello sufficiente, allora è un soggetto «desiderabile» e quindi «assimilabile» nella società. Il tratto caratterizzante di questo approccio è l’idea che tutte le possibili differenze tra le persone sono riconducibili a un’unica struttura umana e che l’incontro con il diverso si risolve progressivamente e inevitabilmente con la sua adesione al modello culturale dominante.

In tale ottica l’assimilazione è considerata un processo organico, univoco, lineare, il cui peso poggia esclusivamente sui migranti. Sono infatti loro che si vedono costretti ad assimilarsi ai «nativi» assumendone gli abiti mentali e gli stili di vita allo scopo di farsi accettare, non essere percepiti come un pericolo per l’equilibrio della società ricevente e progredire nella scala sociale.

In opposizione a quest’orientamento unidirezionale, il principio fondante della scuola Penny Wirton è la valorizzazione delle risorse e della specificità delle persone. Non solo la scuola non rilascia certificati di livello validi per il permesso di soggiorno di lunga durata, ma si configura come un luogo informale nel quale è lo studente a scegliere se e in quale misura frequentare le lezioni. In altre parole, essa è un’opportunità, tra le altre, di sentirsi accolti, senza che vi siano divieti, obblighi di partecipazione o test che certifichino l’apprendimento della lingua.

In questa scuola, confermando gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, non esiste e non è tollerato il dualismo «buono-cattivo» o «bravo-non bravo». Come a Barbiana, tutti gli allievi sono considerati, allo stesso tempo, uguali in umanità e diversi da un punto di vista scolastico. L’obiettivo non è quindi quello di livellare il gruppo di studenti a uno standard comune ma, al contrario, aiutare singolarmente gli individui a colmare delle lacune linguistiche, permettendo loro di destreggiarsi più efficacemente nel nuovo contesto di vita.

Cittadinanza attiva

Occorre sottolineare inoltre che, mentre «il modello di civic integration in declinazione italica che si è delineato negli ultimi anni interpella il soggetto, la sua prestazione, i suoi comportamenti, la sua responsabilità individuale, non la comunità migrante, né tanto meno la comunità di accoglienza» (Carbone, vedi bibliografia), al contrario, il progetto delle scuole Penny Wirton si mette nell’ottica di interpellare la comunità d’accoglienza affinché i suoi membri si lascino coinvolgere e partecipino ciascuno secondo le sue competenze e i suoi valori. Con questi presupposti la scuola Penny Wirton può diventare uno spazio in cui sviluppare il capitale relazionale degli studenti, in quanto, oltre a essere una scuola di italiano, può essere, e lo è nei fatti, un luogo nel quale lo studente instaura relazioni significative con altre persone sia connazionali, sia studenti di altre origini, sia volontari.

Seguendo gli sviluppi del progetto è risultata evidente l’attrattività della scuola Penny Wirton per gli immigrati, non solo a livello nazionale con un numero di scuole in aumento in medie e in grandi città, ma anche a livello territoriale con un crescente numero di utenti iscritti e di volontari.

Ascoltando le motivazioni di alcuni studenti frequentanti, sia in modo regolare, sia saltuario, emerge che tale attrattiva ha le sue radici nei principi fondanti espressi dalla Carta d’intesa: la gratuità, l’assenza di criteri di accesso, la libertà di frequenza concessa allo studente e l’insegnamento uno a uno con il volontario insegnante.

Un altro aspetto interessante riguarda la specificità della Penny Wirton di Pinerolo che è situata proprio all’interno di un liceo storico radicato nel tessuto cittadino. Si configura un paradosso interessante dal punto di vista sociologico: una scuola superiore, che rappresenta l’espressione istituzionale di un’organizzazione pubblica, contiene in sé una scuola che per sua natura si propone come informale, destrutturata, senza quegli elementi che caratterizzano l’idea stessa di percorso scolastico (le classi, le valutazioni, le certificazioni, l’apparato amministrativo, l’obbligo di frequenza). Il liceo offre non solo la disponibilità di locali e di strumenti didattici per la realizzazione di un progetto, ma ha integrato la scuola Penny Wirton nelle sue attività di arricchimento formativo, rendendo gli studenti del triennio attori fondamentali per la sussistenza e per l’evoluzione del progetto stesso. Le ore di volontariato degli studenti sono riconosciute come percorsi di Pcto (alternanza scuola lavoro), oppure come crediti scolastici. In alcuni casi la loro esperienza è stata oggetto di trattazione personale agli esami di stato, in altri è stata presentata in occasioni pubbliche, come concorsi scolastici, creando un affetto di disseminazione che ha consolidato di fatto questa realtà.

Alcuni studenti, dopo la conclusione del loro percorso liceale, hanno continuato la loro esperienza di volontariato creando un effetto di promozione sul territorio. Ai nostri studenti liceali si aggiungono poi altri soggetti impegnati nel volontariato e gli operatori dei servizi d’accoglienza del territorio, in contatto informale con la scuola Penny Wirton nella quotidianità.

Processi di inclusione

Tale osmosi fra le istituzioni e il privato sociale del territorio ha anche agevolato l’avvicinamento degli utenti alle risorse locali, contribuendo a sviluppare la loro socializzazione e connotando la scuola Penny Wirton come un luogo di insegnamento e di inclusione.

Gli studenti stranieri vedono nella scuola un’occasione per incrementare la propria rete di legami, non solo con altri studenti e con i volontari incontrati, ma anche con possibili interlocutori del territorio valicando i confini scolastici.

Come scrive Laura Bosio, direttrice della Penny Wirton di Milano, nel suo libro Una scuola senza muri: «[…] non è questione di essere caritatevoli, meno che mai eroici. Per tutti noi quello che facciamo è normale: si prova a dare una mano in un momento complesso, ci si schiera anche, e lo si fa in un modo possibilmente serio e leggero, c’è già tanta tragedia nel fondo. Forse il punto è aiutare gli altri a riconoscersi, mentre riconosciamo noi stessi. Dal basso, gomito a gomito intorno ad un tavolo, davanti ad un libro dove si impara l’Italiano».

Elisa Sartori

Incontri e sorrisi
Esperienze di giovani volontari della Penny Wirton

Una peculiarità della scuola di Pinerolo è quella di essere stata voluta prima di tutto dagli studenti. E alcuni di loro sono i primi volontari-insegnanti. Qui riportano storie vissute in presa diretta con dei quasi coetanei stranieri.

Alcuni studenti del triennio hanno partecipato a un progetto didattico presentando la loro esperienza di volontariato. Dopo aver studiato i flussi migratori e la storia delle migrazioni del nostro Paese, hanno realizzato un lavoro basato su interviste fatte ai migranti durante le ore di lezione della scuola Penny Wirton.

Alex

Alex (nome di fantasia) ci ha raccontato che uno degli aspetti che ama di più della vita è quello di impegnarsi in ciò che fa. In Egitto svolgeva addirittura due mestieri: il tassista per i turisti, e il commesso in un negozio di frutta e verdura. Alex ci ha quindi spiegato che ciò gli manca di più è proprio il lavoro.

Nonostante sia in Italia da poco tempo, e nonostante il periodo storico complesso a causa del post Covid-19 e delle guerre, è già riuscito a fare un colloquio di lavoro. Noi ci auguriamo che sia riuscito a trasmettere un’immagine positiva della sua persona volenterosa, disposta a mettersi in gioco e a trovare le risorse per vivere qui. Per lui, il suo Paese è molto diverso dall’Italia, non solo sul piano delle libertà concesse, ma anche nello stile di vita. A partire dal traffico costante, che in Egitto porta con sé il continuo rumore dei clacson. Lì non ci sono semafori, o comunque non vengono rispettati, e per attraversare la strada, in assenza di strisce pedonali, ci si può impiegare un’ora, e quando finalmente si riesce nell’intento, gli insulti degli automobilisti arrivano a valanga.

Sicuramente Alex abitava in una metropoli, infatti ci ha detto che ha trovato Torino più simile all’Egitto rispetto a Pinerolo, con uno stile di vita totalmente diverso da quello di un piccolo paese di campagna, che lui preferisce. Ama il cibo italiano, in particolare il caffè, bevanda comune e scontata per noi. Adora il profumo che emana la caffettiera pronta.

Predilige di gran lunga la tranquillità di un paese immerso nella natura, nei ritmi e nelle attività umane scandite dalla luce del sole: quando questo tramonta e giunge il buio, la vita si blocca, per ripartire il mattino successivo con l’alba.

Tutto ciò ci ha fatto riflettere su aspetti del luogo in cui viviamo che non avevamo considerato; ma soprattutto il profumo intenso, la serenità, il silenzio e la dolcezza che caratterizza Pinerolo. Ed è come se la conoscesse meglio lui di noi, non nel concreto o nella viabilità, ma nell’essenza. Il suo entusiasmo e la sua semplicità nella descrizione della nostra città ci hanno fatto riscoprire la sua bellezza.

Hanna

Poi c’è Hanna, una ragazza nigeriana di 23 anni che frequenta già da tre anni la Penny Wirton. Quando abbiamo fatto la prima lezione con lei, ci ha guardato subito con occhi timorosi e ci ha scrutato con prudenza. Fra un esercizio di italiano e l’altro ci ha raccontato la sua storia dal momento in cui è arrivata in Italia. Non se la sentiva ancora di parlare del viaggio dalla Nigeria, ma i suoi occhi, scavati e arrossati, parlavano per lei. Osservandoli, infatti, si poteva percepire un passato con numerose difficoltà: nello sguardo ha ancora impresse le immagini e le sofferenze del viaggio.

In situazioni difficili come quella di Hanna, e di molte altre come lei, nelle quali non si possiede alcuna stabilità economica e di relazioni, è difficile tenere aperto il varco della fiducia nel futuro.

La notte non riesce a dormire, non solo a causa del ricordo del viaggio, ma anche della vita che conduce ora, della quale è difficile parlare. Mentre ce la racconta assume una postura chiusa e le mani cercano di sfogare lo stress sulle maniche: le guarda e le tocca per farsi forza a raccontare.

Quella forza riesce a trovarla parlando di sua figlia: Hanna è giunta in Italia con la sua piccola, che oggi ha quattro anni e frequenta l’asilo. Questa madre ha ancora diverse difficoltà da affrontare per garantire un futuro migliore e sereno a sua figlia, ma è disposta a tutto, e sono ancora una volta i suoi occhi a dimostrarlo.

Quando ci fa notare che manca poco all’uscita della bimba da scuola, il suo sguardo, che fino a quel momento era diffidente e segnato dalla stanchezza, si illumina e allo stesso tempo accenna a un sorriso. È la sua bambina che la stimola a superare i molti ostacoli della vita, da quelli passati, come il viaggio dalla Nigeria all’Italia, al lungo cammino di inserimento nel nostro Paese.

All’inizio Hanna non era in grado di leggere e scrivere, era analfabeta anche nella sua lingua madre e ha confessato di provare vergogna per questo, i suoi tentativi di inserimento nei corsi Cpia sono stati fallimentari, ma anche grazie all’aiuto di questo insolito modo di essere accompagnata nello studio alla Penny Wirton, è riuscita a imparare l’italiano e oggi continua il suo percorso con impegno e determinazione. I pensieri e le speranze si sono fatte strada in mezzo alla difficoltà espressiva e ci ha suscitato una grande vicinanza.

Verso un’altra vita

Questi giovani si esercitano a casa segnandosi le parole che non capiscono alla televisione, traducendole in inglese con il traduttore, per poi scriverle e impararle in italiano. In questo modo riescono a comprendere alcuni termini e cercano di collegarli insieme, di intuire il discorso.

Gli sforzi che compiono sono enormi: dall’imparare l’italiano al raccontare il loro passato, cercare un lavoro, crescere dei figli e costruire un futuro.

Nei discorsi di queste persone abbiamo visto la sincerità e questa suscita in noi speranza nell’uomo del domani. Sembra una contraddizione poiché c’è chi vorrebbe che l’immigrazione fosse un fenomeno concluso, da lasciare nel passato, mentre noi, in quello stesso fenomeno, vediamo il futuro.

Questo è il risultato delle interviste realizzate: la nascita di un legame tra intervistatori e intervistati, uno scambio reciproco di racconti ed emozioni. Non siamo solo noi ad aiutare loro con i corsi di italiano, o con risorse economiche, non è dare senza ricevere, anche se questo è o dovrebbe essere lo scopo del donarsi agli altri. C’è una restituzione, uno scambio reciproco, un completamento. Noi siamo rimasti meravigliati dai loro racconti e loro dalla nostra gentilezza, o meglio dalla gentilezza di tutte quelle persone che aiutano nell’apprendimento dell’italiano con il progetto Penny Wirton. Ma anche dalle persone che li aiutano a trovare un lavoro o semplicemente con chi, incontrato per strada, ha dato disponibilità a ripetere una parola non compresa o ha sorriso loro. I sorrisi che alla fine ci accomunano, facendoci superare ogni differenza culturale e linguistica. Nel libro «Una scuola senza muri», Laura Bosio sottolinea che uno dei tratti della scuola Penny Wirton è che quasi tutti sorridono volentieri, nonostante ciò che hanno passato, perché questa esperienza rappresenta per loro un primo passo verso un’altra vita.

Studenti del Liceo Porporato di Pinerolo

 

«L’inclusione è nel Dna del nostro liceo»
La parola del preside Valter Careglio

Valter Careglio è il dirigente scolastico del Liceo Porporato di Pinerolo. Lo abbiamo incontrato.

Che valenza ha l’avere la scuola Penny Wirton come parte dell’offerta formativa del liceo?

«È un’esperienza di service learning, ovvero una prassi di attività di servizio al territorio che comporta un apprendimento da parte della comunità educante, quindi sia dei docenti sia degli studenti. Di fatto tu impari facendo. Rispetto a qualsiasi attività di tirocinio o di alternanza scuola lavoro, il service learning aggiunge un valore: il servizio agli altri e al territorio. La Penny Wirton è proprio questo, perché da una parte mette in gioco le competenze dei docenti e degli studenti che apprendono e si sperimentano, e dall’altra ha un forte valore rispetto ai temi del volontariato, del servizio civile, della cittadinanza.

Inoltre, aprirsi al territorio vuol dire fare cose con il territorio e per il territorio. Questa scuola è nata in sinergia con Diaconia valdese, Caritas, Ciss (Consorzio intercomunale servizi sociali), e altre realtà del pinerolese.

Un altro aspetto è la sua connotazione politica. Chi crede in questo progetto crede in una società multietnica, nel fatto che i valori e i diritti non dipendono dal fatto di nascere in un posto piuttosto che in un altro, ma tutti devono avere pari opportunità; e la lingua è uno scoglio importante da passare.

Non bisogna confondere il piano istituzionale con quello che è la scuola Penny Wirton. L’istituzione ha i Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. C’è anche l’alfabetizzazione degli stranieri, ma si occupano di persone in età scolastica. Taglia fuori persone di età maggiore che non sanno l’italiano, mentre la Penny Wirton va a coprire un segmento importante di cui istituzionalmente nessuno si occupa».

Chi sono i volontari della Penny Wirton al Liceo Porporato?

«Per gestire iniziative così occorrono delle professionalità. E i professori del liceo le possono mettere in campo. Inoltre la Penny Wirton ha avuto la forza di costruire un rapporto con gli ex docenti, personale della scuola che è in pensione e continua a mantenere un impegno. Abbiamo dato un senso a quelle professionalità che pure andando a fare qualcosa di completamente diverso, spendono la loro competenza. Un ex insegnante di lettere è diverso da qualcuno che si improvvisa.

Inoltre si prendono in carico degli studenti in alternanza scuola lavoro.

È un’attività fortemente strutturata e molto significativa. Ha una dimensione sociale, una dimensione politica. È un segmento di volontariato pieno di senso, ovviamente se si crede nell’integrazione».

Si tratta anche di una scelta di campo del dirigente.

«Ci siamo mossi in continuità con quanto fatto dalla precedente dirigente, Maria Teresa Ingicco.

Il Liceo Porporato ha al centro del suo Piano triennale di offerta formativa (il documento fondamentale di programmazione, ndr) il tema dell’inclusione, a tutto tondo. Vuol dire l’attenzione alle persone. Con la scuola di italiano ci occupiamo di persone che non vengono a scuola, ma è un’opportunità molto grande anche per i nostri studenti. Inoltre noi non abbiamo corsi serali, e questa esperienza costituisce un bagaglio importante se un giorno dovessimo realizzarli.

La nostra è una scuola che fino alle 18 è viva, ci sono molte attività e la Penny Wirton è una di queste».

Marco Bello

 

Bibliografia e sitografia

  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2011.
  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2015.
  • Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2011.
  • Vincenzo Carbone, La nozione di integrazione dei migranti forzati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Laura Bosio, Una scuola senza muri, Enrico Mariani editore, Milano 2019.
  • Fiorucci, R. Cima, La formazione come strumento di inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Sito ufficiale della Penny Wirton: www.scuolapennywirton.it
  • Sito «I quaderni della Penny Wirton»: www.iquadernidellapennywirton.it

Hanno firmato il dossier:

  • Elisa Sartori
    Insegnante di italiano, latino, storia a geografia, attualmente al Liceo Porporato di Pinerolo. Come educatrice, a Torino, si è occupata di minori in condizioni di disagio, di progettazione sociale inclusiva e di percorsi di sostegno per genitori e minori in comunità. Questo dossier è tratto dalla sua tesi di master di primo livello in «Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati», Università degli studi Roma tre.
  • Si ringraziano
    Valter Careglio, dirigente del Liceo Porporato di Pinerolo, e Joram Gabbio, vicepreside, per i testi degli studenti.
  • a cura di Marco Bello
    giornalista, direttore editoriale MC.

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Tanti pregano  per voi

Carissimi missionari,

sono amica di una suora di clausura del monastero di Santo Stefano di Imola alla quale arriva la vostra rivista. L’ho abbonata io perché prima di essere claustrale è stata tanti anni missionaria in Kenya con un altro istituto di suore missionarie e sapevo che sarebbe stato tanto gradita la rivista che parlava di luoghi da lei conosciuti.

Avendo letto della elezione a cardinale di padre Giorgio Marengo, mi riferì che lei ha sempre pregato per lui da quando nel 2003 è stato mandato con le due suore in missione in Mongolia. Avendo ricevuto questa notizia l’ha riempita di gioia e di ancor più fervore nella preghiera per i missionari e le missionarie.

Tutto questo ve lo scrivo perché sappiate che tanti sconosciuti pregano per voi missionari e siate sempre fiduciosi e abbandonati alla grande Provvidenza del Signore che fa tutto e tanto con il nostro poco. Basta la nostra buona volontà.

Vi saluto con tanto amore pensando ai miei cari defunti, vostri confratelli: padre Giuseppe da Frè e padre Armando Cecconi, nonché la mia parente missionaria della Consolata, suor Bassiana Lorenzi.

Auguri di ogni bene

Gianna Agostini Rossi
Vigodarzere (Pd) 06/01/2023

Grazie di cuore delle preghiere, un energetico sicuro per ogni missionario. Ecco qui una brevissima memoria dei suoi «cari defunti».

Padre Armando Cecconi, (foto a destra) nasce a Castions di Strada (Ud) il 21/03/1922 e va incontro al suo Signore il 31/03/2014, pochi giorni dopo aver compiuto i 92 anni. Ordinato sacerdote nel 1951, dopo alcuni anni come formatore in Italia, nel 1968 parte per il Kenya, dove rimane nelle terre alte del Kikuyu fino al 2012, quando deve rientrare per salute.

Anche padre Giuseppe Da Fré  ha passato la sua vita missionaria in Kenya, ma in aree molto diverse, nel grande Nord sopra l’equatore, nelle terre dei Samburu e di altri popoli nomadi, da Loyangalani a Wamba. Nato il 03/01/1939, sacertote missionario della Consolata il 18/12/1965, dopo il corso di inglese a Londra, nel dicembre 1967 è destinato a Baragoi (nella foto sotto), la primogenita (1952) delle missioni del Nord. Loyangalani, Laisamis, Maralal, Wamba sono le altre missioni dove è chiamato a essere segno di consolazione e costruttore di pace, fino al 2015, quando la salute lo obbliga a rientrare fino a che il Signore lo chiama a sé il primo giorno del 2016.

Perplessità

Carissimi,
nel numero di giugno, all’interno dell’articolo «Per terra e per mare» che Paolo Moiola dedica a due libri scritti da Maurizio Pagliassotti, mi ha lasciata perplessa leggere, a proposito di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, che: «I loro nomi si protendono lungo la rotta dei Balcani fra migranti, cooperanti, giornalisti e non sempre sono amati neppure tra noi buoni: “troppo mediatici”».

E più avanti: «Indubbiamente sono sotto i riflettori ma questo che problema è?».

Tali considerazioni si riferiscono a Lorena Fornasir e a suo marito Gian Andrea Franchi che da anni a Trieste prestano quotidiana assistenza ai migranti, in particolare curando i loro piedi piagati dal lungo cammino. Da triestina posso testimoniare che tutto sono meno che mediatici; e che «sotto i riflettori» è il posto che meno si addice al loro profilo, saldamente agli antipodi da ogni sia pur minimo sospetto di protagonismo.

Secondo me andava precisato che purtroppo è stata la cronaca a metterli brutalmente sotto i riflettori, quando nel 2021 furono accusati di essere complici dei trafficanti. Ma fortunatamente i magistrati hanno poi chiuso il caso: la solidarietà non è reato.

Loro sono stati le vittime, di quell’amara e scandalosa parentesi. E dopo di essa, esattamente come prima, hanno sempre operato nell’umiltà e nell’ombra (e «Linea d’Ombra» è il nome della loro benemerita associazione).

Con l’occasione vi rinnovo il mio plauso più sentito per la vostra utilissima e irrinunciabile rivista.

Susanna Cassoni
15/06/2023

Grazie di cuore per la precisazione. Condividiamo con lei il giudizio che «Loro sono stati le vittime, di quell’amara e scandalosa parentesi». Questa rivista ha loro dedicato un reportage di Daniele Biella, La dignità sotto i piedi, nel marzo 2021. Li abbiamo ricordati ancora nel dossier del dicembre dello stesso anno, Ragazzi dimenticati, sempre di Daniele Biella e Luca Lorusso.

© Daniele Biella

Voglia di volontariato

Ciao mi chiamo Lorenzo sono di Parma ho 24 anni e ho letto un vostro articolo riguardo i pigmei, sarei interessato sempre di più ad imparare a come sopravvivere nella natura usando cose che si trovano in natura. Sto leggendo numerosi articoli di Survival International sui popoli indigeni e mi sto interressando sempre di più.

Volevo chiedere se a voi serve un aiuto a lavorare con questi popoli? Buona serata.

Lorenzo
14/06/2023

Caro Lorenzo,
ci sono due aspetti complementari nella tua richiesta: da una parte la voglia di imparare a conoscere meglio la natura proprio da popoli da sempre immersi in essa, dall’altra il desiderio di metterti al servizio con noi tra i «popoli indigeni».

Comincio dal secondo punto: diventare un nostro «aiutante». Qui occorre precisare che per periodi lunghi di permanenza in una missione, occorre sia avere una certa qualificazione professionale che tenere conto delle normative che regolano le prestazioni di volontariato nel mondo, senza le quali non è possibile restare in un paese con regolare permesso di soggiorno. Diverso è andare per un mese, massimo tre, con un permesso turistico.

Per un’esperienza più lunga di volontariato noi, come Missionari della Consolata, non siamo attrezzati legalmente, per questo di solito ci affidiamo alle organizzazioni di volontariato già esistenti e operanti con noi.

Abbiamo sì anche la figura degli «aggregati», persone che diventano parte del nostro istituto per un periodo e un servizio precisi. Ma su questo tema del volontariato, spero di tornare presto perché sembra ci siano novità interessanti.

Quanto alla tua voglia di imparare dai popoli che vivono a contatto con la natura, è bella e interessante. Forse vivere  con quei popoli può essere un aiuto per capire un po’ di più «il creato» e disintossicarsi da certe mitizzazioni che abbiamo nel nostro mondo. A cominciare dal nostro affetto per cani e gatti, che riempiono le nostre case e spesso le nostre solitudini, ma a condizione di essere castrati e rinunciare ai loro comportamenti naturali.

Credo che il requisito fondamentale del vero contatto con la natura sia la sobrietà, accompagnata da profondo rispetto e cambiamento di attitudine: da padrone a servo, da sfruttatore a giardiniere e amministratore per il bene di tutti.

Non vorrei sembrare scorbutico su questo, ma lo scrivo come uno che ricorda molto bene che da bambino camminava a piedi nudi tutta l’estate e beveva l’acqua dei fossi o dalle sorgive in campagna quando aveva sete e poi andava allegramente con gli amici a «rubare» ciliege, pere, pesche o uva nei campi dei vicini, magari sotto lo sguardo dei padroni che facevano finta di non vedere.

Contributi

Dopo un lungo periodo d’assenza per difficoltà economiche, avverto il bisogno di riaiutarvi/ci.

Nel ‘78 vi ero vicino per i campi di raccolta (con padre Giordano Rigamonti). In seguito l’amicizia con padre Ugo Pozzoli mi permise di ancor più comprendere il valore della vostra missione attraverso la rivista Missioni Consolata.

Oggi, più di ieri, rappresentate l’unico canale onesto per meglio conoscere il grande pericolo verso cui ci stanno incamminando.

Contribuirò annualmente con la cifra di 30,00 euro; non è molto ma, ciò posso fare. Grazie se mi riaccoglierete.

Una esortazione a proseguire lungo il cammino – insieme. Con voi, fratelli.

Alessandro B.
14/06/2023

Grazie Alessandro per il tuo aiuto. Come dici, non è molto, ma significa tanto.
Qualche tempo fa mi ha colpito una storia che qualcuno ha raccontato in occasione di una serata a sostegno degli alluvionati in Emilia Romagna. Era la storia di un incendio nella foresta. Tutti gli animali fuggivano, eccetto un colibrì che invece andava avanti e indietro a raccogliere con il becco acqua dal fiume per buttarla sulle fiamme. Un esempio che ha poi contagiato tutti.
Come concludi tu: proseguiamo lungo il cammino, insieme.

IMPANTANATO NEL GUADO

Carissimi, vorrei condividere con voi una piccola parte delle memorie di missionari che ho incontrato ad Alpignano, nella loro casa di riposo.

I padri della Consolata raccontano spesso aneddoti del loro trascorso nelle missioni, in qualsiasi parte del mondo. Qualcuno ne ha fatto anche dei libri: pagine di esperienza (30 o 50 anni in quei luoghi) utili a capire meglio le genti e scuola per noi, ma sentirli dalla loro viva voce è un’altra cosa! Trentacinque anni fa ho avuto la fortuna di conoscere molto bene un padre ed una suor

a missionari in Kenya e di recente un loro confratello (padre Aimone Rondina) in Italia motivi di salute. Le sorelle sono, invece, a Venaria. Hanno tutti un passato non semplice, perché vivere in missione ti segna inesorabilmente; però trascorrono questi momenti con serenità e, pur consci che forse in missione non torneranno, il desiderio e la speranza restano vivi e forti. Probabilmente è questo il motore che dà loro l’energia per accettare la situazione, insieme alla grande fede che li accompagna.

Ecco qui un racconto raccolto dalle labbra di padre Rondina Aimone, classe 1929, nato negli Usa da genitori emigrati là dalla Marche, missionario nel Meru, Kenya, dal 1958 al 2017 (vedi foto finale).

Guado sul fiume vicino a Materi nel Tharaka (Kenya) durante la stagione secca.

Il guado, insidia e benedizione

In Africa, soprattutto nelle zone più remote, molte strade prima o poi sono interrotte da un guado, ne sono esenti solo le principali arterie asfaltate dotate di ponti. Il guado (wadi nelle zone desertiche sahariane) è un luogo dove è normalmente possibile attraversare un fiume senza pericolo, ma l’innocuo torrentello della stagione secca, alle prime piogge può trasformarsi in qualcosa di enormemente pericoloso. In un nonnulla il livello dell’acqua s’innalza anche di metri impedendo ogni passaggio. In certe zone il missionario ne deve attraversare parecchi nei suoi spostamenti per raggiungere le molte cappelle della sua missione. Immaginate che all’improvviso la pista davanti a voi finisca in un fiume di acqua impetuosa per ricomparire dall’altra parte cinquanta o anche cento metri (a volte più, a volte meno) più in là. Tu devi andare, hai un appuntamento con una comunità o devi tornare a casa. La macchina è una 4×4 con motore diesel, il livello dell’acqua non è poi così altro, il fondo è buono e non fangoso, la notte si avvicina, ponti in vista nessuno. Passare o non passare?

«Un giorno dovevo andare a visitare un villaggio a circa dieci chilometri dalla mia missione di Gatunga, nel Taraka (depressione arida nel Meru, nord est del Kenya). Sono partito con la mia auto tranquillo e fiducioso come sempre -preoccuparsi in anticipo non serve, se lo fai senza motivo, ti sarai stressato per nulla, se poi arriva la sorpresa il pensiero negativo ti avrà solo coinvolto prima del necessario -. Nel tragitto so di dover attraversare un guado problematico. All’andata nessun problema. Sulla via del ritorno incontro “casualmente” il vicecapo di quel villaggio che con gesti convincenti mi blocca, deve recarsi con urgenza in un luogo “piazzato” proprio lungo il percorso. Mi chiede un passaggio; lo accontento e lo scarico alla sua destinazione. Un po’ più in là un guado mi sta aspettando. Era quasi secco all’andata, ma nel frattempo c’era stata una grossa pioggia a monte. L’acqua è ben più alta, ma mi butto. Questa volta il Subaru 4×4 si emoziona al punto da restare incastrato nel bel mezzo del torrente, senza alcuna intenzione di muoversi. L’ora del tramonto si avvicinava e sono solo. Ansia. Improvvisamente quel vicecapo villaggio si materializza ancora una volta con altre persone. Provano a disincagliare la macchina, ma devono desistere. Si allontanano con qualche promessa. Il tempo intanto passa e la luce lascia il posto al buio pesto.

Ho un sussulto quando accanto al vetro vedo un volto apparire all’improvviso, meno male che lo conosco, mi porta qualcosa da bere, e poi anche lui se ne va.

Visto che ormai devo rimanere in quel luogo almeno sino al mattino dopo, mi barrico bene con le portiere e i finestrini bloccati, in previsione del mattino quando, alle prime luci, gli animali (elefanti compresi) sono soliti abbeverarsi nei corsi d’acqua. Mi addormento.

Preoccupazioni inutili (che scarsa fiducia ho avuto nel prossimo): mi desta il rumore di un motore che si avvicina, un bel camion con sopra un gruppo di uomini, fra loro ancora quel vicecapo del pomeriggio prima. Ha pagato di tasca sua il mezzo e la “forza manuale” per tirarmi fuori da quella situazione e finalmente, dopo mezz’ora di tira e molla, il Subaru si schioda dal fiume.

È stato uno dei tanti casi in cui ho sperimentato l’affetto vero della nostra gente».

Roberto L. Rivelli
20/06/2023

Padre Aimone Rondina nella missione di Materi, Tharaka , Kenya.




Dove l’amore vince le paure


Thomas Song e Rosa Kang, una coppia con due figli, nuore e nipoti, sono missionari laici della Consolata. Da giugno 2018 a gennaio 2022 sono stati  in Tanzania, nella «Faraja house» a Mgongo, vicino a Iringa. In queste pagine condividono il loro cammino.

La prima a sentire la chiamata alla missione alla missione nel 2016 sono stata io, Rosa, e quando l’ho condivisa con Thomas, mio marito, lui l’ha fatta sua. Dopo aver parlato della nostra chiamata con i missionari della Consolata a Yeokgok-dong, questi ci hanno accompagnato passo dopo passo in un processo di discernimento.
Come membri di un gruppo di sostegno dei Missionari della Consolata in Corea, avevamo già partecipato a due viaggi nelle missioni dell’istituto. Il primo era stato in Kenya nel 2004, in un tempo in cui le opportunità di viaggiare in Africa erano poche per noi. Allora eravamo molto ansiosi di vedere le bellezze naturali di quel continente, ma erano stati i grandi occhi dei bambini, il suono del loro canto e i poveri pannolini appesi a stendere che avevano catturato nostro sguardo molto più delle bellezze della natura. Ci eravamo allora resi conto che Dio è vivo e opera nelle attività dei missionari che stanno con amore con la popolazione locale.

Sul volo di ritorno, ci eravamo detti che dovevamo tornare, ma non è stato possibile farlo subito a causa dei fardelli della vita quotidiana.

Dopo molti anni, nel 2016, avevamo partecipato a un altro viaggio, questa volta in Mozambico. Era la nostra seconda volta in Africa, quindi, non ci aspettavamo di vedere nulla di speciale, ma io ero sicura che ci doveva essere un motivo per cui Dio ci aveva chiamati a vivere quello che per noi era un pellegrinaggio.

Ciò che il Signore ci aveva mostrato nel percorso erano stati bellissimi bambini pieni di giocosità e ritmo, capaci esprimere gioia con tutto il corpo, vestiti con abiti semplici e ricchi di colori, che quando stabilivano un contatti con gli occhi, contagiavano di gioia con i loro sorrisi.

Cosa ancora più importante: avevamo visto missionari che vivevano con quei popoli, non solo sacerdoti, ma anche laici.

Tuttavia, ci eravamo sentiti molto a disagio, ad esempio, per il fatto di non poter fare la doccia ogni giorno, visto che camminavamo in luoghi molto polverosi.

Conoscendo i miei limiti, ossessionata dall’igiene e dalla pulizia, avevo pensato che non sarei mai stata in grado di andare a vivere in un posto del genere, nonostante ci fossimo sentiti profondamente commossi dalla vita dei missionari e dalla loro fiducia in Dio.

Pochi giorni dopo il rientro dal pellegrinaggio, ero in chiesa per la messa. Tornata al mio posto dopo aver ricevuto l’Eucaristia, ho sentito la presenza di Gesù che mi diceva chiaramente: «Va’». In quel momento, il mio cuore si è riempito di gioia, gratitudine ed emozione indescrivibile, e le lacrime sono scese abbondanti. «Ah, questo è quello che vuoi da me. Alla fine, è per questa missione che mi hai chiamata vicino, mi hai insegnato, mi hai guidata, nutrita e addestrata». Ogni evento e ogni storia della mia vita mi sono apparsi  collegati in quel momento e tutto è diventato chiaro e luminoso come se si fosse messo in ordine in un istante.

Dopo la preghiera di ringraziamento, il giorno dopo, ne ho parlato con Thomas. Lui, pur stupito, ha risposto: «Sarò con te». Ci siamo quindi consultati con i padri della Consolata per capire se fosse davvero la parola dello Spirito Santo quella che ci chiamava. Dopo alcuni mesi di discernimento, la Consolata Corea ha deciso di inviarci in Tanzania, in Africa.

Missionari della Consolata in Corea con Thomas e Rosa

Processo di invio

Così dall’inizio del 2017 abbiamo cominciato la nostra formazione per diventare laici missionari, studiando anche lo swahili con l’aiuto di due missionari africani. Siamo andati in Tanzania per sei settimane per migliorare la preparazione. Dopo di che, abbiamo interrotto tutte le nostre attività in Corea.

A quel punto, cosciente di aver vissuto fino a quel momento una vita piacevole, pulita, confortevole, e sostanzialmente soddisfacente e buona dal punto di vista religioso e relazionale, sono andata un po’ in crisi e mi sono chiesta se ce l’avrei fatta a vivere in un posto sconosciuto che faceva prevedere una vita scomoda e difficile. Durante la messa di quel giorno, mentre guardavo la statua della Madonna Consolata accanto all’altare, mi sono venute in mente le parole: «Verrò con te» e «non sei sola». Era confortante e rassicurante sapere che la Madre del cielo ci sarebbe stata sempre accanto.

Nel maggio 2018, nella parrocchia di Seopangyo nella diocesi di Suwon, c’è stata la messa della consegna del crocifisso e del mandato missionario. Durante la celebrazione, il superiore regionale dell’Asia, il superiore regionale del Tanzania hanno firmato con noi un contratto di servizio per tre anni. Siamo partiti forti della nostra fiducia nell’amore di Dio e della Madonna.

Coro, bambini della santa infanzia e Rosa

Il sogno…

Avevamo un sogno nel cuore quando siamo stati mandati in missione: quello di vivere un buon rapporto con ogni persona che avremmo incontrato per testimoniare a tutti che nessuno è insignificante, ma che ognuno di noi è prezioso agli occhi di Dio che ci ama come figli e figlie.

Con questo sogno nel cuore, all’inizio, siamo stati a Dar Es Salaam nel centro di Bunju per circa quattro mesi, studiando la lingua, cercando di conoscere la cultura locale, ottenendo la patente di guida e il permesso di soggiorno.

Finita la preparazione siamo stati mandati alla Faraja house di Mgongo, non lontano da Iringa, la decima città del Tanzania. Mgongo è stato il nostro campo di missione, un centro pulsante di attività: asilo nido, casa per bambini abbandonati (la Faraja house – casa della Consolazione), scuola tecnica professionale, centro sanitario, officine e laboratori, falegnameria, stalle e campi per le coltivazioni. È un grande centro che si estende su quasi 200 ettari, con più di 30 dipendenti e circa 70 bambini nella scuola materna, 80 studenti nella scuola tecnica e 12 insegnanti.

Rosa stende il bucato nella sua stanza in un giorno di pioggia

… e la realtà

La gioia della partenza, però, è stata di breve durata e, all’inizio, vivere in un luogo in cui la lingua e l’ambiente di vita erano del tutto sconosciuti è stata una grande sfida per noi.

C’erano i topi che apparivano improvvisamente in cucina o in ufficio (mi facevano venire la pelle d’oca). Poi centinaia di insetti sciamavano sul pavimento della camera da letto, mentre altri si arrampicavano sul muro lasciando una traccia nera.

Il giorno in cui ho visto gli scarafaggi vagare nei cassetti della cucina, ho perso l’appetito. La lavatrice si rompeva spesso, quindi dovevo lavare biancheria, coperte e lenzuola tutto a mano. Poi ogni giorno mangiavamo sempre lo stesso cibo. Non ce la facevamo più: Thomas ha perso dieci chili e io sei.

Ci sono stati momenti molto duri con la tentazione di mollare tutto e tornare a casa. Ogni volta correvamo davanti all’Eucaristia con pianti e lamenti. Lì ritrovavamo la forza di andare avanti. Un giorno, mentre eravamo nella casa regionale di Iringa e non volevamo tornare alla Faraja, ci siamo seduti davanti al santissimo Sacramento nella cappella. Non era nemmeno il tempo della Quaresima, ma mi è venuto in mente l’inno «Con tanti dolori», e abbiamo cominciato a cantare. Era come incontrare Gesù nel Getsemani, pregare con Lui e condividere con Lui il calice. Lo sentivamo condividere le nostre fatiche.

Improvvisamente abbiamo visto come se Gesù si fosse alzato e messo in strada. «Vedere», questo ci ha dato la forza di portare la croce. «Sì, Gesù sta aprendo la strada. Questo non è un viaggio che stiamo facendo per divertimento o per piacere alla nostra volontà, ma siamo stati inviati. Dobbiamo quindi rispondere alla nostra missione».

Thomas con studenti

Il conforto dello Spirito Santo

Ci siamo resi conto che non c’era solo la croce da portare. C’erano cielo sereno e aria fresca, mango dolcissimi da mangiare, pasti pronti senza preoccuparsi del cucinare e della spesa, molti studenti e persone accoglienti che ci salutavano calorosamente. C’era il nostro essere insieme, noi due, che potevamo confrontarci tra noi in profondità. E, ovunque andavamo, amici amorevoli che facevano tifo e pregavano per noi, e amici preti e suore anziane che ci sostenevano, famiglie che ci portavano gli oggetti necessari o ce li inviavano dalla Corea, e una nipotina adorabile che voleva vederci e chiedeva quando saremmo tornati.

Anche il caloroso incoraggiamento di molti sacerdoti in Corea e degli anziani missionari che hanno vissuto a lungo in Tanzania ha aiutato molto.

Ciò che abbiamo capito è che non importa quanto uno sia peccatore, o quante ne combini nel suo cuore ogni giorno. Se quel peccatore piange e lotta, lo Spirito Santo, che dà profondo conforto e pace, lo ama ed è con lui.

Questo non è qualcosa che abbiamo capito o conosciuto con la nostra testa, ma una realtà che abbiamo sperimentato con tutto il nostro corpo e la nostra mente. Ringraziavamo lo Spirito Santo di Dio che è presente ogni giorno, e gli chiedevamo di usarci come strumenti di amore, di conforto e di pace.

Studenti e Rosa

Opere e giorni

Ho sentito dire: «I missionari non hanno libri di cucina», ed è vero. Il nostro desiderio era quello di non essere un peso e renderci utili.

La nostra presenza si inseriva in una realtà già avviata e all’inizio non è stato facile trovare lo spazio giusto per noi. Per questo abbiamo pregato molto e ci siamo confrontati con la comunità e sentito diverse opinioni. Siamo arrivati così a trovare il nostro spazio: Thomas è diventato il direttore generale del centro, gestendo la casa e la cassa, i registri contabili e le analisi finanziarie, le retribuzioni per i circa 30 dipendenti, la spesa per vari prodotti e il cibo necessario per il centro, la scuola e i vari laboratori. Io sono stata nominata vicepreside della scuola tecnica, e ho curato il sistema operativo accademico, come il calendario della scuola, l’orario, le riunioni degli insegnanti e la pianificazione e la gestione degli eventi del campus. In più ho cercato di migliorare l’ambiente di apprendimento con nuove attrezzature e materiali di formazione, con l’installazione della biblioteca e l’espansione dei laboratori informatici.

Nella seconda metà dell’anno ho preso lezioni sull’imprenditorialità e, così, ho insegnato agli studenti che avevano difficoltà a trovare lavoro le conoscenze di cui avevano bisogno per avviare un’attività in proprio.

Ma la cosa più importante è stata andare in giro con un sorriso ogni mattina all’inizio delle lezioni, visitare i ragazzi ogni sera durante lo studio individuale, salutare tutti con affetto e offrire vicinanza materna ai bambini feriti o malati.

La maggior parte degli insegnanti e del personale era giovane, sui trent’anni, quindi ci sembrano figli e figlie. Era anche importante per noi prenderci cura di loro e delle loro famiglie, ascoltare le loro lamentele e aiutare con tutte le possibili soluzioni.

Regalo di addio del coro

Oltre il Covid-19

La crisi del coronavirus ha creato ancora più sfide per noi e ci ha fatto diventare più vicini al Signore per superare le nostre paure, visto che era diventato più difficile avere conversazioni normali con i nostri studenti, il personale e i cristiani locali. Però abbiamo anche sperimentato la grande vicinanza spirituale e materiale di tante persone tramite le donazioni di amici e conoscenti coreani, il sostegno della famiglia missionaria della Consolata, gli aiuti dalla nostra parrocchia di Gochon che si sono trasformati in pneumatici per il trattore, cibo per bambini, scrivanie e sgabelli, laboratori informatici, biblioteche e libri, stipendi dei dipendenti, attrezzature e borse di studio per i bambini poveri.

Mentre ci muovevamo passo dopo passo e vedevamo compiersi miracolosamente le cose che noi, carenti e deboli, non avremmo mai potuto immaginare fossero compiute, ho capito di nuovo: «Questa è davvero l’opera dello Spirito Santo». Ciò che è gratificante più di qualsiasi altra cosa è condividere amore e amicizia con coloro che ti circondano. Quando il nostro contratto è scaduto e molti, sia missionari della Consolata, che  gente della diocesi e persone del nostro centro, ci hanno invitato a rinnovare il contratto, siamo stati così grati da pensare che probabilmente non eravamo andati così male.

I nostri bellissimi studenti stanno facendo il tifo per una partita amichevole con una scuola vicina

Apostoli della grazia

Guardando indietro, sentiamo davvero che la Consolata ci è stata vicina come una madre e che lo Spirito Santo, come un pastore con il suo bastone, ci ha guidato passo dopo passo per sentieri inediti. Come missionari abbiamo avuto la grazia di vedere e sentire lo Spirito Santo all’opera in noi per farci diventare un canale di amore e grazia tra il popolo della lontana Corea e quello del Tanzania. Ci è stata data la grazia di diventare un piccolo mattone di un edificio.

Per gli aspiranti missionari

La montagna dietro casa nostra è ripida all’inizio, quindi quando sali ti senti mancare il respiro. Allora ti viene la tentazione di fermarti e tornare indietro, ma se tieni duro e raggiungi il crinale, scopri che si apre un sentiero e puoi continuare a salire senza difficoltà. Così è stato con la nostra vita in missione.

Ci siamo anche sentiti un po’ come Pietro quando ha camminato sull’acqua. Inizi guardando a Gesù, ma una volta che ci sei entrato nell’acqua il rischio è di affondare e perdere la gioia e la gratitudine, circondato come sei da problemi difficili. Per non affondare ulteriormente nell’acqua, devi smettere di essere centrato sul tuo ego e stabilire un nuovo contatto visivo con Gesù. Pertanto, la sfida più importante per i missionari è quella di non contare solo sulle proprie forze, ma lasciare tutto allo Spirito Santo, rimanere in Lui e vivere come Lui ci guida. Quando viviamo così, crediamo che Dio è un Padre che ci ama molto e fa di tutto per far crescere i semi e raccogliere frutti. Grazie.

Thomas Song e Rosa Kang*

* Coppia coreana di missionari laici della Consolata. Hanno due figli, con nuore e nipoti. Dopo aver studiato economia aziendale, Thomas ha lavorato a lungo e ora si occupa di promozione dell’economia sociale, mentre Rosa ha studiato fisica e scienze dell’educazione. Ha insegnato alle superiori e all’università.




Dall’obiezione al servizio civile


Nel 1972 viene emanata la legge che riconosce l’obiezione di coscienza al servizio militare, ma la sua forma punitiva mostra che la strada da percorrere è ancora lunga. Cinquant’anni di lotte per affermare il diritto di servire il bene comune ripudiando le armi.

«Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Così viene accolta la legge 772 del 15 dicembre 1972 che introduce il servizio civile in Italia da «Azione nonviolenta», il periodico fondato da Aldo Capitini e allora diretto da Pietro Pinna, il primo obiettore al servizio militare in Italia a dare «pubblicità» alla propria scelta. Si tratta di un sentimento diffuso tra obiettori e pacifisti.

Una legge «punitiva»

Tanti sono i punti di insoddisfazione: innanzitutto, la legge riconosce la possibilità dell’obiezione per i soli motivi religiosi, morali e filosofici, ma non per quelli politici; poi indica un tempo limitato nel quale si può presentare la domanda di obiezione, cosa che esclude maturazioni successive dell’obiezione.

In più, gli obiettori rimangono dipendenti dal ministero della Difesa, condizione che porta anarchici e, in particolare, testimoni di Geova, cioè il gruppo più consistente, a rifiutare la legge.

Inoltre, la durata del servizio civile è superiore di otto mesi rispetto al servizio militare.

Infine, la legge prevede una commissione che ha il potere di vagliare le motivazioni degli obiettori sulla base di una dichiarazione scritta e di un rapporto dei carabinieri.

Chi rifiuta di prestare il servizio civile o chi, non riconosciuto dalla commissione, insiste nell’obiezione di coscienza, è condannato a una pena tra i due e i quattro anni di carcere militare (che, con le attenuanti, scende spesso a circa 16 mesi).

La norma inaugura una fase nuova nella storia dell’obiezione al servizio militare. La stessa espressione «obiettore di coscienza» muta sul piano semantico (estendendosi ad altri ambiti, ad esempio quello sanitario): non individua più solo chi «getta la propria coscienza» (dal latino ob-iacio) contro un ordinamento che si ritiene ingiusto, ma anche chi sceglie un’opzione garantita dalla legge. Inoltre, per quanto sia costretta a snodarsi tra molte restrizioni, prende corpo la realtà nuova del servizio civile.

da Archivio Centro studi Sereno Regis

La lega obiettori

Poco più di un mese dopo l’approvazione della legge, obiettori e movimenti fondano la Lega obiettori di coscienza (Loc), che si prefigge due obiettivi: quello di modificare la legge, e quello di trasmettere al nuovo servizio civile l’esperienza antimilitarista della lotta precedente.

Fin dall’inizio è evidente il legame con il Partito radicale, che, con lo sciopero della fame di Marco Pannella e Alberto
Gardin, aveva «imposto» al parlamento il riconoscimento dell’obiezione di coscienza: la Loc, infatti, costituisce la propria sede nelle stanze del quartier generale del partito in Largo Torre Argentina.

Il primo anno è difficile. Il ministero della Difesa non si premura di attivare il servizio civile, mentre la commissione nominata dal governo interpreta la legge 772 nella forma più restrittiva: anche alcuni obiettori che erano stati in carcere vedono le loro domande respinte. Nei primi due mesi di gennaio e febbraio, sono 9 su 29 gli obiettori non riconosciuti.

Inizialmente, un ritardo di qualche ora nella presentazione della domanda può comportare svariati mesi di carcere.

L’ostracismo del ministero della Difesa culmina alla fine del 1973 con una circolare che intende arruolare tutti gli obiettori riconosciuti alla Scuola dei vigili del fuoco di Passo Corese (Rieti).

Il rifiuto compatto della Loc e degli obiettori lo costringe tuttavia a fare macchina indietro.

Fallito il colpo di mano, il ministero muta strategia, alternando concessioni, ad esempio sui ritardi delle domande, a un boicottaggio meno manifesto, fatto di dilazioni nell’evadere le richieste o di rifiuti al sostegno economico per i corsi di formazione.

Il suo disinteresse alla realizzazione di un servizio civile nazionale lo porta a delegarne l’attuazione interamente alla Loc, che però non è organizzata per un simile sforzo. In questa fase difficile, ma anche creativa, di autogestione, viene in soccorso, per quanto possibile, il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione), guidato da Hedi Vaccaro e poi da Domenico Sereno Regis: essendo tra i primi enti a firmare una convenzione con il ministero, destina gli obiettori alle sedi locali della Loc, perché siano impiegati nell’organizzazione burocratica dello stesso servizio civile.

Mutazioni e sfederazioni

Le prime esperienze partono nel 1974. Tre corsi di formazione cominciano alla Comunità Capodarco di Fermo, alla Casa dell’ospitalità di Ivrea e all’Ospedale psichiatrico di Trieste, quello diretto da Franco
Basaglia. In seguito gli obiettori sono smistati negli enti che firmano la convenzione: sono impiegati soprattutto in ambito sociale, ad esempio nelle comunità di tossicodipendenti del Gruppo Abele o in quelle per minori dell’Istituto don Calabria, o, ancora, in comuni sperduti, come Castelmagno (Cn).

Particolarmente significativo, anche per la sua rilevanza politica, è il servizio civile avviato all’Ital Uil, a Vicenza.

Date le molte anime che compongono la Loc, si innescano al suo interno conflitti che diventano man mano difficili da comporre. In particolare, chi fa riferimento al Partito radicale ritiene il servizio civile un accessorio rispetto al vero fine dell’organizzazione che deve rimanere l’antimilitarismo. Al contrario, per molti enti e per i nuovi obiettori che non hanno alle spalle le precedenti battaglie, la Loc dovrebbe mantenere l’identità antimilitarista subordinata all’azione «sindacale», sia muovendosi tra gli spazi garantiti dalla legge, sia mobilitandosi per un cambiamento.

Vedendo la propria linea diventare sempre più minoritaria con la crescita degli obiettori, il
Partito radicale opta nel 1978 per la «sfederazione» dalla Loc e orienta la propria battaglia in due direzioni: i referendum per l’abolizione di codici e tribunali militari (la Corte costituzionale ne consentirà solo uno, quello sulla composizione dei tribunali militari che sarà sufficiente per una riforma della giustizia militare) e la creazione della Lega socialista per il disarmo, poi confluita nella Lega per il disarmo unilaterale.

Nei mesi precedenti sono avvenuti altri due fatti rilevanti per la storia del servizio civile: il ministero ha emesso, dopo cinque anni, le norme attuative del servizio civile, e la Caritas, nata nel 1971, ha firmato la convenzione, accogliendo i primi obiettori. Finisce la stagione dell’autodeterminazione e comincia quella nella quale i grandi enti capaci di mobilitare centinaia di giovani, vedono crescere il proprio peso a discapito della Loc.

Ancora il carcere

Le restrizioni di una legge che non riconosce la scelta del servizio civile come un diritto, fanno sì che l’obiezione assuma ancora forme «sovversive».

A parte la scelta dei testimoni di Geova di non politicizzare il loro rifiuto e di non conferirgli rilievo pubblico, si aprono, infatti, spazi di contestazione della legge, soprattutto laddove essa mantiene la subordinazione alla realtà militare.

Gli obiettori «totali», quelli che rifiutano sia il servizio militare che quello civile per il modo in cui è regolamentato, e quelli che persistono nel rifiuto vedendo respinta la propria domanda, continuano a scontare il carcere militare e conferiscono alla loro opposizione un rilievo politico.

Una delle azioni più incisive nasce nel carcere di Gaeta (Latina), condotta simultaneamente nel 1975 da due obiettori «totali» e un obiettore con domanda respinta: Dalmazio Bertulessi,
Bachisio Masia ed Ezio Rossato. Con uno sciopero della fame prolungato, innescano una nuova attenzione sulle carceri militari: chiedono condizioni di vita migliori per i detenuti, la fine della censura della stampa, una più larga disponibilità di visite, la rimozione dei limiti alla corrispondenza. Per il momento ottengono solo il trasferimento a Forte Boccea, carcere giudiziario militare a Roma, e l’interessamento di alcuni parlamentari.

Un nuovo sciopero che coinvolge anche Francesco Galli, detenuto a Peschiera del Garda (Verona), consegue alcuni risultati: la riforma carceraria del ‘72 viene infatti estesa dai penitenziari civili anche a quelli militari, nei quali viene ora consentito l’ingresso ai parlamentari.

Le condizioni tremende di Gaeta sono così certificate da un’ispezione, e di lì a pochi anni il reclusorio viene chiuso.

Tre anni dopo, una nuova forma di protesta nasce nella comunità per disabili mentali di
Prunella di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria). Sandro Gozzo, tra i primi obiettori della Caritas, interrompe otto mesi prima del termine il servizio civile che sta svolgendo in quella struttura. Si tratta di un’azione che intende affermare la pari dignità tra servizio civile e militare: «Ritengo incostituzionale e quindi inaccettabile la discriminazione nei nostri confronti», scrive in un’autodichiarazione. Per questo sconterà otto mesi di carcere militare.

Nei mesi e negli anni successivi lo seguono altri, come Silverio Capuzzo e Antonio De Filippis.

Inizialmente la protesta sembra rimanere un puro atto simbolico, ma, con la decisione della corte costituzionale nel 1986 di trasferire dai tribunali militari a quelli civili i giudizi sugli obiettori, anche la differente durata dei due servizi diventa oggetto di un pronunciamento di costituzionalità.

Nel 1989, infatti, la consulta ne statuisce l’equiparazione: la maggiore durata del servizio civile è letta come una sanzione in contrasto con i diritti tutelati dalla Costituzione, «in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero».

Distruzioni a San Gregorio causate dal terremoto dell’Irpinia nel novembre 1980.

Un servizio civile di massa

Al principio degli anni Ottanta, a Padova, presso la sede locale del Mir, alcuni giovani cominciano ad adoperarsi per contrastare l’attitudine del ministero della Difesa a respingere annualmente diverse richieste di servizio civile. Dalla fine degli anni
Settanta, infatti, le domande respinte hanno ripreso a risalire: nasce una commissione ad hoc che assume un rilievo nazionale, preoccupandosi di organizzare un affiancamento giuridico agli obiettori non riconosciuti.

In quel decennio gli obiettori sono ormai migliaia ogni anno. Si tratta di una prova della trasformazione della società: il servizio militare e la retorica del sacrificio e dell’obbedienza hanno sempre meno appeal tra i giovani, mentre per una generazione che scopre il volontariato come nuova forma di impegno sociale, il servizio civile rappresenta una pratica di sperimentazione e di percezione della propria utilità.

Inoltre, pur non mancando le precettazioni d’ufficio, casi di distacchi lontano dalla propria residenza o di servizi faticosi e frustranti, nella maggior parte dei casi il servizio civile può essere svolto vicino a casa, spesso nell’ente prescelto.

A dare un ulteriore contributo al suo sviluppo è l’ingresso di un altro grande ente che si affianca alla Caritas, ovvero l’Arci: con la loro ramificata struttura, le due organizzazioni possono gestire molteplici sedi e garantire un luogo identitario a obiettori cattolici e di sinistra.

Un altro contributo alla crescita del numero di obiettori viene anche, nel 1979, dalla circolare emessa dal ministero della Difesa, retto dal socialista Lelio Lagorio, che prevedeva il congedo per gli obiettori in attesa di chiamata da oltre 26 mesi chiarendo così l’approccio svalutativo del governo nei confronti del servizio civile. Il provvedimento esplicitava che si preferiva liberarsi degli obiettori piuttosto che investire in favore di un’organizzazione capace di evadere le pratiche in tempi consoni.

La presenza pubblica degli obiettori diventa particolarmente visibile in occasione del terremoto dell’Irpinia, avvenuto il 30 novembre 1980. Già per il terremoto in Friuli di quattro anni prima non era mancato l’impegno degli obiettori, ma ora, grazie all’azione di diverse realtà, in primis la Caritas, è ben più forte.

A partire dal 1981 si assiste, invece, all’autodistaccamento di molti obiettori per partecipare alla grande mobilitazione contro gli euromissili nucleari di cui si prevede l’installazione nella base militare americana di
Comiso (Ragusa).

Per due anni l’obiezione sembra tornare alle origini, ma in realtà si tratta di una punta avanzata, rispetto a un ventre che, crescendo nei numeri, è mosso da motivazioni meno radicali, volgendosi soprattutto all’aspetto solidaristico del servizio civile.

È il prezzo inevitabile della trasformazione di un’esperienza fino a questo momento elitaria.

Un ulteriore impulso viene dalla già citata sentenza della corte costituzionale del 1989 che equipara leva e obiezione, permettendo anche a chi viene da contesti economici precari di optare per il servizio civile.

Dalle migliaia si passa alle decine di migliaia: il servizio civile è ormai una realtà di massa.

guerra jugoslavia – Condomini bruciati nel centro di un quartiere serbo di Sarajevo

Un servizio universale

La sentenza della corte costituzionale del 1989 rivela l’anacronismo di una norma che ancora non riconosce l’obiezione come diritto. L’azione sindacale del Cesc, il Coordinamento di enti di servizio civile, nato nel 1982, quella più movimentista della Loc, e alcune iniziative che hanno una certa risonanza come i digiuni del dehoniano padre Angelo Cavagna, spingono le istituzioni a promuovere una revisione della norma.

Dal 1972 alla camera e al senato sono stati presentati numerosi progetti di legge, ma i governi che si sono succeduti non hanno mai sostenuto una riforma.

Nel 1992, invece, finalmente, i due rami del parlamento approvano l’attesa sostituzione della legge 772 con una che riconosce l’obiezione di coscienza come diritto. Tutto l’arco parlamentare è unanime, con l’eccezione, scontata, dell’Msi. A mettersi di traverso è il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La norma è rimandata, infatti, alle camere, a poche ore dall’avvio della procedura del loro scioglimento. Per giungere a una legge che stabilisca il diritto di scelta saranno necessari altri sei anni.

Ci si arriva solo nel 1998, dopo che un’intera stagione politica è finita: è passata tangentopoli e la prima repubblica ha chiuso i battenti.

Anche per l’obiezione di coscienza alcune cose sono cambiate. Il conflitto in Jugoslavia ha riportato lo spettro della guerra in Europa: per iniziativa dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, alcuni giovani hanno abbandonato il loro servizio e si sono
recati in zona di guerra. Si trattava di una scelta non consentita dalla norma in vigore, ma che apriva a un importante sviluppo del servizio civile, in un’ottica di difesa nonviolenta che intervenga tra i paesi in conflitto.

Partendo da questa esperienza nascono i caschi bianchi.

Con la legge del 1998 e la trasformazione dell’obiezione di coscienza in diritto, avviene l’inevitabile sorpasso: entrando nel nuovo millennio, le domande di servizio civile superano per la prima volta quelle di leva, oltrepassando le centomila richieste.

Una storia legislativa fino a questo momento piuttosto paludata, accelera improvvisamente.

Anche le donne

Nel 2001 viene creato il nuovo servizio civile nazionale, aperto anche alle donne, e si prevede la sospensione della leva a partire dal 2007: si tratta di un istituto ritenuto ormai superato rispetto alle esigenze di professionalizzazione dell’esercito.

Sembrano intervenire anche preoccupazioni economiche che guardano alla massa di giovani che preferiscono il servizio civile: un numero contingentato di volontari sarebbe meno oneroso per lo stato: la sospensione viene anticipata al 2005 e da allora il nuovo servizio civile volontario rimane l’unico erede della precedente esperienza.

Per la prima volta ragazzi e ragazze si trovano fianco a fianco in un istituto che non prevede più differenze di genere. Anzi, un’esperienza nata in una forma totalmente maschile vede le ragazze diventarne le principali protagoniste (nel 2021, oltre il 63% saranno donne).

Nel 2015 si compie l’ultima mutazione, e il servizio civile diventa, a tutti gli effetti, universale: ancora una volta è la Corte costituzionale a garantire quell’avanzamento che la politica non riesce a intraprendere: essa allarga, infatti, la possibilità di fare domanda anche a stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

La nuova realtà del servizio civile nasconde tuttavia anche alcune ombre: la sua progressiva meridionalizzazione racconta un’Italia divisa, dove le opportunità di lavoro tra Nord e Sud sono drammaticamente diverse e in molti casi i 443 euro mensili diventano una valvola di sfogo alla disoccupazione.

Laddove gli enti che accolgono i giovani in servizio civile non sono consapevoli di quanto esso possa essere una vera scuola di cittadinanza, essi corrono il rischio di smarrire il contatto con i suoi principi e di farlo degenerare in un lavoro sottopagato, subordinato alle esigenze di bilancio dell’organizzazione.

Fare in modo che ciò non accada è la sfida che molti enti stanno raccogliendo con crescente attenzione.

Marco Labbate*

 * È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di Storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino e con l’associazione Il portico di Dolo (Ve).


ARCHIVIO
Marco Labbate, Tu non uccidere, MC luglio 2022, p. 26.
– Si veda anche «Librarsi» di questo numero.




Benvenuti ad Aguas Santas


Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.

«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».

I più poveri tra i poveri

Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.

Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.

«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».

Incontro ai bisognosi

José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.

Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.

Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».

«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).

La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.

La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».

I primi ospiti e il Covid

Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.

Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.

È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.

Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».

I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».

Lingua e lavoro

Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.

«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».

José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».

Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.

Convivenza interculturale e interreligiosa

Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.

Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.

«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.

Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».

La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».

Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.

Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.

«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».

La quotidianità

«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.

Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».

Diventare autonomi

Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.

«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».

Famiglie ucraine

Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.

«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.

Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.

Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.

Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».

Convivenza facile

«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».

José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.

Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».

Missione in Europa

Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.

«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.

Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.

Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.

Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».

Luca Lorusso
foto di José Miranda




Le nuove energie dell’Africa


Prima volontario, poi esperto in micro impresa e console onorario. Dopo quattro decadi e mezzo di lavoro nell’Africa più povera, Paolo Giglio si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Spiega perché la cooperazione non funziona, e propone soluzioni.

«Sono accettabilmente vivo. L’anno prossimo avrò 70 anni, devo prepararmi». Esordisce così Paolo Giglio, piemontese di Cascinette d’Ivrea (To), che vive e lavora nel Sahel da 45 anni. Ci conosciamo oramai da alcuni decenni, dalla fine del secolo scorso. Volontario, cooperante, console onorario d’Italia in Niger, ma anche sperimentatore senza sosta di nuove tecniche su energie alternative e agricoltura, che devono però essere sempre adattate al contesto saheliano. Paolo è anche Cavaliere Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

La sua parlata chiara e schietta è intervallata da qualche battuta e, ogni tanto, dalla sua tipica «grassa» risata, quasi a volere sdrammatizzare temi che sono pesanti come macigni.

Paolo ha attraversato la storia della cooperazione allo sviluppo dai suoi inizi a oggi: «La cooperazione è sempre peggio – ci dice in collegamento da Niamey, Niger -. Oramai i progetti hanno solo amministratori, perché di tecnici non c’è più bisogno. Se una saldatura è fatta male, nessuno la va a guardare, ma se la fattura è sbagliata, allora sei fregato».

Così, l’anno scorso, ha voluto raccogliere alcuni suoi scritti – sì, Paolo sa anche scrivere – e, insieme all’amico Stefano Bechis, agronomo, docente all’Università di Torino, esperto di energia solare per l’agricoltura e compagno di mille progetti, ha pubblicato il volume «Nuove energie per l’Africa», uscito in italiano e francese, per l’Harmattan.

Chiediamo a Paolo il perché di questo libro. «Arrivai in Alto Volta (poi Burkina Faso, nda) il 22 marzo del 1973. Sono passati un po’ di anni e mi sono detto che certe idee bisogna dirle, proporle. Poi magari non verranno accettate, ma pazienza, occorre farlo».

Arrivato in Africa che non aveva ancora 21 anni, era uno dei primi obiettori di coscienza riconosciuti dalla legge italiana del 1972 e faceva il servizio civile sostitutivo di quello militare. Era con la Ong Lvia che in quegli anni muoveva i primi passi. «Poi la cosa mi è piaciuta e mi sono fermato. Altri che hanno svolto il servizio nel mio stesso periodo, non sono mai più tornati. All’inizio ho fatto tanti errori, ma ho anche imparato molto. Purtroppo, quello che vediamo noi adesso è che i giovani arrivano e dopo un anno pensano di avere risolto tutti i problemi».

Paolo ha visto passare, e spesso ha accolto, generazioni di volontari, cooperanti, esperti. Gli chiediamo cosa è cambiato nell’approccio al volontariato internazionale. «Negli anni ‘70 arrivavamo senza una formazione specifica – io, ad esempio, sono maestro – e allora cercavamo di imparare. Osservavamo il paese per capire. Adesso lo prendono come un mestiere qualsiasi. Ma se uno non ci crede almeno un po’, in questo campo i risultati non possono esserci».

Paolo non è benevolo con i finanziatori. «I tecnocrati europei, non lo fanno apposta a dire stupidaggini, ma ne sono convinti. Ci sono cose (nella cooperazione, nda) che vanno completamente al di fuori della realtà del paese. Negli obiettivi dei progetti, ad esempio, leggiamo sempre le stesse frasi, come il discorso di aiutare gli ultimi. Poi, nella realtà, con le procedure che ci sono attualmente, vengono aiutati gli intermediari, che sono già ricchi, e non i più poveri».

Paolo da molto tempo spinge sulla micro imprenditorialità locale, tema di cui è stato antesignano e al quale sono oggi arrivati tutti i principali finanziatori, come Unione europea e Cooperazione italiana. Ma anche qui, c’è qualche problema di approccio. «Come scegliamo le microimprese da appoggiare? Loro (i finanziatori, nda) vogliono che si faccia sulla base di un business plan. Ma qui in Niger l’84% della popolazione non sa né leggere né scrivere, come si fa? Si deve fare un’analisi di fattibilità e opportunità con le persone, andandole a trovare, nei quartieri, nei villaggi. E non, ad esempio, invitandoli in venti in una sala a seguire un seminario, come si fa spesso». Paolo ha una massima che lo guida sempre: «Siamo noi che dobbiamo adattarci alla situazione e non la situazione che deve adattarsi a noi».

Contadino pompa acqua nel sistema di irrigazione,comune di Gouna, Zinder, Niger

Adattarsi alla povertà

Nel suo libro, il console propone delle soluzioni. Intanto scrive che ha osservato un adattamento della gente alla povertà, perché non si può lottare eternamente contro una situazione, allora ci si adatta. «Quelli che possono uscire da questa situazione sono coloro che non hanno niente da perdere, quelli che sono già emarginati a causa della tradizione ancestrale, ovvero giovani e donne. Quello che io propongo è di “selezionare chi spicca”, non in base alla carta geografica o al reddito, come spesso fanno i progetti, ma identificando chi ha già iniziato, senza aiuti esterni, una certa attività. Queste persone potrebbero farcela, allora vale la pena aiutarli». L’appiattimento di una data popolazione sulla povertà e sugli aiuti forniti dall’esterno sono una costante nelle aree con economia di sopravvivenza.

«Un aspetto che è migliorato rispetto al passato, è che noi tendiamo a lavorare attraverso gli eletti locali (sindaci, ecc.). Questi, soprattutto in area rurale, hanno interesse che le cose funzionino, sia perché sono del posto, sia perché sperano di essere rieletti. Lavorare con i funzionari statali, invece, è più complicato, perché, che lavorino o no, lo stipendio lo portano a casa. Ma questo è così in tutti i posti del mondo».

«La Cooperazione internazionale è sempre più lontana dalla realtà», aggiunge ancora il veterano. «Ad esempio, dicono che ci sono troppi bambini in Niger e bisogna sensibilizzare. Ma se un contadino non ha dieci figli che, quando sarà vecchio, gli daranno di che vivere, come farà? Qui, su 22 milioni di abitanti, i pensionati sono settemila, e tutti della funzione pubblica».

Altra regola d’oro di Paolo Giglio: le tecnologie utilizzate nei progetti devono essere il più possibile riparabili localmente. Questo, oltre che a far funzionare le cose, fa girare l’economia locale.

E qui si torna agli artigiani, visti come microimprenditori del settore privato.

«Bisogna lavorare con gli artigiani, sedersi con loro, discutere di quello di cui hanno bisogno e cercare di aiutarli a quel livello».

«Ma i donatori hanno bisogno di quelli che sanno parlare bene, per farsi pubblicità e usarli in quei seminari e simposi che non servono a niente. Ci sono imprese che vincono premi, ad esempio sull’energia solare, ma non hanno mai posato un pannello solare».

Un esempio molto semplice: «Le donne che fanno da mangiare per strada a Niamey (capitale del Niger). Tutte insieme hanno un giro d’affari che supera quello della più grossa società del Niger. Ognuna di loro riesce a far credito a 10-12 funzionari i quali pagano solo a fine mese, quando ricevono lo stipendio. Loro dovranno andare a comprare la materia prima a credito, perché non hanno liquidità. Il loro beneficio è inoltre piccolissimo. Se si desse loro un micro credito, potrebbero raddoppiare il loro margine di guadagno, perché non pagherebbero il credito sulle materie prime. Queste donne non possono riempire dei documenti e non hanno il tempo di seguire dei seminari. Se non lavorano, non mangiano».

Una nuova borghesia

Paolo Giglio, nel suo libro, parla della necessità di una nuova borghesia per trainare lo sviluppo del paese. «In questi paesi ci sono i grossi commercianti, pieni di soldi, e i funzionari, ovvero gli impiegati pubblici. Non c’è nulla in mezzo che produca qualcosa. Si tratta di pura compravendita. Produrre qualcosa, anche fuori dal campo agricolo e zootecnico, è possibile. Anche se lo spazio si è ristretto, in quanto il mercato è invaso di prodotti cinesi, di cattiva qualità, ma di costo imbattibile. Bisogna appoggiare fabbri, falegnami, affinché non siano sempre i più poveri. Che possano comprarsi una casa, produrre manufatti concorrenziali e creare lavoro». Giglio parla di una classe media produttiva, oggi inesistente. Appoggiando la creazione di questa classe, si indurrebbe sviluppo economico nel paese.

Energia dell’Africa

Perché il libro di Giglio e di Bechis si intitola «Nuova energia per l’Africa»? Tolto il fatto che entrambi lavorano da molto tempo con la tecnologia solare, soprattutto per il pompaggio di acqua dai pozzi (l’acqua è il bene più importante nei paesi del Sahel), e che nel libro c’è un lungo capitolo che ne spiega l’impiego, le nuove energie per Paolo sono qualcosa di più profondo: «Intendo l’energia che la gente può mettere a disposizione per cambiare le cose. Sono quelli che bisogna appoggiare con i progetti di sviluppo. Faccio l’esempio di una ragazza che si è messa a produrre un certo tipo di borse e ha dato lavoro a sessanta donne rurali. Questo è un esempio virtuoso, di quelli da appoggiare».

Bisogna fare poi molta attenzione alle pressioni sociali che i nostri artigiani possono avere. Se ad esempio si viene a sapere che una micro impresa funziona bene, subito ha addosso frotte di famigliari che chiedono un aiuto, e l’impresa fallisce.

Un’altra problematica che affligge il Sahel da una decina di anni è la sicurezza. Come abbiamo già scritto in vari articoli, tutta l’area è territorio di diversi gruppi jihadisti internazionali, dai quali il Niger non è esente. Per chi segue progetti di sviluppo è diventato molto difficile andare sul campo, nei villaggi e nei luoghi nei quali le attività sono realizzate. «È un ulteriore blocco alla cooperazione di prossimità, soprattutto per i giovani che arrivano. È diventato quasi impossibile andare sul terreno. Ma se si facesse un po’ di prevenzione, con progetti in certe aree, come le periferie urbane, magari si riuscirebbe a salvare qualcosa. Voglio dire che se ai piccoli banditi dai una pompa solare, magari tornano a coltivare. Ovviamente non riusciamo a influire, invece, sul terrorismo».

Migrazione reciproca

Paolo fa una proposta molto operativa e provocatoria per incentivare luso della terra in questi paesi. Attirare giovani imprenditori agricoli europei a installarsi nei paesi del Sahel, in modo da assumere gente e insegnare loro certi mestieri. «È una proposta originale. Non si tratta di nuovi coloni, ma piuttosto di migrazione nelle due direzioni. Penso a microimprese europee che possono aiutare lo sviluppo di questi paesi. Sovente lo sviluppo non è fatto da soli autoctoni, che hanno più blocchi sociali, ma da un giusto mix di locali e stranieri con competenze. Ad esempio, a Niamey, lungo il Niger, sono i Burkinabè che hanno fatto gli orti per primi. Poi i nigerini hanno copiato». E conclude: «Se sono non sposati magari si sposano e restano, altrimenti, se se ne vanno, non possono certo portarsi via la terra».

Marco Bello

Giovani contadini dissodano la terra, sito di Gandou (Gouna), Niger


Come burocrazia e procedure uccidono l’aiuto allo sviluppo

La cooperazione che inganna

Parlando di Unione europea, le agevolazioni della Politica agricola comune (Pac), con 386 miliardi di euro in 7 anni (33% del budget dell’Unione europea), sono destinate per l’80% al 20% delle imprese agricole europee più importanti.

Eurostat indica che nel 2015 sui 22,3 milioni di micro imprese dell’economia europea (settore finanziario escluso) il 92,7% erano imprese con meno di 10 addetti, rappresentando quasi il 30% dei posti lavoro dell’Unione. E ricevevano pochissime agevolazioni.

Lo stesso capita con i progetti di aiuto ai paesi poveri. La stragrande maggioranza dei cosiddetti donatori istituzionali (ad esempio l’Unione europea, l’Agenzia italiana per l’aiuto allo sviluppo…) ha creato delle procedure talmente complicate che i destinatari «piccoli» non riescono ad adeguarsi. Sono quindi i grandi a vincere le commesse e a fare le realizzazioni come intermediari, a carpire gran parte della torta.

Molti affermano che, per esempio, nelle colture orticole ci sono troppi intermediari fra il coltivatore e il cliente. E si inizia a parlare di «distanza zero», situazione nella quale il produttore vende direttamente al consumatore.

Anche nei progetti di sviluppo bisognerebbe tornare alla distanza zero, o quasi, in modo che l’intermediazione fra il donatore e il beneficiario finale sia meno ingombrante possibile. Bisognerebbe poi favorire i progetti eseguiti attraverso strutture locali no profit presenti nella zona d’azione, le quali possono tessere dei legami duraturi nel tempo con i beneficiari finali.

Con la cooperazione stiamo veramente aiutando i poveri? Attualmente no. La maggior parte dei donatori ha intriso il proprio approccio di una burocrazia tale che lo scavatore di pozzi del villaggio non ha nessuna possibilità di ottenere la commessa per fare un pozzo nel suo villaggio, cosa che permetterebbe di dare lavoro e arricchire un pochino la comunità.

Si parla di trasparenza perché sono state introdotte gare di appalto anche per i piccoli contratti, come se gli appalti potessero evitare le «indelicatezze». Non le evitano per niente. Queste pesanti procedure proteggono dei tecnocrati incompetenti che sanno accumulare giustificativi, ma non saprebbero controllare se il pozzo è a modo, se una saldatura è ben fatta o se la manutenzione della tecnologia introdotta può essere fatta localmente. Questo «protegge» anche molti cooperanti, che non vogliono più lavorare sul terreno con delle esecuzioni in regia (tramite coordinamenti dei diversi attori, ndr) dove bisogna sudare sotto il sole per seguire il lavoro quotidianamente. Questi stessi cooperanti si adattano troppo facilmente alle regole burocratiche che permettono loro di restare confinati in uffici climatizzati.

Il Niger ha bisogno di una riforma agraria e non di parole e di carte. Il paese ha bisogno di orticoltura e di trasformazione / valorizzazione della produzione e non di burocrazia, procedure e quadri di concertazione.

L’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) indica che più del 90% dell’economia africana è informale. L’Istituto nazionale della statistica del Niger (Ins), valutava nel 2018 il Pil del Niger in 3.628 miliardi di franchi cfa (circa 5,5 miliardi di euro) di cui 3.429 miliardi (circa 5,2 miliardi di euro) prodotti dal settore informale, cioè il 94,5%.

Non dico certo che l’economia debba restare informale. Ma per spingere le micro imprese a formalizzarsi bisognerebbe incoraggiarle e non reprimerle. Escluderle non significa spingerle a mettersi in regola, è proprio il contrario. Soltanto affidando delle commesse al fabbricante di pozzi del villaggio gli si può chiedere in cambio di mettersi in regola. Non includere l’economia informale nei progetti di sviluppo significa anche partecipare alla distruzione degli equilibri sociali del villaggio, cioè di coloro che si vorrebbero aiutare.

Infine gli uffici che operano i controlli dei fondi stanziati fanno il loro lavoro con i paraocchi senza commuoversi minimamente se gli ultimi non sono stati presi in conto. Se così non fosse aggiungerebbero ai loro rapporti di analisi almeno delle critiche costruttive. Questi controllori esigono, nel rispetto delle procedure imposte, un numero di documenti cartacei talmente importante che i progetti di sviluppo ormai devono assumere più amministratori che tecnici. Il risultato finale è quello di avere molta documentazione in regola, ma meno pozzi e meno fondi per i beneficiari, mentre negli obiettivi del progetto di sviluppo c’era scritto «dare lavoro alle classi disagiate», «aiutare gli ultimi», «diminuire l’emigrazione».

Il sistema dunque è ingannatore e sembra instaurato per aiutare i ricchi.

Non stupitevi perciò quando gli abitanti dei villaggi, gli ultimi, quelli che non ce la fanno più, scappano verso l’Europa o sostengono silenziosamente dei movimenti estremisti.

Paolo Giglio




Bambini ai margini:

nella trappola della povertà

testo e foto di Dan Romeo |


Conosciuta come il «Tibet delle Americhe», a causa della sua posizione ad alta quota, la Bolivia vive un forte contrasto tra i celebri e prevedibili paesaggi immortalati sui social e la realtà vissuta dalla gente, soprattutto i più giovani e i bambini.

Quasi la metà della popolazione boliviana ha meno di 18 anni, la maggioranza della quale vive al di sotto della soglia di povertà stabilita dall’Onu. Circa due milioni di bambini vivono in condizioni di estrema povertà. Si calcola che di questi più di 700mila siano costretti a lavorare per aiutare la famiglia, e che oltre 300mila trascorrano le loro esistenze per strada.

Nell’ottobre del 2019 sono andato a Cochabamba, una delle principali città della Bolivia, per documentare l’impegno della Ong Bolivia Digna, una Ong locale che lavora con l’obiettivo di promuovere e difendere i diritti dei bambini, degli adolescenti e di altri gruppi sociali vulnerabili che vivono nell’esclusione e nella povertà. L’organizzazione offre loro la possibilità di essere e sentirsi semplicemente bambini, alleviando la pressione del lavoro infantile per alcune ore durante l’arco della giornata.

Il lavoro della Ong è reso possibile grazie al supporto di volontari locali e internazionali che si uniscono per offrire ai piccoli la possibilità di giocare, imparare e sviluppare abilità che altrimenti non sarebbero a loro disposizione. L’Organizzazione opera principalmente in alcune aree situate nei sobborghi di Cochabamba e in particolare in alcune comunità rurali del Mercado Campesino e di Arocagua.

Mercado Campesino

Cochabamba si mostra agli occhi dei turisti di passaggio come una città dalla vitalità esuberante. E in rapida crescita a causa della migrazione di migliaia di persone che vi si trasferiscono dalle aree rurali. Questi flussi migratori interni hanno causato il fiorire di una miriade di agglomerati fatiscenti nelle aree di periferia, i barrios, baraccopoli prive delle infrastrutture e servizi di base come acqua, elettricità e fognature.

Mercado Campesino è uno di questi barrios nella zona Nord della città, abitati da persone povere e spesso senza un lavoro che garantisca loro il sostentamento. Molti adulti sono analfabeti e lavorano con orari massacranti per paghe insufficienti ai bisogni della famiglia. Così i bambini soffrono di una mancanza cronica di attenzioni e cure da parte dei genitori che non sono in grado di provvedere alla loro crescita. Bambini e adolescenti sono spesso abbandonati a se stessi, impegnati a prendersi cura dei fratelli più piccoli, e a rischio di diventare vittime di abusi fisici, psicologici e sessuali e di tratta di esseri umani. Mancano del sostegno necessario per poter sfuggire alla trappola della povertà.

Arocagua, situato a Est, è un altro di quei barrios. Là ho trascorso la maggior parte delle giornate con le macchine fotografiche riposte nello zaino, dedicandomi a interagire e giocare con i bambini. Le mie buffe battute e i racconti improvvisati con uno spagnolo molto elementare e spesso sgrammaticato hanno fatto il resto, rompendo gli indugi e mettendo i bambini a proprio agio. Due settimane sono trascorse veloci alla scoperta delle vite di quei piccoli bambini e delle loro famiglie. Qui ho incontrato Ester. Abbandonata appena nata dai suoi genitori, ha avuto la fortuna di essere affidata alle cure della nonna, una anziana di etnia quechua che non ha mai imparato lo spagnolo e che si prende cura di sua nipote tra le lamiere della loro «casa». Grazie al supporto di Bolivia Digna, Ester è stata adottata a distanza.

Ester con la nonna

Ester

Il Parco Nazionale di Torotoro

Cochabamba è anche la base per avventure ed escursioni ad alta quota, comprese le gite al Parco nazionale di Torotoro. Uno dei parchi più piccoli della Bolivia, Torotoro è rimasto fuori dai percorsi turistici, il che ne rende la scoperta ancora più meravigliosa. I suoi tesori sono geologici, archeologici e storici, con oltre 2.500 impronte di dinosauri incise nelle rocce del periodo paleozoico e cretaceo, canyon e gole profonde dalla vegetazione lussureggiante e grotte calcaree a decine di metri di profondità, grandi abbastanza da ospitare laghi e cascate. Tutto questo accompagnato dalla calda ospitalità, dall’umorismo e dalla curiosità del mosaico culturale e linguistico della gente di qua.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

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I vent’anni di Missioni Consolata Onlus

testo di Chiara Giovetti |


La Fondazione Missioni Consolata Onlus compie vent’anni. Nata nel 2001 per accompagnare nel nuovo secolo i Missionari della Consolata, diventata Ong nel 2007 e, oggi, organizzazione della società civile riconosciuta dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, incarna, con le sue iniziative, i tratti peculiari dei missionari che l’hanno fondata.

Il 26 luglio del 2001 nasceva la Fondazione Missioni Consolata Onlus (Mco), costituita dall’«Istituto missionari di Maria Ss.ma Consolata», come si chiamava davanti allo stato la «filiale» italiana di quello che, quasi dalle origini, era registrato nei libri del governo come il «Collegio internazionale della Consolata per le missioni estere». Lo scopo della fondazione, si legge nello statuto, è quello di «informare, sensibilizzare e promuovere l’interesse» verso i paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione alle attività dei Missionari della Consolata.

Fin dai suoi esordi, Mco ha avuto uno spettro di attività piuttosto ampio che abbraccia ambiti anche molto diversi fra loro, come gli aiuti umanitari e la tutela dei beni di interesse storico e artistico. Anche gli interventi che la Fondazione intende svolgere per realizzare i propri scopi statutari sono molto vari – dalla cooperazione allo sviluppo alla salvaguardia della pace e dei diritti dell’uomo, dall’allestimento e gestione di musei e biblioteche alla promozione di servizi per favorire l’inserimento della popolazione immigrata -, e prevede non solo azioni dirette, ma anche il sostegno a iniziative svolte da altri enti idonei.

Questa grande varietà è solo apparentemente una frammentazione. È, viceversa, la coerente traduzione in termini operativi e laici di quello che i Missionari della Consolata indicano come elemento chiave del proprio carisma, cioè il tratto che hanno ereditato dal loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e che più li definisce e li identifica: l’ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce. Questa missione richiede uno sguardo talmente ampio e articolato su popoli, culture, religioni, visioni del mondo, che non può che trasferirsi anche alle organizzazioni al servizio del lavoro dei missionari, come è, appunto, Mco.

Campagna Una mucca per l’Indio

Un po’ di storia

Alla fine del secolo scorso, i Missionari della Consolata avevano già all’attivo diverse attività che potevano dirsi di cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale. Un ufficio cooperazione era presente in Casa Madre a Torino fin dal 1970 e aveva gestito le primissime adozioni a distanza a partire dagli anni Ottanta. Campagne come quella del 1980 per la creazione del «Parco Yanomami» con la raccolta un milione di firme (reali, non digitali), e quella di «Una mucca per l’indio» in favore dei popoli indigeni dell’Amazzonia negli anni 1988-89, avevano proposto una visione dello sviluppo che cercava le cause della povertà nell’ingiustizia e nelle diseguaglianze.

I primi contatti con il mondo del volontariato impegnato in attività di cooperazione cominciarono ancora negli anni Cinquanta con l’invio in Kenya di medici del Cuamm di Padova, passarono attraverso la collaborazione alla nascita e sviluppo di Mani Tese a metà degli anni Sessanta e nel 1967 videro l’Lvia di Cuneo inviare una sua volontaria in Kenya con missionari della Consolata in Meru@.

Inoltre, diversi missionari, ad esempio nella regione colombiana del Cauca, avevano cominciato ad affiancare alle attività realizzate con il sostegno di singoli benefattori anche diversi progetti finanziati con fondi di istituzioni pubbliche e private, dando un contributo cruciale al riscatto del popolo indigeno Nasa. La rivista Missioni Consolata ospitava con regolarità, fin dagli anni Settanta, articoli di riflessione sulla cooperazione e sullo sviluppo.

Tutte queste iniziative, quasi sempre lanciate da missionari pionieri, riflettevano i cambiamenti in atto nei rapporti fra paesi ricchi e quello che all’epoca era chiamato Terzo Mondo. Questi cambiamenti, alla fine degli anni Novanta, richiedevano una maggior professionalizzazione della cooperazione ed evidenziavano la necessità di superare i fallimenti degli anni Ottanta, a cominciare dalla crisi del debito, che si era tradotta per l’Africa e l’America Latina in quello che viene ricordato come il «decennio perduto» dello sviluppo@.

Missione acqua. L’acquedotto di Mukululu

Nasce la fondazione

I missionari che lavoravano con i popoli indigeni dell’America Latina o con le aree più isolate dell’Africa, si erano affacciati al mondo della cooperazione allo sviluppo e dei progetti spesso appoggiandosi ad altre organizzazioni e associazioni. Avevano condiviso poi queste loro esperienze, che di fatto erano diventate anche competenze, con i confratelli in Italia, rendendo sempre più urgente e concreta la necessità di darsi uno strumento come la Fondazione per poter portare avanti le iniziative in prima persona.

A questo si aggiunga poi il fatto che il decreto legislativo 460 del 1997@ introduceva la detraibilità delle erogazioni liberali a favore delle Onlus, cosa che avrebbe portato un beneficio anche ai donatori. La strada che conduceva alla nascita di Mco era tracciata.

All’inizio di questo secolo, dunque, era tempo per i membri della Regione Italia dell’«Istituto missionari di Maria SS.ma Consolata» di trarre le conseguenze di questi cambiamenti e di mettere a frutto le intuizioni di tanti confratelli attivi sul campo e in Italia. La Fondazione avrebbe organizzato le conoscenze e l’esperienza che l’Istituto aveva acquisito dagli anni Settanta, e le avrebbe rese disponibili a tutti i missionari.

I finanziatori di Mco

In questi vent’anni, Mco ha realizzato progetti e iniziative, sia direttamente che come partner di altre organizzazioni, grazie a fondi di diversi enti privati e pubblici: la Conferenza episcopale italiana, Caritas italiana, la città di Torino, la Regione Piemonte, Roma Capitale, l’8×1000 della Chiesa valdese, la Water Right Foundation, solo per citarne alcuni.

Ma la peculiarità – e la forza – di Mco sono, da sempre, i donatori privati, oltre settemila persone nel 2020, insieme a tante realtà dell’associazionismo, dell’imprenditoria e del mondo cattolico: 79 associazioni, organizzazioni, cooperative sociali e gruppi amici, 32 aziende, 20 diocesi o loro uffici missionari, e a oltre 200 istituti o congregazioni religiose.

Con i lebbrosi di Gambo

Gli ambiti di azione

Quanto agli ambiti della cooperazione allo sviluppo in cui la Fondazione è attiva, quello prevalente è senza dubbio l’istruzione (un ambito tipico dell’impegno missionario) che riguarda tutti i gradi scolastici dall’infanzia alla secondaria, fino ai corsi professionali (infermieristica, insegnamento …) e universitari, e comprende il sostegno a distanza concentrato, ma non limitato, sulle scuole primarie.

Seguono poi l’educazione allo sviluppo, realizzata sulle pagine della rivista Missioni Consolata, di cui Mco è editore, il diritto alla salute promosso da quattro ospedali e tanti dispensari in Africa, oltre diversi centri di salute in Amazzonia. L’accesso all’acqua, la salvaguardia dei diritti dei popoli indigeni, lo sviluppo economico, la difesa dell’ambiente sono gli altri ambiti.

Mco realizza i propri progetti e le iniziative in collaborazione con i Missionari della Consolata o con organizzazioni partner indicate da questi. I responsabili operativi dei progetti, dei programmi di sostegno a distanza, delle strutture sanitarie ed educative che Mco sostiene sono missionari che lavorano e risiedono nei paesi nei quali si svolgono le attività. A loro, la Fondazione offre servizi tecnici nella raccolta fondi, nella stesura, presentazione e rendicontazione dei progetti, nelle relazioni con i donatori, nella promozione e comunicazione del loro lavoro tramite la rivista, i siti web e i social.

Nel 2020 Mco ha raccolto fondi e svolto attività in 18 paesi: Italia, Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Etiopia, Uganda, Costa d’Avorio, Eswatini, Angola, Mozambico, Sudafrica, Madagascar, Mongolia, Brasile, Colombia, Messico, Argentina, Venezuela.

In Africa, a beneficiare maggiormente dei fondi raccolti sono stati Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya ed Etiopia, mentre per l’America Latina è stato il Brasile – e specialmente le attività in Amazzonia con i popoli indigeni di Roraima – che ha ricevuto il sostegno maggiore.

Progeto di sviluppo rurale sostenuto dalla Caritas a Neisu

Le prospettive per il futuro

L’anno del ventesimo anniversario dalla fondazione ha coinciso anche con quello in cui Mco è stata chiamata a preparare e pubblicare il suo primo Bilancio sociale. Questo esercizio ha finito per trasformarsi anche in un’occasione per riflettere proprio su questi vent’anni e, inevitabilmente, sulle prospettive per il futuro. Come scrive il coordinatore di Mco, padre Ugo Pozzoli, nella lettera introduttiva al Bilancio sociale@, «la rivista che deve aprirsi maggiormente a un pubblico più giovane attraverso un più forte impulso sul web e sui social; la formazione dei nostri missionari, soprattutto quelli sul campo, che deve garantire un sempre migliore accompagnamento di progetti e programmi di cooperazione e solidarietà; la Certosa di Pesio, storico luogo di fede immerso nel verde di un bellissimo parco naturale, che deve trasformarsi in luogo di educazione alla spiritualità della missione e dell’ambiente: sono soltanto alcune fra le sfide che ci attendono nel prossimo futuro e verso cui guardiamo speranzosi».

Quanto poi al campo della cooperazione allo sviluppo, occorrerà chiedersi quali siano, oggi, quei territori inesplorati che possono dare sostanza a quell’ad gentes che plasma l’Istituto Missioni Consolata e Mco con lui, come negli anni Sessanta lo furono l’esperienza con i popoli indigeni dell’America Latina e, all’inizio del Novecento, l’invio in Kenya dei primi missionari.

Un esempio efficace sono le parole che padre Matteo Pettinari ha affidato a questa rivista nel marzo del 2020@: «Si può dire che la salute mentale sia l’ad gentes del mondo della sanità: sono i malati mentali quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Mco e i missionari si sono sempre impegnati nella sanità, ma è presente da anni nell’Istituto la consapevolezza che per farlo con efficacia oggi, forse, non si tratta più solo di costruire un ospedale en brousse, nella foresta, dove nessuno è ancora arrivato, bensì di riuscire a immaginare qual è la nuova brousse nel 2021 – si tratti di un luogo fisico o di un ambito, come appunto la salute mentale – per raggiungerla e non lasciare al margine le persone che la abitano.

Non c’è un manuale tecnico che possa aiutare a sviluppare uno sguardo al tempo stesso lucido e coinvolto per vedere le brousse di oggi e capire come affrontarle. Probabilmente quello sguardo è lo stesso che un missionario come fratel Carlo Zacquini ha condiviso con chi scrive raccontando il suo primo contatto con gli Yanomami e con la foresta amazzonica al suo arrivo a Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, ormai più di cinquanta anni fa: «Rimasi a bocca aperta: vedevo bellezza, armonia, e pensavo che volevo capirla ed esserne parte. Così pian piano, in punta di piedi, cominciai ad avvicinarmi».

Chiara Giovetti

Familia ya Ufariji

Mco – carta d’identità

  • Nome: Fondazione Missioni Consolata Onlus
  • Data di nascita: 26 luglio 2001
  • Riconoscimento come Ong idonea: 17 dicembre 2007
  • Iscrizione all’elenco delle Organizzazioni della società civile (Osc): 4 aprile 2016
  • Sede legale: Torino, Corso Ferrucci, 14
  • Sedi operative: Certosa di Pesio a Chiusa di Pesio (CN), fraz. San Bartolomeo e Roma, Viale della Mura Aurelie, 16
  • Sito web: www.missioniconsolataonlus.it
  • Personale: Diciotto persone, di cui quattro missionari, tredici laici e una volontaria
  • Attività principali: sostegno a distanza, progetti di cooperazione, informazione e formazione, rivista Missioni Consolata
  • Ambiti principali: istruzione, educazione allo sviluppo, sanità e nutrizione, accesso all’acqua, diritti dei popoli indigeni, sviluppo economico, pace e cura del creato

 

 




Quei bravi «ragazzi»

testo e foto di Valentina Tamborra e Angelo Anzalone |


Sono donne e uomini tra i 18 e i 28 anni. Percorrono le strade di notte, portano aiuto e sollievo a senza tetto e persone in difficoltà. A chi vive in isolamento, ma già era ai margini prima della pandemia. Siamo stati con loro dal Sud al Nord Italia.

In collaborazione con Croce Rossa italiana (Cri) abbiamo dato vita al progetto «Quei bravi ragazzi, l’Italia che aiuta». Volevamo raccontare l’esperienza e la dedizione dei giovani volontari di Croce Rossa italiana nella loro quotidianità a supporto dei cittadini, in particolare dei più fragili, durante l’emergenza Covid-19.

Abbiamo voluto verificare se è vero che «i ragazzi» sono indifferenti alle sorti del mondo. Abbiamo incontrato uomini e donne fra i 18 e i 28 anni impegnati in attività, come la consegna della spesa, il supporto ai senzatetto e l’assistenza sanitaria in ambulanza in alcune delle aree più colpite della Lombardia, come Legnano, Parabiago, la stessa Milano, e Acireale e Catania in Sicilia.

C’è un elemento che ci ha colpiti in maniera ancora più profonda: l’aggravarsi dell’isolamento di quanti già nella vita quotidiana pre covid vivevano isolati.

Abbiamo lavorato sul campo a Catania e a Milano seguendo i volontari nell’assistenza ai senzatetto, e abbiamo scoperto un mondo parallelo, ignorato, che con l’emergenza pandemia è rimasto ancor di più lontano dai riflettori e in qualche modo abbandonato a se stesso.

Solidarietà milanese

Milano, alle spalle del Duomo, sotto i portici di Galleria Vittorio Emanuele, ma anche tra le vie che costeggiano corso Europa, si consuma una vita parallela: è in questi luoghi che trovano riparo fra portici e androni centinaia di senzatetto. Sono le 20 circa quando da una delle sedi di Croce Rossa italiana, partiamo insieme ai volontari per seguire il loro abituale giro che ci porterà a distribuire cibo e conforto a moltissime persone.

Di notte, quando tutto tace e la città si svuota, sorgono piccoli ricoveri come tende, cartoni e vecchie coperte. Fungono da casa per chi una casa non ce l’ha. È uno scenario che certo abbiamo visto centinaia di volte abituandoci, in qualche modo, a una coesistenza che non dovrebbe esserci. Ma molte delle strutture che normalmente distribuiscono cibo ai più bisognosi sono state costrette a chiudere i battenti a causa della pandemia. E così, in una città ormai svuotata, i soli a incrociare mani e sguardi, a curare i bisogni di chi è rimasto per strada in attesa che l’incubo finisca, sono i «ragazzi» di Croce Rossa italiana e di pochi altri enti.

Prima di recarci per strada passiamo da un ristorante solidale che, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha deciso di aiutare come può chi si trova in difficoltà. Si chiama «Rob de Matt»: un luogo di incontro e scambio situato fra Dergano e Bovisa, zone periferiche della città di Milano.

Un locale che sorge al centro di un delizioso giardino che è anche orto e luogo di ritrovo per famiglie, bimbi, universitari e anziani. Il titolare, Edoardo (Chef e presidente di questa realtà), insieme alla sua squadra, ha preparato durante tutto il periodo della prima ondata di pandemia, circa 150 pasti caldi al giorno.

Pasti consegnati ai volontari di Croce Rossa perché venissero distribuiti nell’abituale giro notturno.

Un rapporto d’amicizia

Recuperato il cibo, è il momento di riunire tutti i volontari e i dipendenti che copriranno il turno della notte.

«Allora, vi ricordate dove sta Francesco? Proprio dietro al Duomo, vicino alla fermata della metro», e inoltre: «E Marina? Marina sta ancora con Alessio? O si sono separati? Dobbiamo trovarli entrambi, sapete che è una situazione delicata».

I nomi, le identità. Il ritorno all’umanità. Qui per strada, mentre nel mondo si parla di etichette, non ci si è mai dimenticati che dietro numeri e statistiche ci sono persone. Il giro fatto dai volontari è sempre il medesimo. Ogni sede di Croce Rossa ha il proprio itinerario così da non lasciare scoperta nessuna zona della città. E ogni volontario è assegnato al medesimo giro perché è importante creare fiducia con le persone che si incontrano. Il cibo, infatti, è solo un pretesto per avvicinarsi, o almeno lo era prima della pandemia, quando c’erano altri enti a distribuire i pasti. I giovani volontari stringono rapporti forti, di reale conoscenza con queste persone che vivono ai margini della società. Prima della pandemia, infatti, non era insolito per i ragazzi fermarsi anche un’ora con una persona. Me lo racconta Tobia Invernizzi, 26 anni, volontario da tre.Gli manca, dice, passare del tempo insieme a quelli che sono diventati in qualche modo vecchi amici. Di cosa si parla di notte, per strada? Quali sono le paure di chi vive in una città che va di corsa, come Milano, e che scavalca spesso con indifferenza coperte e cartoni che per qualcuno sono casa?

Si parla di cose quotidiane. Di amore, di un giornale letto, una notizia di attualità, del pasto consumato il giorno prima, o della diatriba nata per un posto occupato per dormire, posto che era di un altro senzatetto. Si parla di cose umane, e ora, con il Covid, anche questo momento di scambio è a rischio.

Bisogna consegnare il pasto, scambiare due parole e andarsene: niente contatto fisico, nessun abbraccio. Non ci si può sedere vicini, volontario e senzatetto, essere umano ed essere umano, per scambiare due parole, una risata, fumare insieme una sigaretta.

Un cane di nome Stella

«Ma ti ricordi quando ho preso Stella? Era piccola così. Aveva un anno e ora ne ha dodici!»

Stella è una cagnolina nera, somiglia a un bracco. Se ne sta quieta, seduta accanto alle gambe del padrone.

Vivono insieme, in strada, da almeno undici anni.

È uno dei primi scambi di battute cui abbiamo assistito durante la notte per il servizio ai senza dimora.

Un pasto caldo (merluzzo in umido), e un sorriso che raggiunge gli occhi, tanto da cancellare per un attimo quella barriera imposta per nostra e altrui sicurezza: la mascherina. Ci si conosce tutti, in strada. Tra persone che dormono accampate fra tende e giornali, coperte e cartoni, e fra volontari che ogni notte vanno a trovarli per portare cibo, si, ma soprattutto conforto, ascolto, aiuto.

Undici anni di un rapporto che si consuma nella «Milano bene» che, a quest’ora della notte, è ormai svuotata.

Presto arriverà il mattino, farà luce, e allora bisognerà raccogliere le proprie cose e spostarsi in attesa di consumare il giorno e arrivare, nuovamente, all’ora nascosta dal buio.

Paolo prende il suo sacchetto con il cibo, restiamo a parlare ancora un po’, cinque minuti, non di più, perché il Covid ha ridotto questo tempo dello scambio. È una questione di sicurezza, certo, e bisogna rispettarla. Anche qui in strada si distribuiscono mascherine e gel disinfettante. Vengono richiesti, al pari di una coperta, di un panino, di un tè caldo.

Perché l’ansia, la paura, serpeggia anche qui, fra chi al grido «restate a casa» ha potuto rispondere solo rimanendo esattamente dov’era: per strada. Più abbandonato di prima. Più solo di prima.

Fra piazza del Duomo e la periferia, chi vive la strada è rimasto li. Invisibile più che mai.

Il tempo di un abbraccio

Finito il turno, si torna in sede. Che si sia fatto il servizio notturno ai senzatetto o il servizio ambulanza, svolto alla sede di Parabiago (hinterland milanese), ciò che si percepisce ora è stanchezza, sicuramente, ma anche una grande tenerezza e la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si poteva. Ma se lavorando per strada bisogna evitare il contatto a tutti i costi per tutelarsi dal virus, c’è un momento, alla fine del turno in ambulanza, nel quale le barriere, per qualche secondo, possono venire meno.

Con indosso ancora la tuta bianca, i guanti e la mascherina, i ragazzi si lasciano andare a un abbraccio sicuro: il contatto umano, un corpo che si avvicina a un altro, il conforto. Nahomi cerca il suo collega, restano cosi per qualche secondo.

Questa ragazza che studia giurisprudenza e sogna di fare del proprio lavoro una missione, anche nel tempo libero si dona agli altri. Oggi il servizio ambulanza è stato particolarmente duro: un codice rosso, non Covid, ma comunque finito nel peggiore dei modi. Eppure, lei e gli altri ragazzi non desistono: ne vale la pena, sempre. Anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quei momenti.

Guardando questi ragazzi, quel gesto semplice eppure oggi negato, ci si rende ancora più conto di quanto il Covid sia prima di tutto «una malattia dell’amore». Separa, per sicurezza, isola, per necessità. Ma l’essere umano è tale proprio perché animale sociale, proprio perché «l’altro» sia conforto e non timore, non pericolo.

La riflessione più urgente da fare, insieme a quelle su tutte le problematiche connesse a economia e salute, è quella legata al contatto fra persone. Abbiamo necessità di tornare a non temerci, abbiamo necessità di tornare alla vicinanza e alla condivisione. In attesa di poterlo fare, è già molto sapere che, in alcuni luoghi in Italia, sono state istituite «stanze degli abbracci» in alcune Rsa (Residenza socioassistenziale), come a Bollate, nel milanese.

A questo proposito restano impresse le parole di un amico medico: «la medicina deve adattarsi all’essere umano». Non dimentichiamoci, alla fine, che sotto guanti, mascherine, indumenti protettivi, siamo e restiamo, prima di tutto, soprattutto, persone.

La realtà siciliana

Daniela Carbone, consigliere eletta per il comune di Acireale (Catania), è la prima ad accompagnarci.

È lei la responsabile del servizio «pronto spesa e pronto farmaco», iniziativa nata allo scopo di approvvigionare le famiglie svantaggiate e gli anziani in difficoltà.

Il nostro viaggio si snoda tra i magazzini alimentari, scelti tra strutture pubbliche ed edifici sequestrati alla mafia e consegnati a Cri, nei comuni di Aci Catena, Aci Sant’Antonio e Aci Bonaccorsi: è da questi luoghi, sorti a nuova vita, che partono le operazioni di smistamento e consegna cibo alle categorie più fragili.

È proprio Daniela a rivelarci alcuni effetti collaterali e forse meno facili da prevedere di questa emergenza: «Nonostante i numeri dei contagiati, inferiori rispetto alle altre regioni d’Italia, in special modo alla Lombardia, il numero dei richiedenti aiuti alimentari è progressivamente aumentato con l’avanzare delle restrizioni. Il dato non è imputabile al virus in sé ma alle conseguenze dovute alle necessarie limitazioni. In Sicilia il lavoro nero è uno dei principali problemi che da sempre l’attanagliano. Il virus non ha fatto altro che esacerbare un malessere che già preesisteva. Impedendo alle persone di potersi recare al proprio posto di lavoro si è impedito loro di potersi sostenere. Tutte quelle fasce sociali che riuscivano alla meno peggio a “portare a casa la giornata” adesso sono regrediti ad uno stato di semi povertà».

L’elenco degli aiuti è fitto e, tra una casa e l’altra, un vicolo e l’altro, persone di diverso livello sociale e genere attendono il loro cofanetto di alimenti e beni di prima necessità con rigoroso e immobile pudore.

A fine turno una coppia di anziani ultraottantenni attende l’arrivo dei volontari. Uno di questi ultimi ci racconta che i due erano persone molto conosciute in paese perché per anni avevano gestito una piccola bottega di generi alimentari. Al suono del ricordo, però, la coppia scoppia in un pianto amaro rivelando che mai si sarebbero aspettati di finire senza certezze e senza protezione, abbandonati e impauriti, in attesa di finire l’ultimo tempo della loro vita.

Contro emergenza

È una calda domenica di maggio e, dalla sede di Catania, Alberto Leotta ci attende a inizio turno, insieme al suo team, per raccontarci la sua giornata. Non sono previsti interventi oggi, ma una esercitazione, una delle tante da fare necessariamente per mantenere alta la preparazione per una risposta al pronto intervento.

Alberto ci tiene a precisare che, la sede in cui Cri opera, è una importante e lussuosa villa sequestrata nel 1998 a una famiglia mafiosa locale.

Ci mostra tutta la lunga procedura di vestizione che anticipa ogni uscita in ambulanza. «A causa dei tempi lunghi di preparazione e vestizione, il tempo di risposta tra un intervento e un altro si è dilatato».

Il ricordo dei soccorsi è vivo negli occhi di Alberto che fa fatica, ci svela, dimenticherà questo particolare momento storico.

«Quando si ritorna a casa le sera e si sente un po’ di freddo alle ossa, o un po’ di mal di gola, il pensiero inevitabilmente rimanda alla possibilità di aver contratto il virus, di essere diventato un potenziale problema per le persone più care».

Catania, senza dimora

Sono circa 80 i senza fissa dimora che, nei vicoli di Catania, dividono la notte tra gelo e solitudine.

Durante la fase 1 e 2 del lockdown le strutture di accoglienza, mense e ambulatori di assistenza, hanno dovuto barricarsi per evitare il contagio.

L’unità di strada dei giovani volontari di Croce Rossa italiana ha svolto numerose attività di sostegno a favore delle fasce più deboli. Durante la fase 1 del lockdown, Croce Rossa si è posta da tramite tra le varie associazioni per provvedere al fabbisogno di beni di prima necessità: pasti caldi, acqua, indumenti e kit di pulizia. Con l’inizio della fase 2, il 4 maggio, le mense hanno potuto riaprire i battenti così, il servizio di assistenza di Croce Rossa, attraverso ronde settimanali, vigila sulle condizioni sanitarie e psicologiche di tutti gli utenti presenti sul territorio catanese.

«Il cibo è una scusa per monitorare il bisogno dei senza dimora – ci dice Danilo Di Mauro responsabile dell’unità di strada – un legame, il nostro, instaurato nel tempo. Conosciamo le loro storie personali, le loro paure e i loro drammi. Una sorta di famiglia allargata in cui prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri».

Valentina Tamborra e Angelo Anzalone