L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.



I Perdenti 32. Carlos Paez: scelte estreme per la vita

Cile | Testo di Don Mario Bandera |


Era il 13 ottobre 1972. L’aereo sul quale viaggiava la squadra di rugby uruguayana degli Old Christians Club si schiantò sulle Ande argentine. A bordo, oltre alla squadra che si recava in Cile per una partita amichevole, c’erano anche allenatori, parenti e amici, 45 persone in tutto. Diciotto morirono subito, altre undici persero la vita pochi giorni dopo a causa delle ferite e del freddo. Sedici sopravvissero, ma furono ritrovati solo il 22 dicembre dopo una lunga sospensione delle ricerche. Il 23 ottobre infatti le autorità le interruppero dando per sicura, dopo 10 giorni in condizioni estreme, la morte degli eventuali scampati all’incidente.

La salvezza per i sopravvissuti arrivò grazie alla tenacia di alcuni di loro che si avventurarono nel freddo giù per il pendio fino all’incontro con un uomo che poi diede l’allarme per far ripartire i soccorsi, e anche grazie a una scelta estrema che dovettero fare per non morire di fame. Ce ne parla quello che allora era il più giovane tra i giocatori della squadra, Carlos Paez.


(Avvertenza: come sempre in questa rubrica, il dialogo con Carlos Paez, che oggi ha 64 anni, è immaginario, compilato sulla base delle conoscenze che si hanno degli eventi)


Carlitos, se non sbaglio, l’aereo sul quale tu viaggiavi con la tua squadra e alcuni famigliari e amici era un aereo militare, come mai?

«Negli anni Settanta l’aeronautica militare uruguayana per incrementare i propri introiti, dava in affitto alcuni dei propri aeroplani ed equipaggi per operare voli charter su diverse rotte nel Sudamerica. Il nostro era il numero 571, decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall’aeroporto «Carrasco» di Montevideo, in Uruguay, diretto all’aeroporto «Arturo Merino Benitez» di Santiago del Cile. A bordo si trovava l’intera squadra di rugby degli Old Christians Club del Collegio Universitario «Stella Maris» di Montevideo. Stavamo andando in Cile con allenatori, parenti e amici a disputare un incontro amichevole. L’aereo era un Fokker Fairchild FH-227D, pilotato dal tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, sotto la supervisione del colonnello Julio César Ferradas».

Il tempo però non era dei migliori per volare.

«La nebbia fitta e le perturbazioni di quelle ore costrinsero l’aereo ad atterrare in serata all’aeroporto «El Plumerillo» di Mendoza, città argentina in cui pernottammo.

I regolamenti aeronautici argentini vietavano agli aerei militari stranieri di rimanere più di 24 ore sul territorio nazionale, sicché il giorno dopo ripartimmo. Di tornare a Montevideo non se ne parlava. Primo perché, in caso di ritorno, l’aviazione avrebbe dovuto rimborsare i biglietti, secondo perché gli stessi passeggeri non volevano annullare la tournée della squadra in Cile. Per questi motivi, ed essendo le condizioni del tempo cattive ma non tempestose, dopo aver consultato altri piloti provenienti dal Cile, fu presa la decisione di proseguire verso la destinazione».

Come avvenne l’incidente?

«La rotta di volo del Fokker era stabilita a 8.540 metri, un’altezza che non permetteva di attraversare con sufficiente sicurezza la catena delle Ande, che in quel tratto raggiungono altezze superiori ai 6.000 metri. L’aereo doveva quindi necessariamente attraversare un passaggio più basso tra i monti.

Alle 15.24 il pilota chiamò inspiegabilmente la torre di controllo di Santiago, comunicando di essere entrato nello spazio aereo cileno e di aver iniziato l’avvicinamento all’aeroporto. Fu autorizzata la discesa e a quel punto ci fù la virata fatidica che fece dirigere il velivolo dritto nel bel mezzo della Cordigliera.

Forse il pilota fu indotto in errore da un malfunzionamento degli strumenti di bordo (originato da interferenze magnetiche dovute alle perturbazioni), ma non si potrà mai sapere cosa sia realmente successo perché le apparecchiature del Fokker, che non erano state danneggiate dall’incidente, le rendemmo inutilizzabili noi superstiti nel tentativo infruttuoso di usare la radio di bordo per chiamare i soccorsi.

L’aereo iniziò la manovra di discesa mentre si trovava tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca. Dopo qualche minuto, incontrò una fortissima turbolenza che gli fece perdere quota. A quel punto le nuvole si erano diradate e, sia il pilota che i passeggeri si accorsero che stavano volando a pochi metri dai crinali rocciosi delle Ande.

Alle 15.31, a circa 4.200 metri di altitudine, l’aereo colpì la cima di una montagna con l’ala destra che, nell’urto, si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo. La coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri. Priva di un’ala e della coda, la fusoliera precipitò. Colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l’ala sinistra e toccò infine terra su una ripida spianata nevosa. L’aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi».

Quel giorno era il 13 ottobre. Siete stati raggiunti dai soccorritori solo il 22 dicembre. Come vi hanno trovati?

«A bordo eravamo in 45. Diciotto morirono subito nell’impatto che spezzò in due la fusoliera. Altri undici persero la vita pochi giorni dopo per le ferite e per il freddo. Sopravvivemmo in sedici e venimmo salvati il 22 dicembre perché due di noi, Roberto Canessa e Fernando Parrado, intrapresero una marcia che durò due settimane per raggiungere il fondo valle. Dopo tanto camminare un pomeriggio essi videro un «gaucho» a cavallo dall’altra parte di un fiume e riuscirono a lanciargli un pezzo di carta avvolto intorno a un sasso nel quale spiegavano chi erano. Le ricerche che erano state interrotte due mesi prima, in quanto era escluso che in quelle condizioni qualcuno potesse sopravvivere più di qualche giorno, furono subito riprese e venimmo recuperati nei giorni seguenti».

A questo punto, Carlos, arriviamo a uno degli elementi più delicati della vostra vicenda: come riusciste a sopravvivere per 72 giorni a quasi 4000 metri sulle Ande?

«Man mano che passavano i giorni la situazione diventava sempre più disperata e ci sentivamo più debilitati. Fu in quel momento che cominciò a farsi strada un pensiero fra noi superstiti: se volevamo continuare a vivere, non avendo cibo a disposizione, dovevamo nutrirci con i corpi delle vittime del disastro. Quella era la nostra unica possibilità di sopravvivenza e, credimi, tutto ciò che noi volevamo in quei giorni era sopravvivere, sopravvivere a qualsiasi costo!».

Come prendeste la decisione?

«Avevamo una radio, quella dell’aereo, che funzionava solo in ricezione. Potevamo ascoltare ma non chiamare. La sera del 23 ottobre sentimmo che le autorità avevano deciso di interrompere le ricerche. Per loro eravamo ufficialmente morti! Ricordo che stavamo sdraiati in quel che restava della fusoliera per proteggerci dal freddo e che Fernando si alzò e disse: “Ok, allora vado a mangiarmi il pilota”. In realtà ci stavamo pensando tutti da giorni, ma nessuno aveva avuto il coraggio di rompere il tabù, di dirlo. Fernando e Roberto, che studiavano medicina, uscirono e dopo qualche minuto tornarono con dei pezzetti finissimi di carne. All’inizio fu orribile, qualcuno si rifiutò di inghiottirli».

Tra i morti c’erano i vostri amici, gli altri giocatori della squadra degli «Old Christians», e anche alcuni famigliari.

«Da quasi cinquant’anni c’è un patto che nessuno di noi ha mai violato. Non riveleremo mai con quali corpi ci nutrimmo e con quali no».

Avete mai ripensato alla vostra scelta?

«Ho ripassato nella mia mente molte volte ciò che successe in quei giorni, non faccio altro. Mi convinco sempre più che non avevamo altra scelta. Noi eravamo morti per tutti e per uscire da quella situazione dovevamo resistere a qualsiasi costo».

Che cosa avete detto ai familiari dei vostri amici che non ce l’hanno fatta?

«Niente. A volte ci vediamo, parliamo. Ma c’è un tabù che anche loro rispettano. Sapere sarebbe inutile. Posso raccontare un particolare che può aiutare a capire la nostra determinazione: tra le vittime lassù c’erano la mamma e la sorella di Fernando Parrado. Quando Fernando partì insieme a Roberto Canessa per andare a cercare qualcuno che potesse aiutarci, si avvicinò a me e mi disse: “Carlitos, se non torno a salvarti devi nutrirti anche con il corpo di mia madre e con quello di mia sorella. È il tuo compito, Carlito, almeno tu devi sopravvivere”. Ecco che cosa mi disse».

Quando siete tornati a Montevideo, vi accolsero come degli eroi. Poi, quando rivelaste la vicenda più spinosa e delicata – quella di essere sopravvissuti cibandovi di carne umana – ci fu un momento di smarrimento nell’opinione pubblica sia uruguayana che internazionale, sbaglio?

«No, non sbagli. I giornalisti ci assillavano. Era terribile. Non puoi immaginare le domande insulse che ci fecero e la morbosità che alcuni di loro avevano. Una rivista brasiliana arrivò a scrivere: “Adesso possiamo perdonare i nostri calciatori che nel 1950 allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, perdettero la finale mondiale contro l’Uruguay, perché ora sappiamo chi sono gli uruguayani: dei cannibali!”».

Non sarebbe stato più umano lasciarsi morire?

«Assolutamente no. Noi eravamo vivi, i nostri amici erano morti! Facendo una valutazione strettamente religiosa, papa Paolo VI al nostro ritorno ci inviò un telegramma di sostegno, mentre un editoriale dell’Osservatore Romano, l’autorevole quotidiano della Santa Sede, dava una lettura positiva del nostro comportamento, vissuto – non dimentichiamolo – in una situazione terribile e del tutto eccezionale».

Come avete fatto per l’acqua?

«Facevamo sciogliere la neve al sole sui pezzi di lamiera. In quelle settimane abbiamo inventato molti oggetti impossibili riciclando quel poco che avevamo. Siamo persino riusciti a costruire degli occhiali per proteggerci dai raggi solari con la plastica dei finestrini dell’aereo».

Grazie a che cosa vi siete salvati?

«Un miracolo? Forse, ma non solo. Penso che riuscimmo a sopravvivere perché eravamo un gruppo affiatato, una vera squadra, non solo sportiva ma anche cristiana. Pregavamo insieme ogni giorno. Il rosario era un appuntamento fisso. Eravamo tutti giovani benestanti e un po’ viziati, ma costretti a sopravvivere in una situazione estrema diventammo tutti dei veri uomini».

Nonostante siano passati tanti anni continuate a raccontare la vostra storia, non vi pesa il ricordo?

«La nostra è una vicenda esemplare e unica. Ciò che abbiamo vissuto sta a dimostrare che gli esseri umani pur di sopravvivere sono capaci di superare qualsiasi tabù. Quando ci invitarono a raccontare la nostra esperienza in diverse occasioni la gente alla fine applaudiva. Tutti si complimentavano per la nostra determinazione e la nostra voglia di vivere, che in fondo alberga nell’animo di tutti».

Carlos Paez con il suo lavoro da pubblicitario ha passato la vita a insegnare ai manager delle multinazionali che cosa vuol dire trovare motivazioni per raggiungere obiettivi impossibili in situazioni estreme. Su questi temi qualche anno fa ha partecipato negli Stati Uniti a una serie di conferenze insieme ai pompieri di New York sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre 2001.

Il gruppo dei superstiti della tragedia delle Ande è ritornato più volte sul luogo dove si consumò il loro dramma, che nel frattempo è diventato meta di escursioni da parte di chi, attratto e affascinato da un’avventura unica e irripetibile, vuole ripercorrere quei sentieri.

Don Mario Bandera