Hueuetenango, Guatemala. Ci vogliono sei ore di macchina da Città del Guatemala per arrivare a Huehuetenango, una delle più grandi città di questo paese centroamericano. Da lì, con un mezzo 4×4 e un autista di provata esperienza, si arriva a Cuilco, un piccolo e isolato paese di montagna. Un ulteriore percorso di due ore in strada sterrata, tra sassi, buche e posti di blocco della polizia di frontiera guatemalteca, conduce a Caserio Ampliación Nueva Reforma, un gruppo di case ritirato e difficile da localizzare persino su Google Maps. A oltre 2mila metri sul livello del mare, questo luogo sconosciuto ai più, è diventato uno centro di interesse per la cronaca nazionale, e pure internazionale.
Il 22 luglio scorso, oltre 300 messicani, tra uomini, donne e bambini, talvolta con animali domestici, sono partiti da Frontera Comalapa, in Messico, attraversando a piedi l’aspro passo montano che unisce il Messico al Guatemala. Questo esodo, frutto dell’ultima violenta sparatoria tra i cartelli del narcotraffico di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación, ha dato vita a un flusso continuo di persone in fuga, una «migrazione al contrario» mai vista prima in quest’area, solitamente teatro di viaggi di sola andata verso gli Stati Uniti, e quindi in direzione Nord.
Negli ultimi mesi, il Chiapas (stato più a Sud del Messico, ndr) si è trasformato in un nuovo campo di battaglia per il controllo delle rotte migratorie, rubando la scena addirittura a luoghi tristemente noti come Tamaulipas, lo stato messicano più ambito dai narcotrafficanti messicani per il controllo del traffico di droga che dal Sud si muove verso i floridi mercati di consumatori di sostanze stupefacenti negli Stati Uniti.
App per chiedere asilo
Il Chiapas non è solamente il collo di bottiglia del Messico, da cui sono forzati a transitare tutti i migranti che provengono dall’America Centrale e del Sud, ma ormai è diventato una sorta di sala d’attesa per la richiesta di asilo negli Stati Uniti. Dal 23 di agosto scorso infatti, è possibile richiedere un appuntamento per presentare la propria richiesta di protezione internazionale negli Stati Uniti direttamente dal sud del Messico attraverso una App per telefono che si chiama «CBP One». Questo sistema è un’arma a doppio taglio perché, sebbene permette di contattarsi a distanza con gli organismi migratori statunitensi, obbliga le persone a rimanere in Messico, spesso accampate in strada e sottoposte a violenze costanti da parte della polizia messicana e dei narcos che hanno trovato in loro un business più redditizio del traffico di droga. Da qui la guerra quasi fratricida tra cartelli per il controllo del territorio e quindi anche per il privilegio di poter derubare e sequestrare sia i migranti bloccati in Messico, sia i bus che trasportano verso Nord chi invece ha deciso di tentare la «suerte», ovvero attraversare il confine nordamericano in maniera irregolare, senza aspettare mesi prima di ricevere un appuntamento attraverso la App CBP One.
Fuga dai narcos
A far le spese di una violenza in strada a colpi di fucile e pistola, spesso imprevedibile, sono i residenti della zona, che a fine luglio sono scappati in Guatemala in cerca di rifugio.
Ad accogliergli c’è stata la comunità della zona di Cuilco. Nonostante su questo confine, 9 persone su 10 vivano in condizione di povertà, secondo l’Insituto Nacional de Estadistica, la popolazione non si è tirata indietro e ha aperto le sue porte, offrendo cibo e allestendo la piccola scuola comunitaria con letti di fortuna. Alcune organizzazioni internazionali hanno fornito prodotti di prima necessità, tra cui medicine. Da parte sua, il governo del presidente guatemalteco Bernardo Arévalo ha dato supporto immediato, regolarizzando la presenza sul territorio attraverso visti umanitari, ma dall’altra ha aumentato i controlli in frontiera per monitorare l’inusuale flusso migratorio in entrata.
Il Governo messicano ha contribuito installando una cucina comunitaria a Caserio Ampliación Nueva Reforma, fornendo un apporto economico per il mantenimento dei connazionali e ha offerto a chi lo desiderasse la possibilità di ritornare alle proprie case con una garanzia di sicurezza, ma solamente una settantina di persone ha accettato. Gli altri hanno rifiutato perché temono per la loro vita e sono convinti che le loro case siano già state saccheggiate, per cui comunque dovranno ricominciare da zero.
«Negli ultimi giorni, altre 250 persone sono state alloggiate in altre comunità della zona di Cuilco – spiega un funzionario dell’Instituto nacional de migración (Inm) che preferisce restare anonimo per ragioni di sicurezza – In questa zona non esiste una vera e propria frontiera fisica. Siamo in montagna. È normale che chi fugge dai narcos cerchi rifugio in Guatemala, perché queste sono comunità transfrontaliere che, negli anni, hanno instaurato legami umani e commerciali con i vicini guatemaltechi».
La violenza dei cartelli rischia di trascendere oltre i confini del Messico, coinvolgendo sempre di più le zone di frontiera con il Guatemala che fanno parte di un’area naturale priva di qualsiasi controllo reale dello Stato. «Quando saliamo a Cuilco per rinnovare i permessi di permanenza sul territorio, scendiamo prima che faccia buio. Nessuno di noi dorme a Cuilco – continua il funzionario dell’Inm – Sarebbe come mettersi nella bocca del leone».
Simona Carnino
Messico. Claudia, doctora y presidenta
Lei è Claudia Sheinbaum Pardo, delfina di Amlo, il presidente uscente. Guiderà il secondo paese dell’America Latina per popolazione. Un paese in crescita ma afflitto da una violenza endemica.
Nel paese dei femminicidi – nel 2023 sono stati 827 -, dal primo di ottobre una donna, la doctora Claudia Sheinbaum, sarà alla guida del Messico. Nelle elezioni dello scorso 2 giugno ha battuto – nettamente (36 milioni di voti contro 16,5, oltre 30 punti percentuali di scarto) – un’altra donna, la senatrice di origini indigene Xóchitl Gálvez.
Il dato (ufficiale) dei femminicidi è certamente drammatico, ma la contesa elettorale tra due donne indica che nel Paese latino-americano è in corso un cambiamento radicale. Inevitabilmente lento, ma effettivo.
Forse il passo più significativo può essere individuato nel decreto del 6 giugno del 2019, soprannominato «paridad de genéro en todo». Con esso furono modificati nove articoli della Costituzione messicana per applicare la parità di genere nelle candidature e nei posti negli organi esecutivo, legislativo e giudiziario, a livello federale, statale e municipale.
I sei anni di Amlo
Claudia Sheinbaum prenderà il posto del suo mentore Andrés Manuel López Obrador (Amlo), fondatore di Morena (oggi primo partito del Paese) e presidente tanto popolare quanto controverso. Fin dalla sua entrata nell’arena politica, la missione di Amlo è stata riassunta in una frase: «Por el bien de todos, primero los pobres» (Per il bene di tutti, prima i poveri), affermazione meritoria, ma molto impegnativa. Di sicuro, dopo decenni di dominazione dei due partiti conservatori (Pan e Pri), la sua presidenza – forse catalogabile come «populismo di centrosinistra» – è stata una novità assoluta.
Nei sei anni del suo mandato la spesa pubblica per programmi sociali è aumentata in modo significativo, ma i problemi fondamentali – l’insicurezza e la povertà su tutti – non hanno trovato soluzione.
Nonostante sei aumenti del salario minimo giornaliero (passato dagli 88 pesos del 2018 agli attuali 249, pari a circa 13 euro), il livello della povertà è rimasto alto. Secondo i dati di Coneval (un organismo costituzionale autonomo), ben 46,8 milioni di persone vivono in povertà, pari al 36,3 per cento della popolazione del paese. Di queste, oltre nove milioni (7,1 per cento) sono afflitte da povertà estrema.
Per gli strani giochi della politica e dell’economia, nel sessennio di Amlo i miliardari messicani hanno visto incrementare (di molto) le proprie fortune. Dietro a Carlos Slim (diciassettesimo nella classifica mondiale di Forbes), ci sono altre 13 persone: questo ristrettissimo gruppo di privilegiati – racconta un rapporto di Oxfam Mexico – controlla l’8 per cento dell’economia complessiva del paese.
Non è andata meglio in tema di sicurezza. La politica di Amlo sintetizzata nello slogan «abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili) è fallita, stando al numero degli omicidi e delle sparizioni, sempre altissimo.
Nei primi quattro mesi del 2024 la media è stata di 81 omicidi al giorno. Nelle statistiche degli ultimi sei anni impressionano poi due cifre: l’uccisione di 9 sacerdoti cattolici (vedere riquadro) e di 44 giornalisti (5 nel 2023 più uno scomparso).
Secondo Article 19, organizzazione messicana indipendente e apartitica che promuove la libertà d’espressione, nel 2023 nel Paese latino-americano ci sono state 561 aggressioni a giornalisti o mezzi d’informazione, un numero più alto rispetto ai governi che hanno preceduto quello di Amlo.
Questa è la pesante eredità di Obrador. Detto ciò, chiedersi se Claudia sarà una mera esecutrice delle volontà del presidente uscente, suo grande sponsor e padre politico, è un ragionamento dal vago sapore maschilista: dubitare della sua autonomia decisionale perché donna?
Il curriculum di Claudia
Nata in una famiglia di ebrei non praticanti, padre chimico con genitori della Lituania, madre biologa con genitori della Bulgaria, laureata in fisica all’Universidad Autónoma de México (Unam), un master a Berkeley e un dottorato, Claudia Sheinbaum è stata sindaca di Città del Messico.
Da anni, Amlo parla di «quarta trasformazione» della vita messicana. Nelle sue intenzioni si tratta di un indispensabile passaggio storico dopo le precedenti tre fasi: la guerra d’indipendenza (1810-1821), il periodo della riforma (1858-1861) e gli anni della rivoluzione (1910-1917), culminati con la promulgazione della Costituzione messicana (5 febbraio 1917).
Claudia Sheinbaum ha promesso più volte che continuerà sulla strada segnata da Amlo per dare seguito alla quarta trasformazione.
Sarà poi interessante vedere come la presidenta affronterà la questione climatica in un Paese che ne sta già patendo le conseguenze con picchi straordinari di calore e gravi carenze di acqua.
Il curriculum parla a suo favore, avendo lei collaborato con gli scienziati delle Nazioni Unite riuniti nel Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Le sue scelte prima dell’elezione sono però state contraddittorie. È stata infatti accusata di aver appoggiato il Tren Maya, la grande opera di Amlo contestata dagli ambientalisti.
Sul fronte energetico, Claudia Sheinbaum ha confermato di voler incrementare le fonti rinnovabili, senza dimenticare che il Messico è l’undicesimo produttore mondiale di petrolio tramite la Pemex (Pétroleos mexicanos), compagnia interamente di proprietà statale. La presidenta afferma che non sarà privatizzata, nonostante sia gravata da molti debiti.
Il vicino di casa
Il giorno seguente alla vittoria elettorale di Claudia Sheinbaum, il presidente americano Joe Biden ha chiamato l’eletta per complimentarsi.
Tutto prevedibile, considerato che Messico e Stati Uniti condividono molti affari e molti problemi. Il Paese latino-americano è il secondo socio commerciale degli Usa dopo il Canada. Inoltre, 11 dei 12 milioni di messicani nati in patria ma che vivono all’estero risiedono negli Stati Uniti, generando un enorme flusso di rimesse. Infine, dalla frontiera settentrionale del Messico – 3.169 chilometri di lunghezza – transitano la gran parte dei migranti illegali diretti negli Usa, una delle questioni più dibattute nella contesa elettorale tra Biden e lo sfidante Trump.
Le dimensioni del problema sono evidenziate da un dato: nel solo mese di dicembre 2023, la polizia di frontiera Usa ha fermato 250mila migranti che cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti.
Cosa accadrà se nelle elezioni del 5 novembre dovesse prevalere il candidato repubblicano? Durante la lunga e scorrettissima campagna elettorale, Trump ha affermato che, dopo la sua vittoria (che lui dà per certa) farà espellere milioni di immigrati senza documenti. Secondo il Pew research center, questi sono circa 11 milioni. Di questi 4,1 milioni (il 40 per cento) sono messicani, risultando di gran lunga il principale gruppo di immigrati senza documenti (irregolari), precedendo nell’ordine quelli provenienti da El Salvador, India, Guatemala e Honduras.
La previsione
Oltre ai problemi citati, la situazione messicana è complicata da un’altra questione rilevante, interna al Paese.
Il presidente Amlo ha, infatti, proposto un pacchetto di venti riforme costituzionali, alcune molto interessanti (su diritti e ambiente), altre più opinabili (su organi giudiziari e guardia nazionale).
Per essere approvate, esse necessitano una maggioranza qualificata sia alla Camera che al Senato. Vedremo cosa accadrà in questi mesi di transizione tra le due presidenze.
Avendo in mente quanto accaduto alle (poche) colleghe latinoamericane elette alla medesima carica, possiamo prevedere che Claudia Sheinbaum, doctora y presidenta, avrà un compito duro.
Ed è molto probabile, anzi quasi certo, che sarà osservata e valutata con più severità rispetto a un presidente maschio.
Paolo Moiola
La Chiesa cattolica messicana e la neopresidente
BUONI PROPOSITI
Al contrario di altri paesi latinoamericani, in Messico la Chiesa cattolica ha resistito meglio all’erosione di fedeli per mano delle Chiese evangeliche. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Inegi, 2020), i cattolici sono il 77,2 percento della popolazione. Questo non significa che non ci siano problemi. Per esempio, la Chiesa cattolica messicana ha avuto un rapporto piuttosto conflittuale con il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo). A parte le tematiche sensibili (aborto, eutanasia, gender), l’accusa principale è di non aver fatto abbastanza contro la violenza del crimine organizzato. Violenza di cui è stata vittima la stessa Chiesa: durante la presidenza di Amlo sono stati ben nove i sacerdoti assassinati.
Di discendenza ebraica, la neopresidente ha spesso affermato di essere cresciuta in una famiglia laica con entrambi i genitori che si professavano atei. Questo non le ha impedito di incontrare papa Francesco in Vaticano lo scorso 15 febbraio.
Dopo la sua vittoria, la Conferenza episcopale messicana (Cem) ha rilasciato un comunicato di felicitazioni e di speranza.
«Oltre a sottolineare il privilegio di essere la prima donna a raggiungere la più alta carica del Paese, eleviamo le nostre preghiere affinché, con la responsabilità e la saggezza che la carica richiede, e cercando sempre il bene comune, possa condurre il Messico verso orizzonti migliori», ha scritto, tra l’altro, la Cem nel suo messaggio.
Pa.Mo.
Missionari martiri. I molti Romero
Il 24 marzo la Chiesa italiana celebra la giornata dei missionari martiri. Secondo il rapporto annuale di Fides nel 2023 sarebbero stati 20 quelli uccisi mentre erano impegnati nell’annuncio in contesti difficili. Le loro storie di «cristiani normali» sono la testimonianza della presenza viva del Vangelo tra gli ultimi.
Sono le 21 del 29 marzo 2023. Fratel Moses Simukonde Sens, 35 anni, viene ucciso da un proiettile nei pressi di un posto di blocco militare a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.
Originario dello Zambia e attivo dal 2016 prima in Niger e poi in Burkina Faso, fratel Moses, membro dei Missionari d’Africa (padri Bianchi) è uno dei venti «battezzati impegnati nella vita della Chiesa morti in modo violento» nel 2023 censiti dal rapporto annuale di Fides, l’agenzia di stampa delle Pontificie opere missionarie.
Gli altri diciannove sono un vescovo, otto sacerdoti, un altro religioso non sacerdote, un seminarista, un novizio e sette tra laici e laiche. «Quest’anno il numero più elevato torna a registrarsi in Africa – scrive Stefano Lodigiani, curatore del rapporto -, dove sono stati uccisi nove missionari: cinque sacerdoti, due religiosi, un seminarista, un novizio. In America sono stati assassinati sei missionari: un vescovo, tre sacerdoti, due laiche. In Asia […] quattro laici e laiche. Infine in Europa è stato ucciso un laico».
Il rapporto di Fides sottolinea che la normalità di vita è l’elemento che accomuna tutte le vittime: nessuna azione eclatante o impresa fuori del comune che avrebbero potuto farle entrare nel mirino di qualcuno. «Scorrendo le poche note sulla circostanza della loro morte violenta troviamo sacerdoti che stavano andando a celebrare la Messa o a svolgere attività pastorali in qualche comunità lontana; aggressioni a mano armata perpetrate lungo strade trafficate; assalti a canoniche e conventi dove erano impegnati nell’evangelizzazione, nella carità, nella promozione umana. Si sono trovati a essere, senza colpa, vittime di sequestri, di atti di terrorismo, coinvolti in sparatorie o violenze di diverso tipo».
Giornata di preghiera
Per ricordare questi venti missionari, ma anche tutti i cristiani, cattolici e di altre confessioni, che nel mondo ogni anno perdono la vita mentre testimoniano la fede in Cristo, la Chiesa italiana celebra il 24 marzo la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.
Istituita nel 1992 su proposta Movimento giovanile delle Pontificie opere missionarie, ora Missio Giovani, si è deciso di celebrarla nel giorno dell’anniversario dell’uccisione, nel 1980, di monsignor Oscar Romero in Salvador: un difensore degli oppressi, assassinato dagli oppressori.
La giornata è l’occasione per ricordare tutte le situazioni difficili nelle quali i cristiani, laici e consacrati, comunicano il Vangelo, spesso tramite la promozione umana, la difesa dei diritti degli ultimi, la tutela dell’ambiente.
«Non pensavamo di dover continuare a fuggire anche una volta giunti in Europa», dice un migrante agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) a Ventimiglia, al confine con la Francia.
Una conclusione a cui Msf è giunta grazie a testimonianze raccolte tra i beneficiari di dodici dei suoi progetti in Paesi europei (come Italia, Grecia e Polonia) ed extraeuropei (come Libia, Niger e Serbia).
Dal momento della partenza dai Paesi di origine a quello dell’ingresso nell’Ue, e anche dopo, salute, benessere psicofisico e dignità dei migranti sono messi a repentaglio.
In particolare, l’organizzazione umanitaria individua quattro fasi del percorso migratorio nelle quali la violenza diventa esplicita: la prima è l’intrappolamento nei paesi con i quali l’Ue ha preso accordi di contenimento; la seconda è l’assenza di assistenza e la violenza sui confini; la terza è la detenzione in condizioni spesso degradanti all’interno dei confini dell’Ue; la quarta è l’insicurezza sistematica, l’esclusione e l’indigenza sperimentate nei Paesi di approdo.
Intrappolati nei Paesi extra Ue
Accordi di cooperazione tra Ue e Paesi extra Ue (ad esempio, Libia, Tunisia e Serbia), da cui spesso i migranti transitano per compiere l’ultimo tratto di viaggio, permettono a Bruxelles di esternalizzare le proprie frontiere, intrappolando le persone in Stati non sicuri, dove le condizioni di vita sono difficili e le violenze quotidiane.
La Libia è l’esempio per eccellenza di questa prima forma di violenza fisica e psicologica sui migranti. Tra il 2016 e il 2022, la quantità di persone che dopo aver tentato di lasciare il Paese nordafricano vi sono state riportate a forza è cresciuta fino alla metà del totale delle partenze. Nei primi otto mesi del 2023, più di 11mila persone sono state intercettate e respinte in Libia. Dietro a questo incremento si nascondono i cospicui finanziamenti di Ue e governo italiano per rafforzare la capacità libica di controllare i propri confini.
Muri, barriere, assenza di soccorsi
Nonostante questo, i flussi verso l’Europa continuano. Ed è a questo punto che i migranti si scontrano con una seconda tipologia di violenza. Muri e barriere, dotati delle più moderne tecnologie di sorveglianza, costellano i confini esterni dell’Ue e testimoniano la brutalità dell’approccio securitario europeo alle migrazioni.
Ad esempio, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia corre una barriera di filo spinato alta 5,5 metri. Questa crea quella che viene chiamata la «zona della morte»: una terra di nessuno tra i due Paesi alla quale le organizzazioni umanitarie non possono accedere e dove i migranti – esposti alle intemperie e oggetto di violenze e umiliazioni da parte della polizia polacca di frontiera – si trovano bloccati.
Ma non sono solo muri e barriere a tenere fuori i migranti dell’Ue. Anche la decisione, sempre più frequente, dei Centri maltese e italiano per il coordinamento dei salvataggi in mare di ignorare la presenza di barche in difficoltà nelle proprie aree di competenza costituisce una forma di violenza psicofisica sui migranti. Questo mentre le organizzazioni umanitarie che cercano di supplire alla mancanza di operazioni di salvataggio sono criminalizzate e le loro attività osteggiate.
Detenzioni
Giunti nell’Ue, i migranti si scontrano con una terza forma di violenza, la detenzione. Molti si trovano a vivere in strutture di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.
Sono gli hotspot, introdotti in Italia e Grecia per velocizzare le operazioni di identificazione dei migranti ed eventuali processi di rimpatrio. Luoghi dove le persone sperimentano privazioni e restrizione di diritti e libertà. Questo genera in loro un senso di coercizione che aumenta le sofferenze fisiche e psicologiche già accumulate durante il viaggio.
Marginalizzazione
Infine, a testimonianza di quanto la violenza sia connaturata alle politiche migratorie europee, in diversi Paesi si verificano forme di rifiuto ed esclusione che impediscono ad adulti e bambini di accedere al sistema di accoglienza. In questo modo, i migranti sono forzati a vivere nella precarietà e non beneficiano, ad esempio, di un’abitazione o di assistenza sanitaria di base.
In più alcuni Paesi destinatari di movimenti secondari, come la Francia, ostacolano i flussi: per i migranti, superare il confine italo-francese a Ventimiglia è diventato molto difficile a causa del ripristino dei controlli alla frontiera.
Violenza connaturata alle politiche Ue
Quelle descritte dal rapporto di Medici senza frontiere sono quattro forme di violenza che generano un costo umano enorme. L’organizzazione umanitaria, infatti, riscontra tra i migranti, oltre a problemi fisici come malnutrizione, disidratazione, malattie della pelle e dell’apparato gastrointestinale, anche un’allarmante crescita di disturbi psicologici: disturbi del sonno, ansia, stato di allerta costante e flashback ricorrenti di momenti traumatici.
Nonostante l’evidenza dei dati, le politiche e le pratiche dell’Ue sulle migrazioni sono state confermate e normalizzate nell’ultima versione del Patto europeo su migrazioni e asilo del dicembre 2023. Lo scopo rimane quello di contenere i flussi, senza considerare però l’impatto su coloro che quei flussi li compongono: persone.
Aurora Guainazzi
Pakistan. La chimera della libertà
I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.
Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.
Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.
Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.
Una tragedia inascoltata
Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.
Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.
Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.
C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.
Protezione legale
A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».
Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».
Le minoranze
Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.
La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.
La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.
Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).
Le leggi sulla blasfemia
Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.
Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.
Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).
Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.
L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.
L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.
«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.
La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».
Il caso di Asia Bibi
Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.
Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.
«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.
Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».
Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.
I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.
Ahmadi: musulmani, anzi no
In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.
Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.
«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.
Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».
«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».
Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani
Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.
I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.
Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.
L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.
Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.
Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».
Presto un giovane santo?
La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.
Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.
Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.
In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.
Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.
Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.
Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.
L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.
Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.
Manuela Tulli
Israele-Palestina. «Dov’è l’uomo?»
Nella città vecchia di Gerusalemme, di norma, a dare la sveglia è, intorno alle 5 di mattina, la preghiera del muezzin; poco dopo suonano le campane delle chiese cristiane.
Sabato 7 ottobre, una data che purtroppo rimarrà nei libri di storia, a squarciare il silenzio dell’alba è stato il suono delle sirene. Nitido quanto inatteso.
Un suono sinistro che preannunciava i rumori della guerra. E la Terra Santa, che fino alla sera prima era animata dalla grande festa ebraica di Sukkot, dalle file dei pellegrini cristiani nei luoghi santi, dalla preghiera in tutte le moschee, si è trovata a fare i conti con i morti, le distruzioni, la paura, la solitudine.
Tutto cambiato improvvisamente, con un salto indietro di decenni, ma soprattutto soffocando i semi di speranza per questa terra che negli anni sono stati gettati da tante persone di buona volontà.
La guerra è in queste ore in pieno svolgimento.
Israele ha negli occhi un eccidio, quello dei terroristi di Hamas nei kibbutz al confine con Gaza e al pacifico rave che i giovani stavano tenendo nel deserto del Negev. Qualcosa che non si verificava, per la crudeltà e le proporzioni, «dai tempi della Shoah», come sottolineato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.
Dall’altra parte è cominciato un assedio su Gaza che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile, rimasta senza cibo, acqua, energia, medicine e costretta a un esodo al Sud della Striscia verso un confine che resta però sigillato.
«È una tragedia immane, non capisco il disegno di Dio per questa terra, la sua terra», è uno dei messaggi che arriva sul mio whatsapp da quella terra martoriata.
La stessa domanda corre in un incontro online con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che solo la settimana prima dell’attacco di Hamas era stato creato cardinale dal Papa in Vaticano. «La domanda non è “dov’è Dio”, ma “dov’è l’uomo”», risponde il francescano.
Uno degli effetti «collaterali» della guerra è la cappa di solitudine scesa su questo paese: l’allegria e la vita che normalmente si riversano per gran parte della giornata in strada, che è un po’ la cifra di questo angolo del pianeta, si sono trasformate in deserto. Le botteghe della città vecchia di Gerusalemme hanno tirato giù le serrande come ai tempi del covid. La guesthouse dei Melchiti, a pochi passi dalla Porta di Jaffa, gira la chiave nel portone, non sapendo quando riaprirà i battenti.
Così è anche a Betlemme, in Cisgiordania: «La gente è molto preoccupata, sanno che perderanno il lavoro e che sarà difficile andare avanti; qui si vive principalmente di turismo religioso», racconta Giulia, una giovane volontaria italiana di Pro Terra Sancta.
Da Betlemme arriva anche la preoccupazione di chi assiste i bambini orfani e malati nella struttura Hogar Niño Dios, gestita dai sacerdoti e dalle suore del Verbo Incarnato. «Il nostro contatto con loro – riferiscono dall’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) che da quindici anni aiuta i religiosi con i propri volontari – è giornaliero, e nelle loro parole si sente il dolore e la preoccupazione per la situazione che stanno vivendo. A noi il compito di pregare».
La preghiera dunque. Per questo, nonostante l’eco delle sirene e il rombo degli aerei, i luoghi santi continuano a rimanere aperti.
Come a Ein Karem, dove si trova la chiesa che ricorda la Visitazione di Maria a Elisabetta: «Il luogo dove tutti vengono a pregare per la pace», dice padre Rafael Sube, francescano messicano della Custodia di Terrasanta.
Il Magnificat qui è declinato in oltre quaranta lingue, scritto su grandi piastrelle di ceramica che decorano le mura del cortile. «Questo vuol dire che i popoli possono stare vicini, possono vivere insieme, non sono loro a volere le guerre. Qui preghiamo per la pace in tutto il mondo perché la guerra non c’è solo in Ucraina, dobbiamo guardare a tutti i paesi che soffrono».
Era il 6 ottobre quando padre Rafael pronunciava profeticamente queste parole. Forse pensava proprio alla Terra Santa in cui vive da 31 anni.
Dal giorno dopo, con i missili arrivati da Gaza anche nei cieli della città vecchia, la preghiera per la pace guarda, infatti, soprattutto a questo angolo del pianeta, Gerusalemme, Urusalim, che si traduce: «Città della pace».
Manuela Tulli
Profumo di banane
T-shirt bianca, capelli corti, faccia pulita. Dice: «Oggi abbiamo fatto la storia, le famiglie ecuadoriane hanno scelto il nuovo Ecuador, hanno scelto un paese con sicurezza e lavoro. […] Andiamo verso un paese di realtà dove le promesse non rimangono nella campagna elettorale e la corruzione viene punita». Un discorso per nulla sorprendente: più o meno, le parole sono quelle che dicono tutti i candidati subito dopo aver saputo della loro vittoria. Sorprendente è invece l’oratore, vincitore non previsto alla vigilia delle elezioni.
Con i suoi 35 anni, Daniel Noboa, imprenditore e politico di centrodestra, sarà il più giovane presidente dell’America latina, battendo anche il cileno Gabriel Boric (37). È figlio di Álvaro Noboa, l’uomo più ricco dell’Ecuador, a capo di un impero di banane e cioccolato (marchio «Bonita») e di oltre cento imprese, per cinque volte candidato alla presidenza del paese. Daniel è sposato con Lavinia Valbonesi, giovane influencer di padre italiano. Al secondo turno delle elezioni (domenica 15 ottobre), Daniel Noboa ha sconfitto Luisa González, candidata di centrosinistra sponsorizzata da Rafael Correa, presidente dal 2007 al 2017, oggi esiliato in Belgio. Il neoeletto, che succede al banchiere Guillermo Lasso, si troverà a governare un paese in gravi difficoltà.
Fino a poco tempo fa, l’Ecuador – 17 milioni di abitanti (con il 7,7% di indigeni) – era una regione (relativamente) tranquilla dell’America Latina, continente noto per ospitare i paesi con i più alti tassi di omicidio al mondo (El Salvador, Venezuela, Guatemala, Haiti). Da cinque anni la situazione è radicalmente mutata. Stretto tra Perù e Colombia, i due maggiori produttori mondiali di coca, l’Ecuador è diventato crocevia del narcotraffico, affare gigantesco gestito da gruppi internazionali e bande locali.
L’esplosione di violenza è stata di tale portata da spingere decine di migliaia di ecuadoriani a lasciare il paese e tentare di emigrare negli Stati Uniti, formando parte di un’ondata migratoria che sta mettendo in gravi difficoltà l’amministrazione Biden. Alla criminalità organizzata si deve, tra l’altro, l’assassinio – avvenuto a Quito lo scorso 9 agosto – di Fernando Villavicencio, giornalista investigativo e autorevole candidato alla presidenza.
Due giorni prima delle elezioni avevamo chiamato Quito per raccogliere un commento di José Ignacio López Vigil, fondatore e responsabile di Radialistas Apasionadas y Apasionados, associazione senza scopo di lucro che produce programmi radiofonici per molte emittenti popolari dell’America Latina. E il nostro interlocutore era stato esplicito e molto duro. «Entrambi i candidati – ci aveva spiegato – sono pessimi. L’unico per il quale valeva la pena votare, Fernando Villavicencio, è stato assassinato dalla mafia e dai narcotrafficanti. Luisa González è un’evangelica pro-vita, un burattino di Correa. Il suo progetto è l’amnistia per l’ex presidente e la ricandidatura di questo farabutto nel 2026. Daniel Noboa è il figlio di un papà miliardario. Neoliberista. Non serve al paese. Detto questo, tra i due preferisco quest’ultimo».
Paolo Moiola
Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti
Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.
«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.
Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».
Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.
«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.
I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».
Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.
«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.
La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.
Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.
«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».
I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.
Nigeria. Perseguitati, uccisi, ignorati
Da anni in Nigeria, soprattutto dove vige la Sharia, le milizie di Boko Haram, gli estremisti fulani e, sempre più, generici predoni, compiono violenze, stragi, rapimenti. Spesso contro le comunità cristiane. Centinaia di migliaia di sfollati interni vivono nella paura. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.
Il gruppo di pastori fulani, popolazione nomade di fede islamica, è arrivato nella notte da diverse direzioni. È entrato nel campo per sfollati gestito da padre Remigius Ihyula nello Stato di Benue, nel centro nord della Nigeria, e ha sparato all’impazzata: 38 morti e 51 feriti. Tra loro diversi cristiani.
È successo lo scorso aprile, durante la Settimana santa: «Un sabato santo nero», afferma il religioso che dirige la sezione di Benue della Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace (Jdpc), organizzazione cattolica nigeriana che cerca di rendere meno difficile la vita delle persone scacciate dalle loro terre.
Pochi giorni prima, la Domenica delle palme, era stata assalita la chiesa pentecostale di Akenawe, sempre nello Stato di Benue.
Gli assalitori, anche in questo caso si sospetta una banda di pastori fulani, avevano ucciso un uomo, ferito diverse persone e rapito il pastore della chiesa con alcuni fedeli.
Sono solo alcuni degli ultimi episodi di violenze e persecuzioni in Nigeria, uno dei paesi più pericolosi al mondo per i cristiani.
Le cifre della persecuzione
Secondo uno studio del 2022 di Genocide watch, intitolato Nigeria is worst in the world for persecution of christians, tra gennaio 2021 e giugno 2022, in Nigeria oltre 7.600 cristiani sono stati uccisi e più di 5.200 sequestrati. Nel 2021 si sono registrati più di 400 attacchi a luoghi cristiani.
In base ai dati Onu, si stima che 36mila persone siano morte e due milioni sfollate a causa di due decenni di violenze da parte di Boko Haram.
Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha riferito che la metà delle oltre 40mila persone scomparse in tutta l’Africa in questi anni, provengono dalla regione nord orientale della Nigeria, teatro di attacchi e rapimenti da parte di Boko Haram.
Se da una parte ci sono i terroristi di Boko Haram, jihadisti che nel 2015 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, dichiarando di fatto guerra a tutte le comunità cristiane, dall’altra i villaggi soffrono quotidianamente l’incursione dei pastori fulani, popolazione nomade appartenente alla comunità islamica. Alcuni fattori, tra i quali i cambiamenti climatici, hanno spinto questi allevatori a cercare nuovi terreni per i loro pascoli. Di fatto si impossessano, a mano armata e perpetrando ogni genere di violenza, dei terreni degli agricoltori appartenenti per lo più alla comunità cristiana. Omicidi, devastazioni, rapimenti di sacerdoti e cristiani, sono all’ordine del giorno nel paese affacciato sul Golfo di Guinea. Nonostante la gravità della situazione, però, le notizie riguardanti questi eventi faticano a trovare spazio nel circuito dell’informazione internazionale.
La Via Crucis delle donne
Ci sono storie di violenza contro i più indifesi, a partire dalle donne, che per la loro efferatezza sembrano inverosimili, ma che invece sono reali e lasciano ferite difficili da rimarginare.
Lo sanno bene al Trauma center della diocesi di Maiduguri, Stato di Borno, nato grazie al sostegno della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).
«Arrivano qui dopo aver subito le violenze più terribili, dopo essere state anche torturate», dice padre Joseph Fidelis, responsabile del centro che offre cure e sostegno psicologico, e che vaglia, caso per caso, se sia necessario un supporto più specialistico, a livello psichiatrico e ospedaliero.
Quando hai visto qualcuno uccidere davanti a te un figlio, un fratello o un padre, quando sei stata violentata e torturata, quando hai vissuto in una gabbia come un animale per mesi, fai fatica anche a trovare le parole.
Per questo al Trauma center opera personale formato ai massimi livelli in grado non solo di accogliere le donne che hanno subito violenze, la maggior parte delle quali cristiane, ma anche di indicare un futuro di speranza.
Maria e Janada
Arrivano proprio dal Trauma Center di Maiduguri le storie di Maria e Janada, due giovani donne vittime di Boko Haram che, nel marzo scorso, sono state in Italia. Esse hanno incontrato papa Francesco per fare conoscere al mondo che cosa significhi essere cristiane oggi in Nigeria, quale scelta difficile sia resistere alle violenze per mantenere la propria fede in Cristo e non abbracciare, come i terroristi chiedono, quella islamica.
Le abbiamo incontrate a Roma, in occasione dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Minute, con lo sguardo triste, una voce flebile che si sentiva a fatica. La testa bassa per il dolore e la paura delle violenze subite, e anche la vergogna.
Nei loro occhi abbiamo visto soprattutto le lacrime che, a distanza di mesi dalla loro liberazione, Maria e Janada non riescono ancora a trattenere.
Maria Joseph, 19 anni, e Janada Markus, 22, sono state vittime di Boko Haram, il gruppo jihadista che imperversa in Nigeria grazie anche alla sostanziale inerzia delle autorità locali.
Maria ha vissuto nel bosco con i terroristi per nove anni: «Avevo sette anni – ci ha raccontato -. Sono arrivati nel nostro villaggio in silenzio, senza sparare, e ci hanno catturati tutti. Io sono stata messa in una gabbia. Poi ci hanno insegnato a leggere il Corano». Le hanno dato un nome islamico e hanno anche provato a farla sposare con uno dei capi del gruppo terrorista, ma lei si è rifiutata. Dopo nove anni di prigionia, violenze e torture è riuscita a scappare.
Janada Markus aveva invece 17 anni quando è stata rapita da Boko Haram: era in ospedale, dove aveva appena subito un intervento. «Mi hanno portata via dall’ospedale che non mi ero neanche ripresa dall’anestesia. Mi sono risvegliata nelle loro mani». Dopo un po’ è riuscita a scappare, ma in seguito è stata di nuovo catturata. È scappata un’altra volta ed è stata ripresa.
Ci ha raccontato che il secondo rapimento l’ha subito mentre era nella sua fattoria con la famiglia: «All’improvviso siamo stati circondati dagli uomini di Boko Haram. Hanno puntato un machete contro mio padre e gli hanno detto che ci avrebbero rilasciati se lui avesse fatto sesso con me davanti a tutti. Lui si è rifiutato, e loro gli hanno tagliato la testa». La terza volta è accaduto a novembre del 2020, quando i miliziani di Boko Haram l’hanno rapita e torturata per sei giorni.
Segni di rinascita e speranza
Entrambe, Maria e Janada, ora sono accolte dal Trauma Center di padre Fidelis. «Quando sono arrivate non riuscivano neanche a parlare», racconta il sacerdote.
Ma anche lui, a volte, davanti alle storie che incontra, resta senza parole e si chiede: «Perché l’uomo è diventato un lupo, un animale? Questi terroristi fanno violenze in nome di una religione? Non è possibile: la religione ci aiuta ad avvicinarci a Dio, non a infliggere sofferenze. È il male, questo, non è Dio».
Il sacerdote nigeriano, che dopo avere studiato alla Pontificia Università Gregoriana a Roma, ha deciso di tornare nella sua terra proprio per aiutare i cristiani perseguitati, ammette: «La mia fede è stata provata. A volte mi chiedo dove sia Dio. In quei momenti, però, cerco di avere fiducia e gli chiedo aiuto. E Lui, nel silenzio e nella sofferenza, mi risponde attraverso le persone che cerchiamo di aiutare».
Le ragazze accolte del Trauma Center, infatti, tornano un po’ per volta, cura su cura, a riprendere in mano la loro vita.
Alcune vengono anche aiutate a trovare un lavoro: imparano a cucire, a cucinare, a realizzare cosmetici con prodotti locali.
«Piano piano i segni del trauma cominciavano a sparire – ci ha detto Maria -, e ho iniziato a relazionarmi con gli altri. Potevo parlare, e quello che i terroristi mi avevano inculcato nella testa ha cominciato a sparire».
Janada, invece, dopo aver lentamente superato il trauma, ha chiesto di andare a scuola: oggi studia al college e sogna di diventare un medico specializzato in medicina tropicale.
Rapimenti e indifferenza
In Occidente, il tema della persecuzione dei cristiani fatica a entrare nel dibattito generale, «come se la libertà religiosa fosse un diritto di serie B», argomenta Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) Italia. In Nigeria ci sono violenze, ma anche frequenti sequestri di religiosi e cristiani che poi, in molti casi, finiscono in omicidi. Secondo i dati diffusi a fine marzo dalla Conferenza episcopale nigeriana, dal 2006 al 2023 nel paese sono stati rapiti 53 sacerdoti, dodici aggrediti e sedici uccisi: un totale di 81 sacerdoti in diciassette anni.
È il nord della Nigeria l’area dove i rapimenti sono legati alla presenza di varie formazioni terroristiche, a iniziare da Boko Haram. Da questo gruppo jihadista, a causa di diverse scissioni, ne sono nati altri, il più importante dei quali è l’Islamic state of west Africa province (Iswap).
Il fenomeno dei rapimenti, però, negli ultimi anni si è esteso a diverse altre zone della Nigeria, compreso il sud (a maggioranza cristiana, ndr).
In tutti i casi non è facile distinguere tra i sequestri compiuti dai terroristi e quelli compiuti da gruppi criminali che cercano solo un ritorno economico. Terroristi e banditi hanno modi simili di operare: assaltano villaggi saccheggiandoli alla ricerca di cibo e bestiame, e rapiscono le persone. L’unica differenza è che i banditi comuni non rivendicano le loro azioni su basi ideologiche.
Sta di fatto che la comunità cristiana, a partire dai sacerdoti, è la più bersagliata dai sequestri. «Ma su queste vicende impera il silenzio – osserva Monteduro -. Non sono considerate meritevoli di attenzione da parte della comunità internazionale e della maggior parte dei media occidentali. Ma soprattutto sono ignorate dalle autorità civili, politiche e militari della stessa Nigeria. A urlare il proprio dolore, a chiedere aiuto, è solo la Conferenza episcopale della nazione».
Che siano estremisti appartenenti all’etnia dei fulani, o terroristi aderenti a gruppi jihadisti come Boko Haram, oppure semplici gruppi criminali interessati al riscatto, importa poco. Ciò che importa, spiega Monteduro, è che «in Nigeria oggi è terribilmente pericoloso professare la propria fede. Importa la sostanziale incapacità e inadeguatezza delle autorità e istituzioni federali e locali. Importa l’altrettanto sostanziale disinteresse che registriamo in Europa.
Ora, poiché non possiamo e non dobbiamo considerarlo un fenomeno irreversibile, abbiamo il compito far sentire in Occidente, in quell’Europa dalle radici cristiane, la nostra indignazione. Certamente sarà un modo sincero per esprimere la nostra vicinanza alle vittime».
Al top della classifica
Nel gennaio 2023 Porte aperte (un’organizzazione evangelica, www.porteaperteitalia.orgndr) ha pubblicato il suo ultimo dossier sulla libertà religiosa nel mondo. La Nigeria risulta al sesto posto nella classifica dei paesi che negano questo diritto umano fondamentale, soprattutto per i cristiani, dopo la Corea del Nord, la Somalia, lo Yemen, l’Eritrea e la Libia. «La Nigeria sale ancora nella classifica – si legge -, confermandosi la nazione dove si uccidono più cristiani al mondo: 5.014, mai così tanti».
Nonostante i cristiani siano quasi metà dei circa duecento milioni di abitanti del paese, ci sono zone, come ad esempio lo Stato di Kaduna nel Nord, dove è impossibile costruire nuove chiese o insegnare il catechismo.
«I cristiani vivono sotto schiavitù», dice l’arcivescovo di Kaduna, Matthew Manoso Ndagoso.
In alcuni stati a maggioranza musulmana vige la Sharia (la legge islamica), ed è sempre più difficile costruire chiese o altre strutture per i cristiani negli stati settentrionali di Kano, Sokoto, Katsina e Zamfara.
«Da oltre sessant’anni – aggiunge l’arcivescovo – non viene rilasciato ufficialmente nessun certificato alle comunità cristiane per costruire una chiesa. Solo nei primi anni Novanta, quando ci fu un governatore cattolico, venne rilasciato un singolo permesso.
In questa parte del nostro paese, nonostante le garanzie della Costituzione, i cristiani non sono liberi di praticare la loro fede. Perché se non posso costruire una chiesa, se non posso comprare un terreno, non potete dirmi che sono libero. Ai bambini cristiani non si può insegnare la loro religione. Nelle scuole non vengono assunti insegnanti cristiani, ma nelle stesse scuole il governo non solo permette l’insegnamento dell’islam, ma vengono anche utilizzati fondi pubblici per assumere insegnanti per insegnare la fede islamica. C’è una chiara discriminazione e persecuzione», conclude.
Un grido inascoltato
A lanciare il proprio grido di aiuto è, ogni volta che si verifica un crimine contro la comunità cristiana, la Conferenza episcopale nigeriana.
Come il 5 giugno di un anno fa, quando un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco e lanciato ordigni contro i fedeli riuniti nella chiesa di San Francesco a Owo, nello stato di Ondo, mentre si celebrava la veglia di Pentecoste. Una cinquantina i morti, tra i quali diversi bambini.
Il presidente dei vescovi cattolici nigeriani, monsignor Lucius Ugorji, sottolineava dopo quell’attacco che «nessun luogo sembra essere al sicuro nel nostro paese, nemmeno entro i sacri recinti di una chiesa. Condanniamo con la massima fermezza lo spargimento di sangue innocente. I criminali responsabili di tale atto sacrilego e barbaro dimostrano la loro mancanza del senso del sacro e del timore di Dio».
«Il governo – ha aggiunto ancora – dovrebbe assumersi la sua responsabilità primaria di garantire la vita e la proprietà dei suoi cittadini. Il mondo ci sta guardando. Soprattutto, anche Dio ci guarda».
Papa Francesco, il giorno dopo, ha inviato un messaggio ai vescovi: «Prego per la conversione di coloro che sono accecati dall’odio e dalla violenza e perché possano scegliere la strada della pace e della giustizia».
Appelli che si ripetono ciclicamente dopo ogni massacro o rapimento. Ma restano di fatto inascoltati, non solo dalle autorità locali, ma anche dalla comunità internazionale.
Manuela Tulli*
*Giornalista dell’Ansa, si occupa di Vaticano e informazione religiosa. Autrice, tra gli altri, di Eroi nella fede (Acs), sui cristiani in Egitto, e de Il grande tema del senso della vita (Shalom), per la collana dei Quaderni del Giubileo del Dicastero vaticano per l’Evangelizzazione.
Congo RD: Chi ha orecchie per intendere
Nel gennaio scorso il papa si è recato nel paese martoriato da una guerra lunga e dimenticata. Ha denunciato sfruttamento e indifferenza. Il racconto di un testimone.
Dal 31 gennaio al 3 febbraio il Papa è stato in Repubblica democratica del Congo (per poi andare in Sud Sudan dal 3 al 5 febbraio, ndr), una visita a lungo preparata e desiderata, segnata da momenti di grande partecipazione e altri più raccolti di ascolto. Un evento atteso dalle autorità locali che per l’occasione hanno «tirato a lucido» (si fa per dire) le strade della capitale Kinshasa. Notiamo però che ad andarsene non sono stati solo i rifiuti, ma anche i poveri che affollano quotidianamente le vie del centro: venditori ambulanti, bambini di strada, homeless. «Nelle zone centrali della città non si può più entrare – ci ha raccontato don Maurizio Canclini -, il centro è presidiato dalla Guardia repubblicana, agenti in borghese e polizia».
Dopo l’arrivo all’aeroporto internazionale N’djili di Kinshasa, il Papa ha dedicato il primo incontro alle autorità nel bellissimo Palais de Nation, un luogo immerso nel verde sulle sponde del fiume Congo, dove l’ansa del fiume dà allo spazio una geometria dolce, mentre le luci di Brazzaville, sulla sponda di fronte, lo rendono un piccolo paradiso.
Qui il Papa ha presentato il Congo «come un Paese che è quasi un continente nel grande continente africano. Sembra che la terra intera respiri. Ma se la geografia di questo polmone verde è tanto ricca e variegata, la storia non è stata altrettanto generosa: tormentata dalla guerra, la Repubblica democratica del Congo continua a patire entro i suoi confini conflitti e migrazioni forzate, e a soffrire terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato. Questo Paese immenso e pieno di vita, questo diaframma d’Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro». La platea piena di generali ed ex (forse) signori della guerra vestiti in abiti civili restava in silenzio.
Colonialismo economico
Il Papa ha poi ripreso, «è tragico che questi luoghi, e più in generale il continente africano, soffrano ancora varie forme di sfruttamento. Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati. È un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca […]. Si faccia largo una diplomazia dell’uomo per l’uomo, dei popoli per i popoli, dove al centro non vi siano il controllo delle aree e delle risorse, le mire di espansione e l’aumento dei profitti, ma le opportunità di crescita della gente […]. Non possiamo abituarci al sangue che in questo paese scorre ormai da decenni, mietendo milioni di morti all’insaputa di tanti».
Racconta un dottore nato nella regione dell’Ituri (Nord Est) che «qui le persone sono ammazzate come le bestie, in Congo non c’è più da sperare, i volti della gente sono spenti, atterriti, non c’è più la felicità tipica dei villaggi africani, l’entusiasmo per l’ospite, la gioia dell’altro. L’abitudine qui è vedere morti sparsi per le strade».
Messa all’aeroporto
Secondo giorno: messa all’aeroporto di Ndolo. Migliaia di giovani erano già sulla pista da giorni, ma la maggior parte delle persone si è messa in movimento di notte per essere sicurea di arrivare prima delle sei del mattino, dopodiché i cancelli sono stati chiusi. Quando il Papa è arrivato alle nove erano un milione e mezzo che attendevano sotto un sole splendente e caldissimo.
Anche per questa messa, in prima fila c’erano molte autorità e candidati alla presidenza della Repubblica che, al momento dello scambio della pace, hanno ritirato la mano.
La celebrazione è stata una sintesi tra una celebrazione eucaristica, un concerto e un momento di orgoglio nazionale. L’organizzazione ha retto e tutto si è svolto in modo ordinato. Il Papa ha commentato il Vangelo del Risorto ricordando che quelle tre parole, «pace a voi», per noi sono «una consegna, più che un saluto», e sottolineando che le sorgenti della pace, le «fonti per continuare ad alimentarla sono il perdono, la comunità e la missione».
Francesco ha concluso pronunciando alcune parole in lingala: moto azalí na matoi ma koyoka (chi ha orecchie per intendere) e la folla ha risposto ayoka (intenda).
Testimonianze dal Kivu
Nel pomeriggio del primo febbraio, alla nunziatura, il Papa ha ascoltato testimonianze dal Kivu (Nord Est del Paese), forse il momento più toccante della visita.
Una di esse era la sedicenne di Eringeti, nel territorio di Beni: «Sono un agricoltore. Mio fratello maggiore è stato ucciso in circostanze che ancora oggi non conosciamo. Mio padre è stato ucciso in mia presenza, da dove ero nascosto ho visto in che modo lo hanno fatto a pezzi e come hanno portato via mia madre. Siamo rimasti orfani, io e le mie due sorelline. Mamma non è più tornata e non sappiamo cosa ne abbiano fatto. Di notte non riesco a dormire».
La giovanissima Léonie Matumaini ha mostrato un coltello uguale a quello che ha ucciso tutti i membri della sua famiglia in sua presenza.
Kambale Kakombi Fiston, di soli 13 anni, ha raccontato di essere stato rapito per 9 mesi.
Poi è stata la volta di una diciassettenne della zona di Goma ridotta in condizioni di schiavitù sessuale da un comandante per 19 mesi, finché con un’amica è riuscita a scappare: «Ma a quel punto ho scoperto di essere incinta. Ho avuto due bambine gemelle, non conosceranno mai il loro padre». Poi ha proseguito dicendo che «le persone sono state sfollate più volte, i bambini sono rimasti senza genitori, sono sfruttati nelle miniere o negli eserciti ribelli».
Anche un’altra donna di Bukavu ha raccontato di essere «stata tenuta come schiava sessuale. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi».
Da Bunia (Ituri) un testimone ha raccontato: «Sono sopravvissuto a un attacco al campo di sfollati di Bule, nel villaggio di Bahema Badjere, nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Questo campo è conosciuto come “Plaine Savo”. L’attacco è avvenuto la notte del primo febbraio 2022 da parte di un gruppo armato che ha ucciso 63 persone, tra cui 24 donne e 17 bambini. Viviamo in campi profughi senza speranza di tornare a casa».
Francesco, visibilmente commosso, ha detto: «Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle. Si resta scioccati e non ci sono parole, c’è solo da piangere, in silenzio. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese».
In quella regione, ha proseguito il Papa, «si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione».
Il Papa ha poi ricordato l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, uccisi due anni fa nell’Est del paese: «Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto». Più che un secondo giorno di visita, un programma politico decennale.
L’incontro con i giovani
Il terzo giorno, il Papa ha incontrato i giovani a cui ha ricordato l’esempio di Floribert Bwana Chui che, quando aveva «soli ventisei anni, venne ucciso a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati che avrebbero danneggiato la salute della gente. Poteva lasciare andare, non lo avrebbero scoperto e ci avrebbe pure guadagnato».
In serata il Papa ha poi messo «le mani» nelle piaghe del Paese ascoltando le testimonianze di persone vulnerabili. Come i rappresentanti del gruppo Telema Ongenge: «Siamo portatori e portatrici di handicap. Molti di noi erano in ribellione aperta contro la società e pure contro Dio, soprattutto quando ci siamo resi conto che le nostre sofferenze potevano essere evitate, invece non hanno più rimedio e gridano nel deserto dell’impotenza e dell’indifferenza».
Anche Pierre Ngeleka Musangu, di 68 anni, ha raccontato che «da quando ne avevo quattro soffro di un handicap che poteva essere evitato. Per raddrizzare un piede storto dalla nascita, i miei genitori mi portarono all’ospedale di Luebo. Non c’erano medici così fui operato da un assistente, ma la situazione peggiorò perché l’intervento provocò un’infezione […] e ci fu anche la lesione di un nervo, che ha causato la deformazione di cui soffro ancora oggi. Nella mia vita ho incontrato decine di persone che soffrono, o addirittura sono morte, a causa di diagnosi sbagliate, oppure per l’assenza di medici, di medicine o di apparecchiature».
Tekadio Vangu Nolly, 40 anni, ha spiegato al Papa di aver contratto la lebbra quando aveva 21 anni: «iniziarono a venirmi delle macchie […] e mi sentivo sempre più debole, e per di più, poco a poco mi stavo anche trasformando in una persona che disturbava la tranquillità altrui. Piangevo e soffrivo, non solo nel corpo, ma soprattutto nel cuore […] la mia famiglia mi aveva ripudiato e, con la complicità di un guaritore, mi ero convinto di essere responsabile per quello che mi era capitato. Alcuni mi hanno accusato di essere uno stregone, ma come è possibile che uno stregone desideri il suo stesso male?».
Queste sono storie che, grazie a gruppi, associazioni, parrocchie, non sono finite nell’esclusione, perché vi sono anche «persone che non hanno girato la faccia dall’altra parte quando hanno attraversato la nostra strada».
Il Papa ha ripetuto: «Grazie per tutto quello che fate! In questo paese, dove c’è tanta violenza, che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile […]. Non mi avete fatto un elenco di problemi sociali, enumerato dati sulla povertà, ma mi avete fatto incontrare nomi e volti».
Poi, il Papa ha proseguito: «Mi sono chiesto: ma vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante? Voi mi avete detto: ne vale la pena e c’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo. Volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano alla sua dignità».
In tre giorni il Papa ha fatto il possibile. Purtroppo però le risorse e la classe dirigente continuano a essere una sfida per il Paese: nell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr) sono presenti molti deputati condannati per corruzione e molti altri vengono da posizioni di comando in gruppi ribelli, gente in abiti civili, ma dalla mentalità incline all’uso della forza e della sopraffazione: «Schiacciare o comprare».
«A Kinshasa (e in Congo) la vita non è facile, ma – spiega il gesuita Olivier Mushamuka – abbiamo capito che se vogliamo fare una cosa la possiamo fare, siamo capaci». Alla fine, secondo alcuni commentatori, le parole del Papa «cadranno nel vuoto, i potenti sono impermeabili». Per altri «forse tra i grandi sarà così, ma per la gente il viaggio è stato importante e continuerà nel tempo a dare i suoi frutti».
Fabrizio Floris*
*Laureato in economia, dottore di ricerca in sociologia, ha insegnato Antropologia economica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino e Sociologia generale presso le Università di Milano e Betlemme. Tra le sue pubblicazioni: Periferie esistenziali. Da rispettare, superare, distruggere, Robin&Sons, 2018; Gino Filippini. Uomo per gli altri, Gabrielli, 2021 e Il traffico delle vite. La tratta, lo sfruttamento e le organizzazioni criminali, Franco Angeli, 2022.