IMC Venezuela 50: con gli afro discendenti

La regione di Barlovento, caratterizzata da un clima tropicale caldo umido, è particolarmente adatta alla coltivazione del cacao. Questo ha determinato la maggiore concentrazione di afrodiscendenti di tutto il Venezuela. I padroni delle piantagioni sono i bianchi, gli stessi di un tempo, mentre i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa continuano a raccogliere il cacao come i loro antenati.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana


Nella terra del cacao

Tra gli afro di Barlovento

«Barlovento, Barlovento, tierra ardiente y del tambor», canta l’afro quella terra «calda e del tamburo» che lo vide schiavo, costretto a lavorare nelle piantagioni di cacao dei padroni europei, ma libero di danzare al ritmo del tamburo che ricorda quelli lontani dell’Africa, sua terra di origine.

«Barlovento» è il nome di una regione prospicente al Mare dei Caraibi, a un centinaio di chilometri a Est della capitale Caracas, abitata in prevalenza da afrodiscendenti1.

Il clima tropicale, caldo umido, insieme a particolari correnti ventose marine, provoca precipitazioni quasi quotidiane che fanno arrivare l’umidità fino al 70%. La produzione del cacao è in mano a pochi latifondisti originari delle isole Canarie, e la popolazione continua a raccoglierlo come al tempo della colonia.

I popoli afrodiscendenti costituiscono nel 2020 un terzo degli abitanti dell’America Latina. Insieme ai popoli indigeni, sono la fetta di popolazione più svantaggiata, soprattutto per quel che riguarda l’istruzione, il lavoro, la salute, le infrastrutture, l’accesso ai servizi pubblici in generale e la povertà.

Tutto ciò è il prodotto di una situazione di esclusione e discriminazione strutturale, legata a secoli di razzismo.

Eppure, anche se vivono ai margini, loro sono lì, cantano e ballano al ritmo dei tamburi, offrendo i loro valori originari e originali. Chiedono rispetto, dignità e opportunità. La famiglia missionaria della Consolata cammina con loro dal 1986.

Un po’ di storia

A Barlovento, i Missionari della Consolata oggi lavorano nelle parrocchie di Tapipa, Panaquire, Il Clavo e Caucagua, paesi a un centinaio di chilometri a Est da Caracas. Vi sono arrivati nel 1986.

L’antefatto della presenza dell’Imc nella zona sta nell’arrivo dei nostri missionari, nel 1978, alla parrocchia della Sacra Famiglia di Los Castores (piccolo centro urbano a pochi chilometri a Sud di Caracas, lontana 100 km da Tapipa, Panaquire e Il Clavo, ma ai tempi nella stessa diocesi).

Lì, a Los Castores, erano stati chiamati da mons. José Bernal, vescovo di Los Teques. Era una realtà pastorale relativamente giovane che si innestava sul fenomemo dell’urbanizzazione residenziale della media borghesia che lavorava nella capitale. Era una bella parrocchia, con una buona partecipazione della gente alla messa domenicale e alle altre attività, e un elevato spirito missionario che si esprimeva in aiuti concreti e sostanziosi alle missioni della Guajíra. La parrocchia costituiva anche un aiuto finanziario per il gruppo della Consolata in Venezuela che non aveva molte altre entrate.

Dopo qualche anno, il vescovo mons. Pio Bello, successore di mons. Bernal, ha chiesto all’Istituto di assumere la responsabilità pastorale anche delle tre parrocchie di Barlovento (oggi nella diocesi di Guarenas-Guatire). «Avete una parrocchia buona – ha detto – ed è giusto che ne prendiate altre più bisognose, perché povere e senza prete».

Fin dall’inizio dell’Istituto, i missionari della Consolata si erano dedicati all’Africa e, stando in America, il campo più appropriato cui dedicarsi sembrava quello degli indigeni. Inoltre il numero di missionari, piuttosto ridotto, non sembrava poter assicurare una presenza duratura in queste nuove aperture. Ciò nonostante in Venezuela hanno deciso di rispondere positivamente alla proposta del vescovo, anche grazie alle esortazioni del superiore generale di allora, padre Giuseppe Inverardi: «Los Castores e La Puerta sono due parrocchie che hanno permesso il nostro consolidamento e sviluppo in Venezuela, anche attraverso l’aiuto finanziario. Tuttavia, per fedeltà a noi stessi e alle nostre finalità, credo che non possiamo perpetuare la nostra presenza in queste parrocchie. […] Da anni si parla di questa apertura tra gli afroamericani della zona di Barlovento. Non può rimanere, tuttavia, una semplice prospettiva. È un discorso da concludere il prossimo anno […]».

Presa la decisione, è stato necessario valutare quale delle parrocchie nelle quali eravamo presenti avremmo lasciato. La scelta, alla fine, non è caduta su Los Castores o La Puerta, bensì su Zorca, una parrocchia nella regione del Táchira, a 800 km a Sud Ovest, ai confini con la Colombia.

 

Il superiore della delegazione, padre Nelson Lachance, ha scritto ai suoi confratelli per l’occasione: «Il 2 settembre 1985, dopo 10 anni di infaticabile attività pastorale, i padri lasciano Zorca, dopo aver ricevuto da tutta la parrocchia una grande manifestazione di affetto e di gratitudine. Per la gente di Zorca il saluto commovente e grandioso vuole essere non un “addio”, ma solo un “arrivederci a presto”. Così la Delegazione del Venezuela conserva l’incarico di due sole parrocchie: quella di La Puerta (Diocesi di Trujillo) e quella di Los Castores (Diocesi di Los Teques) e si assume il compito di aprire un seminario in Caracas per il corso di filosofia e di iniziare una missione nel territorio di Barlovento tra gli afroamericani».

Nel 1986, tre missionari sono stati destinati a lavorare tra gli afrodiscendenti di Barlovento. Facendo vita comune a Tapipa, la prima delle tre parrocchie, hanno iniziato a servire anche le altre due: Panaquire a 10 km e Il Clavo a 30 km.

A novembre del 2018, dopo 32 anni, la responsabilità pastorale dei missionari della Consolata che lavorano a Barlovento, si è estesa alla vicina parrocchia di Caucagua, il capoluogo della regione, dove si sono trasferiti e da dove continuano a servire le parrocchie precedenti e le altre comunità cristiane (circa una quarantina), sparse sul territorio.

Sergio Frassetto

Nota:

1 – Con il termine afrodiscendenti si intende tutti i popoli e le persone di discendenza africana nel mondo. In America Latina, il concetto si riferisce alle diverse culture «nere» o «afroamericane» emerse dai discendenti degli africani, quelle sopravvissute alla tratta degli schiavi avvenuta nell’Atlantico dal XVI al XIX secolo.


Fino al 1854: la schiavitù

La tratta degli schiavi in Venezuela fu un fenomeno relativamente contenuto rispetto a altre nazioni come Cuba, Brasile, Colombia e Perù. La colonia spagnola del Venezuela era una delle poche che non possedeva metalli preziosi o altri prodotti che avrebbero permesso una prosperità economica immediata, così gli appetiti degli schiavisti furono attirati da altre regioni. I documenti dell’epoca indicano che, alla fine del XVIII secolo, il Venezuela aveva «a malapena» 60mila schiavi, una piccola cifra rispetto ai 450mila neri e mulatti liberi residenti allora nel paese.

Sfumato il mito dell’«El Dorado», i coloni si dedicarono all’agricoltura, e lo fecero sfruttando dapprima la manodopera indigena, e poi quella africana. Quest’ultima fu utilizzata nelle piantagioni costiere di zucchero, cacao, tabacco e caffè.

Il cacao, soprattutto, coltivato nella regione di Barlovento, fu all’origine di un processo relativamente rapido di accumulo di capitale e di ricchezza da parte dei coloni.

Lo schiavo era un investimento economico utile alla produzione di una determinata merce da collocare sul mercato internazionale. I diritti del padrone, codificati, recitavano: «I padroni hanno diritto di frustare i loro schiavi, di incatenarli o metterli ai ceppi, ma non di ferirli o di ucciderli. Se la punizione è stata eccessiva al punto di diventare scandalosa, il padrone può essere obbligato a vendere lo schiavo maltrattato a una persona meno crudele. E deve venderlo al prezzo di acquisto».

Il lavoro forzato e le sofferenze indicibili della schiavitù portarono molti uomini e donne alla ribellione e alla fuga. Nel 1721 le autorità calcolavano che fossero circa 20mila i fuggitivi chiamati «Cimarrones», nella zona di Caracas. I nomi Cumbo, Cumbito, Maroma, Quilombo, Rochelas, Palenque, ricordano ancora oggi quelle ribellioni e i luoghi nei quali avvennero.

Durante tutto il tempo della colonia, la Chiesa battezzò e catechizzò gli schiavi. Secondo molti, questo atteggiamento favorì l’istituzione della schiavitù. Secondo altri fu un’opera di misericordia per alleviare le loro sofferenze e aiutarli attraverso la famigliarità e la solidarietà che nascevano dal professare la stessa fede nell’unico Dio.

Rovesciato il regime coloniale spagnolo, nel 1811 la Giunta suprema di Caracas abolì la tratta degli schiavi, ma non la schiavitù che fu abolita del tutto solo nel 1854. (S.F.)

Religiosità afro

Le celebrazioni comunitarie, il gusto di fare processioni insieme, di rullare i tamburi per dare ritmo al canto, alla danza e alla musica, sono elementi caratteristici della cultura degli afrodiscendenti dell’America Latina.

L’aspetto religioso occupa un posto rilevante nella vita degli afroamericani ed emerge, soprattutto, nei periodi di crisi, negli eventi più importanti della vita, come la nascita e la morte, e nei tempi significativi della comunità, come le feste patronali, la Settimana Santa, il Natale.

Le espressioni della loro religiosità affondano le radici nell’incontro tra i culti e le tradizioni che i neri portarono dall’Africa e la prima evangelizzazione. Ne sono scaturite peculiari espressioni della fede che chiamiamo «religiosità popolare».

La suggestione simbolica delle immagini di Cristo e dei santi, proposte dai primi missionari, è calata nell’anima delle popolazioni afro, ma è vissuta quasi sempre in maniera slegata dalla storia evangelica.

Oltre alle radici religiose degli afrodiscendenti, e ai nuovi modelli sociali nei quali si sono venuti a trovare, ha contribuito a reinterpretare il significato di tali immagini l’esigenza degli schiavi di ritrovarsi, in terra d’esilio, per celebrare i riti dell’Africa e capirsi tramite il linguaggio dei tamburi.

Attraverso il culto dei santi, hanno cercato scampo alla dura condizione imposta loro dagli europei e hanno mantenuto vivo il dialogo con le divinità delle loro origini. (S.F.)


La Settimana Santa e la croce fiorita di maggio

Tra folklore e fede

Tra il venerdì che precede la Settimana Santa, chiamato «Venerdì del concilio», e il Sabato Santo, si susseguono a Barlovento otto processioni, chiamate «Passi», nelle quali si evocano i vari aspetti della passione del Signore. Ogni passo viene «illustrato» da immagini sacre collegate ciascuna a una confraternita che gestisce la processione con tutti i suoi corollari: candele, fiori, banda musicale e mortaretti.

Il sentimento religioso degli afroamericani di Barlovento si manifesta in modo speciale nelle celebrazioni della settimana santa che cominciano il venerdì che precede la domenica delle palme. Viene chiamato «venerdì del concilio», con riferimento al conciliabolo tra il Sinedrio e Giuda che, per 30 denari, vende Gesù.

Il venerdì del concilio è una giornata a carattere penitenziale. Viene esposta alla venerazione dei fedeli l’immagine della Madonna «dolorosa», una statua rivestita di un manto nero, con parrucca e merletti di foggia spagnola cinquecentesca, e con il cuore trafitto da spade.

La domenica delle Palme moltissima gente si accalca per ricevere il ramo d’ulivo benedetto; quindi, si inaugura la prima di una serie impressionante di processioni, che si susseguiranno per tutta la settimana. Le processioni costituiscono un elemento fondamentale della religiosità popolare afroamericana. Esse esprimono la dinamica delle peregrinazioni e simboleggiano il tema della vita: chi è vivo cammina e si accompagna agli altri.

Ogni giorno della settimana santa ha luogo un «passo», cioè la rievocazione di un episodio della passione del Signore per accompagnare Cristo sofferente, con il quale ci si identifica.

La domenica delle palme, alla sera, ha inizio il primo «passo», che ricorda Gesù che suda sangue nel Getsemani: viene portata in processione un’enorme statua di Cristo in ginocchio, sovrastato dall’angelo che gli porge il calice della passione.

Nei giorni seguenti si va in processione con altre statue: il lunedì con quella di «Gesù flagellato alla colonna», il martedì con quella di Cristo «umiltà e pazienza» e il mercoledì santo con quella del Nazareno che si apre la strada verso il Calvario.

Il Nazareno

Il Nazareno rappresenta Gesù, vestito di una tunica viola, che sale la collina del Calvario con la croce sulle spalle. È l’«uomo dei dolori», cantato dal profeta Isaia, che personifica tutto ciò che la gente vive e soffre. Nello stesso tempo riflette il volto di un Dio solidale, che si mette nel cammino della vita condividendone con noi i rischi e le conseguenze.

In questo giorno si «pagano» le promesse e i voti fatti a Dio durante l’anno: alcuni si vestono da «nazareni», altri fanno il «velorio», ossia vegliano accanto alla statua durante tutto il giorno, con una candela accesa in mano. La gente compie sacrifici che non farebbe in nessun’altra occasione.

Alla sera la gente partecipa alla processione: centinaia di mani sorreggono la portantina per tutte le strade del paese mentre si canta e si prega, rivivendo le stazioni della via crucis. Ogni cento metri la banda intona una marcia funebre. La processione si blocca e la statua viene fatta «ballare» avanti e indietro per tutta la durata della musica.

La processione dell’incontro

Il giovedì santo, dopo la messa vespertina, «si fa morire» Cristo prima del tempo, portando in processione il crocifisso.

Il venerdì, le processioni sono due. Al mattino, i fedeli accompagnano il crocifisso, seguito dalla bara di cristallo, alla cappella del Calvario, situata in cima al paese dove viene rievocata la deposizione dalla croce e la sepoltura.

Nel pomeriggio, la gente si riunisce di nuovo in chiesa per la tradizionale «adorazione della croce» e il «sermone» sulle «sette parole» pronunciate da Gesù in croce.

Alla sera, la popolazione si divide in due gruppi: il primo parte dalla chiesa parrocchiale portandosi dietro le statue della Madonna dolorosa, di san Giovanni e Maria Maddalena, ognuna montata sul proprio carroccio. Il secondo gruppo si raccoglie all’altro estremo del paese, nella cappella del Calvario. Da qui discende lentamente verso la chiesa, accompagnando il «santo corpo». È la «processione dell’incontro». A metà strada, infatti, la Dolorosa e le altre due immagini s’incontrano con Cristo morto, e gli fanno «la riverenza».

È il momento culminante della tradizione religiosa degli afroamericani, nessuno è disposto a perderselo. La gente si accalca, la banda fa ricorso alle note più ispirate e commoventi. Il carroccio della Madonna viene sollevato di peso e piegato in avanti: è la madre che fa la riverenza al figlio. Il rito si ripete per tre volte. Seguono le riverenze di san Giovanni e della Maddalena. Il popolo accompagna con esclamazioni di approvazione e applausi.

La Pasqua di Giuda

Per la maggioranza della gente la settimana santa termina il venerdì. Il sabato, dopo una veloce processione mattutina, chiamata «della solitudine», in cui la Madonna va in cerca del figlio morto, la gente dedica il resto della giornata all’allestimento del pupazzo di Giuda, in collaborazione con amici e vicini. Una volta pronto, il pupazzo viene esposto nei crocicchi delle strade.

La domenica di Pasqua, la gente diserta la chiesa e nel pomeriggio si lancia nell’ultima processione. Il «santo di turno» è proprio lui, Giuda Iscariota. I tamburi rullano, i balli sono sfrenati, i lazzi e le battute si sprecano senza pietà. Giunti sul luogo prestabilito, viene letto il «testamento di Giuda», nel quale sono nominate le persone a cui lascia i suoi averi. È l’occasione per prendere in giro le persone del paese che durante l’anno, per diversi motivi, sono state protagoniste della cronaca locale. Alla fine, il povero Giuda, impiccato al ramo di un albero, viene bruciato.

La croce fiorita di maggio

La Pasqua, tuttavia, non è dimenticata, ma viene «rimandata» al 3 di maggio, alla festa della Santa Croce. In questa ricorrenza legata alla fertilità e alla vita che rinasce, viene ricuperato il senso completo del mistero pasquale.

Popolarmente è chiamata «velorio», o veglia della croce. Comincia la sera della vigilia e si protrae fino al giorno seguente, intercalando preghiere e balli culminanti in una grande festa popolare.

Le radici della festa vanno cercate nelle tradizioni cristiane giunte dalla Spagna. Nei tempi più antichi, in Spagna si eleggeva una regina col nome di Maya, la quale evocava l’omonima dea romana e presiedeva le feste contadine di maggio e giugno; il suo trono veniva posto vicino a un albero.

A poco a poco si riempì questa ritualità con un contenuto cristiano: invece dell’albero si iniziò a piantare una croce e, dal primo giorno di maggio, la gente cominciò a collocare, all’entrata delle case, su piccoli altari, croci adornate di fiori. Si facevano offerte, non più a Maya, ma alla croce, che diventò quindi oggetto della festa popolare.

Questa tradizione, combinata con elementi religiosi autoctoni, ha dato origine all’attuale festa della «Croce fiorita di maggio». Oggi si celebra in tutto il paese, ma è soprattutto nella regione di Barlovento, tra gli afroamericani, che assume il carattere di manifestazione tipica della religiosità popolare.

Nel luogo prescelto, l’altare viene abbellito con fiori e teli colorati, quindi viene sistemata la croce vestita a festa: è bianca, sormontata da una ghirlanda di fiori, con ornamenti colorati sulle braccia. Sulla croce non c’è l’immagine di Cristo crocifisso. Egli, infatti, ha vinto la morte ed è risorto. Si tratta dunque di una croce pasquale.

La veglia dura tutta la notte ed è caratterizzata da rosari intervallati da litanie e balli cadenzati dai tamburi.

Il giorno dopo si celebra la messa solenne, alla quale i membri della confraternita partecipano con la loro uniforme rosso sangue. Segue la processione al monte della croce dove il presidente della confraternita offre al bacio della gente un ostensorio con una improbabile reliquia della croce.

Data la stretta relazione con la natura e la fertilità, la celebrazione della croce fiorita di maggio parla di creazione, vita, vittoria sulle forze del male, in altre parole, esprime la dimensione pasquale del mistero di Cristo.

Si stabilisce così una connessione ideale con il venerdì santo, quando le celebrazioni della Pasqua terminavano con la venerazione di Cristo nel sepolcro. Quello che apparentemente era un finale senza relazione con la risurrezione, trova la sua proiezione in questa festa: Cristo viene celebrato come vincitore della croce e della morte.

Sergio Frassetto


Il riscatto dell’identità afroamericana

L’attività pastorale dei Missionari della Consolata a Barlovento è tesa afar emergere i «semi del Verbo» presenti nella cultura degli afrodiscendenti. Essa è motivo di fiducia e speranza nell’attuale difficile situazione socio-economica.

Durante il periodo coloniale, agli schiavi, deportati per lavorare nelle fattorie di cacao della costa venezuelana, fu proibito manifestare la loro cultura e religione. Fu loro imposto il cattolicesimo, dando luogo a un sincretismo nel quale le immagini del culto cristiano vennero assimilate alle divinità delle loro religioni tradizionali.

I Missionari della Consolata, provenienti da altri contesti socioculturali e religiosi, sono andati incontro al popolo afro solidarizzando con la sua cultura e cercando di valorizzarla nelle sue multiformi espressioni.

L’obiettivo era, ed è, quello di riscattarne l’identità e i valori negati lungo i secoli, facendo crescere nel popolo la coscienza che «essere afro» è un valore che può integrarsi nella pratica di una vita cristiana autentica e che può incidere nella società.

Incontrare il popolo nella sua identità

Come dichiara il Documento di Aparecida (il documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi – Celam -, tenutosi nella città brasiliana di Aparecida dall’11 al 31 maggio 2007): «Conoscere i valori culturali, la storia e le tradizioni degli afroamericani, entrare in un dialogo fraterno e rispettoso con loro, è un passo importante nella missione evangelizzatrice della Chiesa […]. La Chiesa con la sua vita di predicazione, sacramentale e pastorale aiuterà affinché le ferite culturali ingiustamente subite nella storia degli afroamericani non assorbano, né paralizzino dall’interno, il dinamismo della loro personalità umana, della loro identità etnica, della loro memoria culturale, del loro sviluppo sociale nei nuovi scenari che si presentano» (Aparecida n. 532).

Per lungo tempo la Chiesa non ha riconosciuto l’identità del popolo afro ed è necessario lavorare ancora molto per superare tante resistenze. Basti ricordare un piccolo esempio, ma dal forte valore simbolico: il rintocco delle campane, nel passato, serviva ad avvisare della fuga di uno schiavo. La chiesa non può usarlo per invitare il popolo nero a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Succede infatti oggi che la campana sia lassù, nella torre campanaria, ma che l’invito alle celebrazioni venga fatto con la musica.

È un processo lento, quello dell’incontro della Chiesa con il popolo nero, portato avanti insieme alla gente, per individuare nelle espressioni proprie della sua religiosità «i semi del Verbo» e portarli a maturazione dando origine a una Chiesa dal volto afroamericano.

I missionari della Consolata di nuova generazione, provenienti dall’Africa e da altri paesi del continente americano, accompagnano gli afrodiscendenti di Barlovento nel percorrere questo cammino.

La violenza non ferma i missionari

Essi portano avanti la loro azione pastorale, fatta di incontro e di rispetto, a volte scontrandosi con grandi difficoltà, non ultima quella della sicurezza personale.

L’intero territorio di Barlovento, infatti, è controllato da gruppi criminali che attaccano, rapinano o rapiscono chi viaggia per le strade, come fanno, appunto, i missionari. Questi gruppi di «malandros» sono costituiti da ragazzi molto giovani. In diverse occasioni, i missionari e persino il vescovo locale, si sono ritrovati con le armi puntate alla tempia.

Non è un problema della sola zona di Barlovento. In Venezuela la violenza aumenta un po’ ovunque: secondo le statistiche, il paese ha 30 milioni di abitanti e circa 15 milioni di armi nelle mani dei civili. Nel 2020 sono state uccise circa 25mila persone. In assenza dello stato, le bande armate si organizzano nei loro feudi, come ad esempio nelle miniere d’oro clandestine, dove prevale la legge del più forte.

Nonostante tutto, i missionari continuano il loro servizio al fianco della gente. Non smettono di visitare le comunità per celebrare i sacramenti, organizzare catechesi, formare animatori, fare attività con i giovani e accompagnare le famiglie più bisognose.

A Barlovento la presenza dei Missionari della Consolata è motivo di fiducia per la gente che ha fede in un Dio che dà sempre a chi chiede ciò di cui ha bisogno, che si rende presente per chi lo cerca e che apre la porta a chi bussa.

Essi, oltre a venire incontro ai bisogni materiali delle persone, si preoccupano di mantenere viva la speranza divenendo presenza di consolazione spirituale.

Nella loro azione pastorale non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo messe o semplicemente visitiamo – dice uno di loro – basta passare per strada ed essere visti perché la gente dica che non è sola».

Di fronte alla drammatica situazione socio-economica vissuta dal Venezuela, molte persone vorrebbero andarsene dal paese, come quei cinque milioni e mezzo che sono emigrati in altre nazioni del continente. Ma vedendo che i missionari rimangono, cambiano di idea e restano a lottare.

Jaime Carlos Patias




IMC Venezuela 50: nelle periferie urbane

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale. La città di Caracas sorge al fondo di una valle, ed è circondata da baraccopoli, chiamate «barrios» o «barriadas»: terreno favorevole per i politici di turno che soffiano sul fuoco dell’emarginazione e della povertà.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Nei «barrios» di Caracas

Periferia esistenziale

Santiago de León de los Carácas (San Giacomo di León dei Carácas), così era stata battezzata dagli spagnoli questa terra abitata dagli indigeni carácas. La città, che oggi conta circa due milioni di abitanti, si distende al fondo di una valle a forma di Y, circondata da cerros (montagne) scoscese e franose. A chi viene da fuori, scendendo dalle pendici delle Ande della costa, e guardando dall’alto, la città appare trapuntata di palazzi e grattacieli, strade, piazze e giardini. Una moderna metropoli sudamericana.

Attraversandola, invece, percorrendo l’Autopista dell’Est che scorre al fondo della valle lungo tutto l’asse longitudinale della città, la visione ravvicinata è radicalmente diversa: ciò che colpisce l’occhio non sono i palazzi, ma le barriadas o rencherias, come vengono chiamate qui, ossia le baraccopoli cresciute lungo le dorsali dei cerros, inerpicandosi fino a raggiungerne la cima.

Sono le grandi periferie della capitale, i «quartieri popolari» come eufemisticamente vengono chiamati nei documenti ufficiali, veri e propri alveari umani formatisi nei decenni, al tempo delle vacche grasse in Venezuela.

Promesse (non mantenute) di Caracas

Dopo la caduta della dittatura militare nel 1958 e l’inizio della democrazia, le grandi città venezuelane hanno sperimentato una crescita demografica senza precedenti. Le speranze generate soprattutto dalle royalties del petrolio gestito dagli americani, hanno spinto la gente ad abbandonare le campagne aride e povere e a stabilirsi negli spazi liberi sui cerros, attratti dall’illusione di un lavoro redditizio e di un benessere immediato. È stato un fenomeno socioculturale importante che ha portato alla nascita dei barrios.

Molti, cercando fortuna, sono giunti anche da altri paesi come Colombia, Ecuador e Perù. Altri sono venuti da Cuba e dalle numerose isole dei Caraibi. Lo stesso dicasi di tanti italiani emigrati in Venezuela cercando un riscatto dalla povertà del loro paese d’origine.

La capitale, tuttavia, non ha risposto alle speranze della gente. La maggioranza delle persone migrate non ha incontrato quella «fortuna» che inseguiva. Poco a poco si è andato formando un esercito di gente disoccupata, sfruttata, delusa, frustrata e arrabbiata.

Il populismo di Chávez e Maduro

Proprio da queste periferie, il 27 febbraio 1989 sono scese le folle degli arrabbiati che hanno inscenato il famoso «Caracazo», una vasta manifestazione di protesta con saccheggi e devastazioni, che si è estesa anche ad altre città e che il presidente Carlos Andrés Pérez ha soffocato nel sangue con l’esercito lasciando sul terreno migliaia di morti. Ed è soffiando sul malcontento che ribolliva nelle barriadas che Hugo Chávez, il 4 febbraio 1992, ha tentato il colpo di stato contro Carlos Andés Pérez fallendo e finendo in prigione. Due anni dopo, il nuovo presidente, Rafael Caldera, lo ha liberato e, nella seguente tornata elettorale, il 6 dicembre 1998, Chávez è diventato presidente del Venezuela per la prima volta.

Qui, nelle barriadas, Chávez prima e, dopo la sua morte per cancro, Maduro poi hanno costruito lo zoccolo duro del loro potere alimentandolo con la borsa di viveri quindicinale, i medici cubani che, non avendo altro, distribuiscono la stessa pillola per ogni malattia, i concerti di salsa e merengue ad ogni angolo di quartiere, le magliette colorate con la faccia del «comandante». E molte altre trovate degne del populismo più bieco.

I missionari nel barrio

I Missionari della Consolata che negli anni Settanta muovevano i primi passi in Venezuela, attraversando la città, non potevano non osservare con curiosità mista a timore quegli alveari di mattoni, lamiere e cartone che dal bordo delle strade si innalzavano fin quasi a nascondere il cielo.

Quando hanno deciso di stabilire una loro presenza anche lì, tra i poveri e gli emarginati urbani, era il 2000. E da allora continuano a lavorarvi per portare consolazione.

Sergio Frassetto


Carapita

Salita al barrio

Dopo la scelta per gli indigeni e per gli afrodiscendenti, i Missionari della Consolata si misurano con una nuova frontiera ad gentes: il popolo della periferia. Dal 2000 sono presenti nel barrio Carapita, la parrocchia più difficile
e povera della capitale.

Percorrendo l’autostrada dell’Est, ai piedi delle baraccopoli di Caracas, un pensiero si affaccia nella mente dei missionari: ci sarà una chiesa in mezzo a quel formicaio umano? Chi può essere quel prete che ha il coraggio di spingersi in una simile realtà? Magari, noi. Ma il pensiero viene subito scacciato come una tentazione.

Con il passare degli anni, tuttavia, ci si abitua a tutto, e anche le barriadas diventano famigliari nello scenario urbano.

Ad azzardare i primi passi nel barrio di Carapita è padre Sandro Faedi, negli anni Novanta, accompagnando i seminaristi diocesani, dei quali è insegnante di liturgia e morale, a fare apostolato.

Successivamente, vi si spinge anche padre Andrea Bignotti, superiore delegato.

Lo invita suor Juanena che, durante la settimana, lavora presso un anzianato frequentato da padre Andrea e, nel weekend, fa apostolato in una delle cappelle del barrio.

Primi passi a Carapita

Parroco di Carapita è padre Andrés, sacerdote fidei donum belga. Sono alcuni giovani della sua parrocchia, membri del gruppo Joven misión delle Pom (Pontificie opere missionarie), a invitare i seminaristi nel loro barrio e nella loro chiesa. Ne nasce un’amicizia che sfocia in una collaborazione stabile di padre Andrea Bignotti e dei seminaristi con la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita.

È proprio da questa collaborazione che, a poco a poco, matura l’idea di assumere la responsabilità pastorale della parrocchia.

Un discernimento fatto con attenzione

Il progetto emerge durante la visita canonica in Venezuela del superiore generale dei Missionari della Consolata padre Pietro Trabucco nel 1998. «Pensando ad un ulteriore incremento di missionari – scriverà -, si sta ipotizzando la possibilità di assumere una parrocchia nella zona periferica di Caracas, dove maggiore è la povertà della gente e il bisogno di un servizio missionario».

Quella di stabilire una nuova presenza in questa difficile periferia non è una scelta facile, e la comunità Imc nel paese ne è consapevole: «La nostra capacità di consolazione e liberazione è messa alla prova dalla situazione generale di povertà, marginalità, disoccupazione, disintegrazione famigliare, mancanza di sicurezza sociale, violenza, droga e prostituzione che condiziona un po’ tutte le nostre comunità, […] a questo bisogna aggiungere la situazione complessa di Patarata [una delle cappelle della parrocchia di El Ujano, nella città di Barquisimeto, nella quale i Missionari della Consolata lavoravano già dagli anni Ottanta] e di Carapita, comunità molto eterogenee e con gruppi umani di immigrati che hanno perso le loro radici culturali e che devono lottare per sopravvivere in una realtà a loro ostile», scriveranno i missionari negli atti della Conferenza della Delegazione Venezuela Imc celebrata a settembre del 2000.

Lo stesso arcivescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García rimane sorpreso della disponibilità espressa dai missionari. «Ricordo che quando sono andato a parlare con l’arcivescovo di Caracas circa la possibilità di assumerci un impegno pastorale nella capitale, egli ci proponeva altre opzioni – scrive padre Agustin Barboza, superiore delegato nel 2000 -, ma noi abbiamo insistito per Carapita perché sentivamo che questa rispondeva meglio al nostro carisma; ed egli, ridendo, disse: “Questa vostra opzione vi fa onore perché Carapita è la parrocchia più difficile e chi va a Carapita certamente non sta cercando di fare carriera ecclesiastica”».

I missionari si sentono motivati dalle opzioni della Chiesa latinoamericana che a Puebla (1979) ha chiesto alle chiese locali di dare priorità nell’evangelizzazione, tra le altre, alle grandi periferie urbane che «vivono in una situazione di fede precaria, esposti all’influsso delle sette e di ideologie che non rispettano la loro identità, confondendo e provocando divisioni» (Puebla 366).

La priorità, del resto, è ribadita anche dal X Capitolo Generale dell’Istituto Imc tenutosi nel 1999, il quale, nel contesto del mondo attuale, vede realizzato l’essere missionari ad gentes anche nell’opzione per «le povertà urbane» nelle quali si trovano «i nuovi poveri, emarginati in tutto» (X CG 47).

Missionari delle periferie

Il 5 settembre 2000 i Missionari della Consolata assumono la responsabilità pastorale della parrocchia di Carapita durante una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas. Lo accompagnano padre Manolo Collado, superiore delegato, padre Carlos José Osorio, nominato amministratore parrocchiale, i seminaristi Imc di filosofia e i fedeli della parrocchia.

È un passo fondamentale che, dopo l’apertura agli indigeni e agli afrodiscendenti, caratterizza l’opera dei missionari in Venezuela come rivolta anche alle «grandi periferie esistenziali del mondo», espressione che si udirà in tutta la Chiesa, solo nel 2013, quando il cardinale
di Buenos Aires, Mario Bergoglio, diverrà papa Francesco.

Sergio Frassetto


Vita nelle barriadas

Missione nei vicoli dell’alveare

Il lavoro di evangelizzazione e di cura pastorale nella parrocchia di Carapita è immenso. La popolazione del territorio conta 100mila abitanti, dei quali molti in condizioni di vita critiche. I Missionari della Consolata, ispirandosi alle indicazioni della chiesa latinoamericana, danno vita a una pastorale fatta di corresponsabilità dei laici e vicinanza ai poveri.

«Carapita è un alveare umano abbarbicato su una montagna franosa che fa da corona alla zona occidentale della città. Qui, più di 100mila persone vivono addossate le une alle altre in casupole di mattoni, lamiere e cartone», scrivono nel 2000 i missionari stabilitisi da poco nella realtà della baraccopoli. «È una situazione di totale emarginazione dove, non senza difficoltà, stiamo cercando di ambientarci. Qui vivono gli esclusi della società; qui si rifugia la criminalità rendendo pericolosa la convivenza umana. La maggioranza della popolazione è composta da lavoratori e da famiglie più o meno costituite; molte le persone dedite al commercio informale e ai lavori saltuari, ma per tutti, soprattutto per i giovani, la disoccupazione rimane il dramma principale e il terreno più propizio alla delinquenza finalizzata al guadagno facile.

Carapita è un mondo brulicante di umanità che si muove, lavora, canta, balla, litiga, minaccia, urla, batte, rompe, si lamenta, soffre… dal mattino alla sera e anche di notte, senza sosta. E, nonostante tanta precarietà, qui c’è gente generosa, buona, collaboratrice, che desidera essere aiutata a vivere ed esprimere la sua fede».

Ecclesiasticamente, il territorio è stato eretto a parrocchia dell’arcidiocesi di Caracas nel 1990. Il terreno su cui sorge il salone che fa da chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Gioacchino e Anna, era stato occupato nelle «invasioni» del 1984.

«La nostra comunità – proseguono i missionari – è costituita da tre confratelli. Ci aiutano un diacono permanente che vive e lavora in una delle cappelle della parrocchia, e tre comunità religiose femminili: las Misioneras de Cristo Jesús, las Hermanitas de los Pobres de Maiquetía e le Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta».

Oltre alla chiesa parrocchiale, esistono altre tre costruzioni che fungono da cappelle: La Gruta, Bicentenario e Santa Eduvige. Attorno a queste strutture si sono organizzate piccole comunità cristiane.

«Inoltre i nostri seminaristi – concludono -, con il loro formatore e alcuni laici del barrio, stanno iniziando un lavoro di incontro e amicizia con la gente. Sembriamo in tanti, ma in realtà siamo molto pochi dato che la popolazione che dobbiamo attendere si aggira attorno ai 100mila abitanti. Di tutta questa marea umana possiamo curare solo una piccola minoranza che non va oltre il 3%. Il lavoro da fare è enorme».

Tra pendenze e spazi risicati

Tra i problemi che i missionari devono affrontare fin dall’inizio c’è la mancanza di mezzi di trasporto: solo i veicoli a doppia trazione possono superare la pendenza vertiginosa dei vicoli del barrio. In più, il fatto di avere un veicolo proprio, vuol dire esporsi al pericolo delle bande che derubano e uccidono per molto meno. Così bisogna adattarsi ai «carritos por puesto», le jeep private che trasportano la gente su e giù per la montagna, che partono quando sono piene e arrivano quando possono.

Un altro problema è la mancanza di spazi adeguati a realizzare le attività parrocchiali. I missionari, quindi, lottano per accaparrarsi centimetro dopo centimetro lo spazio sufficiente per costruire, con l’aiuto dei tanti benefattori, un centro parrocchiale. Quando verrà ultimato nel corso del 2021, esso servirà da abitazione per i missionari e da struttura nella quale si svolgeranno la maggior parte delle attività formative, sociali e culturali della parrocchia.

Parrocchia missionaria

Il lavoro di evangelizzazione in questo contesto così vasto ed eterogeneo è molto complesso: è una vera sfida, sotto tutti i punti di vista.

I missionari, dopo aver analizzato la realtà, scelgono alcune priorità sulle quali concentrare le loro forze: la formazione delle Cebs (le comunità ecclesiali di base), per cercare di raggiungere le persone totalmente slegate dalla Chiesa; la pastorale della gioventù, dato che sono molti i giovani che vivono immersi nel mondo della droga e della violenza; la formazione di ministri laici, date le molteplici necessità; la pastorale più specificamente missionaria che include un lavoro sulla giustizia e la pace; la formazione sulla liturgia e la sua organizzazione.

Sono scelte perfettamente in linea con le opzioni della chiesa latinoamericana emerse a Puebla, Santo Domingo e, in seguito, ad Aparecida: «Sentiamo la necessità di creare una nuova forma di “fare” pastorale e di organizzare la parrocchia partendo da una pastorale più aperta, flessibile e missionaria» (Puebla 649; Santo Domingo 257), «promovendo le comunità ecclesiali di base e la formazione ministeriale dei laici» (Puebla 804-805; Santo Domingo 94-103).

Di qui lo sforzo di coinvolgere tutte le forze vive della parrocchia nell’elaborazione ed esecuzione del programma pastorale. Come aggiunge il Documento di Aparecida: «La conversione pastorale delle nostre comunità esige che si passi da una pastorale di mera conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (DA 370), concludendo che «i laici devono partecipare al discernimento, alle decisioni, alla pianificazione e all’esecuzione» (DA 371). Bisogna, dunque, avere «un atteggiamento di apertura, dialogo e disponibilità per promuovere la corresponsabilità e la partecipazione effettiva di tutti i fedeli nella vita delle comunità cristiane» (DA 368).

Organizzare una parrocchia immensa

I settori della parrocchia di Carapita, inizialmente cinque, con il tempo diventano sette, incluso quello della chiesa parrocchiale. Ogni settore rappresenta una comunità di base molto attiva, ciascuno ha la propria cappella (tra cui una dedicata anche alla Consolata), ogni cappella ha un responsabile e un consiglio pastorale con una propria giunta direttiva.

I coordinatori delle comunità e delle diverse pastorali formano il consiglio pastorale parrocchiale che, a sua volta, ha una giunta direttiva, guidata dal piano pastorale generale che contempla tutte le dimensioni della vita della parrocchia.

In ogni settore vengono portati avanti i vari aspetti della pastorale, suddivisa in 10 ambiti, tra cui catechesi, giovani, famiglia, donne, pastorale sociale, missione.

Sono presenti anche vari movimenti ecclesiali: «La Legione di Maria», «Luis Variara», «Ho sete» e «Lacci di amore mariano».

Come indica il Documento di Aparecida: «I maggiori sforzi delle parrocchie, in questo inizio del terzo millennio, devono tendere nella convocazione e formazione di laici missionari. Solo attraverso la loro moltiplicazione potremo rispondere alle esigenze missionarie del momento attuale» (DA 174). «A questo scopo – aggiungono i missionari in un altro documento-, a Carapita si cerca di diffondere la coscienza missionaria tra i fedeli. Un primo frutto è stato la nascita del gruppo missionario che […] va di casa in casa, nei settori più appartati del barrio, per evangelizzare le famiglie. Questo lavoro ha permesso la nascita di una nuova cappella, in un settore lontano, finora dimenticato dal lavoro pastorale. La cappella, intitolata alla Consolata, è stata benedetta il 15 giugno 2002, da mons. Saúl Figueroa, vescovo ausiliare di Caracas, che si è complimentato con i Missionari della Consolata per il lavoro che stanno portando avanti».

Il grande impegno è quello di fare della parrocchia una «Comunità di comunità, evangelizzata ed evangelizzatrice, discepola e missionaria».

La «olla solidaria»

Fedeli al loro carisma, i missionari cercano di integrare l’evangelizzazione con la promozione umana. Il beato Giuseppe Allamano diceva: «Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra». Il Documento di Aparecida aggiunge: «Il ricco magistero sociale della Chiesa ci indica che non possiamo concepire un’offerta di vita in Cristo senza un dinamismo di liberazione integrale, di umanizzazione, di riconciliazione e di inserzione sociale» (DA 359).

L’instabilità politica e sociale del Venezuela del 2021 crea squilibri nella popolazione a tutti i livelli e costituisce una sfida alla missione della Chiesa. La crisi è più evidente nei servizi e nella mancanza di mezzi economici per acquistare i generi di prima necessità.

L’87% della popolazione vive in povertà  e, di questi, il 25% in povertà estrema. La maggior parte delle famiglie non riesce a sopravvivere con un solo salario minimo e molti si vedono costretti a frugare nella spazzatura per racimolare qualcosa da mangiare.

Come mezzo per alleggerire le difficoltà della popolazione più bisognosa, ogni domenica, dopo la messa, un gruppo di volontari della parrocchia prepara «la olla solidaria» (la pentola solidale): una grande pentola di zuppa che viene servita a circa 300 persone. Gli ingredienti sono provvisti dalla Caritas, da La Confraternidad e dall’Università Cattolica Andrés Bello (Ucab). Non mancano le donazioni private e la solidarietà di molta gente che condivide quel poco che ha. Così, in questo tempo di crisi, i cristiani di Carapita vivono con più fervore il comandamento dell’amore.

Nello stesso tempo, dal lunedì al venerdì, più di 300 bambini ricevono cibo nell’ambito del progetto «Fundación techo», nei locali della parrocchia, dove, tra l’altro, si svolgono la catechesi, i corsi di taglio e cucito per le donne, il doposcuola per i ragazzi, i corsi di musica, e si organizzano «giornate mediche» per tutti, in particolare per bambini e anziani.

Nella grande periferia esistenziale di Carapita, la parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna si caratterizza per il servizio gratuito e totale a favore dei più deboli e diventa centro di incontri, di collaborazione e di comunione tra persone, gruppi e istituzioni. Il famoso «ospedale da campo» tanto caro a papa Francesco.

Un parroco psicoteraperuta

D’altra parte padre Rodrick Tumaini Minja, parroco di Carapita, laureato nel 2018 in psicoterapia, presta la sua collaborazione come parte del team interdisciplinare che si occupa del recupero e riabilitazione dei tossicodipendenti che vivono in strada e che chiedono assistenza alla Casa di accoglienza situata nel barrio di San Andrés; un progetto in cui lavorano tre congregazioni di religiose: Compacionistas, Missionarie di Cristo Gesù e Piccole Suore dei Poveri di Maiquetía.

«La nostra – dice il missionario – vuole essere, quella che il card. Baltazar Porras, amministratore apostolico della diocesi di Caracas, chiama “pastorale di speranza” e che l’Allamano chiamava “consolazione”: consolare la gente nella sua afflizione per i tempi difficili che sta vivendo».

Padre Jaime Patias, consigliere generale Imc, in occasione di una sua visita alla parrocchia, effettuata nell’estate del 2019 con il Consiglio Continentale dei Missionari della Consolata in America, scrive: «Ho potuto palpare da vicino lo sforzo grandioso e la dedizione dei missionari che lavorano in Venezuela, così come la vicinanza e l’affetto della gente. La situazione di crisi continua a colpire i più poveri e bisognosi. In comunione con loro, ringrazio Dio per la dedizione dei nostri missionari e missionarie e per la solidarietà di tutti con il popolo venezuelano, in particolare verso i migranti».

Sergio Frassetto

 




IMC Venezuela 50: la missione alla foce dell’Orinoco

I missionari e le missionarie della Consolata iniziano, insieme, la missione a Nabasanuka il giorno della Consolata del 2006. Dopo otto anni da quando hanno lasciato la Guajíra, affidano a lei l’opera di evangelizzazione di un altro popolo indigeno, quello dei Warao.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


La missione alla foce dell’Orinoco

Nabasanuka, porto dei Warao

La curiara (canoa) solca veloce le acque del fiume che, pigro, scorre tra ali di maestosa foresta tropicale mentre uccelli, come usciti dalla tavolozza di qualche pittore naïf, intonano il loro concerto mattutino osservando incuriositi il passaggio di alcuni naviganti, «turisti per caso».

Siamo nello stato Delta Amacuro, un paradiso di acque, animali e piante creato dalla foce dell’Orinoco, il fiume più grande del Venezuela che, avvicinandosi all’Atlantico, per una lunghezza di 200 km, crea in una fitta ragnatela di canali, lagune e zone palustri che si intrecciano tra loro.

La barca, partita col buio, sette ore fa dalla città di Tucupita, sta per giungere alla meta: Nabasanuka, la casa del popolo warao.

Diciotto anni dopo la Guajíra

È il 20 febbraio 2006, quattro giorni dopo la festa del beato Giuseppe Allamano. I missionari e le missionarie della Consolata iniziano il loro lavoro apostolico a Nabasanuka, affidandosi al fondatore e alla Consolata, chiedendo di poter essere presenza di consolazione in mezzo ai Warao.

Prende forma così un sogno coltivato a lungo dai missionari in Venezuela. Dopo aver lasciato la Guajíra nel 1998, essi non hanno mai rinunciato alla speranza di tornare a lavorare tra gli indigeni per esprimere pienamente e al meglio il loro carisma missionario.

È stato proprio inseguendo questo sogno che, nel duemila, durante la V Conferenza della Delegazione, essi hanno deciso di iniziare una nuova presenza fra i popoli indigeni, possibilmente in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’anno successivo, i Consigli generali dei due istituti hanno approvato la decisione che nel 2004 è poi sfociata nella scelta del vicariato di Tucupita, degli indigeni warao.

Nel 2005 due équipe di padri e suore, hanno raggiunto la missione di Nabasanuka in tempi diversi e, durante varie settimane, hanno realizzato un primo approccio con l’ambiente e la popolazione locale. L’obiettivo era di conoscere la realtà e di fare l’esperienza del vivere in équipe: era, infatti, la prima volta che padri e suore lavoravano insieme vivendo sotto lo stesso tetto.

Missionari e missionarie insieme

Il 20 febbraio 2006 i padri Josiah K’Okal e Vilson Jochem giungono a Nabasanuka e iniziano una presenza stabile. Tuttavia, come è stato programmato, l’inizio ufficiale della loro missione insieme alle missionarie della Consolata nel vicariato di Tucupita avviene il 20 giugno 2006, festa della Consolata. La messa solenne è presieduta dal Vicario apostolico, mons. Felipe González, accompagnato da tutti i Missionari della Consolata e dai Cappuccini. Durante la celebrazione sono presentati alla comunità i missionari e le loro consorelle, le suore Carla Pianca, Luigina Goffi, Rosemary Kabbis e Ivana Cavallo che da oggi condivideranno la vita dei Warao a Nabasanuka.

Coinvolgere i laici

L’alto numero di comunità, le notevoli distanze e la difficoltà delle vie di comunicazione, rende impossibile visitarle con frequenza. Per questo, nel loro programma pastorale, i missionari decidono di dare la priorità alla formazione di animatori e di catechisti capaci di coltivare la vita cristiana nei loro villaggi anche in assenza del missionario. L’iniziativa parte fin da subito nelle comunità di Nabasanuka, Bononia e Araguabasi: si radunano una quarantina tra uomini e donne che, in futuro, rappresenteranno i pilastri dell’evangelizzazione nella parrocchia.

Per venire incontro ai costi dei viaggi, la missione crea un piccolo fondo che, grazie alla Provvidenza, non si esaurirà per molto.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida

Il Vangelo si incultura

Nell’ottobre del 2007 si tiene un’assemblea allargata degli agenti di pastorale, laici e religiosi, che lavorano nelle diverse comunità del vicariato nel quale, tra l’altro, si è deciso di creare una équipe di Pastorale indigena con l’obiettivo di costruire una chiesa inculturata, con un’identità propria, dove l’esperienza di fede sia espressione del mondo warao, della sua cultura e lingua, delle sue tradizioni e valori.

Da questo obiettivo nasce un piano di pastorale suddiviso in otto ambiti principali: la religiosità, la spiritualità e l’inculturazione; la promozione della cultura warao e l’assunzione dei valori presenti in essa; la lotta contro la povertà e l’impegno per uno sviluppo solidale; la democrazia partecipativa; la difesa della terra e dell’ambiente; lo sviluppo umano tramite la salute e l’educazione; l’appartenenza e l’integrazione nazionale e internazionale; la promozione e la difesa dei diritti umani.

Nel 2008, i missionari e le missionarie, alla luce di questo piano, e rispondendo alle attese della comunità, redigono il loro primo progetto apostolico nel quale l’evangelizzazione viene definita come «inculturazione del Vangelo a partire dalla spiritualità e religiosità tradizionale dei Warao, preservando, promuovendo e difendendo la loro identità culturale e i loro diritti come nativi del Delta Amacuro».

Percorrendo questa strada, i missionari scoprono nel mondo spirituale warao molti semi del Vangelo che attendono solo di giungere a maturazione. Bella, per esempio, è l’espressione che gli indigeni usano per indicare il Regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Non c’è immagine migliore per definire l’opera dei missionari: fare di questo popolo una casa dove ci si accoglie e si collabora fraternamente.

Promozione umana

Percorrendo i canali del delta, fermandosi a ogni attracco di barche, entrando in questa o quella palafitta, i missionari possono constatare che, al di là della facciata da cartolina, vi è una realtà di povertà e di abbandono, di fame e di malattie endemiche che lasciano sgomenti: bambini denutriti, ragazzi non scolarizzati, anziani abbandonati a se stessi e senza cure mediche.

In tutta la regione (15mila km2, un territorio più grande del Trentino Alto Adige) c’è un solo dispensario, con un medico residente che, volontariamente, si prende cura di questa gente.

Per quanto riguarda l’educazione, in tutto il territorio ci sono due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani termina solo il ciclo della scuola elementare. Inoltre, l’insegnamento non eccelle per serietà e rendimento, a causa della mancanza di maestri professionalmente qualificati.

Questa situazione spinge i missionari a impegnarsi come insegnanti nel liceo di Nabasanuka dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Un impegno in più nel già gravoso lavoro di evangelizzazione, ma anche un’opportunità per conoscere i giovani e accompagnarli nella loro crescita umana, culturale e religiosa.

Va ricordato che il popolo warao è sempre stato nomade, migrando da un luogo all’altro in cerca di migliori condizioni di vita. Per fermare la migrazione e migliorare la qualità della vita delle persone, l’équipe missionaria porta avanti progetti in ambito sanitario come giornate mediche nelle comunità, distribuzione di medicine e forniture sanitarie, e un programma di assistenza medica e alimentare per chi convive con Aids e tubercolosi. «Molti, purtroppo, sono morti aspettando un mezzo di trasporto», esclama un missionario. Ecco perché la missione cerca anche di aiutare con ambulanze fluviali e terrestri per trasferire i malati in città.

Altri progetti riguardano il settore dell’istruzione con borse di studio per studenti, il «Computer Center» (una sala computer a uso comunitario), con l’equipaggiamento necessario per studiare via internet, e la fornitura di materiale scolastico (quaderni, matite, divise).

La generosità fa sbizzarrire la fantasia. Così nascono progetti di micro auto sostenibilità per accedere all’energia solare, per l’acquisto di reti e accessori utili per la pesca, sementi per piantare, tessuti per i corsi di taglio e cucito per le donne.

Sergio Frassetto


I Warao

Warao è un termine che significa «Gente di canoa» e indica un popolo indigeno che conta circa 50mila persone. I Warao costituiscono il secondo gruppo etnico più numeroso in Venezuela dopo i Wayú.

Vivono su palafitte costruite ai margini dei fiumi, formando piccoli villaggi di famiglie unite fra loro da forti legami di collaborazione e solidarietà. Il più anziano del gruppo, chiamato «aidamo», svolge la funzione di autorità della comunità.

I Warao si dedicano alla pesca e alla caccia di sussistenza. Dove è possibile, in piccole radure (conuchi) coltivano l’ocumo, una pianta erbacea che produce tubercoli commestibili che rappresentano il «pane» del Warao. Esercitano un artigianato vario e di grande qualità: amache, ceste, utensili, ecc.

Giungendo a Nabasanuka come ospiti e pellegrini, i missionari hanno potuto sperimentare la sorprendente ricchezza umana e sociale di questo popolo. Infatti, sono stati accolti non come stranieri, ma come «daje» (fratello maggiore) o «daka» (fratello minore).

La parrocchia di Nabasanuka, dedicata a Maria «Divina Pastora de Araguaimujo», sorge nel centro abitato principale nel quale vivono circa 800 persone.

Il resto della popolazione è suddiviso in una sessantina di piccole comunità, alcune già evangelizzate, altre con una vita cristiana embrionale, altre che attendono ancora il primo annuncio del Vangelo.

La prima sfida che i missionari hanno affrontato con i Warao, è stata l’apprendimento della lingua indigena, allo scopo di intessere relazioni e di conoscere la cultura. Nello stesso tempo, hanno cominciato a visitare le comunità raggiungendole sulle curiaras via acqua.

Uno dei problemi più grossi della zona sono proprio le comunicazioni e i trasporti: il posto più vicino nel quale rifornirsi di benzina è Tucupita, a sette ore di curiara. Per raggiungerlo con barche vecchie e malandate, succede di rimanere in panne nelle acque dell’Orinoco.

Da qualche anno è stata acquistata una nuova barca, regalata da amici e battezzata La Consolata. Ora i missionari girano per le terre dei Warao con più speditezza. (S.F.)


Una giornata tra i Warao

Padre Andrés García Fernández, spagnolo, ha al suo attivo un’invidiabile esperienza missionaria. Ha lavorato tre anni in Costa d’Avorio fra gli immigrati, cinque in Spagna, nel campo dell’animazione missionaria, tredici in Congo RD fra i pigmei e dal 2019 è tra i Warao del Delta Amacuro.

Arrivando in Venezuela tra i Warao, la sfida è stata quella di entrare nell’anima di questo popolo, conoscerne la cultura, la lingua, l’organizzazione, e scoprirne la relazione con la natura e la trascendenza. Cercare di capire dove Dio lo conduce, e accompagnarlo in questo processo.

La classe politica sta litigando, lotta per il potere, cercando di abbattere l’avversario. Mentre va avanti questa lotta, quelli che soffrono sono i poveri, la gente umile.

I popoli indigeni stanno soffrendo molto per quello che viene chiamato «El Amo» (l’Arco minerario dell’Orinoco), le cui ricchezze del sottosuolo (oro, coltan e altro) sono appetite dal governo attuale, dalla guerriglia colombiana (le Farc e altri gruppi) e anche dall’opposizione.

La selva viene depredata e distrutta con tutte le conseguenze che la devastazione ambientale comporta per coloro che la abitano. Nel delta l’acqua arriva di colore quasi nero. Nel periodo di crescita del fiume arriva tutto il mercurio con cui si lava l’oro, il cianuro e altri veleni. I pesci galleggiano morti, l’acqua ha l’aspetto della spuma e noi la beviamo e ci laviamo con essa. E le malattie proliferano sotto forma di piaghe, diarrea, febbre, soprattutto nei bambini.

La gente soffre per mancanza di potere d’acquisto: il governo non paga con denaro effettivo, ma dà un numero che indica una somma, ma se non c’è elettricità per tutta una settimana, come capita spesso, non si può ritirare dalla banca il proprio «numero» per andare comprare quello che serve. La gente soffre per mancanza dei servizi essenziali, degli alimenti di base, delle medicine. E il fatto di aver chiuso la porta agli aiuti che vengono dall’estero peggiora la situazione. La gente si dispera.

Quando ho chiesto a un Warao scappato in Brasile: «Perché te ne sei andato dal Venezuela?», mi ha risposto: «Mi è morto il primo figlio, è morto il secondo e non ho voluto che morisse anche il terzo».

Giorno dopo giorno

Ciononostante, la missione è appassionante, e condividere il trascorrere dei giorni con la gente è bello. Chiedo a Dio di non abituarmi mai a questa realtà. Vivendo nel seno della foresta pluviale, è bello alzarsi al mattino e vedere tutta la ricchezza della natura: quei fiumi, quegli alberi, quei paesaggi, i bambini, il modo di vivere della gente, la cultura.

In genere cerco di alzarmi alle quattro del mattino per pregare, perché, a partire dalle sei, quando celebriamo la messa, fino alle 8 o 10 di sera non riesco più a sedermi.

Dopo la preghiera preparo un po’ di colazione, a volte per due giorni in modo che mi duri di più, e poi faccio il bucato e riordino la casa.

Dopo l’eucaristia inizia a venire la gente con le proprie necessità: c’è chi viene a chiedere una medicina, chi cerca cibo o altro.

Con un gruppo di collaboratori organizziamo gli incontri per i giovani, il programma di alfabetizzazione dei bambini e quello per la formazione delle donne.

Una volta preparato il materiale, usciamo con la lancia e navighiamo per i vari canali alla volta delle comunità. Nella nostra parrocchia ce ne sono una sessantina che cerchiamo di visitare ogni mese. Lascio un gruppetto di collaboratori nella prima, un altro gruppetto nella seconda e, mentre essi svolgono l’attività programmata, io vado alla seguente. Quando ho finito la formazione e l’eucaristia, faccio il percorso inverso: torno alla seconda comunità dove il gruppetto ha già terminato la formazione, celebro l’eucaristia e poi, insieme, torniamo alla prima.
In questo modo cerchiamo di visitarne due o tre ogni giorno. Le accompagniamo e le formiamo
in questo modo.

Trascorro poi il pomeriggio in casa, giocando con i bambini, ricevendo la gente, visitando gli infermi e parlando con i giovani che chiedono una speranza (cosa facciamo, dove andiamo, dove possiamo trovare lavoro?).

 

I Warao non esistono senza il delta

Ci sono anche i maestri che hanno bisogno di imparare come insegnare. La maggioranza di loro ha frequentato solo la scuola secondaria e non ha avuto altra preparazione. Devono imparare a fare un programma pedagogico, a trasmettere i contenuti, ecc.

È appassionante anche seminare speranza e aiutare le persone a organizzarsi, a sognare, e a sognare un ritorno di tutti quei Warao che se ne sono andati, sognare di tornare a essere il popolo che erano, ma più organizzato, con più coscienza di quello che sono.

Questo discorso vale per il delta dell’Orinoco, ma anche per tutta l’umanità.

Io, spesso, dico loro: «Il delta con tutta la sua biodiversità non esisterebbe senza i Warao, senza la vostra maniera di essere e di vivere». Anche i Warao senza il delta, pur sopravvivendo, non vivrebbero più come Warao. Hanno bisogno del loro ambiente per continuare a essere come sono stati finora.

Dio dietro ogni cosa

Una cosa bella è vedere come il Warao chiede permesso all’albero per tagliarlo e fare la sua
curiara, vedere come chiede permesso alla natura per tagliare alcuni alberi per fare il suo orto dove produrre l’ocumo, o come chiedono permesso all’acqua quando vanno a pescare o a navigare.

È importante scoprire come per essi c’è una vita, c’è un dio della vita, che sta dietro a tutta la natura e che sostiene l’esistenza di ciascuno, di ogni essere e di ogni persona.

Allora la mia quotidianità è scoprire e accompagnare tutto questo, non solo condividendo il poco che ho, ma anche i loro sogni, le difficoltà, gli ideali e il ritmo di Dio nelle loro anime.

Verso le ore 20 mi chiudo in casa, solo con nostro Signore, ricapitolando la giornata, rendendo grazie e programmando il giorno dopo. In questo modo il giorno trascorre pieno di gente e scoprendo in essa la presenza di Dio.

Andrés García Fernández


Dalle sponde del fiume alla città

Con gli indigeni a Tucupita

Alla ricerca di migliori condizioni di vita, chi può o chi è costretto dalla povertà, abbandona la sponda del fiume e raggiunge la città. Sradicati dalla comunità, i Warao si ritrovano soli in un ambiente ostile che non sa offrire loro altro che marginalità e povertà ancora più profonda di quella lasciata nella terra nativa.

La «transumanza» è una caratteristica dei popoli indigeni. Da sempre i Warao la praticano realizzando una stretta interconnessione con Tucupita e altre città dentro e fuori i confini del Venezuela. Nel corso degli anni, ampi strati di popolazione indigena si sono trasferiti nel capoluogo della regione in cerca di migliori condizioni di vita. Tuttavia, vivendo la marginalità, dispersi nella grande città e senza punti di riferimento sicuri come la famiglia e il clan, facilmente perdono la loro identità e i loro valori.

Allo scopo di accompagnare anche i Warao migranti nel loro cammino umano e spirituale, i missionari, fin dal loro arrivo a Nabasanuka, concepiscono una loro presenza nella città di Tucupita.

Pastorale indigena urbana

Il progetto di stabilire una presenza a Tucupita si realizza nel marzo 2009, quando padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata keniano, si trasferisce nella città e assume la responsabilità del lavoro pastorale con i Warao emigrati lì, facendo base nella parrocchia di san Giuseppe.

A Tucupita i missionari diventano così fattore di incontro e comunione per gli indigeni, contribuendo, con diverse iniziative, a promuovere in essi il senso di appartenenza, tassello fondamentale per una presa di coscienza della propria identità e dignità.

Uno dei progetti sviluppati è quello dei due corsi di taglio, cucito e sartoria per 50 donne all’anno. Il corso fornisce loro le conoscenze necessarie a realizzare manufatti sartoriali per le loro famiglie e per la vendita, e quindi generare reddito.

Risiedendo a Tucupita, i Missionari della Consolata possono anche offrire un servizio diretto in favore del vicariato Delta Amacuro. Così, padre Zachariah (che nel 2018 tornerà in Kenya e verrà sostituito da padre Silvanus Ngugi) svolge le funzioni di vicario generale del vescovo, direttore delle Pontificie opere missionarie e responsabile, dal 2016, della nuova vicaria denominata «Dani Consolata» dedicata al servizio degli indigeni.

Avere una parrocchia in Tucupita, poi, rappresenta un vero e proprio punto di approdo per chi arriva dalla missione dopo sette ore di curiara. Qui i missionari possono mangiare, riposare e appoggiarsi per le mille faccende da sbrigare prima di ripartire per Nabasanuka.

E così, a Tucupita come a Nabasanuka, nel cemento della città come nelle acque dell’Orinoco, i Missionari della Consolata, nonostante il loro numero ristretto a causa della difficoltà a ottenere dal governo i permessi, lavorano uniti alla costruzione del Regno di Dio tra i Warao.

Sergio Frassetto


Verso il Brasile

Le tragiche condizioni socio economiche del Venezuela hanno costretto milioni di cittadini a emigrare nei paesi vicini. Tra loro, migliaia sono Warao. I missionari continuano a seguirli anche in Brasile.

Sommerso da una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela sta vivendo una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggi, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni di vita peggiorano ogni giorno, mettendo a rischio molte vite.

Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà, al punto che alla fine del 2020, una famiglia di cinque persone avrebbe dovuto guadagnare 98 salari minimi per acquistare beni di prima necessità. Questa situazione ha causato enormi migrazioni nei paesi vicini, in particolare in Colombia e Brasile.

Secondo le statistiche ufficiali, sono oltre 5 milioni i venezuelani che hanno lasciato il regime di Maduro in cerca di migliori condizioni di vita.

I Warao a Pacaraima e Boa Vista

Anche molti indigeni warao del Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare il paese. Si sono stabiliti inizialmente a Pacaraima, una città dello stato brasiliano di Roraima appena oltre il confine con il Venezuela, ma molti si sono poi spinti all’interno dello stato di Roraima, in città come Boa Vista, e in altri stati, come a Manaus, in Amazonas.

Sopravvivono con le donazioni di enti privati e di beneficenza. Molti hanno portato con sé prodotti di artigianato dal Venezuela e lavorano come venditori ambulanti. Alcuni vorrebbero restare a vivere in Brasile e vanno alla ricerca di lavoro, ma senza successo, anche perché privi di documenti di identità.

La situazione di precarietà aumenta la loro vulnerabilità, i rischi di sfruttamento, l’uso di droghe, la fame e le malattie.

Missionari itineranti

Per i Missionari della Consolata in Venezuela, il futuro di queste comunità indigene è motivo di grande preoccupazione. La Direzione generale dell’Istituto, venendo incontro a questa situazione, a maggio del 2018, ha approvato la creazione di un’équipe missionaria itinerante per accompagnare proprio gli immigrati e rifugiati venezuelani a Pacaraima e Boa Vista.

Il team è composto da tre missionari, uno dei quali lavora con i Warao a Tucupita.

Le sfide da affrontare giorno per giorno riguardano tutti i settori: documentazione, salute, sicurezza, trasporti, educazione, lavoro e integrazione. Oltre a queste sfide e all’assistenza religiosa, i missionari si dedicano in modo speciale all’alimentazione dei bambini fra i quali si riscontrano molti casi di denutrizione. A loro vengono offerti due pasti a settimana accompagnati da formazione umana, culturale e igienica. (S.F.)

 




IMC Venezuela 50: l’animazione missionaria


I Missionari della Consolata, fin dal loro arrivo in Venezuela, hanno messo tra le loro priorità l’animazione missionaria e vocazionale della chiesa locale. Da questo proposito sono nati l’inserimento nelle Pom, l’apertura del seminario filosofico e la nascita di Jovenmisión.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

 


L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana

Chiesa ad gentes

L’obiettivo principale dell’arrivo dei Missionari della Consolata in Venezuela fin dall’inizio fu l’animazione missionaria e la promozione vocazionale. Il Capitolo generale del 1969 lanciò l’Istituto in questa linea: animare le giovani chiese all’evangelizzazione. Padre Giovanni Vespertini, a fine del 1970, stabilendosi a Trujillo, regione delle Ande venezuelane, una delle più religiose del Venezuela, aveva visto la possibilità di animare all’ad gentes la vita religiosa e sacerdotale della chiesa locale.

Le prime tappe

La destinazione di padre Luigi Crespi alla stessa zona fu pensata in questa prospettiva. Arrivato dalla Spagna, dove svolgeva lo stesso ministero, nel 1972, iniziò ad animare la diocesi di Trujillo nella città di Valera.

Nel 1974 arrivò padre Francesco Babbini come responsabile del Gruppo Imc Venezuela. Egli lanciò l’animazione a 360 gradi.

Viaggiando in autobus, senza ancora conoscere il paese, di notte o di giorno, con la sua valigetta piena di dépliant, il proiettore e i documentari di padre Gabriele Soldati, fermandosi nelle diocesi, nei seminari, nelle parrocchie, nelle scuole, in poco tempo fece conoscere i Missionari della Consolata nel paese. Divenne amico del nunzio apostolico e raggiunse i vicariati del Caroní e di Machiques, offrendo alla chiesa locale la possibilità di una nostra presenza tra le popolazioni indigene a loro affidate. Si sarebbe optato poi per Machiques, nella regione della Guajíra.

A Caracas padre Francesco Babbini offrì la sua esperienza alle Pom (Pontificie opere missionarie), delle quali divenne un valido collaboratore. Nella capitale aprì anche il seminario propedeutico e filosofico della Consolata nel 1977.

Jovenmisión e Cajumi

Da sempre la presenza dei missionari nelle diocesi fu presenza pastorale e di animazione missionaria. Nelle diocesi di Trujillo, San Cristobal, Los Teques e Barquisimeto, i missionari furono anche i direttori diocesani delle Pom. A Barquisimeto, in particolare, oltre alla pastorale nelle due parrocchie del Buen Pastor e del Ujano, i missionari crearono il Cam (Centro di animazione missionaria) dove si offriva (e si continua a offrire) formazione alla missione a livello locale e nazionale.

In Venezuela l’Imc fu e rimane l’unico istituto missionario specificamente ad gentes. Quindi con una responsabilità non indifferente nell’animare la chiesa locale alla missione.

Nel 1986 il direttore nazionale delle Pom chiese un missionario della Consolata per svolgere il compito di segretario nazionale della pontificia Opera di San Pietro Apostolo e di responsabile per l’animazione missionaria della gioventù. Padre Nelson Lachance, canadese, assunse l’incarico ed ebbe l’illuminazione di fondare «Jovenmisión» (Missione giovane): non un movimento, ma un servizio ai gruppi giovanili ecclesiali.

Nel 1988 realizzò il primo «Cajumi» (Campo Giovanile Missionario), a Santa Rosa de Ocopí, nella regione di Anzoátegui, con la partecipazione di giovani venezuelani e di altri provenienti da altre nazioni latinoamericane. Furono organizzate giornate di riflessione, catechesi e preghiera.

Una gioventù missionaria entusiasta

Come successore di padre Lachance, fu nominato chi scrive. Con l’aiuto della suora teresina Marta Cecília Ramírez Marin e di alcuni giovani, strutturai la neonata Jovenmisión su tre dimensioni: spiritualità, formazione e missione.

I punti salienti del programma annuale, a livello nazionale erano (come sono ancora adesso): la Pasqua giovanile missionaria, dal lunedì santo alla domenica di Pasqua; la Scuola di leader missionari in due tappe, ciascuna di otto giorni, per la formazione alla missione; il campo giovanile missionario – Cajumi – di 25 giorni in una zona poco evangelizzata. Dal 1989 ad oggi, l’esperienza del Cajumi non è mai stata interrotta. Un anno particolare fu il 1997, quando nei mesi di luglio e agosto si realizzarono contemporaneamente 27 Cajumi in tutto il Venezuela.

I frutti

Quali sono stati i frutti del lavoro di animazione svolto dall’Imc in Venezuela?

Noi abbiamo visto questo: è cresciuta la coscienza missionaria nelle parrocchie, nei movimenti apostolici, tra i giovani e i bambini. Nei tempi forti dell’anno liturgico e nel mese di agosto, i cristiani si fanno evangelizzatori nei villaggi e nei paesi privi di assistenza religiosa. La Giornata missionaria mondiale, è diventata il «Mese missionario», e la colletta per le missioni molto più significativa e consistente, sia nelle parrocchie che nelle scuole cattoliche. In questo mese è diventata tradizione la «Camminata giovanile missionaria» che, cambiando percorso ogni anno, diventa, ancora oggi, nel 2021, momento di testimonianza e animazione di strada dei giovani con i Missionari della Consolata.

Giovani e ragazzi optano per la vita religiosa, sacerdotale e missionaria. Anche per la Consolata. Un esempio è padre Lisandro Rivas, primo missionario della Consolata venezuelano, dopo aver lavorato in Kenya, è stato superiore della Delegazione Imc del Venezuela, formatore nel seminario teologico di Bogotà (Colombia) e attualmente lavora per la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli come rettore del Collegio S. Paolo, in Roma, dove sacerdoti da tutto il mondo studiano nelle Università pontificie.

Nel 1993 una coppia di giovani sposi partì per il Congo RD, lavorando per tre anni e mezzo nella missione di Neisu, facendo molto bene. Furono i primi laici missionari della Consolata del Venezuela. Negli anni successivi altri avrebbero seguito il loro esempio. Una giovane, appena laureata, partì per la missione di Tencua (vicariato di Puerto Ayacucho) lavorando per quattro anni con le missionarie della Consolata in piena selva amazzonica. Fu poi raggiunta e sostituita da un’altra giovane dedicata alla formazione ed educazione degli indigeni Yecuana.

Il giovane avvocato Adrián Enrique Gelves partì per il vicariato di Puerto Ayacucho, dove svolse il compito di responsabile per i diritti umani degli indigeni per quattro anni. Dopo il matrimonio, continua ancora oggi a svolgere lo stesso servizio mentre la sua sposa è responsabile della Caritas del vicariato. Una giovane laureata in Educazione li ha raggiunti, e qui rimane tuttora, sposata con un indigeno.

Un giovane seminarista teologo ricevette dal cardinale arcivescovo di Caracas il permesso per studiare al pontificio Collegio urbano di Roma per prepararsi per la missione. Per tre anni svolse il suo ministero come aggregato alla Consolata nella diocesi di Lichinga in Mozambico, e oggi è il direttore nazionale delle Pom in Venezuela. Dopo di lui, un altro sacerdote diocesano si aggergò all’Imc e rimase in Mozambico per quattro anni.

Nel 2014, la Cev (Conferenza episcopale venezuelana) assunse una missione in Mozambico, e da allora ha inviato due sacerdoti fidei donum e sei laici. La missione di Manje è tra le più dinamiche della diocesi di Tete.

I frutti continuano a maturare anche a distanza di tempo come il cammino sinodale, lanciato dalla Cev nel mese di aprile di quest’anno, quando, con la partecipazione di tutti i membri della chiesa in Venezuela, si è iniziato a riflettere, dialogare e promuovere l’impegno ad essere «una parrocchia missionaria, in uscita per i nuovi tempi». Lo scopo è generare la trasformazione pastorale che la Chiesa sogna e di cui parla papa Francesco, una Chiesa in uscita, ospedale da campo, che raggiunge tutti, anche nelle periferie.

Sandro Faedi


In quindici al lavoro

Fedeli al proprio carisma, i Missionari della Consolata in Venezuela vogliono continuare a essere presenza significativa.

Cinquant’anni di presenza Imc in Venezuela, cinquant’anni di pagine missionarie scritte con entusiasmo e sudore dai missionari che si sono succeduti in questa terra benedetta da Dio, con tanti doni, eppure immersa in una grande tribolazione, segnata da povertà, ingiustizia, violenza e morte.

In questa realtà essi continuano a seminare il campo di Dio lavorando in trincea tra immense difficoltà e a costo di grandi sacrifici personali. Attualmente sono quindici: a Barlovento, tra gli afrodiscendenti (Caucagua, Panaquire, El Clavo, Tapipa); nell’archidiocesi e città di Barquisimeto, con il Centro di animazione missionaria (Cam); nel vicariato di Tucupita, tra gli indigeni warao (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas con la sede della delegazione, il seminario propedeutico e filosofico, e la parrocchia di Carapita nella periferia della città.

In conclusione, di questo dossier lasciamo loro la parola per fare nostro il loro appello a pregare per il Venezuela. (S.F.)

Consolazione e liberazione

[Pregate per il Venezuela] affinché possa uscire da questa situazione difficile, e perché noi missionari siamo segno di consolazione in mezzo a tanta sofferenza e dolore. In questo contesto viviamo il nostro carisma di consolazione/liberazione, e ogni giorno che passa ci convinciamo sempre più che siamo dove il Signore ci vuole.

Nel suo intervento durante il nostro XIII Capitolo generale, papa Francesco ci ha detto parole che ci infondono grande forza e speranza: «Vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice. Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori» (4 giugno 2017).

Siamo anche convinti che il beato Giuseppe Allamano sia al nostro fianco e che, grazie all’opera di ciascuno di noi, cammini con il nostro popolo. Traiamo forza anche dalle parole di Gesù, che soffre con la gente e ci incoraggia a continuare a condividere la nostra vita con un popolo che, sebbene rischi di morire di fame, non esita a spezzare il pane quotidiano con chi ne ha ancora meno.

Affermiamo ancora una volta che questa è l’ora della consolazione, l’ora di rimanere e camminare spalla a spalla con persone che, nonostante tutto, continuano a sognare un domani migliore.

Affidando il nostro essere missionari e la nostra azione all’intercessione della Consolata nostra madre, del beato Fondatore e del nostro patrono, san Oscar Arnulfo Romero, vi salutiamo con gioia.

I Missionari della Consolata della Delegazione Venezuela


Hanno scritto questo dossier:

�Sergio Frassetto
Missionario della Consolata in Venezuela dal 1978 al 1993, autore di «Sognatori nel deserto», Emi, 1995. Oggi a Torino.

�Sandro Faedi
Missionario della Consolata oggi in Mozambico.

�Andrés García Fernández
Missionario della Consolata oggi in Venezuela.

�Jaime Carlos Patias
Missionario della Consolata oggi membro della direzione Generale.

�Foto del dossier: Archivio Fotografico MC




Venezuela – Colombia: le donne dell’esodo

Sommario

La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia

Uno zaino di sofferenza

Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.

Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.

Il migrante venezuelano

Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.

Migranti venezuelani attraversano il fiume Tachira, che segna il confine tra Venezuela e Colombia (19 novembre 2020). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

Donna venezuelana, immagine e mito

In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.

L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.

Un cartello dell’organizzazione «Hermanos caminantes», che ha istituito vari punti di aiuto lungo i percorsi dei migranti venezuelani. Foto Diego Battistessa.

Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»

Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.

Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.

Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso.  In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.

Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.

La mossa della Colombia

Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.

Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.

Diego Battistessa

Folla di migranti al ponte internazionale Simón Bolivar, trecento metri che attraversano il fiume Tachira e collegano Venezuela e Colombia. Foto Cristal Montañéz.

La migrazione: la via di Cúcuta

Al di là del ponte Simón Bolívar

Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.

San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.

Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».

Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».

L’entrata della «Casa de paso Divina Providencia», istituita dalla diocesi di Cúcuta e coordinata dal padre José David Cañas Pérez, a La Parada. Foto Diego Battistessa.

«Trochas» e «trocheros»

Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.

Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.

Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.

Padre José David Cañas Pérez alla «Casa de paso Divina Providencia». Foto Cristal Montañéz.

I problemi in territorio colombiano

Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.

Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.

Per il corpo e per lo spirito

In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.

Migranti venezuelani in cammino (si noti il cartello con le distanze). Foto Cristal Montañéz.

Cúcuta e prostituzione come necessità

A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).

La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.

Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.

Verso altre piazze

In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.

Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.

Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.

Le tende e la «lavanda» dei piedi

Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.

Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.

Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.

Diego Battistessa

La migrazione: la via della Guajira

Quando il destino è la strada

Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.

La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.

Prima tappa a Maicao, Colombia

Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.

Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.

Sulla strada di Cúcuta migranti venezuelani con mascherina attendono in fila per avere cibo e medicine dalla Croce rossa (2 febbraio 2021). Foto Schneyder Mendoza – AFP.

A Riohacha, capitale della Guajira

Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.

Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.

In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.

Due donne migranti allattano i loro piccoli in un punto istituito da «Hermanos caminantes». Tra le migranti venezuelane ci sono mamme e donne incinte. Foto Cristal Montañéz.

Le Ong di Barranquilla

Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.

Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international,  Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).

La prostituzione a Barranquilla

Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.

Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.

«Io proteggo le donne», promette la frase sul cappellino. Foto Diego Battistessa.

… e a Cartagena de Indias

Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.

Diego Battistessa

Ritratto di un giovane migrante venezuelano. Foto Diego Battistessa.

Inserti

Una baracca costruita da migranti. Foto Diego Battistessa.

«Ranchitos»

Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».

Di.Ba.

Torturatori

Prostituzione venezuelana per le strade della Colombia. Foto Diego Battistessa.

A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.

 Di.Ba

I morti di Sonia

Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.

Di.Ba

Sonia Bermudez Robles, tanatologa forense, davanti ai loculi del cimitero. Foto Diego Battistessa.

 

 

 

 




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Non voglio abituarmi

Testo di García Fernández P. Andrés |


Non voglio abituarmi.

No, non voglio.

Quando ogni giorno si sentono sparatorie accanto alla casa;
quando ogni giorno vedi decine di persone mangiare accanto ai topi, letteralmente, dai sacchi della spazzatura rotti che giacciono sui marciapiedi della capitale;
quando nelle code degli uffici o dei negozi, o dei mezzi pubblici si vedono solo volti tristi e stanchi, vestiti rammendati;
quando, nella capitale, l’acqua arriva nelle case dopo una o due settimane;
quando lo stipendio mensile di un impiegatonon è sufficiente per comprare solo quattro pagnotte.

Giorno dopo giorno… al punto che sembra (che tutto questo debba) essere normale.

Distribuzione di cibo a Carapita, periferia di Caracas, Venezuela (foto AfMC / James C. Patias)

No, non voglio abituarmi.

Non voglio abituarmi alla paura di parlare, perché perdi il lavoro e la borsa di cibo che potresti ricevere una volta al mese (dopo aver trascorso vari mesi nei canali del Delta Amacuro) …

Non voglio che la mia coscienza veda normale il contrabbando come l’unica alternativa per ottenere sapone e dentifricio, se non vuoi passare una settimana a remare (da villaggio sul fiume alla città più vicina, ndr) per vedere se il bonus che il governo offre per questo è arrivato …

Non voglio abituarmi a veder morire di tubercolosi persone lasciate abbandonate perché non possono arrivare in città…
Non voglio abituarmi a vedere bambini, giovani e adulti privati della possibilità di studiare per mancanza di quaderni e altro materiale didattico, per mancanza di libri, per mancanza di un salario degno per gli insegnanti…

Non voglio abituarmi a sentire ogni giorno che “gli altri sono i colpevoli”, gli altri non ci lasciano, gli altri…

Non voglio abituarmi a pensare che il corona-virus sia da incolpare per tutto, anche di quello che continua a non funzionare come (non funzionava) prima (del virus)…

Né voglio abituarmi a vedere la resilienza di così tante persone.

Caracas, coda per comperare cibo (Jaime C. Patias /AfMC)

Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.

Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.

Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati; e ascoltando quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella che cresce in città…

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza…

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali…

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità …

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre. Non lo vedete?!

García Fernández P. Andrés, aprile 2021
da Nabasanuka Comunidad Apostólica, diocesi di Tucupita, Venezuela

Bambini Warao ( AfMC)




Coronavirus,

il primo impatto nelle missioni

testo di Chiara Giovetti |


Attraverso le testimonianze dei nostri missionari in Africa e America Latina, ricostruiamo le reazioni a fine marzo dei paesi alla diffusione del contagio da coronavirus@, come sono state recepite le direttive dei vari governi e quali sono stati i primi provvedimenti presi nelle missioni.


I dati presentati in questo testo sono ovviamente quelli disponibili al momento delal chiusura del testo, il 24 marzo.

Per dati aggiornati vedi la mappa della diffusione del Covid-19 nel mondo nella pagina di apertura del sito.


Era circa metà marzo quando i nostri missionari in Africa e America Latina hanno iniziato a condividere via Whatsapp i primi documenti dei governi e delle conferenze episcopali nazionali con le disposizioni per contenere il contagio da Sars-Cov-2, il nuovo coronavirus.

Ne citiamo uno a titolo di esempio: il comunicato del Consiglio nazionale di sicurezza (Cns) della Costa d’Avorio presieduto dal presidente della repubblica Alassane Ouattara, che il 16 marzo segnalava sei casi confermati, saliti a 74 al 24 marzo.

Costa d’Avorio

Il Cns disponeva il rispetto delle norme igieniche fra cui il lavaggio delle mani, il divieto di scambiarsi baci, abbracci e saluti che comportino un contatto delle mani, il divieto di consumare carne di animali selvatici. Proibiva inoltre i raduni di più di 50 persone e fissava ad almeno un metro la distanza interpersonale da tenere negli ipermercati, nei maquis (piccoli ed essenziali locali dove è possibile consumare cibo e bevande, tipici della Costa d’Avorio e di diversi altri paesi africani, ndr), nei ristoranti, nelle aziende; imponeva la chiusura delle scuole per un mese e delle discoteche, dei cinema e dei luoghi per gli spettacoli per 14 giorni, la sospensione degli eventi sportivi e culturali e il rafforzamento dei controlli sanitari alle frontiere marittime, terrestri e aeroportuali. Il comunicato introduceva anche il divieto di ingresso nel paese, per quindici giorni prorogabili, ai viaggiatori non ivoriani provenienti da paesi con più di cento contagi. La messa in quarantena per 14 giorni, nei centri controllati dallo stato, era prevista per i cittadini ivoriani e per gli stranieri con permesso di soggiorno permanente che rientravano nel paese, per tutti i casi sospetti e per coloro che erano venuti a contatto con delle persone infettate. Il comunicato annunciava poi l’apertura in 13 grandi centri del paese di siti complementari equipaggiati per la presa in carico dei casi di Covid-19, l’aumento della sicurezza sanitaria per gli agenti di salute e per tutto il personale dei servizi pubblici e la riattivazione dei comitati dipartimentali di lotta alle epidemie. Il 24 marzo, in una situazione in continua evoluzione, il presidente Ouattara con un discorso alla nazione introduceva un ulteriore irrigidimento delle misure che comprendeva il coprifuoco dalle 21 alle 5.

Altri paesi

Altri governi africani hanno proposto nei giorni a seguire provvedimenti molto simili. La Repubblica Democratica del Congo, attraverso le indicazioni fornite in un discorso alla nazione dal presidente Félix Tshisekedi il 18 marzo, imponeva misure come quelle della Costa d’Avorio, con varianti come il divieto di ogni raduno, riunione, celebrazione con più di venti persone in luoghi pubblici fuori dal domicilio familiare e la sospensione di tutti i voli provenienti dai paesi a rischio e dai paesi di transito, non solo di quelli provenienti dai paesi con oltre cento casi (escludendo però i voli e le navi cargo)@.

Il Mozambico, con una comunicazione del presidente della repubblica, Filipe Nyusi, aumentava il 20 marzo le limitazioni e divieti decisi la settimana precedente, allineandosi a quelli degli altri paesi già citati. Nel comunicato@, il presidente Nyusi informava anche che fino a quel momento erano stati sottoposti al test 35 casi sospetti, che erano poi risultati negativi, mentre 267 cittadini mozambicani e stranieri provenienti da paesi ad alto rischio si trovavano in quarantena domiciliare.

Anche il Kenya, che ha registrato il primo caso il 12 marzo@,  ha chiuso le scuole quattro giorni dopo e il 22 marzo ha ulteriormente inasprito le direttive per contenere il contagio@: sospesi tutti i voli tranne i cargo dal 25 marzo, chiuse chiese e moschee, proibiti gli incontri delle chama (gruppi di microrisparmio e investimento), i compleanni e ogni altro assembramento, chiusi tutti i bar.

Quanto al servizio di trasporto in comune (i matatu), già dal 20 marzo le indicazioni erano quelle di ridurre il numero di passeggeri: i mezzi da 14 posti potevano portare al massimo otto passeggeri, non più di 15 passeggeri per matatu da 25. I bus da 30 posti dovevano infine limitarsi a usare il 60% della loro capienza@.

Matatu semi-vuoto a Nairobi, Kenya / foto di Dona Nyapola

Queste restrizioni al numero di passeggeri hanno provocato un immediato effetto indesiderato: l’aumento dei prezzi delle corse. Per questo il ministero della Sanità nel comunicato del 23 marzo ha fatto un «appassionato appello» ai proprietari dei matatu affinché smettano di imporre ai pendolari questi aumenti@.

Secondo il Johns Hopkins Hospital, il 15 aprile 2020 l’Africa contava 53 nazioni contagiate, 16.356 casi confermati e 872 decessi.

America Latina

Quanto all’America Latina, il Venezuela è certamente fra i paesi che destavano più preoccupazioni dal momento che il rischio del contagio si inserisce in una situazione politico economica già molto compromessa. Il presidente Nicolas Maduro ha annunciato la messa in «quarantena totale» del paese a partire dal 18 marzo, quando i casi di Covid-19 accertati erano 33@ (saliti poi a 84 il 24 di marzo).

Da Dianra, Costa d’Avorio

© AfMC – Matteo Pettinari da Dianrà

Sulla situazione abbiamo sentito alcuni missionari. «L’analfabetismo è la malattia più mortale che esista: scrivilo, questo». Al telefono dalla Costa d’Avorio, padre Matteo Pettinari, responsabile del Centro di salute Joseph Allamano di Dianra (Csja), non ha dubbi su quale sia il principale avversario da battere nella partita del contenimento del contagio. Secondo il censimento del 2014, precisa il missionario, la regione del Béré, dove si trova Dianra, ha l’81% di analfabeti. Far passare messaggi sulle corrette pratiche igieniche e contrastare la marea di notizie false che circolano diventa così ancora più difficile.

«Nei villaggi più isolati», continua padre Matteo, «circolano informazioni come: “questo virus è un complotto degli europei per ucciderci, basta mangiare le foglie bollite di questa o quell’altra pianta, l’africano è forte e resiste ai microbi…”. Capisci che a volte dobbiamo essere molto duri, fare leva sulla nostra autorità di uomini di Dio e addirittura chiamare “emissario del demonio” chi diffonde simili informazioni, altrimenti rischiamo di rimanere inascoltati».

I problemi però non si limitano agli ostacoli alla diffusione di informazioni corrette. Si aggiungono anche la carenza di strutture sanitarie adeguate a gestire pazienti bisognosi di respirazione assistita – la terapia intensiva più vicina a Dianra si trova al Centre Hospitalier Universitarie (Chu) di Bouaké, a 250 chilometri – e un tessuto economico fragile. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese: dire a una piccola imprenditrice “non uscire di casa, non andare più al mercato a vendere il bissap [bevanda a base di ibisco molto diffusa in Africa Occidentale, ndr]” significa metterla in condizione di non poter più garantire il sostentamento alla sua famiglia».

A marzo, il Centro di salute Joseph Allamano stava recependo le direttive del ministero della Sanità mettendo all’entrata e all’uscita di ogni reparto un dispositivo per lavarsi le mani. «Più complicato», constata padre Matteo, «sarà creare una zona dedicata per eventuali malati di Covid-19 che andrebbero isolati fuori dal complesso del Csja, in una struttura a parte».

Il personale del Centro aveva avviato la sensibilizzazione nei villaggi e presso i piccoli centri periferici della rete sanitaria già una settimana prima del primo caso riscontrato in Costa d’Avorio. Il dato positivo è che il Centro ha sempre potuto contare sulla piena collaborazione del direttore del dipartimento sanitario, molto dinamico e impegnato in prima persona a diffondere informazioni raggiungendo, in moto, i villaggi per sovrintendere o anche svolgere direttamente le attività di sensibilizzazione.

Dalla RD Congo

Padre Rinaldo Do, dalla parrocchia di Saint Hilaire a Kinshasa, riporta le difficoltà a rispettare le direttive del governo in un quartiere popoloso come quello dove lui vive. «Scuole e chiese sono chiuse e i ragazzi dovrebbero restare in casa. Ma questi giovani vivono in abitazioni dove ci sono a volte più di venti persone e non hanno computer, tv, libri a disposizione per fare i compiti o per passare il tempo. Per questo succede spesso di vederli fuori per strada, a giocare».

Preparativi per combattere il Covid_19 a Kinshasa / AfMC – Rombaut Ngaba Ndala

Dal Centre Hospitalier la Consolata nel quartiere di Bikiku, a Kinshasa, il responsabile, fratel Rombaut Ngaba Ndala, riferisce di

come sia in corso un intenso lavoro di sensibilizzazione per spiegare alle persone come comportarsi. «Ancora non si rendono conto», scrive il 25 marzo il missionario, «alcuni pensano basti prendere il Congo bololo, un’erba (la vernonia amygdalina) che di solito usano contro la malaria».

Radio Okapi, la radio a diffusione nazionale fondata nel 2002 dalle Nazioni unite e da una Ong svizzera, ha raccolto lo scorso 23 marzo alcune testimonianze da tutto il paese su come stava procedendo l’adeguamento alle istruzioni del governo.

Un ascoltatore da Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, riportava che le regole erano rispettate «al 70%» e segnalava l’arresto di un pastore di una delle cosiddette «chiese del risveglio» che aveva riunito i fedeli nonostante i divieti.

Un altro intervento da Kikwit, città del Congo centro occidentale, sottolineava il problema degli assembramenti – difficili da evitare – delle tante persone che dipendono dalle fontane e dai rubinetti pubblici per procurarsi l’acqua. L’ascoltatore lamentava, inoltre, che la recente esperienza dell’epidemia di ebola avrebbe dovuto educare la popolazione ma che questo era avvenuto solo in parte e invocava misure di legge più mirate per sanzionare chi non rispetta le indicazioni del governo.

Bambino con catino di foglie Congo Bololo, un’erba ritenuta efficace contro la malaria ed erroneamente creduta buona contro il Covid_19. Nome scientifico: Vernonia amygdalina

Da Kisangani, città sul fiume Congo nel centro Nord del paese, un ascoltatore – con un’obiezione che si è peraltro rivelata dannosa in altri contesti colpiti dal virus – avanzava perplessità sull’estensione a tutto il paese di misure inizialmente prese per Kinshasa, dove erano stati individuati i primi casi, considerando che Kisangani non era ancora stata toccata dai contagi. Riferiva di prezzi al rialzo nei mercati e sosteneva che servisse più tempo per regolamentare gli aspetti economici prima di procedere a una chiusura più decisa delle attività, perché la gente rischia «di morire di fame, invece che di virus».

Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu, nel suo intervento alla trasmissione sottolineava l’importanza delle misure di sensibilizzazione comunitaria e sosteneva che era fondamentale «evitare l’ingresso della malattia». Portava poi l’attenzione su una particolare sfida che la RD Congo – come molti altri paesi africani – deve affrontare, quella dei trasporti in comune. Anche in Congo si è tentato di ridurre le presenze sui minibus, imponendo ad esempio che i mezzi da 16 posti portino al massimo dieci persone.

Un ultimo intervento, dalla produttiva Lubumbashi, nella provincia meridionale dell’Alto Katanga, sottolineava che «ci sono più misure che dispositivi», cioè che alle indicazioni sulla carta non sempre corrispondono i mezzi per realizzarle. A titolo di esempio, l’ascoltatore di Lubumbashi riportava il fatto che i casi positivi della città erano accolti in una struttura sanitaria dove però si trovavano già altri malati, non cioè in un una struttura dedicata così da assicurare l’isolamento@.

Da Ikonda, Tanzania

Padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, scrive che nonostante il numero di casi ancora basso – dodici al 25 marzo – c’è preoccupazione nel paese, dove il governo ha assunto misure molto simili a quelle degli altri esecutivi africani. «Qui in ospedale», precisa padre Marco, «abbiamo disposto all’ingresso luoghi per il lavaggio e disinfezione delle mani. Ai nostri lavoratori sono stati distribuiti flaconi di gel igienizzante e maschere. Abbiamo già sistemato un locale apposito per eventuali malati di Covid-19».

Da Tucupita, Venezuela

Padre Andrés Garcia Fernandez, che lavora a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, il 19 marzo invia aggiornamenti nei quali lamenta la scarsità di informazioni che arrivano nelle comunità più isolate, così che anche i comportamenti corretti da seguire per non contrarre il nuovo coronavirus non raggiungono tutta la popolazione. Vi è inoltre mancanza di controllo sull’applicazione effettiva delle misure preventive e i trafficanti della Guyana o di Trinidad che attraversavano i confini senza controllo (e ovviamente senza protezioni come mascherine o guanti) rischiano di contribuire ulteriormente a diffondere il virus, in un contesto nel quale i servizi sanitari sono già fortemente provati da lunghi mesi – ormai anni – di crisi politica ed emergenza umanitaria.

«A Nabasanuka», racconta padre Andrés, «passiamo le giornate piuttosto occupati a ricevere le persone che vengono a cercare farmaci, ami da pesca, cibo, quaderni, matite». Ma, conclude, «non abbiamo paracetamolo né niente che gli somigli in tutta la zona della nostra parrocchia».

Chiara Giovetti




Venezuela-Brasile. Ka Ubanoko, la nostra casa

Testo e foto di Paolo Moiola e Marco Bello |


Reportage dal centro autogestito dei migranti venezuelani

Nella capitale dello stato di Roraima (Brasile), alcune centinaia di migranti venezuelani di etnia warao, rifiutati dalle agenzie Onu, si sono organizzati dal basso e hanno creato un’esperienza unica di convivenza e resilienza. A fianco dei  migranti non indigeni e superando varie difficoltà.

Boa Vista. Estrema periferia della città. Superata una scuola militare, arriviamo davanti a uno spazio chiuso da reti e muri. Varcato un cancello semi divelto, abbiamo subito l’impressione di entrare in un piccolo mondo a parte.

Alla nostra destra si erge un ex palazzetto sportivo costituito da due gradinate che circondano lo spazio di gioco in cemento, il tutto coperto da una tettoia di lamiera. Notiamo subito che, sui gradini, sono accumulate, borse, valigie, asciugamani e indumenti vari, utensili, suppellettili e oggetti casalinghi di ogni tipo. Tutto è posizionato con grande ordine. A terra, a fianco delle gradinate, ci sono dei materassi e anche un vecchio letto. Alcune amache sono appese alle colonne della struttura. Sul terreno da gioco è stata sistemata qualche tenda da campeggio. Il tutto ricorda un grande accampamento. Ai lati della struttura sono stesi dei teloni con l’inconfondibile scritta e logo dell’Unhcr-Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Proseguiamo quasi in punta di piedi, cercando di non invadere gli spazi con le nostre videocamere e fotocamere, come troppo spesso fanno i giornalisti. Però non possiamo diventare invisibili. Qua e là tanti bambini si rincorrono e giocano. Parecchi di loro si fermano a guardarci incuriositi. Mentre nei pressi di alcuni alberi ci sono dei focolari accesi con pignatte annerite appoggiate sopra.

Di fronte a noi e ai lati varie casette, meglio dire baracche, realizzate con materiali di recupero, cartoni, assi di legno, lamiere, danno al luogo un’aria di villaggio. Ci sono cartelli scritti a mano: «Si riparano biciclette», «Lavaggio». C’è pure un negozietto che vende piccole cose di utilità quotidiana, proprio come si fosse in un quartiere.

Siamo a Ka Ubanoko, che – ci viene spiegato – nella lingua dei Warao significa «dormitorio comune». Si tratta di un centro sportivo mai terminato e poi abbandonato, del quale sono rimaste in piedi diverse costruzioni tra cui un palazzetto, una piscina e altre strutture.

Ci accompagna padre Oscar Liofo, missionario della Consolata congolese, che da alcuni mesi segue la gente di Ka Ubanoko. In questo spazio occupato e autogestito (come capiremo in seguito) vivono oggi in 639, tutti migranti venezuelani, di cui 150 famiglie indigene, quasi tutte warao, ma anche altre etnie (E’ñepa, Cariña, Pemon), e 76 famiglie non indigene.

Padre Oscar ci guida dentro Ka Ubanoko, verso una zona di tende piantate sotto una tettoia di cemento. Anche qui ogni angolo è diventato un focolare domestico nel quale vive una famiglia, fianco a fianco con la famiglia vicina. Il missionario conosce tutti, saluta, fa battute in portoghese e gli viene risposto in spagnolo.

Fiorella, medico e leader

Padre Oscar ci conduce da Fiorella Ramos, medico internista, indigena warao, «coordinatrice» di Ka Ubanoko. Parla spigliata Fiorella, ha 37 anni e due figli. In Venezuela era direttrice di un ospedale, e in contemporanea faceva visite private. «Con quello che guadagnavo riuscivo appena a comprare da mangiare, intanto correvo da un lavoro all’altro, senza poter stare con la mia famiglia e non restava nulla per aiutare i miei genitori. Nel 2018 ho deciso di partire, ma ci ho messo un anno a prepararmi psicologicamente e a mettere da parte i soldi». È stata una scelta difficile, confessa Fiorella, lasciare i parenti, parte della famiglia, un buon lavoro, il proprio paese. La sua è però una storia condivisa con molti connazionali.

L’8 gennaio 2019 Fiorella parte con la sorella e Fernando, il figlio più piccolo. Il viaggio dal Venezuela al Brasile non è pericoloso né troppo caro, anche se è molto stancante e, se non hai i documenti in regola, devi seguire strade alternative per passare la frontiera.

Fiorella e il suo gruppo arrivano a Boa Vista, capitale dello stato brasiliano più settentrionale, Roraima, la sera del giorno dopo. «Mio fratello – racconta – stava vivendo nell’abrigo (rifugio letteralmente, campo profughi in questo caso, ndr) chiamato Pintolandia, per cui speravamo di poterci sistemare lì, ma ci dissero che non potevamo entrare senza permesso. Ci accampammo non lontani per la strada, dove c’era già una famiglia indigena. Abbiamo vissuto 19 giorni riparandoci sotto le tettoie di una struttura locale. In quel periodo abbiamo chiesto almeno tre volte di entrare a Pintolandia, ma non ci lasciarono, dicendo che era pieno». Altre famiglie si uniscono e il gruppo in strada arriva a contare 38 persone. «Usavamo i bagni di una stazione di benzina non lontana, l’acqua la prendevamo da un rubinetto a cui si poteva accedere. Di giorno dovevamo stare in un parco lì vicino seminascosti, mentre di notte dormivamo sotto delle tettoie. Mio fratello riusciva a portarci del cibo cotto da dentro l’abrigo».

Del gruppo fa parte anche Anibal Pérez, un Warao della comunità di Mariusa. Tra lui, Fiorella e sua sorella nasce un’intesa e i tre, pensando al futuro, iniziano a scrivere un progetto di «Sviluppo integrale», come lo definisce il medico. È l’embrione di Ka Ubanoko. «Nel progetto si pensava a un’organizzazione, si parlava di salute, educazione, economia e infrastrutture. È in quel periodo che conoscemmo padre Jaime Patias e Luis Ventura, entrambi della Consolata, che iniziarono ad appoggiarci con alimenti e materiale per l’igiene personale. Anche quelli dell’Acnur venivano, ma dicevano che non potevano accoglierci nel centro». Intanto continua ad arrivare gente dal Venezuela, e anche indigeni espulsi da Pintolandia: «Eravamo ormai 150 famiglie».

Miracolo a Boa Vista

Poi accade una specie di miracolo. «Un brasiliano informò il cacique Wilson, uno di noi, che non lontano da dove eravamo accampati c’era un grande spazio abbandonato, un club sportivo in rovina, dove avrebbero potuto sistemarsi molte persone».

Un’avanguardia va a visitare il posto. All’epoca è invaso da arbusti ed erba alta. Vi sono nascoste tre famiglie venezuelane non indigene. Il centro è anche luogo di passaggio di malviventi e vi accadono cose strane. Ma la decisione è ormai presa: Fiorella e Anibal guidano il gruppo a prendere possesso di quel luogo. È il 3 marzo 2019, e per Fiorella e i suoi sono ormai due mesi di vita trascorsi all’addiaccio. Appena arrivati, i migranti iniziano a ripulire l’intera area e a dividersi gli spazi.

Fiorella e Anibal portano in questo luogo il modello che avevano pensato nel progetto di sviluppo e che avevano iniziato ad applicare dove erano accampati. «Già sulla strada avevamo sperimentato questa organizzazione. Anche perché erano iniziate ad arrivare donazioni da alcuni enti, ed è stato necessario formare gruppi per evitare conflitti e soprusi».

L’organizzazione si basa su un coordinamento centrale con una coordinatrice eletta, Fiorella, e una vice coordinatrice, Alida Gomez, anch’essa Warao. Le famiglie sono divise in gruppi, normalmente secondo la comunità di origine, che fanno capo a dei responsabili anch’essi eletti, detti cacique («capo», nel mondo indigeno). I cacique sono cinque, di cui quattro warao e una criolla (come vengono chiamati i non indigeni). C’è poi un’organizzazione per settore, tramite comitati, su tutto quello che è fondamentale per la comunità: educazione, pulizia, salute, alimentazione, sicurezza, sport, protezione del bambino e della donna, infrastrutture.

Eppure, la convivenza tra i vari gruppi non è così facile come sembra. Tra gli abitanti di Ka Ubanoko talvolta scoppiano dei conflitti. «Da quando siamo qui, ci sono stati cinque scontri fisici. Quando avvengono, si cerca di regolarli tramite i cacique dei gruppi di appartenenza dei soggetti coinvolti – ci spiega Fiorella -. Alcuni capiscono, altri no. In questo caso siamo costretti ad espellerli». A volte poi ci sono incomprensioni tra indigeni e non indigeni, soprattutto a causa dell’inevitabile distanza culturale.

Fiorella ci mostra dove abita. È un’abitazione improvvisata fatta di materiali di recupero, eretta nella zona perimetrale del centro sportivo, normalmente abitata dai non indigeni. Ci vive insieme a parte della sua famiglia.

 

Sopravvivere

Torniamo verso il palazzetto vicino all’ingresso. Qui, sulle gradinate, hanno il loro «angolo» Alida Gomez e suo marito.

Alida viene da Tucupita (capoluogo del Delta Amacuro), è una signora di una certa età, con tre figli grandi rimasti in Venezuela. A casa faceva l’insegnante, ma poi ha deciso di partire: «Il Venezuela sta vivendo una situazione molto difficile in tutti gli ambiti: economia, educazione, salute. Ho preso la decisione personale di venire in Brasile per aiutare la mia famiglia – ci confida -. Speravo di poter trovare un lavoro rapidamente, ma la realtà è ben diversa. Essere indigena, avere la nostra cultura, significa essere respinti in tutti gli ambiti qui. Non abbiamo l’appoggio di nessuno, siamo soli». Oggi Alida aiuta la comunità facendo la vice coordinatrice di Ka Ubanoko, ma la vita a Boa Vista è molto dura. «Usciamo prima dell’alba e andiamo in giro a cercare rifiuti che si possono vendere, come le lattine di alluminio. Prendiamo anche i vestiti in buone condizioni. Mettiamo insieme più giorni di raccolta e vendiamo il metallo. In questo modo guadagniamo qualche decina di reais (la moneta brasiliana, ndr) che ci serve per comprare cibo. I vestiti recuperati li laviamo con il cloro. Se ci servono li usiamo, altrimenti li regaliamo ad altre famiglie». In effetti, in tutto Ka Ubanoko, in mezzo agli effetti personali portati dal Venezuela, si notano molti oggetti di recupero, trovati nei cassonetti della città brasiliana.

Alida continua a descriverci la vita quotidiana nel campo: «I bagni sono senza alcuna privacy. Sono senza porte, e pure insieme alle docce. L’acqua che beviamo è del filtro (ci sono due filtri con tre rubinetti ciascuno, installati da Acnur, per oltre 600 persone, ndr). Per cucinare e lavare usiamo l’acqua dell’acquedotto. Cuciniamo su fuochi con legna che recuperiamo in giro. Occorre fare sempre attenzione, perché qui ci sono molte mosche che portano malattie. Con la farina di grano facciamo arepas (delle specie di piadine, ndr). Mangiamo anche riso e salsiccia (wurstel di pessima fattura, ndr). Se abbiamo qualche soldo in più, compriamo del pollo o altra carne. Chi ha amici o parenti a Pintolandia, riceve talvolta del cibo avanzato da loro».

Anche la lingua può essere un problema. I venezuelani, indigeni e non, parlano lo spagnolo (qui detto castellano, ndr), mentre in Brasile devono imparare il portoghese. Alida, che è qui da quasi un anno, ammette di capirlo ma di non parlarlo.

Gli «amici» di Ka Ubanoko

Ka Ubanoko è quindi una grande realtà di migranti autogestita e autorganizzata. Nessuna delle agenzie delle Nazioni unite o delle grandi Ong, tantomeno il governo federale o dello stato di Roraima, o la municipalità di Boa Vista, la controllano e la gestiscono. Diversi enti intervengono con appoggi puntuali e specifici. Fiorella è molto brava a tenere le relazioni e si era già fatta conoscere dalle istituzioni quando il gruppo era accampato sui bordi della strada.

«Ci ha aiutato qualche istituzione civile e religiosa – ricorda lei -. Come la pastorale migranti della diocesi, le suore scalabriniane, i missionari della Consolata, la Caritas. E Ong come Medici senza frontiere e Adra».

Poco appoggio è invece arrivato da Acnur (i due purificatori già citati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). L’esercito brasiliano (che a Roraima controlla gli abrigos ufficiali come Pintolandia) è intervenuto ripristinando l’energia elettrica che il comune aveva tolto e mettendo in sicurezza la piscina (vuota) del centro sportivo.

«Cerchiamo di coinvolgere alcuni enti tramite progetti. I missionari della Consolata, ad esempio, sono attivi su un progetto di alimentazione, sia generale sia per i bambini. Con Fé e alegria (dei Gesuiti, ndr), abbiamo lavorato a un progetto di educazione, differenziato plurilingue, perché qui siamo di diverse etnie e lingue nazionali». Ci sono stati problemi perché Ka Ubanoko non è un posto ufficiale, anzi, è un’occupazione illegale, per cui molte attività non si possono realizzare sul posto, ma occorre appoggiarsi ad altri enti e luoghi. Come il progetto della Consolata che si svolge in un oratorio dei frati Cappuccini, poco distante.

«Con la Caritas abbiamo preparato un progetto di tipo economico: un appoggio per produrre artigianato e per l’agricoltura». Il progetto fornisce la materia prima e alcune donne confezionano prodotti artigianali che poi vendono. Mentre nel secondo caso dovrebbe fornire gli attrezzi per coltivare e le sementi, ma non è ancora partito.

Spiritualità migrante

Superato un campo in terra battuta usato per giocare a calcio o pallavolo, ci spostiamo verso la zona centrale di Ka Ubanoko, dove tante piccole tende a iglù sono appoggiate su un pavimento e riparate da un soffitto in cemento che pare precario. Innumerevoli fili corrono da tutte le parti con panni e vestiti colorati appesi ad asciugare.

Qui incontriamo Leany Torres Moraleda, che coordina il comitato culturale e spirituale di Ka Ubanoko. Leany è una giovane mamma, 29 anni con una figlia di 8, originaria della comunità di Nabasanuka (nel delta del rio Orinoco, ndr), dove la sua famiglia è sempre stata impegnata al servizio dell’identità indigena. Suo papà e suo zio hanno ricoperto anche cariche politiche. È laureata in turismo e ha passato parte della sua vita in città, a Tucupita, dove insegnava nella scuola primaria. Allo stesso tempo era molto impegnata nella pastorale indigena della chiesa cattolica e con un gruppo culturale chiamato Eco Warao.

«Con mia figlia e mia nipote siamo partite a maggio e sapevamo già dell’esistenza di Ka Ubanoko. Arrivate a Boa Vista dopo un viaggio rocambolesco con un gruppo di altri indigeni, passammo la notte alla rodoviaria (la stazione degli autobus, dove c’è un centro di transito per migranti gestito dall’esercito, ndr), senza dormire. Quando riuscimmo ad arrivare a Ka Ubanoko, ad alcuni di noi parve molto brutto. La mia impressione invece fu positiva».

I primi tempi non sono stati facili. «La mia famiglia è conosciuta, così c’era qualcuno che non voleva vederci a Ka Ubanoko e ci diceva di andare a Pintolandia», racconta Leany. «Poi il cacique Camilo ci ha prese nel suo gruppo, e, vista la sua autorità, le acque si sono calmate».

Leany è sempre stata molto attiva nella promozione dei diritti e della cultura warao. Per questo si preoccupa subito della possibile perdita di identità, soprattutto dei bambini migranti. «In Ka Ubanoko stiamo lavorando con l’infanzia missionaria. E all’inizio abbiamo avuto delle incomprensioni con i criollos perché loro sostenevano che noi facciamo un’attività che li esclude. Abbiamo spiegato che la nostra visione è differente. Ovvero non è solo insegnare a pregare, insegnare la parola di Dio, ma stimolare i bimbi affinché conoscano la cultura warao, formino un sentimento di appartenenza, costruiscano un’identità».

Leany ci tiene a spiegare bene la propria filosofia: «In qualsiasi luogo noi siamo, non smetteremo mai di essere Warao: è nel nostro sangue. Anche se andremo in un altro stato del Brasile, fisicamente saremo uguali. Ci adatteremo alla società di questo paese, impareremo la lingua e avremo un lavoro. Ma saremo sempre indigeni. Qui a Ka Ubanoko stiamo facendo un buon lavoro, e ci siamo resi conto che i bimbi non indigeni, dopo aver ascoltato le canzoni e visto i balli warao, iniziano a cantare pure loro. Questo è molto importante. Bimbi warao che non parlavano la lingua madre, adesso iniziano a farlo. Il nostro impegno va molto più in là. Quello che ci unisce è che siamo venezuelani e siamo indigeni. Tuttavia, se non prendiamo in mano la situazione, la nostra gente smetterà di sentirsi indigena».

Ka Ubanoko è un’esperienza importante, anche se è difficile prevedere quanto durerà. Permette ai migranti di non cadere nell’assistenzialismo del campo profughi, di prendere in mano la propria vita e – allo stesso tempo – sentirsi parte di un qualcosa di organizzato, che protegge e permette di essere protagonisti. Per il bene comune.

Marco Bello e Paolo Moiola
(1.a puntata – continua)


Yakera!

La parola – «Yakera» – ci è subito piaciuta. Facile da pronunciare. Facile da ricordare. E, soprattutto, portatrice di un significato positivo. Gli indigeni warao la utilizzano in molte circostanze: per dire «va bene», ma anche per salutare.

I Warao sono l’etnia del delta dell’Orinoco, in Venezuela, che sta lasciando le proprie comunità per rifugiarsi in Brasile. Abbiamo percorso un pezzo del loro viaggio di migrazione (Boa Vista, Pacaraima, Santa Elena de Uairén, Manaus) e visitato i centri che li ospitano per cercare di capire dalla loro viva voce il perché di una scelta difficile, spesso drammatica. In questa indagine ci hanno aiutato i missionari della Consolata che da tempo lavorano con i Warao, sia in Venezuela che in Brasile.

M.B. – P.M.


Breve descrizione del popolo Warao

Un futuro senza canoe?

La gente delle canoe è nativa del delta dell’Orinoco. Oggi sono almeno 50mila, rappresentando la seconda etnia indigena del Venezuela.

I Warao costituiscono una delle principali etnie indigene del Venezuela. Per numero infatti sono il secondo gruppo più numeroso dopo i Wayú (Guajiro). Secondo il censimento del 2011, i Warao sarebbero 48.771, una cifra probabilmente sottostimata. Il loro nome è un’autodenominazione che significa gente (arao) di canoa o, secondo altri studiosi, gente delle terre basse. Gli indigeni chiamano i non Warao hotarao, gente delle terre alte. Sia in un caso che nell’altro il significato di Warao rimanda ai luoghi da essi abitati. Che sono i canali (caños) del delta dell’Orinoco nello stato Delta Amacuro e, dopo varie migrazioni, anche le aree adiacenti della Guayana Esequiba (un territorio conteso tra Guayana e Venezuela), nonché gli stati venezuelani di Bolivar, Monagas e Sucre.

Conoscere l’ambiente naturale in cui vivono i Warao è indispensabile per capire questo popolo. Anche se esso è cambiato e sta cambiando a causa dei mutamenti climatici e dei disastri prodotti dall’uomo e anche se una parte consistente dei Warao si è urbanizzata (soprattutto a Tucupita, capoluogo del Delta Amacuro) o è emigrata – non si sa se in maniera stabile o temporanea – in Brasile.

Come si diceva, la gran parte delle comunità tradizionali dei Warao è posta lungo i canali dell’Orinoco. Questo fiume, che nasce nella cordigliera di Parima (massiccio della Guayana), ha una lunghezza di 2.140 chilometri e una portata d’acqua imponente, seconda soltanto a quella del Rio delle Amazzoni. Prima di gettarsi nell’Oceano Atlantico, l’Orinoco forma un delta che raggiunge un’apertura di circa 400 chilometri. La vastità della regione deltica (circa 22.500 km2, poco meno della Toscana) determina diversità tra le comunità warao a causa dei maggiori o minori contatti con il mondo non indigeno (criollo) e delle diverse condizioni di ciascun microambiente. La vita è scandita dall’acqua. La stagione secca va da gennaio ad aprile, con molti canali che diventano salmastri. La successiva stagione delle piogge dura fino a settembre con una piena (detta creciente) che sommerge coste e isole del delta. Le case dei Warao – chiamate janoko, che significa il luogo della ja, l’amaca – sorgono lungo i canali, ma sono costruite su palafitte proprio per essere pronte a resistere alle maree. Per sopravvivere nel delta è necessaria una conoscenza precisa dell’ambiente naturale, che comunque oggi risulta meno gestibile e prevedibile di un tempo a causa dei mutamenti prodotti da fattori antropici (inquinamento delle acque fluviali e deforestazione, su tutto). Le attività tradizionali dei Warao sono la pesca (in particolare del morocoto o pirapitinga e dei granchi), la caccia e la raccolta di frutti silvestri. Ad esse si sono in seguito aggiunte alcune coltivazioni agricole, in primis quella del riso e poi la Colocasia Esculenta della quale vengono mangiati sia i tuberi (bolliti oppure grigliati) che le foglie (come verdure cotte). La pianta autoctona per eccellenza è la palma di moriche (conosciuta come palma di buriti in Brasile), una vera ricchezza della natura. Tutti i suoi componenti (foglie, frutti, semi, corteccia) sono infatti utilizzabili per fare prodotti di artigianato o come alimento. Dall’amido del moriche si ricava una farina (aru) che è alla base della dieta dei Warao.

Come sempre accade per i popoli indigeni, la cosmovisione e la vita religiosa dei Warao sono difficili da comprendere per i non indigeni. Quello che si può affermare è che tradizione orale e mondo magico-religioso sono strettamente legati all’ambiente naturale in cui essi vivono. La presenza e l’attività dei missionari sono cambiati nel corso del tempo, soprattutto in ambito cattolico. Dalla filosofia coloniale del «civilizzare l’indio selvaggio» si è passati a interventi nel campo dell’istruzione e della salute, rispettando i valori indigeni.

Negli ultimi anni, la situazione per le comunità warao si è complicata a causa della presenza di varie bande criminali che agiscono impunite lungo l’Orinoco trafficando con la droga, la tratta delle donne e il contrabbando di benzina.

Al momento, il futuro dei Warao non pare promettente. Molte comunità lungo l’Orinoco sono state abbandonate o si sono spopolate. Molti indigeni si sono urbanizzati, ma senza una vera integrazione con i criollos. Altri sono emigrati, ma si trovano a vivere in una condizione di isolamento e pura sopravvivenza. Una parte consistente dei Warao, popolo delle canoe, sembra dunque aver perso per sempre la ragione prima del proprio nome.

M.B. – P.M.

 


La voce del governo venezuelano

«I Warao si spostano perché nomadi»

A Boa Vista, non c’è semaforo o incrocio dove non ci sia un venezuelano. E gli indigeni warao si notano anche di più. Nella capitale di Roraima, abbiamo incontrato il console del Venezuela, per chiedergli i motivi di tanti migranti del suo paese e di tanti Warao per le strade delle città brasiliane.

Boa Vista. L’indirizzo è Av. Benjamin Constant 968, nel centro della città, capitale dello stato di Roraima. È una modesta casa su un solo piano, resa facilmente riconoscibile dal suo vivace color arancione e naturalmente dalla grande bandiera venezuelana che sventola sul pennone posto nel giardinetto antistante l’entrata.

A sorvegliare la sede consolare c’è una sola persona, una poliziotta brasiliana, seduta tranquillamente davanti a un tavolino a lato della porta d’ingresso. All’interno ci sono due impiegate e alcune persone in attesa. Sulla vetrata che separa le addette dal pubblico è appeso un foglio che informa del piano Vuelta a la patria: requisiti, documenti, condizioni. È un programma istituito dal governo di Caracas per tentare di far tornare a casa i migranti.

Il console si chiama Faustino Torella Ambrosini. Ci accoglie con cordialità ricordandoci subito le origini italiane: i suoi genitori arrivarono in Venezuela dalla provincia di Avellino. Prima di diventare diplomatico insegnava storia all’Università Centrale del Venezuela, il principale ateneo pubblico del paese. È console generale del Venezuela a Boa Vista dal dicembre 2018, dopo un’esperienza analoga di cinque anni a Manaus. Boa Vista non è una metropoli come quest’ultima ma è importante perché dista soltanto 215 chilometri da Pacaraima, porta d’ingresso in Brasile per molti venezuelani (indigeni inclusi) che infatti si vedono ad ogni incrocio, nei rifugi ufficiali (abrigos) e in quelli improvvisati.

Nello studio dove ci accomodiamo, accanto alla bandiera, il ritratto del presidente Maduro sta in mezzo a quelli, più piccoli, dell’eroe nazionale Simón Bolívar e di Hugo Chávez. Siamo qui per chiedere al console della migrazione dei Warao, ma non possiamo non iniziare dalla situazione generale del paese. Com’è?, domandiamo. «Difficile», risponde senza pensarci su un attimo. E aggiunge: «È la situazione che vivono i paesi e i popoli che soffrono a causa di un embargo illegale imposto da uno stato che si considera al di sopra di tutti gli altri. Il Venezuela è un paese la cui economia si fonda sul petrolio e con la valuta che ottiene dalla sua vendita compra alimenti e medicinali, come anche materie prime e prodotti industriali di uso comune. Non avendo libero accesso al mercato estero e ai nostri conti bancari in dollari, per il cittadino venezuelano la quotidianità si è fatta molto complicata».

Anche per la popolazione dei Warao. Il console parla di un numero di indigeni attorno alle 69mila persone, mentre l’ultimo censimento – risalente al 2011 – ne contava circa 49mila. Rispetto alla gravità del problema della loro migrazione, il nostro interlocutore minimizza. «Sono – ci spiega – una popolazione nomade e in quanto tale si muovono. Dal Delta Amacuro si sono distribuiti negli stati Monagas, Sucre, Bolivar, ma anche in Caracas, Valencia… Voglio dire che non è da oggi che stanno venendo in Brasile. Sono sempre venuti qui. In questo momento, semplicemente ne arrivano di più e si fermano più a lungo».

Chiediamo al console se i Warao abbiano lasciato i loro fiumi anche sulla spinta di fattori ambientali e invasioni di gruppi non indigeni. «Il mondo è cambiato ed è cambiato anche per i Warao. Le condizioni ambientali nel delta dell’Orinoco non sono certamente le stesse di un tempo, ma rimangono sostenibili. È possibile continuare a pescare e a seminare, soprattutto palme e frutta tropicale».

Facciamo notare al console come molte comunità warao lungo l’Orinoco e i suoi canali (i cosiddetti caños) si siano svuotate. «Abbiamo una popolazione che è indigena e vive nel proprio habitat e una popolazione indigena che è trapiantata in città. Lo dico perché molte persone che s’incontrano qui in Brasile sono indigeni urbanizzati. E poi vi chiedo: perché tra tutte le etnie indigene del Venezuela in Brasile arrivano soltanto i Warao? Perché – lo voglio ribadire – loro già venivano qui. Quasi tutti gli altri gruppi indigeni sono sedentari, nonostante l’embargo economico (che è la vera motivazione della migrazione dei venezuelani) valga per tutti».

Nomadi ma anche urbanizzati: sembrerebbe un ossimoro, o almeno una contraddizione in termini. Faustino Torella Ambrosini ribadisce i due concetti aggiungendo: «L’indigeno warao che è andato in città difficilmente torna indietro. Ha tutto il diritto di agire così: queste persone appartengono ai popoli tradizionali, ma sono anche venezuelani. E poi, in questo loro cambiamento, c’è un ministero che li aiuta».

Il console si riferisce al Ministerio del Poder Popular para los Pueblos Indígenas, attualmente guidato da Aloha Núñez, indigena Wayú (Guaijra). Cosa fa questo ministero?, gli chiediamo. «È stato creato per aiutare i popoli indigeni a integrarsi. A incorporarsi nella società venezuelana. Sempre con rispetto per la loro volontà». Incorporarsi come?, insistiamo. «Ad esempio, con la Gran mision vivienda para indigenas. Noi li aiutiamo a costruire le loro case utilizzando materiali e disegni tipicamente indigeni. Come per le palafitte». Il console ricorda anche l’esistenza di un’università, la Universidad indígena de Venezuela, istituita appositamente per gli indigeni negli stati Bolivar e Amazonas.

Chiediamo anche dell’operazione Vuelta a la patria pubblicizzata dal volantino affisso all’entrata. «È un progetto – spiega il diplomatico – del nostro governo per i venezuelani che non hanno avuto fortuna nei paesi – Ecuador, Perù, Panama, Colombia, Argentina e Brasile – dove sono emigrati e che vogliono tornare a casa. L’esecutivo favorisce il rimpatrio di queste persone. Hanno partecipato anche gli stessi Warao per una cifra importante: non meno di mille».

Mille indigeni che sono rientrati, tornando da dove erano partiti. Non possiamo verificare la veridicità di questo numero, a prima impressione piuttosto elevato. Il console Faustino Torella Ambrosini è un rappresentante ufficiale del governo di Caracas e, in quanto tale, non può che difenderne l’operato. A suo merito, va detto però che non è rimasto chiuso nella propria sede consolare, ma ha visitato di persona gli abrigos di Boa Vista (compreso quello spontaneo di Ka Ubanoko) e di Pacaraima,  dove sono concentrati molti Warao. E gli indigeni ci hanno confermato sia la visita del console che la sua disponibilità.

Marco Bello – Paolo Moiola


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.





Roraima. Il vescovo: continueremo a lottare per i diritti di tutti

Testo e foto di Paolo Moiola |


Secondo vicepresidente della Conferenza dei vescovi brasiliani (Cnbb), dom Mário Antônio Da Silva è vescovo di Roraima. Ha assunto la guida di questa diocesi di frontiera nel settembre 2016, trovandosi ad affrontare i problemi di sempre (la questione indigena), ma anche problemi inediti. Come l’arrivo di migliaia di venezuelani bisognosi di tutto. Dom Mário si è rimboccato le maniche, senza perdersi d’animo.

Boa Vista. Una targa ricorda che l’edificio – una struttura bassa e lunga non priva di eleganza – è stato costruito nel 1924 dai missionari benedettini per fungere da ospedale. Successivamente è diventato sede vescovile e tale è rimasto oggi. Ad attenderci sulla veranda che guarda sul giardino e sulla nuova struttura costruita a lato per ospitare il centro pastorale diocesano, c’è dom Mário Antônio da Silva, vescovo di Roraima dal settembre 2016. Sostituisce dom Roque Paloschi, che a sua volta aveva preso il posto di dom Apparecido José Dias, il successore di dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata.

Nato nel 1966 a Itararé (San Paolo), vescovo dal 2010, dal 6 maggio secondo vicepresidente della Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), dom Mario è consapevole ma non spaventato dalle sfide che deve affrontare in uno stato amazzonico che il governo Bolsonaro tiene sotto stretta osservazione. In primo luogo, per la presenza di numerosi popoli indigeni e di due importanti riserve: quella degli Yanomami e la Raposa Serra do Sol. Oltre a ciò, da circa un anno, si è aperta anche la questione della frontiera Nord con il Venezuela da cui transitano moltissimi venezuelani in fuga dal loro paese.

 

Da Manaus a Boa Vista

Monsignor Mário Antônio, lei è stato vescovo ausiliario in una metropoli come Manaus. Che situazione ha trovato qui a Boa Vista?

«Ho trovato una situazione sociale complessa, ma anche una Chiesa unita. Con molte potenzialità. Con un laicato diffuso, soprattutto all’interno dello stato. E soprattutto con la presenza di missionari e missionarie di numerose congregazioni del Brasile e di varie parti del mondo. Ho trovato una Chiesa profetica e attenta alle questioni sociali e politiche».

La popolazione di Roraima è inferiore alle 600mila unità (quasi due terzi residenti a Boa Vista), ma ha una composizione sociale particolare rispetto ad altri stati brasiliani.

«Sì, nel senso che essa è composta per la maggior parte da migranti. Però, allo stesso tempo c’è una presenza di popolazione indigena – intendo i popoli originari di qui – abbastanza grande essendo calcolata in circa l’11 per cento del totale. Sono i veri, primi abitanti. In Roraima hanno ottenuto conquiste importanti. In primis, l’omologazione delle loro terre. Ci sono comunità consolidate, altre che hanno bisogno di aiuti per una vita più autonoma».

Però, le conquiste indigene di cui lei parla oggi sembrano messe in discussione.

«Ci sono varie minacce provenienti sia dal governo nazionale che da quello statale. È una situazione che ci preoccupa. Oggi più che mai le popolazioni indigene debbono unirsi per far valere i loro diritti al territorio e alla cultura. Allo stesso tempo, hanno necessità di un accompagnamento pubblico su questioni come la salute e l’istruzione».

L’emergenza migratoria

Fuori dalle stazioni dei bus e lungo le strade di Boa Vista si vedono gruppi di venezuelani. Com’è la situazione della migrazione dal vicino Venezuela?

«La migrazione è in atto da tempo. Negli ultimi due anni – 2017 e 2018 – c’è però stato un flusso migratorio senza eguali. Soprattutto di venezuelani che entrano in Brasile attraverso il nostro stato di Roraima e precisamente da Pacaraima, la città sul confine con il Venezuela. Si stimano oltre 55mila arrivi dei quali 30mila stanno in capitale, il 10 per cento della sua popolazione. Vengono per fame, per trattamenti medici, per lavoro. Necessitano di alloggi: un 10 per cento sta negli abrigos (rifugi) dei militari, l’altro 90 per cento in altri luoghi, in parte anche nelle strade e nelle piazze. La maggior parte vive nell’informalità e spesso è sfruttata come manodopera a buon mercato. E poi ci sono i migranti che entrano nei circuiti dell’illegalità per l’opportunismo dei gruppi criminali, brasiliani e non. Soprattutto nell’ambito della distribuzione della droga».

Oltre all’immigrazione dei venezuelani, c’è quella degli indigeni di etnia Warao che vivono in quel paese.

«I Warao sono stati i primi ad arrivare. Oggi sono in un rifugio qui in capitale e in un altro a Pacaraima, al confine. La prima sfida è tenere unite le famiglie. La seconda è la comunicazione perché molti di loro parlano soltanto la lingua indigena».

Qual è stata la reazione della popolazione locale a questa ondata migratoria?

«La popolazione ha reagito in maniera molto differente. Alcuni accolgono, danno lavoro, sono tolleranti. Altri invece non hanno rispetto per la dignità dell’essere umano e mostrano attitudini xenofobe sia a parole che con atti di violenza. Per questo come Chiesa, assieme ad altre organizzazioni nazionali e internazionali, siamo impegnati a lottare per superare queste situazioni d’ostilità e xenofobia».

Le Chiese neopentecostali

Come Chiesa cattolica che rapporti avete con le altre chiese?

«L’ecumenismo ci spinge a una relazione di prossimità con le altre confessioni. Con momenti celebrativi, di studio ed anche opere sociali. Mi riferisco alle Chiese bibliche tradizionali».

Però in tutto il Brasile crescono i seguaci delle Chiese neopentecostali. Che tipo di rapporti avete con loro?

«La relazione con le Chiese evangeliche neopentecostali è molto complicata. Sembra che esse abbiano un progetto religioso-politico. Anzi, più politico che religioso. Dove arrivano, facendo uso della fede e della parola di Dio, facendo leva sulla tematica profetica, approfittando della questione del dizimo (il tributo in denaro versato dai fedeli alla propria chiesa, ndr), ma anche dell’ingenuità della gente, purtroppo portano divisioni. Inoltre, disorganizzano le comunità nella lotta sociale per i diritti e per le necessità (di salute, istruzione, abitazione, eccetera). Insomma, queste chiese non lavorano per l’armonia».

E voi, come lavorate?

«Noi sentiamo la necessità di lavorare per rinforzare la popolazione, soprattutto quella più fragile».

Su Bolsonaro e il suo governo

Il 12 ottobre 2018, tra il primo e il secondo turno delle elezioni, lei scrisse una lettera pastorale che parlava di democrazia e dittatura e che le attirò addosso molte critiche.

«Era una lettera pastorale di riflessione e orientamento per votare in maniera etica, cosciente e libera, optando per un candidato che favorisse la vita e la democrazia. Abbiamo ricevuto molte reazioni, anche offensive».

Alla fine ha vinto Jair Bolsonaro. Monsignore, che dice?

«Che il risultato è preoccupante. Ma è certo che noi continueremo nelle nostre battaglie a difesa dei popoli indigeni e dei piccoli contadini. Della salute e della casa. Della popolazione che vive nelle periferie come di quella che sta nell’interiore dello stato. E lavoreremo per la difesa dell’ambiente perché veramente ci sia sostenibilità nella produzione e rispetto del creato».

Più Amazzonia nella Cnbb

Lo scorso maggio la 57.ma assemblea generale della Conferenza dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha rinnovato i proprio vertici. Il nuovo presidente è dom Walmor Oliveira de Azevedo, arcivescovo di Belo Horizonte (Minas Gerais). Come secondo vicepresidente è stato nominato proprio dom Mário Antônio da Silva.

La sua nomina è una scelta significativa perché dimostra l’attenzione della Chiesa brasiliana per l’Amazzonia e per quel Sinodo panamazzonico, al quale il governo di Brasilia guarda con malcelato sospetto.

Anche per questo, a fine maggio, Bolsonaro e dom Walmor si sono incontrati a porte chiuse a Palácio do Planalto, sede della presidenza della Repubblica. Difficile però che meno di un’ora di colloquio sia riuscita a cancellare mesi di accuse e incomprensioni.

Paolo Moiola

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Migranti dal Venezuela: Più solidarietà che xenofobia

Secondo Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i migranti venezuelani (inclusi rifugiati e richiedenti asilo) sono 3.706.624 (dato aggiornato all’11 aprile 2019). La cifra effettiva potrebbe però essere più alta in quanto molti stati non conteggiano i migranti irregolari. La gran parte di queste persone ha scelto di migrare in un paese latinomericano, con preferenza per Colombia, Perù, Ecuador, Cile e Argentina. Per il Brasile si calcola un numero d’arrivi inferiore rispetto ai paesi di lingua spagnola: 240mila venezuelani, ma la metà di essi lo avrebbe già lasciato. La principale porta d’ingresso nel paese è la città di Pacaraima, nello stato di Roraima (mappa a lato).

Come sempre capita quando ci sono migrazioni consistenti, in ogni paese ci sono stati episodi d’intolleranza e xenofobia, ma in generale la solidarietà ha prevalso. In Brasile, l’esercito ha attivato dal marzo 2018 l’«Operazione accoglienza» (Operação Acolhida). Gli interventi più consistenti sono però in mano alla Chiesa cattolica con la Caritas, la diocesi di Roraima e le congregazioni missionarie. Oltre all’accoglienza immediata, è stato attivato il programma «Cammini di solidarietà» (Caminhos de Solidariedade) che invia i migranti in diverse diocesi di vari stati brasiliani.

Paolo Moiola