La cooperazione Usa dopo 4 anni di Trump


La cooperazione statunitense è uscita non troppo ammaccata dai quattro anni di governo di Donald Trump, nonostante egli abbia più volte tentato di ridurre i fondi per l’aiuto allo sviluppo o di deviarli verso i paesi amici. Ma il disinteresse del presidente uscente per il multilateralismo si è tradotto nel ritiro degli Stati Uniti da diversi accordi, trattati e agenzie Onu, aprendo numerosi spazi proprio alla potenza mondiale che Trump ha più duramente contrastato: la Cina.

Secondo i dati preliminari diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nella primavera di quest’anno, gli Stati Uniti si sono confermati anche nel 2019 il massimo donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo, con 34,6 miliardi di dollari@.

Per sapere se l’aiuto statunitense si è mantenuto a questo livello anche nel 2020 occorrerà attendere i dati Ocse che arriveranno in primavera. Nel frattempo, però, ci si può comunque fare un’idea guardando a quanto ammontava l’aiuto all’estero (foreign aid) nel bilancio statunitense del 2020 e, per il 2021, che cosa prevedono le leggi di stanziamento di Camera e Senato.

Occorre tenere conto che l’aiuto pubblico allo sviluppo di cui parla l’Ocse è quello verso i paesi a basso e medio reddito, mentre il foreign aid statunitense comprende anche gli aiuti per i paesi ad alto reddito, come Israele, il Canada o gli stati europei@, e l’assistenza militare, cioè le operazioni di peacekeeping e le sovvenzioni che gli Usa forniscono ai paesi amici e alleati per permettere loro di procurarsi equipaggiamento americano e addestramento.

Bisogna ricordare inoltre che il processo di approvazione del bilancio negli Usa comincia con una proposta del presidente, presentata di solito il primo lunedì di febbraio, e prosegue con la discussione e modifica di quella proposta da parte di Camera dei rappresentanti e Senato, che decidono le varie assegnazioni di fondi dopo una serie di udienze con i responsabili delle varie agenzie federali che li gestiranno.

Le due Camere unificano poi le proposte che ciascuna di esse ha ottenuto modificando quella del presidente e votano il documento finale, che diventa la legge di bilancio definitiva, da firmare entro il 30 settembre di ogni anno, perché l’anno fiscale negli Stati Uniti va dal 1° ottobre al 30 settembre successivo@.

2011 Getty Images

Tagli evitati dal Congresso

Per il 2020 Trump ha proposto tagli all’aiuto intorno al 21%@ e per il 2021 del 24%@. Per il 2018, ne avevamo parlato in un precedente articolo@, la riduzione richiesta dal presidente era stata intorno al 28% e di due punti più alta per il 2019. Il Congresso, con scelte sostenute sia dai democratici che dai repubblicani, ha sempre ridimensionato parecchio le proposte del presidente e ha mantenuto stabile il volume dei finanziamenti@ sia per il Dipartimento di Stato che per l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, Usaid, le due entità che gestiscono il grosso della cooperazione internazionale Usa@.

Un esempio piuttosto chiaro di questo scarso successo dell’amministrazione uscente nell’ottenere i tagli che desiderava è dato proprio dai fondi gestiti dall’Agenzia. Nel 2017 una delle ipotesi al vaglio del governo era quella di fondere Dipartimento di Stato e Usaid, tagliando anche un terzo dei fondi al primo e il 40% alla seconda. Il piano di fusione però è stato rapidamente abbandonato e le risorse di Usaid hanno continuato a crescere in modo piuttosto costante dai 17,54 miliardi di dollari del 2014 (quando era presidente Barack Obama) ai 20,67 miliardi del 2019@.

REUTERS/Carlos Garcia Rawlins

Che cosa è cambiato nella cooperazione USA

Se Usaid non si è vista tagliare i fondi, ha però subito una riorganizzazione, che era peraltro auspicata da più parti e che è stata bene accolta da molti analisti statunitensi. Di questa ristrutturazione fa parte, ad esempio, la scelta di unificare l’Ufficio per l’assistenza nei disastri all’estero con l’Ufficio Food for Peace, creando un nuovo Ufficio per l’assistenza umanitaria guidato da un funzionario di livello più alto@.

Un altro elemento della riorganizzazione riguarda il metodo di valutazione dei risultati, che si concentra ora di più sull’impatto, cioè sui reali cambiamenti che l’aiuto ha prodotto, e meno sulla performance, cioè sul verificare che le attività previste nei programmi di Usaid siano state svolte e completate come previsto@.

Al di là di Usaid, un altro cambiamento significativo riguarda le priorità che il governo di Donald Trump ha impresso, o tentato di imprimere, all’aiuto allo sviluppo. L’amministrazione, si legge nella scheda sugli Usa di donortracker@, sito di approfondimento sui temi dello sviluppo, vincola fortemente l’assistenza allo sviluppo alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e alla crescita dell’economia.

Le priorità dell’amministrazione Trump sono state lo sviluppo economico, in particolare delle donne, e la finanza per lo sviluppo, cioè l’uso di risorse pubbliche per stimolare investimenti del settore privato in paesi a basso e medio reddito, dove il contesto politico e commerciale presenta troppi rischi per attrarre spontaneamente capitali privati. Per rafforzare la finanza per lo sviluppo, l’amministrazione Trump ha creato un ente ad hoc, la Development Finance Corporation, altra scelta accolta positivamente dagli esperti del settore.

Viceversa, i finanziamenti per la salute globale sono stati oggetto di tagli significativi nelle proposte di bilancio del presidente.

Donne Maasai aiutate da Usaid per un programma di alfabetizzazione

Visione vaga e conflittuale

Secondo un’analisi di Michael Igoe@ pubblicata sul sito Devex, è abbastanza raro che un presidente americano metta la cooperazione fra le massime priorità.

Trump, però, non si è limitato a ritenere poco rilevante lo sviluppo: se ne è completamente disinteressato, a meno che un particolare tema non fosse caro a qualcuno della sua cerchia ristretta. È il caso dell’Iniziativa per lo Sviluppo globale e la prosperità per le donne, voluta dalla figlia del presidente, Ivanka: un programma che diversi analisti hanno voluto interpretare come una specie di promozione del «marchio Ivanka», con la sua attenzione verso l’imprenditoria femminile e l’emancipazione delle donne, ma che ha anche ottenuto giudizi positivi fra i sostenitori della cooperazione.

Del resto, suggerisce l’articolo su Devex, un po’ di personalismo è fisiologico e prescinde dal colore dell’amministrazione: Raj Shah, direttore di Usaid durante l’amministrazione Obama, aveva un passato nella Bill and Melinda Gates Foundation come esperto di agricoltura e, da direttore dell’agenzia, ha promosso proprio iniziative di sviluppo agricolo come Feed the Future@.

A parte le iniziative caldeggiate dai suoi più stretti collaboratori, osserva il funzionario di area repubblicana Andrew Natsios, che aveva diretto Usaid durante la presidenza di George W. Bush, se Trump ha usato l’aiuto lo ha usato come strumento diplomatico punitivo: ad esempio, il presidente ha deciso di tagliare gli aiuti all’America Centrale perché riteneva che i governi della regione non stessero facendo abbastanza per fermare la migrazione, o ha ridotto i fondi per la Cisgiordania e Gaza per forzarle a partecipare ai negoziati di pace.

La filosofia di Trump sullo sviluppo «è caratterizzata dalla mancanza di una filosofia che vada oltre la competizione e la disgregazione», ha detto a Michael Igoe un ex funzionario dell’amministrazione Trump che ha chiesto di restare anonimo. «Non credo che il presidente entri nei dettagli della governance. […] Forse sa vagamente cosa sia Usaid, ma non credo che ne sappia molto, né credo che gli importi granché, francamente. Non fa parte della sua agenda politica».

Secondo Natsios, questa percezione approssimativa dell’aiuto e dello sviluppo è a sua volta la conseguenza di una visione della politica internazionale che si concentra solo sullo scontro fra superpotenze – con la Cina come principale avversario – e che non vede quanto sia centrale il mondo in via di sviluppo nell’equilibrio di potenza. «Credo che specialmente in Africa questo sia un grosso fallimento», aggiunge Natsios.

Il ritiro da trattati e agenzie Onu

Il disinteresse per lo sviluppo che Donald Trump ha mostrato si estende anche al multilateralismo, verso il quale il presidente ha mostrato aperta ostilità fino al punto di ritirare gli Stati Uniti da diversi trattati o organizzazioni internazionali.

Lo scorso luglio l’amministrazione aveva notificato alle Nazioni unite e al Congresso statunitense l’avvio della procedura di uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): l’uscita diventerebbe effettiva nel luglio di quest’anno (2021), ma il presidente eletto Joe Biden ha immediatamente dichiarato di volerla revocare il primo giorno del suo mandato@.

Il presidente uscente ha motivato la scelta di abbandonare l’Oms accusando quest’ultima di avere grosse responsabilità nella diffusione su tutto il pianeta della pandemia da coronavirus e di essere troppo dipendente dalla Cina@.

Oltre che dall’Oms, Trump ha deciso nel 2017 di uscire dall’accordo di Parigi sul clima – il ritiro è diventato effettivo il 4 novembre scorso, il giorno successivo alle elezioni vinte da Joe Biden – e dal trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty) con la Russia per la messa al bando dei missili nucleari a medio raggio, accusando Mosca di averlo violato.

Gli Usa hanno poi lasciato l’organizzazione delle Nazioni unite per l’istruzione, la scienza e la cultura (Unesco): non pagavano le quote di finanziamento dal 2011, quando era in corso il primo mandato di Obama, perché l’Unesco aveva accettato la Palestina fra i propri stati membri ed esiste una legge negli Stati Uniti che proibisce di finanziare organizzazioni che ammettano gruppi «privi degli attributi internazionalmente riconosciuti di uno stato»@.

L’ultimo ritiro in ordine di tempo è stato quello, dello scorso novembre, dal Trattato sui cieli aperti (Open Skies), che cercava di aumentare la trasparenza e la fiducia fra i 34 paesi membri permettendo a ciascuno di essi di raccogliere informazioni sulle installazioni e le attività militari degli altri, effettuando sorvoli con aerei senza armi dotati di telecamere e altri sensori. Anche in questo caso, il presidente ha giustificato l’abbandono del Trattato con le violazioni da parte della Russia, che ha rifiutato agli altri stati membri il permesso di sorvolo su alcune aree come quelle di Kaliningrad e Mosca e sul confine con le regioni georgiane dell’Ossezia e dell’Abkhazia@.

L’abbandono di tutti questi accordi e istituzioni ha lasciato ampi spazi proprio all’avversario che gli Usa di Donald Trump più si sono sforzati di contrastare, cioè la Cina, che ha collocato suoi uomini@ alla testa di quattro delle principali 15 agenzie Onu. Hanno infatti un direttore generale cinese l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), quella per lo sviluppo industriale (Unido), quella per l’aviazione civile (Icao) e l’Unione internazionale per le Telecomunicazioni (Itu).

Chiara Giovetti
[fine prima puntata]




Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.

«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.

E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.

Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.

C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.

A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».

Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump  – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.

Distribuzione di aiuti Usaid ad Haiti – AFP PHOTO / JEWEL SAMAD

Le richieste di Trump e la reazione del Congresso

Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.

Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.

I primi cinque paesi toccati dall’aiuto estero statunitense (foreign aid, una categoria che non coincide esattamente con l’aiuto pubblico allo sviluppo monitorato dall’Ocse) sono Israele (3,1 miliardi), Egitto (1,39 miliardi), Giordania (1 miliardo), Afghanistan (783 milioni) e Kenya (639 milioni)@.

Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.

«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.

La nave Liberty Grace noleggiata dal World Food Program (WFP) nel porto di Pot Sudan carica di cibo donato da Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Tagli effettivi

Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.

A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».

Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».

«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».

Popa d’acqua allestita in Sud Sudan dall’Usaid –  AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit

Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).

Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.

  • La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
  • La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
  • La terza tendenza, infine, potrebbe essere uno spostamento verso il basso dei temi dello sviluppo nell’agenda politica@.

Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».

Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».

Chiara Giovetti