La cooperazione Usa dopo 4 anni di Trump


La cooperazione statunitense è uscita non troppo ammaccata dai quattro anni di governo di Donald Trump, nonostante egli abbia più volte tentato di ridurre i fondi per l’aiuto allo sviluppo o di deviarli verso i paesi amici. Ma il disinteresse del presidente uscente per il multilateralismo si è tradotto nel ritiro degli Stati Uniti da diversi accordi, trattati e agenzie Onu, aprendo numerosi spazi proprio alla potenza mondiale che Trump ha più duramente contrastato: la Cina.

Secondo i dati preliminari diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nella primavera di quest’anno, gli Stati Uniti si sono confermati anche nel 2019 il massimo donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo, con 34,6 miliardi di dollari@.

Per sapere se l’aiuto statunitense si è mantenuto a questo livello anche nel 2020 occorrerà attendere i dati Ocse che arriveranno in primavera. Nel frattempo, però, ci si può comunque fare un’idea guardando a quanto ammontava l’aiuto all’estero (foreign aid) nel bilancio statunitense del 2020 e, per il 2021, che cosa prevedono le leggi di stanziamento di Camera e Senato.

Occorre tenere conto che l’aiuto pubblico allo sviluppo di cui parla l’Ocse è quello verso i paesi a basso e medio reddito, mentre il foreign aid statunitense comprende anche gli aiuti per i paesi ad alto reddito, come Israele, il Canada o gli stati europei@, e l’assistenza militare, cioè le operazioni di peacekeeping e le sovvenzioni che gli Usa forniscono ai paesi amici e alleati per permettere loro di procurarsi equipaggiamento americano e addestramento.

Bisogna ricordare inoltre che il processo di approvazione del bilancio negli Usa comincia con una proposta del presidente, presentata di solito il primo lunedì di febbraio, e prosegue con la discussione e modifica di quella proposta da parte di Camera dei rappresentanti e Senato, che decidono le varie assegnazioni di fondi dopo una serie di udienze con i responsabili delle varie agenzie federali che li gestiranno.

Le due Camere unificano poi le proposte che ciascuna di esse ha ottenuto modificando quella del presidente e votano il documento finale, che diventa la legge di bilancio definitiva, da firmare entro il 30 settembre di ogni anno, perché l’anno fiscale negli Stati Uniti va dal 1° ottobre al 30 settembre successivo@.

2011 Getty Images

Tagli evitati dal Congresso

Per il 2020 Trump ha proposto tagli all’aiuto intorno al 21%@ e per il 2021 del 24%@. Per il 2018, ne avevamo parlato in un precedente articolo@, la riduzione richiesta dal presidente era stata intorno al 28% e di due punti più alta per il 2019. Il Congresso, con scelte sostenute sia dai democratici che dai repubblicani, ha sempre ridimensionato parecchio le proposte del presidente e ha mantenuto stabile il volume dei finanziamenti@ sia per il Dipartimento di Stato che per l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, Usaid, le due entità che gestiscono il grosso della cooperazione internazionale Usa@.

Un esempio piuttosto chiaro di questo scarso successo dell’amministrazione uscente nell’ottenere i tagli che desiderava è dato proprio dai fondi gestiti dall’Agenzia. Nel 2017 una delle ipotesi al vaglio del governo era quella di fondere Dipartimento di Stato e Usaid, tagliando anche un terzo dei fondi al primo e il 40% alla seconda. Il piano di fusione però è stato rapidamente abbandonato e le risorse di Usaid hanno continuato a crescere in modo piuttosto costante dai 17,54 miliardi di dollari del 2014 (quando era presidente Barack Obama) ai 20,67 miliardi del 2019@.

REUTERS/Carlos Garcia Rawlins

Che cosa è cambiato nella cooperazione USA

Se Usaid non si è vista tagliare i fondi, ha però subito una riorganizzazione, che era peraltro auspicata da più parti e che è stata bene accolta da molti analisti statunitensi. Di questa ristrutturazione fa parte, ad esempio, la scelta di unificare l’Ufficio per l’assistenza nei disastri all’estero con l’Ufficio Food for Peace, creando un nuovo Ufficio per l’assistenza umanitaria guidato da un funzionario di livello più alto@.

Un altro elemento della riorganizzazione riguarda il metodo di valutazione dei risultati, che si concentra ora di più sull’impatto, cioè sui reali cambiamenti che l’aiuto ha prodotto, e meno sulla performance, cioè sul verificare che le attività previste nei programmi di Usaid siano state svolte e completate come previsto@.

Al di là di Usaid, un altro cambiamento significativo riguarda le priorità che il governo di Donald Trump ha impresso, o tentato di imprimere, all’aiuto allo sviluppo. L’amministrazione, si legge nella scheda sugli Usa di donortracker@, sito di approfondimento sui temi dello sviluppo, vincola fortemente l’assistenza allo sviluppo alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e alla crescita dell’economia.

Le priorità dell’amministrazione Trump sono state lo sviluppo economico, in particolare delle donne, e la finanza per lo sviluppo, cioè l’uso di risorse pubbliche per stimolare investimenti del settore privato in paesi a basso e medio reddito, dove il contesto politico e commerciale presenta troppi rischi per attrarre spontaneamente capitali privati. Per rafforzare la finanza per lo sviluppo, l’amministrazione Trump ha creato un ente ad hoc, la Development Finance Corporation, altra scelta accolta positivamente dagli esperti del settore.

Viceversa, i finanziamenti per la salute globale sono stati oggetto di tagli significativi nelle proposte di bilancio del presidente.

Donne Maasai aiutate da Usaid per un programma di alfabetizzazione

Visione vaga e conflittuale

Secondo un’analisi di Michael Igoe@ pubblicata sul sito Devex, è abbastanza raro che un presidente americano metta la cooperazione fra le massime priorità.

Trump, però, non si è limitato a ritenere poco rilevante lo sviluppo: se ne è completamente disinteressato, a meno che un particolare tema non fosse caro a qualcuno della sua cerchia ristretta. È il caso dell’Iniziativa per lo Sviluppo globale e la prosperità per le donne, voluta dalla figlia del presidente, Ivanka: un programma che diversi analisti hanno voluto interpretare come una specie di promozione del «marchio Ivanka», con la sua attenzione verso l’imprenditoria femminile e l’emancipazione delle donne, ma che ha anche ottenuto giudizi positivi fra i sostenitori della cooperazione.

Del resto, suggerisce l’articolo su Devex, un po’ di personalismo è fisiologico e prescinde dal colore dell’amministrazione: Raj Shah, direttore di Usaid durante l’amministrazione Obama, aveva un passato nella Bill and Melinda Gates Foundation come esperto di agricoltura e, da direttore dell’agenzia, ha promosso proprio iniziative di sviluppo agricolo come Feed the Future@.

A parte le iniziative caldeggiate dai suoi più stretti collaboratori, osserva il funzionario di area repubblicana Andrew Natsios, che aveva diretto Usaid durante la presidenza di George W. Bush, se Trump ha usato l’aiuto lo ha usato come strumento diplomatico punitivo: ad esempio, il presidente ha deciso di tagliare gli aiuti all’America Centrale perché riteneva che i governi della regione non stessero facendo abbastanza per fermare la migrazione, o ha ridotto i fondi per la Cisgiordania e Gaza per forzarle a partecipare ai negoziati di pace.

La filosofia di Trump sullo sviluppo «è caratterizzata dalla mancanza di una filosofia che vada oltre la competizione e la disgregazione», ha detto a Michael Igoe un ex funzionario dell’amministrazione Trump che ha chiesto di restare anonimo. «Non credo che il presidente entri nei dettagli della governance. […] Forse sa vagamente cosa sia Usaid, ma non credo che ne sappia molto, né credo che gli importi granché, francamente. Non fa parte della sua agenda politica».

Secondo Natsios, questa percezione approssimativa dell’aiuto e dello sviluppo è a sua volta la conseguenza di una visione della politica internazionale che si concentra solo sullo scontro fra superpotenze – con la Cina come principale avversario – e che non vede quanto sia centrale il mondo in via di sviluppo nell’equilibrio di potenza. «Credo che specialmente in Africa questo sia un grosso fallimento», aggiunge Natsios.

Il ritiro da trattati e agenzie Onu

Il disinteresse per lo sviluppo che Donald Trump ha mostrato si estende anche al multilateralismo, verso il quale il presidente ha mostrato aperta ostilità fino al punto di ritirare gli Stati Uniti da diversi trattati o organizzazioni internazionali.

Lo scorso luglio l’amministrazione aveva notificato alle Nazioni unite e al Congresso statunitense l’avvio della procedura di uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): l’uscita diventerebbe effettiva nel luglio di quest’anno (2021), ma il presidente eletto Joe Biden ha immediatamente dichiarato di volerla revocare il primo giorno del suo mandato@.

Il presidente uscente ha motivato la scelta di abbandonare l’Oms accusando quest’ultima di avere grosse responsabilità nella diffusione su tutto il pianeta della pandemia da coronavirus e di essere troppo dipendente dalla Cina@.

Oltre che dall’Oms, Trump ha deciso nel 2017 di uscire dall’accordo di Parigi sul clima – il ritiro è diventato effettivo il 4 novembre scorso, il giorno successivo alle elezioni vinte da Joe Biden – e dal trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty) con la Russia per la messa al bando dei missili nucleari a medio raggio, accusando Mosca di averlo violato.

Gli Usa hanno poi lasciato l’organizzazione delle Nazioni unite per l’istruzione, la scienza e la cultura (Unesco): non pagavano le quote di finanziamento dal 2011, quando era in corso il primo mandato di Obama, perché l’Unesco aveva accettato la Palestina fra i propri stati membri ed esiste una legge negli Stati Uniti che proibisce di finanziare organizzazioni che ammettano gruppi «privi degli attributi internazionalmente riconosciuti di uno stato»@.

L’ultimo ritiro in ordine di tempo è stato quello, dello scorso novembre, dal Trattato sui cieli aperti (Open Skies), che cercava di aumentare la trasparenza e la fiducia fra i 34 paesi membri permettendo a ciascuno di essi di raccogliere informazioni sulle installazioni e le attività militari degli altri, effettuando sorvoli con aerei senza armi dotati di telecamere e altri sensori. Anche in questo caso, il presidente ha giustificato l’abbandono del Trattato con le violazioni da parte della Russia, che ha rifiutato agli altri stati membri il permesso di sorvolo su alcune aree come quelle di Kaliningrad e Mosca e sul confine con le regioni georgiane dell’Ossezia e dell’Abkhazia@.

L’abbandono di tutti questi accordi e istituzioni ha lasciato ampi spazi proprio all’avversario che gli Usa di Donald Trump più si sono sforzati di contrastare, cioè la Cina, che ha collocato suoi uomini@ alla testa di quattro delle principali 15 agenzie Onu. Hanno infatti un direttore generale cinese l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), quella per lo sviluppo industriale (Unido), quella per l’aviazione civile (Icao) e l’Unione internazionale per le Telecomunicazioni (Itu).

Chiara Giovetti
[fine prima puntata]




Gli Usa e il Mondo

testo di Piergiorgio Pescali |


Nella storia degli Stati Uniti, le guerre – a volte esplicite, ma più spesso non dichiarate – sono una costante. Una lettura attenta della politica estera di Washington, al di fuori del modello interpretativo repubblicani-democratici, porta però delle sorprese. In attesa della rielezione di Donald Trump o della vittoria del democratico Joe Biden.

Il 3 novembre gli Stati Uniti andranno a votare per il loro quarantaseiesimo presidente. Dopo un primo periodo in cui si sono succeduti candidati di diversi movimenti politici (federalisti, unionisti, whigs, democratici-repubblicani), dal 1869 ad oggi tutti gli inquilini della Casa Bianca sono stati rappresentanti di soli due partiti: quello repubblicano e quello democratico.

Secondo un’opinione diffusa e consolidata, in particolare in Europa, gli schieramenti ideologici dell’elettorato statunitense sono ben definiti: da una parte i progressisti, che trovano espressione nel partito democratico, e dall’altra i conservatori, raggruppati prevalentemente in quello repubblicano.

In realtà, la distinzione non è così netta. In particolare, con riferimento alla politica estera, i programmi delle amministrazioni democratiche e repubblicane trovano spesso ribaltamenti inaspettati che rispecchiano un Dna storico che vede un partito democratico espansionista e interventista, e un partito repubblicano più moderato.

L’imbarco di truppe statunitensi su un aereo. Foto: Skeeze-Pixabay.

Le radici storiche: nati da un unico tronco

Le radici dei due principali movimenti politici degli attuali Stati Uniti si rifanno a un unico tronco: quel «Partito democratico-repubblicano» (Pd-r) fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison in opposizione al Partito federalista (che si batteva affinché i poteri del governo centrale fossero più forti). Gli stati settentrionali dell’Unione erano dominati dai federalisti; quelli meridionali, gelosi della propria autonomia, rappresentavano le roccaforti dei democratico-repubblicani. In questo quadro, che gli storici chiamano Primo sistema partitico Usa, si fronteggiavano pertanto due grandi schieramenti: i federalisti di Alexander Hamilton, espressione della classe commerciale e aristocratica che guardava con simpatia al modello britannico, e il Partito democratico-repubblicano appoggiato dai contadini e dai pionieri, che ammiccava alla Francia rivoluzionaria. Lo stesso nome «democratico» fu un’aggiunta postuma suggerita da Edmond-Charles Genet, ambasciatore di Parigi negli Usa. In realtà, le convergenze del Pd-r verso la Francia erano dovute più all’astio dei suoi rappresentanti verso il Regno Unito, impegnato nelle guerre napoleoniche, che ad un vero e proprio atteggiamento politico. La contrapposizione Partito federalista (pro Londra) e Partito democratico-repubblicano (pro Parigi) all’interno del Congresso americano portò alla cosiddetta «Guerra del 1812» tra Usa e Regno Unito, appendice oltreoceano delle guerre napoleoniche europee. Oltre a decretare la vittoria statunitense (nel 1815) e la fine del movimento federalista, il conflitto fu il primo passo dell’espansionismo americano ai danni delle popolazioni indiane (appoggiate da Londra che così facendo sperava di mettere in difficoltà gli statunitensi) e del tentativo del presidente Thomas Jefferson di invadere e conquistare il Canada britannico (Upper Canada). Fu sempre a causa di questa guerra che gli Stati Uniti si convinsero che per sopravvivere avevano bisogno di una marina forte e potente. Ed iniziarono a costruirsela.

L’allora presidente John F. Kennedy all’Onu il 25 settembre 1961. Foto: UN Photo – Yutaka Nagata.

Lo schiavismo e la guerra civile

Tra il 1824 e il 1832, il Pd-r si scisse: una fazione, guidata da Andrew Jackson fondò il Partito democratico, mentre l’altra, guidata da John Quincy Adams e Henry Clay, si raccolse attorno al Whig Party riprendendo il nome dalla fazione progressista britannica che, tra il XVII e il XIX secolo, si contrappose ai tories conservatori. Jackson rafforzò il potere presidenziale, estese il suffragio universale ai maschi adulti di origine europea-americana. Tra i due partiti si accese una rivalità basata, ancora una volta, sull’equilibrio decisionale tra poteri periferici e potere federale centrale, e sulle barriere protezioniste. I whigs si opposero anche alla politica di espansione statunitense intrapresa dal presidente del Partito democratico James K. Polk, il primo presidente ad applicare la dottrina Monroe sulla cui formulazione, «L’America agli americani», venne puntellata l’egemonia degli Usa sull’intero continente dall’Alaska alla Terra del Fuoco.

Polk appoggiò l’ulteriore avanzata verso Ovest ai danni dei nativi americani, annesse agli Usa il Territorio dell’Oregon e, al termine di una guerra che imperversò tra il 1846 e il 1848, obbligò il Messico a cedere lo stato del Texas.

Fu la questione schiavista a far nascere il Partito repubblicano: il senatore democratico Stephen A. Douglas redasse il Kansas-Nebraska Act che allargava il diritto di schiavitù ai territori dei due stati che davano il nome alla legge. Il presidente Franklin Pierce, anch’esso democratico e antiabolizionista, appoggiò la nuova legge tracciando così la strada che portò alla Guerra civile americana.

Nuovi schieramenti

L’allora presidente Ronald Reagan all’Onu il 17 giugno 1982. Foto: UN Photo – Yutaka Nagata.

Ad opporsi al Kansas-Nebraska Act furono i whigs e i democratici abolizionisti che formarono il Partito repubblicano. Fortemente progressista, difensore dei diritti civili delle popolazioni afroamericane, unionista, favorevole al rafforzamento del potere federale, il nuovo movimento radunò ben presto attivisti e sostenitori tra gli Stati settentrionali che espressero la loro volontà di emancipazione e di democrazia in Abramo Lincoln, eletto alla presidenza sebbene avesse ottenuto solo il 40% dei voti elettorali.

Dopo la Guerra civile, i repubblicani, presenti in particolare nel Nord più industrializzato, iniziarono ad avere l’appoggio dei grandi gruppi industriali e il partito iniziò a spostarsi verso il conservatorismo e verso le élite delle classi più abbienti. La Casa Bianca restò in mano repubblicana fino al 1913 tranne che, per due mandati, tra il 1885 e il 1889 e tra il 1893 e 1897 (presidenza Cleveland). Fu verso la fine del XIX secolo, con l’emergere di politici come Theodore Roosevelt e di strateghi militari come Alfred T. Mahan, che i repubblicani abbandonarono la loro tradizionale neutralità per imbarcarsi, in stretta compagnia dei democratici, in una politica di supremazia globale.

Dopo «L’America agli americani», Washington iniziò a guardare oltre i propri orizzonti: il trampolino di lancio per l’espansione nel Pacifico e in Asia, iniziato nel 1854 (quando il commodoro Perry obbligò il Giappone ad aprire i suoi porti al commercio con gli Usa), fu completato nel 1898, con l’annessione delle isole Hawaii. Da allora la presenza statunitense in Oriente divenne una costante in ogni amministrazione a prescindere dal colore politico. Fu invece la società civile a contrastare la politica militare: l’occupazione delle Filippine, Guam, Cuna e Porto Rico, avvenuta al termine della guerra ispano-americana del 1898, suscitò un’ondata di indignazione inducendo il senatore repubblicano George S. Boutwell a fondare la Lega anti-imperialista.

Dalle bombe nucleari alle Nazioni unite

L’allora presidente Bill Clinton all’Onu nel 1993. Foto: UN Photo – Milton Grant .

A partire dal XX secolo i candidati presidenziali inclusero nei loro programmi capitoli sempre più importanti riguardanti la politica estera e il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero ricoperto nel mondo.

L’interventismo militare dell’amministrazione democratica di Woodrow Wilson (1913-1921) segnò l’inizio della nuova era per gli Usa: prima di entrare nella Prima guerra mondiale contro la Germania, Wilson aveva già spedito le sue truppe ad Haiti, in Messico, nella Repubblica Dominicana, Cuba, Nicaragua e Panama dove nel 1914 era stato inaugurato il canale. Subito dopo, lo stesso Wilson inviò truppe militari in aiuto all’Armata bianca russa nell’intento di contrastare le truppe bolsceviche.

L’influenza degli Stati Uniti divenne sempre più ingombrante e, dopo il secondo conflitto mondiale, complice la Guerra fredda, le varie amministrazioni iniziarono a intraprendere una politica di aperto interventismo militare.

Fu il democratico Harry Truman, dopo aver ordinato il lancio delle due bombe nucleari sul Giappone, a sfruttare per primo il predominio statunitense nelle Nazioni Unite come ombrello politico al fine di muovere le sue pedine sullo scacchiere internazionale.

La guerra di Corea (1950, amministrazione Truman, democratica), l’intervento in Libano (1978, amministrazione Carter, democratica e Reagan, repubblicana), la guerra nel Golfo Persico (1990, amministrazione Bush Sr, repubblicana), quella di Bosnia (1992, amministrazione Clinton, democratica), e i plurimi interventi in Libia (2011, amministrazione Obama, democratica) furono fatti su mandato Onu, ma dietro richiesta della Casa Bianca.

Ancora sotto un’amministrazione democratica (questa volta Kennedy), i militari Usa intervennero a Cuba nel tentativo disastroso della Baia dei Porci, di rovesciare il governo di Fidel Castro. Sempre Kennedy fu il presidente che diede il la per la Seconda guerra d’Indocina inviando i primi contingenti in Vietnam. L’incidente del Golfo del Tonchino (2 agosto 1964) permise al suo successore, il democratico Lyndon Johnson di coinvolgere appieno gli Stati Uniti nella regione asiatica, la cui eredità passò al repubblicano Nixon, a cui spettò il compito di intavolare i negoziati di pace e di compiere il definitivo ritiro dal Sud Est asiatico.

Discorso di Donald Trump dallo studio ovale della Casa Bianca in occasione della 75.ma Assemblea generale dell’Onu, lo scorso 23 settembre. Foto: UN Photo – Eskinder Debebe.

Dialoghi e bombe

A corollario della sua politica internazionale, fu ancora Nixon a ristabilire i rapporti diplomatici con la Repubblica popolare cinese di Mao Zedong. Una peculiarità, quella del dialogo con governi di ispirazione socialista o comunque fortemente biasimati dagli Usa, che rimase una costante nelle amministrazioni repubblicane. Infatti, mentre le direzioni democratiche hanno prevalentemente preferito risolvere i conflitti internazionali con le armi (guerra di Bosnia-Clinton, Libia-Obama, Siria-Obama), quelle repubblicane sono state le più impegnate nel dialogo. Reagan (nel secondo mandato) con Gorbaciov, Trump con la Corea del Nord e, recentemente, con i Talebani, sono le battaglie diplomatiche che hanno avuto più successo.

E se, da una parte, è facile identificare nelle amministrazioni repubblicane di Bush padre (1989-1983) e figlio (2001-2009) quelle che più di tutte si sono impegnate ad aprire nuovi fronti bellici, non altrettanto immediata è la sensazione di quanto identicamente deleteria e dispensatrice di bombe sia stata un’amministrazione generalmente considerata positivamente come quella di Obama (2009-2017).

A essa, nonostante il Nobel per la pace (2009) assegnato alla sua guida, si deve la destabilizzazione dell’intera area mediterranea mediorientale e nordafricana, gli interventi in Somalia e Yemen, l’aumento di truppe in Afghanistan e la chiusura degli spiragli di dialogo con la Corea del Nord.

L’ex presidente Barack Obama con Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca 2020. Foto: Pixabay.

Trump-Biden: diversi, ma non su tutto

In questi primi giorni di novembre gli elettori statunitensi sceglieranno il loro nuovo presidente. Lo sfidante democratico Joe Biden ha già annunciato che, se eletto, sarà disposto anche a ordinare interventi militari contro Iran e Corea del Nord nel caso i leader di questi paesi non ottempereranno alle richieste Usa, aumenterà la presenza di truppe statunitensi nella penisola coreana e prenderà misure contro Pechino se questa non farà pressione su Pyongyang sul disarmo nucleare.

La politica estera Usa rischia di tornare ad essere dominata da due slogan dopotutto molti simili tra loro: «We are America, second to none» (Biden) e «Make America great again» (Trump).

Entrambi, nella loro megalomania, hanno dimenticato che Stati Uniti e America non sono la stessa cosa.

Piergiorgio Pescali




Trump, il populista che governa con i tweet

Teto di Piergiorgio Pescali |


Sbruffone, superficiale, bugiardo, dai gusti kitsch. Donald Trump è tutto questo, ma tra un anno potrebbe vincere ancora. Siamo andati a vedere chi lo vota e perché. Nel frattempo, le sue guerre commerciali hanno conseguenze mondiali mentre in politica estera, dopo i disastri (taciuti) del premio Nobel Obama…

Il bus ha appena lasciato la stazione della University of California a San Francisco, quando un’anziana signora inizia a battibeccare con il nuovo viaggiatore che si è appena seduto vicino a lei. Ha la musica degli auricolari un po’ troppo alta. A un certo punto il passeggero, un giovane universitario – cappello da baseball sulle ventitré, skateboard e uno zaino a tracolla – risponde alla signora in tono scocciato invitandola a occupare un altro sedile. La donna s’inalbera e inizia a gridare terminando la sua invettiva con un: «Ecco dove ci ha portato la politica di Trump: ha diviso l’America portandoci a litigare tra noi. Siamo un paese diviso, l’esatto opposto dell’America che voleva Obama!».

La scena appena descritta illustra bene il quadro che un turista, anche distratto, può avere visitando gli Stati Uniti. Occorre rifarsi agli anni Settanta, durante la presidenza Nixon, per trovare le opinioni dei cittadini dei cinquanta stati della federazione così nettamente divise sull’amministrazione che governa il loro paese.

O lo ami o lo odi

© Roman Boed_Chicago

Trump lo ami o lo odi e quando pareri così nettamente contrapposti si fronteggiano, la faziosità prevale sull’equità e oggettività di giudizio.

Smargiasso dai gusti kitsch, origini tedesche da parte di padre (il cognome originario era Drumpf) e scozzesi da parte di madre, Donald Trump si è sempre contraddistinto per la sua imprevedibilità e impulsività, due qualità che hanno suscitato critiche sul suo modus operandi sino a creare un neologismo: la «trumpaggine», sinonimo di stupidità e superficialità politica.

Giocando sull’immediatezza e sulla sintesi fin troppo schematizzata di Twitter, il presidente ha rivoluzionato il modo di comunicare con il mondo intero. E sono oramai in tanti a imitarlo, a partire dall’italico (una volta si diceva padano) ed ex ministro Matteo Salvini.

La differenza con la precedente signorilità ed eleganza di un Barack Obama è lampante, ma è proprio l’espressione un po’ campagnola, sbruffona e meno snob a far preferire Trump rispetto ad altri politici più navigati.

«Trump è più sincero di chiunque lo abbia preceduto. Dice sempre quello che pensa infischiandosene del bon ton e della diplomazia. È uno di noi!», afferma Chloe che, assieme a suo marito Leon, possiede una fattoria vicino a Bryce, nello Utah, dove affitta stanze a gente di passaggio come me. Poco importa se la guerra commerciale con la Cina, verso i cui mercati sono diretti molti dei prodotti agricoli statunitensi, ha causato una contrazione delle vendite. La risposta che ottengo è sempre più o meno la stessa: «Trump sta rendendo di nuovo l’America grande; i cinesi ci hanno comandato troppo a lungo, è ora che ci riprendiamo il nostro paese». «Make America great again» (facciamo l’America di nuovo grande): il motto presidenziale ha fatto breccia.

Chloe e Leon se la passano discretamente bene, ma non sono ricchi, così come la maggior parte dei sessantuno milioni di statunitensi che ha votato Trump nelle elezioni presidenziali del 2016: «L’elettore medio che ha preferito Trump alla Clinton abita nelle campagne, dove la vita è più faticosa e si lavora duramente; abita nelle periferie delle città, dove povertà, violenza, disoccupazione sono sempre state i drammi esistenziali con cui convivere. È quello che non ha finito le scuole perché la sua famiglia non poteva permettersi di pagare libri e retta», mi spiega Ysabel Perez, sociologa che tiene un corso di Criminologia presso la Northern Arizona University di Flagstaff. Ysabel è di origine ispanica, ma cittadina statunitense. Spiega che, a differenza di quanto l’americano medio sia portato a pensare, sono i ceti meno abbienti, i lavoratori, gli sfruttati, «quelli che voi europei un tempo chiamavate proletari», a costituire ancora oggi, a tre anni di distanza dalle elezioni, lo zoccolo duro dell’elettorato dell’attuale presidente. «Sono gli emarginati, ma – questo è importante – emarginati bianchi», conclude.

© Piergiorgio Pescali

Il voto dell’America puritana

Nell’America puritana, colore della pelle e religione si mischiano in ogni aspetto della vita quotidiana, molto più che in Europa. Il Pew Research Center ha appurato che il 69% degli evangelici di etnia caucasica approva l’operato del presidente, assieme al 12% dei protestanti neri. Tra i cattolici il 36% appoggia la politica di Trump, ma la percentuale sale al 44% tra i cattolici caucasici (bianchi), e scende al 26% tra quelli non bianchi (ma rispetto al 2017 quest’ultima percentuale è raddoppiata).

Secondo un recente sondaggio della Gallup, al luglio 2019, il 44% degli americani approvava il lavoro fatto sino a oggi dal loro presidente (un altro istituto, lo Zogby Analytics, indica che la percentuale supererebbe il 50%). Il 44% sembra una quota bassa, ma è l’identica percentuale di consenso che aveva Obama nello stesso periodo del suo primo mandato.

Insomma, Trump continua a dividere gli Stati Uniti e una grossa fetta degli abitanti lo considera un buon presidente.

Nel quartiere dei giovani artisti di Flagstaff la contrarietà nei confronti di Trump è evidente: in un negozio di souvenirs si vende carta igienica con il faccione del presidente, mentre in un bar il caffè è servito in tazze in cui è riprodotta l’effigie stilizzata dell’Urlo di Munch circondata dalla dicitura «President Trump».

I giornali e i media internazionali fanno fatica a comprendere il fenomeno di questo bizzarro uomo d’affari votatosi alla politica. Divisi tra i successi mietuti in politica estera e le contraddizioni di una politica interna che raccoglie successi economici e critiche sulla politica immigratoria, i canali televisivi e i giornali divulgano continuamente notizie biforcute.

© Benjamin Kerensa

Politica estera: bugie, verità e conflitti d’interesse

«L’amministrazione Trump si è dimostrata molto più abile del previsto in politica estera. La disastrosa esperienza guerrafondaia della coppia Obama-Clinton è stata sostituita dal dialogo offerto da Trump che ha portato alle aperture con la Corea del Nord, la Russia e, seppur in modo altalenante, con la Cina», confida davanti a una birra gelata e a stento celando un profondo senso di disagio, Dacre, un fisico delle alte energie che fa parte della Federazione degli Scienziati Americani, un’organizzazione che si batte per il bando delle armi nucleari.

La delusione verso la politica estera messa in atto da Obama è evidente: persino il Nobel per la pace dato sulla fiducia nel 2009 «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli», oggi è oggetto di contestazione. «Durante l’amministrazione Obama abbiamo scatenato guerre in Libia, Siria, aumentato il numero di militari in Afghanistan, imposto sanzioni alla Russia scatenando il conflitto in Ucraina, deteriorato i rapporti con la Cina e sfiorato una guerra con la Corea del Nord. Eppure è stato premiato con un Nobel per la pace, a differenza di Trump che, nonostante i suoi buoni risultati, è stato snobbato», lamenta Austin Yee, attivista pacifista americana dell’Ong Mercy Corps. Il Nobel ad Obama, lungi dall’essere un premio eticamente neutro, era stato fortemente sponsorizzato e voluto dall’avvocatessa norvegese Berit Reiss-Andersen, allora membro e oggi presidente del Comitato per il Nobel nonché socia della Dla Piper, lo studio legale internazionale (con uffici anche in Italia, ndr) che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012. Insomma, un Nobel alla fiducia (mal riposta), ma con enormi interessi finanziari.

Anche Trump, come chi lo ha preceduto alla Casa Bianca, non è certo un pacifista: il suo disimpegno internazionale è dovuto principalmente al fatto che, a differenza delle passate amministrazioni, è direttamente interessato a proteggere il proprio impero economico all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Con la nuova presidenza i cittadini americani hanno scoperto quello che noi chiamiamo conflitto d’interessi. Secondo la Cnn, Trump avrebbe 144 compagnie in 25 paesi del mondo (principalmente India, Indonesia, Canada, Emirati Arabi, Scozia, Cina, Brasile, Arabia Saudita), ma nessuno sa esattamente a quanto ammonti il suo impero: le cifre variano tra i 3,1 (Forbes) e i 12 miliardi di dollari (Trump stesso).

© Robbie Wroblewski_2008

La politica del «meno»: tasse, sanità, ambiente

La politica del lavoro di Trump sta dando i suoi frutti con una disoccupazione scesa ai minimi storici (3,7% rispetto al 5% del 2016), ma è un trend in discesa dal 2014, cioè da prima del suo arrivo alla Casa Bianca, quando era disoccupato il 7% della forza lavoro. E se è vero che i salari sono aumentati in media del 3,2%, è altrettanto vero che la ricchezza si sta concentrando verso un numero sempre più ristretto di persone. La ricchezza accumulata si è creata principalmente con il taglio delle tasse, il che ha portato Trump a eliminare o diminuire sovvenzioni sociali. Il tipico esempio è la proposta di cancellare la «Legge sulla protezione dei pazienti e sull’assistenza economica» (Patient Protection and Affordable Care Act), il cosiddetto Obamacare, forse la più popolare e utile iniziativa promossa dall’ex presidente Barak Obama, che ha permesso a circa 30 milioni di cittadini, prima esclusi dall’assistenza sanitaria, di essere tutelati dal sistema nazionale. La crescita economica Usa è anche dovuta al polemico atteggiamento di Trump verso le politiche ambientaliste, che ha portato a negare il riscaldamento climatico con il plauso, tra gli altri, delle Chiese evangeliche creazioniste. Questo ha incanalato verso il presidente l’approvazione delle compagnie automobilistiche perché non più soggette alla tassa sull’emissione di CO2 e inquinanti. La politica di Trump rischia, dunque, di vanificare il duro lavoro di contenimento degli inquinanti fatto da Obama. Basta vedere il parco macchine circolante oggi negli Stati Uniti per rendersi conto di quanto positiva sia stata la politica di Obama: dal 2012 le compagnie automobilistiche hanno dovuto adeguare i nuovi motori a regole più severe sui consumi. Questo ha portato alla produzione di auto più piccole e performanti (entro il 2025 le auto di nuova immatricolazione avrebbero dovuto avere un consumo di 23 km con un litro di benzina). Nel 2015 Obama, inoltre, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ridotto, entro il 2025, le emissioni di gas serra del 26% rispetto al 2005. Il clamore dell’annuncio era stato salutato con ottimismo da numerose organizzazioni, ma «Obama ha giocato sporco», mi dice Cinthia, scienziata che lavora presso Worldwatch Institute. «Ha fatto promesse che sapeva di non dover mantenere, visto che pochi mesi dopo avrebbe lasciato il mandato. Nessuna economia mondiale può fare promesse del genere senza avere implicazioni insostenibili. In pratica Obama ha fatto la sua bella figura passando la patata bollente al suo successore, Clinton o Trump che fosse, sapendo che la sua sarebbe stata una scommessa persa in partenza».

Del resto, gli ambientalisti denunciano la politica di Barak Obama che ha limitato l’utilizzo di carbone come fonte di energia primaria, sostituendola non con fonti rinnovabili, ma con il petrolio, specialmente quello proveniente dal fracking per la gioia delle compagnie petrolifere, in particolare la Chevron, Exxon, ConocoPhillips. «Nonostante quello che si dice, durante l’intera amministrazione Obama gli Stati Uniti sono stati saldamente al comando per produzione di CO2 pro capite, superando abbondantemente anche la Cina», conclude, dati alla mano, Cinthia.

© Jaime C. Patias

Quel muro con il Messico

© Jaime C. patias

Tuttavia, il punto più controverso del programma presidenziale di Trump, quello su cui molti media internazionali e l’opinione pubblica hanno focalizzato la loro attenzione, è il famoso muro tra Stati Uniti e Messico.

La questione dei migranti ispanici – chiamati di volta in volta da Trump stupratori, corrieri della droga, criminali – è stata il cavallo di battaglia della politica interna ed ha preso il sopravvento nel programma presidenziale immediatamente dopo le restrizioni agli ingressi negli Usa per i cittadini di sette paesi musulmani.

L’architetto di questa politica è un giovanissimo politico di origini bielorusse: Stephen Miller, classe 1985 e ghost writer di numerosi discorsi del presidente, tra cui quello con cui inaugurò la sua presidenza nel gennaio 2017.

Ancora una volta l’opinione pubblica, imboccata dai media, è esplosa nel denunciare la politica razzista e intollerante di Trump, ma in verità il muro non è un’invenzione né un’iniziativa di quest’ultimo presidente e, a sua difesa sono scesi in campo personaggi insospettabili come Isaac Newton Farris Jr., Alveda King, nipoti di Martin Luther King e Malik Obama, fratellastro di Barack.

L’inizio della costruzione del muro Usa-Messico risale al 1990 a San Diego, con la presidenza repubblicana di George Bush Sr. Tre anni dopo, nel 1993 erano stati completati 22,5 km di barriera, ma altri pezzi iniziarono ad essere costruiti separatamente in Arizona e Texas. Nel 1994 il democratico Bill Clinton autorizzò l’operazione Gatekeeper, Hold the Line e Safeguard creando corpi di polizia che pattugliavano il confine al fine di prevenire varchi illegali. Nell’ottobre 2006 fu di nuovo un repubblicano, George Bush Jr. ad approvare, anche con i voti di un giovane Barack Obama e di una navigata Hillary Clinton, il Secure Fence Act che prevedeva la costruzione di barriere lungo 1.126 km di confine. Fu lo stesso Obama, il 10 maggio 2011 ad annunciare orgoglioso a El Paso il completamento della Secure Fence al confine con il Messico dotandolo di droni, telecamere e sensori e facendolo pattugliare da 20mila agenti.

Trump nella sua campagna presidenziale promise di completare l’erezione del muro lungo tutti i 3.169 km di confine. Fino a maggio 2019 erano stati approvati fondi per 6,1 miliardi Usd per il rimpiazzo di 364 km di barriere già esistenti e 177 km di nuove barriere, di cui 64 km completati ad oggi.

© Jaime C. Patias

Chi entra negli Usa

Ogni anno il confine è attraversato legalmente da 350 milioni di persone mentre «gli immigrati illegali sono diminuiti dal 2000, quando se ne contarono un milione e 600mila, fino all’arrivo di Trump nel 2016 quando erano 400mila; poi dal 2016 sono di nuovo aumentati», dichiara Anthony Rivera, ricercatore presso la facoltà di legge della University of Texas di Austin. Tutti segni che un muro non serve per contenere la massa di persone desiderose di migliorare il proprio stile di vita e di dare ai loro figli un futuro migliore. «È pur vero, però, che il 39% dei 7.979 kg di eroina sequestrati nel 2017 in tutti i posti di frontiera è stato preso lungo il confine Usa-Messico e la maggioranza lungo il corridoio San Diego», continua Rivera che sta facendo una ricerca sul campo sull’immigrazione ispanica negli Usa.

Insomma, la presidenza Trump continua ad essere amata o odiata senza mezze misure negli Stati Uniti e all’estero. E mentre Donald Trump vuole far tornare grande l’America con la sua politica di esclusione e tolleranza zero, altri politici come Bernie Sanders affermano che l’America diverrà più forte solo «quando neri e bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani saranno tutti uniti», perché – come diceva un conservatore di ferro come Ronald Reagan – «chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano: questa è una delle più importanti ragioni della grandezza dell’America. Il motivo per cui guidiamo il mondo – concludeva Reagan – è perché, unici al mondo, prendiamo il nostro popolo, la nostra forza, da ogni paese e da ogni angolo della Terra».

Piergiorgio Pescali

© Photo by Mackenzie Harris Faith in Public Life 7


Trump e i migranti: Meno ingressi per tutti

Sull’immigrazione illegale il presidente vuole «tolleranza zero». E vorrebbe cancellare anche il «birthright citizenship», quello che in Italia si chiama «ius soli».

Sin dalla campagna elettorale, Donald Trump ha messo la questione migratoria tra i punti più salienti della sua politica. E, pur tra mille difficoltà, sta mantenendo la parola data. Purtroppo, verrebbe da dire. A sua discolpa l’attuale presidente Usa ha più volte ribadito di aver ereditato una situazione già avviata dalle precedenti amministrazioni, e in parte è vero. La barriera che divide Messico e Usa è stata decisa, iniziata e ampliata da Bush, padre e figlio, Clinton e Obama, ancora prima che Trump decidesse di scendere in politica, e anche i centri di detenzione per immigrati illegali, compresi quelli destinati esclusivamente a bambini, sono eredità delle passate amministrazioni.
A differenza dei precedenti inquilini della Casa Bianca però Trump ha eliminato la discrezionalità che l’amministrazione Obama aveva concesso al Dipartimento di giustizia nel trattamento degli immigrati entrati illegalmente nel paese. Questo, e non la detenzione dei minori, è il punto di maggiore diversità specialmente con l’amministrazione Obama. La tolleranza zero più volte invocata da Trump e dal suo consigliere sull’immigrazione, Stephen Miller, ha portato a una situazione al limite del rispetto dei diritti umani, come più volte hanno giustamente fatto presente numerose organizzazioni che operano sul campo: chi viene catturato mentre attraversa illegalmente il confine è spedito immediatamente in prigione mentre i minori che lo accompagnano sono inviati nei centri di detenzione.
Oggi sono 1.700 i minori separati dalle loro famiglie che vivono nei centri appositi, mentre durante la passata amministrazione Obama le separazioni erano occasionali e limitate a un periodo di soli 20 giorni.
Le condizioni all’interno dei campi sono spesso disastrose: secondo il direttore dell’ufficio per l’applicazione delle leggi sulle dogane e immigrazione, Mark Morgan, i centri di detenzione per minori sono «assolutamente inadeguati» e sono in molti a paragonarli ai campi di concentramento per giapponesi durante la Seconda guerra mondiale.
In aggiunta alla politica della tolleranza zero, Trump (sempre imbeccato da Miller) ha chiesto la revisione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione, che dal 1868 garantisce la cittadinanza statunitense a chiunque nasca sul territorio. Negli Usa si chiama «birthright citizenship», in Italia è noto come «ius soli». Trump ha chiesto la revoca del Quattordicesimo emendamento per i nati da immigrati illegali. Dato che il cambiamento di un articolo della Costituzione americana richiede il consenso dei due terzi del Congresso, Trump avrebbe insinuato l’ipotesi di emanare un «ordine esecutivo presidenziale» che avrebbe valore di legge. Non sarebbe la prima volta che un presidente Usa si avvarrebbe di questo potere: tutti i presidenti americani se ne sono valsi centinaia di volte durante i loro mandati (ad esempio, la famosa emancipazione degli schiavi voluta nel 1863 Abraham Lincoln fu proclamata con un ordine esecutivo, così come la partecipazione Usa nella guerra del Kosovo voluta da Bill Clinton nel 1999).

P.P.

Photo by Seth HERALD / AFP


Trump e la violenza: Più armi per tutti

Le stragi con armi da fuoco sono una triste consuetudine. Eppure, il presidente – legato alle lobbies dei produttori – continua a non voler limitare la libertà di detenerle, diritto sancito dal Secondo emendamento della Costituzione statunitense.

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Questo è il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Introdotto nel 1791 per permettere alle milizie cittadine di difendersi contro le razzie e i raid degli eserciti inglesi e spagnoli, si è nel tempo trasformato in una dichiarazione liberista attorno alla quale si evolve il dibattito sulle libertà civili del singolo individuo statunitense. Ed è proprio sul significato e sull’applicazione di questo Secondo emendamento che si sta consumando una delle battaglie politiche ed economiche più virulente della società americana. L’organizzazione più potente che si batte affinché al cittadino statunitense venga permesso di detenere e usare armi a scopo di difesa personale è la National Rifle Association (Nra). Fondata nel 1871, conta oggi 5 milioni e mezzo di aderenti e proventi per 412 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori vi sono stati presidenti americani (tra cui anche John Fitzgerald Kennedy) e attori famosi come Charlton Heston, Chuck Norris, Tom Selleck.
Sul sito ufficiale, organizzazioni, giornalisti, politici, presidenti che hanno manifestato la volontà di eliminare il Secondo emendamento sono duramente criticati, mentre non viene celato l’appoggio verso l’attuale presidente Usa, Donald Trump che, in più occasioni, ha difeso il diritto degli statunitensi di essere armati elogiando la stessa Nra.

Tra i maggiori critici della Nra non vi è solo chi si batte contro la proliferazione di armi negli Stati Uniti, ma anche associazioni come la Gun Owners of America, un’altra potente organizzazione che conta due milioni di affiliati, anch’essa apertamente a favore della politica di Trump. A differenza della Nra, pesantemente compromessa con lobbies finanziarie, economiche e politiche, la Goa afferma orgogliosamente la sua indipendenza da ogni pressione. Il suo modesto budget ufficiale (appena due milioni di dollari) proverrebbe esclusivamente dalle sottoscrizioni dei suoi membri e questo avrebbe permesso all’associazione, fondata nel 1975 dal senatore repubblicano Bill Richardson, di battersi con più impegno e forza per il mantenimento più ampio del Secondo emendamento senza quelle restrizioni appoggiate anche dalla Nra. La Goa, ad esempio, vorrebbe l’eliminazione delle free-gun zones, delle barriere legali per la detenzione delle armi, l’applicazione del Secondo emendamento in tutti i 50 stati della federazione.

Nel frattempo, mentre questo articolo va in stampa, negli Stati Uniti le stragi con armi da fuoco proseguono senza soluzione di continuità.

P. P.

© Eric Purcell




L’epopea dei migranti centro americani all’epoca di Trump

Sommario


Testo e foto di di Simona Carnino


Reportage da una carovana migrante

Umanità in movimento

Honduras, El Salvador, Guatemala, Nicaragua. Da questi paesi partono, senza sosta, donne, uomini, famiglie intere, con l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti. Gente normale, in cerca di un futuro migliore, un sogno che sembra a portata di mano. Ma il viaggio è duro e pieno d’insidie. Così capita che si uniscano in decine, centinaia, diventando delle vere carovane migranti. Siamo andati in mezzo a loro.

Juan Rodríguez Clara, stato di Veracruz, Messico. Esmeralda si toglie le scarpe e le allinea vicino al materassino da campo, poi si siede sul suo sacco a pelo. Si prepara a trascorrere la notte in uno dei punti tappa che alcuni volontari messicani hanno organizzato lungo il cammino per chi, come lei, viaggia insieme a una delle carovane di migranti che dal Centro America si dirigono verso gli Stati Uniti.

Esmeralda ha trovato un angolo di pace tra una colonna e il muro di uno dei magazzini che a Juan Rodríguez Clara, un piccolo centro abitato nello stato di Veracruz in Messico, in genere sono adibiti alla fiera annuale dei bovini di allevamento. È una tappa di passaggio, ma è un luogo coperto in cui è possibile dormire e farsi una doccia. Divide il suo letto da campo con il marito Carlos, le sue due figlie gemelle Cecilia e Maria di 18 anni e il suo figlio maggiore Erin di 20 anni.

Le scarpe sono il bene più importante di Esmeralda. Nel suo piccolo zaino c’è spazio per due cambi di biancheria intima, due paia di pantaloni, due t-shirt e una felpa imbottita. Esmeralda sa che è meglio avere un indumento caldo, perché nelle zone desertiche del Messico, se di giorno il termometro può toccare i 35 gradi, la notte le temperature si irrigidiscono all’improvviso.

La mattina si sveglia prima che il sole sorga e prepara la sua borsa, arrotola il materassino e lo avvolge insieme al sacco a pelo in un unico fagotto che lega intorno alla testa. «In questo modo ho le mani libere per portarmi dietro una bottiglia d’acqua», dice ridendo.

Esmeralda è partita il 31 ottobre 2018 da San Salvador alla volta degli Stati Uniti, insieme a 2mila connazionali, uno dei molti gruppi di migranti che, in quel periodo, si sono organizzati in carovane per attraversare il Messico e raggiungere la frontiera Nord. Esmeralda non ha una destinazione chiara in mente. Sa solo che in Salvador non vuole tornare.

Carovane: organizzazione spontanea

«Un giorno, mentre navigavo su Facebook, ho visto che alcuni miei connazionali si davano appuntamento in piazza Salvador del Mundo, al centro di San Salvador, per partire insieme verso gli Stati Uniti – racconta Esmeralda -. Io e mio marito abbiamo spesso pensato di lasciare il nostro paese, ma non si era mai presentata un’occasione favorevole. Appena saputo della carovana, abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti con i nostri figli».

La carovana che si è messa in marcia il 31 ottobre, è stata la quarta di un ciclo di migrazioni massive che si sono verificate tra ottobre e novembre del 2018 da Honduras, Salvador e Guatemala, i tre paesi dell’area denominata Triangulo norte centroamericano, la regione di origine della maggior parte del flusso migratorio latinoamericano diretto verso gli Stati Uniti.

La prima carovana è partita il 18 ottobre da San Pedro Sula in Honduras e a ruota sono seguiti tre gruppi partiti dal Guatemala e dal Salvador. Diecimila persone hanno deciso di autogestire il proprio viaggio, invece di affidarlo alle reti del traffico di persone dei coyotes (come vengono chiamati i trafficanti, ndr), che si occupano tradizionalmente del trasbordo di persone dal Sud verso il Nord America. «Sembra un numero enorme, ma se consideriamo che in Messico transitano più di 400mila persone all’anno, si tratta di un flusso equivalente a circa 10 giorni – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. La novità è che i migranti della carovana hanno deciso di essere visibili e viaggiare in forma più sicura ed economica, rifiutandosi di pagare un alto prezzo a un trafficante per poter arrivare negli Stati Uniti».

Migrare in gruppo è diventato uno nuovo modo di viaggiare per molte persone centroamericane, che si sentono più protette dalla minaccia di estorsioni e sequestri da parte dei narcotrafficanti e a volte degli stessi coyotes, che hanno trovato nella migrazione di migliaia di centroamericani una fonte di guadagno.

Le carovane sono un porto sicuro in particolare per famiglie, donne e bambini che sono più esposti a violazioni dei diritti umani sulla tratta migratoria messicana. Più del 50% delle persone che migrano in gruppo sono famiglie spesso con minori di età inferiore ai 5 anni. Dal 2018 la migrazione dal Centro America, storicamente rappresentata da uomini soli, ha il volto delle famiglie, come dimostrato dai dati delle detenzioni sulla frontiera con gli Stati Uniti. Nei primi sei mesi dell’anno fiscale 2019 (ottobre 2018 – marzo 2019) le pattuglie di frontiera statunitensi hanno detenuto 189.584 famiglie. Il più alto dato di sempre.

La frontiera

«Viaggiare in carovana è più sicuro che migrare con i coyotes – continua Esmeralda -. Ma è ugualmente molto duro e faticoso. A volte camminiamo dalle 10 alle 12 ore sotto il sole, altre volte facciamo l’autostop. Il momento più difficile è stato superare la frontiera tra Guatemala e Messico. Non potevamo passare sul ponte perché non avevamo il visto e allora abbiamo attraversato la frontiera nel fiume. La polizia ha cercato di fermarci, ma eravamo tantissimi e non c’è riuscita».

In America Latina, i migranti che non possono dimostrare i requisiti economici necessari per ottenere un regolare visto di entrata in Messico e Stati Uniti e che quindi devono muoversi di nascosto sulla rotta terrestre, usano l’espressione «irse de mojado» che letteralmente significa «viaggiare da bagnati», perché sanno che dovranno attraversare a nuoto dei fiumi per superare le frontiere. Il confine tra Stati Uniti e Messico è rappresentato, per una lunghezza di 3.034 km, dal Rio Bravo, mentre tra Guatemala e Messico è il fiume Suchiate a segnare una parte di frontiera per 161 km.

«A volte credo che una parte di me sia rimasta nel fiume Suchiate – racconta Cecilia, la figlia di Esmeralda -. Le gambe affondavano nel fango e non avevo energia né per andare avanti né per tornare indietro. Alcuni pescatori ci hanno aiutate, ma quell’esperienza mi ha segnata per sempre».

Sequestri e desaparicion

Camminare non è l’unico modo in cui si muove la carovana. Molti migranti hanno, infatti, provato a fare l’autostop e chi ha qualche soldo ha comprato un biglietto del bus. Numerosi camionisti si sono resi disponibili a dare un passaggio a gruppi di migranti, aiutandoli a compiere alcuni tratti di strada. A fine ottobre 2018, sebbene la migrazione in gruppo renda meno vulnerabili i migranti di fronte a violenze ed estorsioni, un camionista ha rapito 50 persone, e il furgone, con il suo carico di esseri umani, è scomparso nel nulla nella regione di Veracruz, a ovest del Messico. «Il sequestro di migranti è un affare multimilionario per i cartelli del narcotraffico che gestiscono il traffico di merci, di droga e, oggi, anche le rotte migratorie – spiega il difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde (si veda MC ottobre 2017) incontrato in mezzo alla carovana -. Le persone che non hanno accesso a un visto sono invisibili e obbligate ad attraversare il Messico in punti isolati, purtroppo spesso controllati da narcos e briganti, per non essere catturate dalla polizia dell’Istituto nazionale di migrazione messicano che le può deportare nel paese di origine. Ogni 6 mesi si verificano 10mila sequestri di migranti, con un’entrata economica per il narcotraffico di 25 milioni di dollari al semestre».

Il sequestro dei migranti è una pratica realizzata negli ultimi anni in particolare dal gruppo di narcotraffico denominato Los Zetas e dal cartello del Golfo. Nonostante le condizioni economiche precarie dei migranti che viaggiano sulle rotte della clandestinità, in genere i narcotrafficanti richiedono un riscatto di 10mila dollari a persona che le famiglie nel paese di origine provano a pagare contraendo debiti con conoscenti, parenti e con le banche che spesso si appropriano delle loro case e terreni in caso di mancata restituzione del prestito. Chi non riesce a pagare il riscatto rischia di non vedere mai più il proprio caro che spesso viene ucciso.

Esmeralda e la sua famiglia sono consapevoli dei rischi del percorso migratorio, ma non vogliono tornare indietro. «San Salvador è una città pericolosa – ricorda Esmeralda -, ogni giorno c’è un omicidio. Tutti noi salvadoregni abbiamo un parente che è stato ucciso dalle bande criminali e non voglio che questo accada ai miei figli».

La vita in Salvador: las pandillas

Eriberto ha 22 anni e annuisce con la testa. Sta sistemando il suo piccolo bagaglio e intanto ascolta in silenzio le parole di Esmeralda. Il suo bene più importante è un inalatore. Eriberto ha l’asma e prima di partire si è comprato tre spray predosati, convinto che sarebbero stati una scorta sufficiente per il viaggio. È timido e rimane un po’ in disparte. Il suo sguardo è basso e il suo dolore è stretto tra le labbra che mordicchia nervosamente. «Avevo un autolavaggio a San Salvador – inizia a raccontare il ragazzo -. Poi le bande criminali mi hanno chiesto il pizzo. Non ho pagato. Ho chiuso il negozio per un po’ e quando l’ho riaperto due persone sono entrate e hanno ucciso un mio cliente. Poi non gli è bastato e hanno ammazzato anche mio fratello».

Secondo il Consiglio nazionale della piccola impresa del Salvador, il 92% del settore imprenditoriale è vittima di estorsione da parte di due bande criminali, las pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 (si veda dossier su MC aprile 2016). Le due fazioni sono antagoniste e alimentano una guerra intestina giocata sulla pelle dei cittadini che spesso si trovano coinvolti in sparatorie tra le vie della città. Il Salvador chiude il 2018 con un tasso di 51 omicidi ogni 100mila abitanti, un numero sicuramente inferiore alle quasi 83 morti violente ogni 100mila persone del 2016, ma si tratta comunque di una cifra superiore ai 10 omicidi ogni 100mila che, secondo i parametri dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è il limite sopra il quale la violenza è considerata endemica. Il Salvador è uno dei paesi, dove non è presente un conflitto armato, più pericolosi del mondo insieme a Honduras e Guatemala. Molte ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni sono obbligati ad affiliarsi a una delle due bande criminali. Rifiutarsi equivale a dichiarare guerra al clan e la punizione è la morte.

Le due pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 sono nate negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. I loro membri storici erano migrati in America del Nord negli anni precedenti e durante la guerra civile degli anni Ottanta. Con l’inasprimento delle politiche migratorie statunitensi degli anni Novanta, molti criminali sono stati deportati in Centro America, con un aumento di violenza nei paesi di origine.

La carovana e i diritti Lgbti

Tra i gruppi più vulnerabili alle violenze delle pandillas rientrano le persone appartenenti alla comunità Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, ndr). Eriberto non nasconde il suo orientamento sessuale e racconta le violenze subite per il fatto di essere stato un membro attivo della comunità lgbti nella capitale salvadoregna. Negli ultimi tre anni sono state assassinate 145 persone della comunità gay, secondo i dati dell’ufficio della Diversità sessuale del governo del Salvador. Numeri simili sono registrati anche in Honduras e Guatemala, dove la diversità sessuale deve fare i conti con la discriminazione e l’intolleranza che affonda le sue radici in schemi tradizionali e patriarcali. «Sono circa 700 le persone omosessuali partite con le carovane negli ultimi due mesi – continua Eriberto -. Tutti noi vorremmo chiedere asilo politico negli Stati Uniti o in Canada».

Da quando il presidente Donald Trump ha dichiarato di voler attuare una politica di tolleranza zero contro l’immigrazione illegale, alcuni migranti hanno deciso di provare ad attraversare clandestinamente gli Stati Uniti per raggiungere il Canada. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2017 il Canada ha registrato 47.800 richieste di asilo politico, il doppio rispetto all’anno precedente. Nel 2019, il governo degli Stati Uniti ha affermato che verranno accolti non più di 30mila rifugiati politici, a fronte di un tetto di 45mila per l’anno 2018. Coloro che non ricevono un permesso per rimanere negli Usa sono deportati nel paese di origine.

Nonostante la politica di tolleranza zero di Trump sembri bloccare le strade all’arrivo di nuovi migranti, il flusso centroamericano è in continuo aumento. Per molte persone ha più peso la volontà di fuggire dai propri paesi che il timore di essere rifiutati nello stato di destinazione. E quindi se anche molti sanno che forse non riusciranno a ottenere un permesso, sperano di superare il confine di notte, senza essere intercettati dalle pattuglie di frontiera statunitensi, per poi sparire da qualche parte negli Stati Uniti dove si augurano di non incrociare mai un agente che chieda loro i documenti.

La deportazione dei migranti, attività svolta anche dall’amministrazione Obama e dai presidenti precedenti, avviene non solo in frontiera, ma anche dall’interno del paese. Può succedere che una persona viva anni negli Stati Uniti senza una regolare documentazione e, in seguito a un illecito, anche minore, come per esempio un eccesso di velocità, sia identificato e deportato nel paese d’origine.

Secondo l’ultima statistica del Pew Research Center del 2016, 10,7 milioni di persone considerate irregolari vivono, lavorano e hanno costruito la propria vita negli Stati Uniti. Circa 4 milioni di bambini americani sono nati da genitori senza documenti, i quali non possono richiedere una regolarizzazione del proprio status migratorio per motivi di famiglia. Lo sa bene Teresa. Una donna salvadoregna di 29 anni che viaggia nella carovana da sola. Il suo bene più importante è una foto delle sue tre figlie che vivono negli Usa.

 

I figli statunitensi

Teresa è partita per gli Stati Uniti nel 2006. È riuscita a superare la frontiera senza essere intercettata dalla polizia ed è arrivata in Virginia. Ha lavorato come cameriera in un fast food fino al 2017. Teresa non è mai riuscita a ottenere un visto lavorativo, né la green card (permesso di lavoro, ndr). Durante gli 11 anni di vita negli Stati Uniti ha avuto tre figlie che sono americane, perché negli Stati Uniti vige lo Ius soli, il diritto alla cittadinanza di un paese per nascita sul suo territorio. Il 14esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1868, infatti recita che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla sua giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono». Il presidente Donald Trump ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di battersi per l’abolizione dello Ius soli che interpreta come un incentivo alla immigrazione illegale, ma secondo un sondaggio condotto dal Wall Street Journal, il 65% degli statunitensi si è detto in disaccordo con lui.

«Sono felice che le mie bambine siano americane – racconta Teresa con la tenerezza che emerge dal sorriso -. Possono viaggiare in tutto il mondo e non devono vivere una vita come la mia». Nel 2017 Teresa è dovuta ritornare in Salvador per un’emergenza famigliare. Ha messo le sue figlie su un aereo e lei è tornata via terra, perché i controlli aeroportuali avrebbero svelato la sua mancanza di documenti. «Mi mancavano molto il Salvador e i miei affetti – racconta Teresa -. Ho colto l’occasione per capire se fosse possibile ritornare a vivere lì con le mie figlie. Siamo rimaste tre mesi, poi un giorno ho assistito a un omicidio per la strada e ho testimoniato in tribunale. Da lì ho capito che non sarei stata più sicura e ho rimandato le mie figlie negli Stati Uniti. Ora viaggio nella carovana perché voglio assolutamente tornare da loro che sono in Virginia con il loro padre».

Esmeralda, Eriberto e Teresa e tutti i migranti che non solo viaggiano in carovana, ma che ogni giorno migrano sulle rotte messicane con un coyote, sono uniti dallo stesso obiettivo. La volontà di cambiare, di migliorarsi, di vivere la vita che non hanno potuto costruire in un paese piegato dalla violenza, dalla precarietà e dall’abbandono da parte delle istituzioni. E non c’è un muro reale o virtuale che li può fermare. La violenza della polizia, il rischio di essere sequestrati dai narcos o la retorica anti migrante del governo degli Stati Uniti non sono motivi sufficienti a far cambiare i piani a chi ha deciso di lasciare la sua terra di origine.

E allora si torna a camminare. Teresa mette le foto delle sue tre bambine in un piccolo marsupio che appende al collo. La strada è ancora lunga. L’obiettivo è Tijuana e poi da lì si separeranno. Nei pressi della frontiera statunitense, le carovane si disgregano perché, quando è ora di attraversare la frontiera, tutti sanno che dovranno farlo in maniera nascosta e allora per sé. Eriberto ed Esmeralda sono convinti di voler chiedere asilo, ma Teresa sa già che è molto difficile ottenerlo. Lei pagherà qualcuno che la aiuti a fare l’ultimo pezzo di viaggio e la porti in Virginia. Perché deve arrivare a tutti i costi. «O sì o sì», come si dice in America Latina quando si è determinati a ottenere qualcosa. Non c’è spazio per l’opzione inversa. Teresa crede così.

Tijuana e oblio

Da novembre 2018 a oggi, Tijuana, città di frontiera, è diventata il punto nel quale i migranti della carovana aspettano prima di chiedere asilo negli Stati Uniti. Tijuana è un’area geografica controllata dal narcotraffico per la sua posizione strategica per il traffico di droga verso gli Stati Uniti.

Da gennaio 2019, l’amministrazione Trump ha proposto una nuova misura di contenimento della migrazione, denominata «Protocolli di protezione ai migranti». Stabilisce che i richiedenti asilo devono aspettare la conclusione del procedimento legale in territorio messicano. Nell’attesa, alcuni migranti hanno richiesto un visto umanitario in Messico e molti lo hanno ottenuto. Dal 1 dicembre 2018 il presidente messicano è Andrés Manuel López Obrador, che ha favorito la consegna di circa 10mila visti umanitari a migranti centroamericani che desiderano rimanere in Messico. Il governo di Obrador apparentemente dimostra una discontinuità rispetto all’amministrazione di Enrique Peña Nieto, tuttavia al momento non è stato smantellato l’Istituto nazionale di migrazione messicano che continua a esistere con 50 stazioni migratorie disposte sull’intero territorio nazionale, dove i migranti rischiano di essere incarcerati, prima di essere deportati. Fino a oggi, infatti, il Messico ha seguito le stesse direttive migratorie degli Stati Uniti e rappresenta il primo posto di blocco per i migranti senza documenti diretti in America del Nord. Viene chiamata frontiera verticale, perché tutto il territorio messicano è disseminato di centri di controllo migratorio.

A Tijuana si sono perse le tracce di molti migranti delle carovane. Qualcuno sarà arrivato a destinazione, riuscendo a evitare i controlli frontalieri. Qualcuno forse avrà deciso di rimanere in Messico e di provare a chiedere asilo in quel paese. Qualcuno sarà stato deportato nel suo stato d’origine dalle autorità statunitensi. Altri ancora vivono a Tijuana, in attesa di una risposta alla loro richiesta d’asilo.


La storia di Wilson, Francisco, Sabina

Nell’aprile del 2018, il governo degli Stati Uniti dichiarò di voler applicare una politica di tolleranza zero e perseguire penalmente tutti i migranti entrati senza documenti in territorio statunitense.

Le separazioni delle famiglie, catturate mentre provavano a superare la frontiera, sono state una delle conseguenze più dure dell’applicazione della politica di contenimento della migrazione considerata illegale. La pratica prevedeva che i genitori, in quanto maggiorenni, fossero trasferiti in carcere in attesa del processo. I bambini, invece, erano inviati in centri appositi per minori.

«Quando mi hanno strappato dalle braccia mio figlio Wilson di 7 anni, gli agenti della polizia di frontiera non mi hanno neppure detto dove lo avrebbero portato – ricorda Francisco Raymundo Bernal, giovane papà guatemalteco -. Wilson piangeva e anche io, ma in pochi minuti è scomparso dalla mia vista e io non sapevo cosa fare. La polizia mi diceva di stare zitto, perché mio figlio sarebbe stato bene, mentre io sarei andato in prigione». La storia di Francisco e Wilson è simile a quelle di altre famiglie centroamericane, che a partire da aprile 2018 hanno vissuto sulla propria pelle una delle conseguenze più dolorose della politica di tolleranza zero.

«Da aprile a settembre 2018, 6mila unità famigliari sono state separate in frontiera – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International Las Americas -. Si tratta di tortura vera e propria che ha generato dei traumi insostenibili per i genitori e per i minori. E se per separare le famiglie è bastata una manciata di minuti, per poterle riunificare, invece, sono serviti mesi».

Il 20 giugno 2018, il presidente Donald Trump, sotto la pressione della comunità internazionale e di alcuni democratici del Congresso Usa, ha revocato la pratica di separazione delle famiglie con un ordine esecutivo, tuttavia, la procedura ha continuato a esistere fino a marzo 2019. La riunificazione delle famiglie è stata un procedimento complicato, perché il numero delle persone coinvolte era molto alto e la separazione è avvenuta in maniera frettolosa, aspetto che ha reso molto difficile dimostrare, successivamente, le parentele.

«Ho potuto parlare con mio figlio dopo tre settimane che ci avevano separato – spiega Francisco, il padre di Wilson -. Ero in carcere e mi stavano processando per poi deportarmi. Io volevo che mi rimandassero in Guatemala con mio figlio, ma non è stato così. Lui è ritornato a casa molto dopo di me».

Per poter riunificare le famiglie, le autorità migratorie statunitensi richiedono ai famigliari tutti i documenti anagrafici necessari per dimostrare la paternità. La madre di Wilson, che si trovava in Guatemala, ha dovuto cercare documenti non facili da reperire nel villaggio di cui sono originari. Le pratiche anagrafiche hanno un alto costo, aspetto che ha reso ancora più complicata e lunga la riunificazione.

«Ho fatto di tutto per riavere mio figlio tra le mie braccia – spiega Sabina Brito, la mamma di Wilson -. Ho mandato negli Stati Uniti diversi documenti, ma ci sono voluti 5 mesi prima di poter rivedere Wilson che è rimasto da solo per tutto quel tempo».

Wilson ha vissuto da settembre 2017 a fine gennaio 2018 in un centro per minori in Michigan. I genitori di Wilson, che avevano pensato di migrare in due gruppi, prima il papà con il bambino e, in una seconda fase, la mamma con la secondogenita, hanno saputo del luogo in cui è stato tenuto in custodia Wilson quasi un mese dopo la separazione.

Oggi Wilson vive in Guatemala con i suoi genitori, che stanno provando a ricrearsi una vita nel loro villaggio. «La ferita di questa vicenda non si può rimarginare – spiega Francisco -. Ora stiamo provando a sopravvivere qui, ma il lavoro è poco e malpagato. Non torneremo negli Stati Uniti, ma spesso pensiamo di migrare in Europa o, chissà, in Canada, perché qui non riusciamo a guadagnare sufficientemente per far studiare i nostri figli».


Il potere del passaporto

Molti centroamericani fanno domanda di visto per gli Usa. Ma per i poveri, gli indigeni, i senza reddito, è praticamente impossibile ottenerlo. E i loro passaporti non sono sufficienti per transitare in Messico, Stati Uniti e Canada. Viaggio in Guatemala, tra i Maya Ixil, per raccontare storie di chi ha tentato di rincorrere il sogno.

Nebaj, provincia di Quiché, Guatemala. Era un giorno di primavera in Guatemala. L’aria era calda e il cielo terso, come quasi sempre nei giorni della Semana Santa che precedono Pasqua.

Erano settimane che Petrona stava aspettando una risposta. Era emozionata e fiduciosa.

Qualche tempo prima, aveva fatto richiesta di un visto per viaggiare regolarmente verso gli Stati Uniti. In quell’occasione, era stata intervistata sulle sue motivazioni da un impiegato dell’ambasciata statunitense. Alla fine dell’incontro, il funzionario le aveva fissato un nuovo appuntamento per ricevere l’esito della sua domanda.

Nei progetti di Petrona c’era una vita statunitense, di duro lavoro, ma anche di tante soddisfazioni. Immaginava una terra nuova, dove poter guadagnare sufficientemente da riuscire, un giorno, a ritornare in Guatemala, costruire una casa per la sua famiglia e aprire una piccola attività commerciale. In più, il suo fidanzato, originario come lei della regione maya ixil nel Guatemala occidentale, era negli Stati Uniti da due anni e lei non vedeva l’ora di raggiungerlo.

Il giorno della risposta, Petrona si era svegliata alle 2 del mattino per essere sicura di salire sulla prima corriera e arrivare in tempo al suo appuntamento all’ambasciata degli Stati Uniti. «Ero piena di speranza – racconta Petrona -. Ma quando l’impiegato mi ha chiamato, mi ha semplicemente consegnato dei fogli e mi ha detto che mi era stato negato il visto. Non mi ha spiegato nient’altro. Io non capivo perché e dalla disperazione ho rotto i fogli e mi sono messa a piangere. A quel punto ho capito che avrei dovuto trovare un altro modo per andare negli Stati Uniti».

Secondo i dati del 2017 dell’Organizzazione mondiale per le Migrazioni (Oim), solo un 21,3% dei guatemaltechi che vive negli Stati Uniti ha viaggiato verso il paese in aereo, con un regolare visto. Tutti gli altri hanno attraversato le frontiere terrestri per entrare in Messico e, in seguito, negli Stati Uniti.

Passaporti e visti: asimmetrie

Senza visto, a poco vale possedere un passaporto del Guatemala, Honduras, Salvador o Nicaragua, se l’intenzione è viaggiare verso gli Stati Uniti. Le persone centroamericane che intendono muoversi legalmente verso il Nord devono richiedere un visto direttamente alle ambasciate dei paesi di destinazione, che decidono chi ha accesso ai propri paesi sulla base di alcuni requisiti. Per transitare in Messico si può richiedere un permesso direttamente all’ambasciata del paese oppure mostrare alla frontiera un visto statunitense, che è accettato anche in territorio messicano.

«Per ottenere un visto regolare per transitare in Messico e Stati Uniti bisogna dimostrare alcuni requisiti economici, tra cui avere un lavoro formale con uno stipendio regolare e possedere alcune proprietà come casa, terreni e automobile – ci spiega Ursula Roldàn Andrade, coordinatrice dell’area migrazioni dell’Istituto di ricerca sociale dell’Università Rafael Landívar di Città del Guatemala -. Per un migrante economico è praticamente impossibile avere o provare tali requisiti e, di conseguenza, ottenere un visto. Se non lo ottiene, è facile che ricerchi modi alternativi per raggiungere gli Stati Uniti, come affidarsi alle reti di trafficanti, ma in questo caso il viaggio è molto caro e rischioso».

Nel mondo contemporaneo, non tutti i passaporti danno ai loro possessori lo stesso potere di circolazione. Nel 2019, ad esempio, con un passaporto degli Stati Uniti è possibile viaggiare liberamente, senza bisogno di visto in 165 paesi, inclusi il Messico e tutti gli stati dell’America Centrale. Al contrario, il movimento dal Sud al Nord è controllato dall’obbligo di visto.

Anche i passaporti europei hanno un elevato potere di circolazione visa free. Secondo i dati del Passport Index 2019, la classifica annuale dei passaporti secondo il loro potere di circolazione senza richiesta di visto, con un passaporto italiano è possibile viaggiare in 166 paesi, così come con quello portoghese, irlandese, olandese o svedese. Con un passaporto siriano, invece, ci si muove liberamente in 37 paesi e con uno afghano in 30. Molti passaporti dei paesi dell’Africa del Nord e centrale forniscono ai loro possessori una possibilità di viaggio molto limitata. Avere un passaporto dal basso potere di circolazione senza  visto non ha un effetto deterrente su chi si sente forzato a migrare, lo obbliga, anzi, ad affidarsi a reti illegali di trafficanti, esponendosi a conseguenze violente per la propria integrità fisica, psicologica e identitaria.

Con un passaporto europeo è possibile viaggiare facilmente anche negli Stati Uniti, usufruendo del Visa Waiver Program con una possibilità di permanenza di 90 giorni. In poche ore si può ottenere l’autorizzazione elettronica Esta a un costo di 14 dollari. Chi usufruisce del visto turistico non può lavorare nel paese, tuttavia ha una possibilità maggiore, seppur le procedure siano alquanto complicate, di modificare il proprio status migratorio in loco, magari ottenendo un visto lavorativo o di studio, rispetto a chi entra nel paese in forma irregolare.

Quanto costa il viaggio

In media il costo del viaggio dall’America Centrale agli Stati Uniti per chi possiede un visto oscilla tra i 500 e i 1.000 dollari, includendo il prezzo del biglietto aereo e delle pratiche burocratiche per la richiesta del documento. Chi si deve affidare alla rete del traffico di persone gestito dai coyotes paga tra i 12mila e i 15mila dollari per un trasbordo in parte realizzato in camion in parte a piedi. In genere, un viaggio dal Centro America dura tra i 15 giorni e un mese. Negli ultimi anni, i coyotes propongono un pacchetto chiamato «viaggio di tre tentativi sicuri» per un prezzo che si aggira intorno ai 15mila dollari. In questo caso, se il migrante viene catturato dalla polizia di frontiera messicana o statunitense, una volta deportato nel paese d’origine, ha ancora a disposizione due tentativi.

Anche Isabel vive a Nebaj e ha 25 anni. Non conosce Petrona, ma hanno una vita simile. Entrambe hanno tentato di andare negli Stati Uniti. Entrambe sono state forzate a scegliere di viaggiare affidandosi alle reti del traffico gestito dai coyotes. «Non c’era scelta – racconta Isabel -. Io non ho neppure il passaporto perché so che tanto poi non mi danno il visto, per cui non ha senso farselo. Ho speso circa 10mila dollari per il mio viaggio negli Stati Uniti con il coyote e ho dovuto chiedere un prestito a una banca». La maggior parte delle persone che migrano dall’America Centrale non ha la possibilità di pagare il viaggio, per cui richiede prestiti a banche e cooperative, fornendo come motivazione la necessità di ingrandire casa o comprare un terreno. Se viene ottenuto il prestito, la famiglia del migrante deposita sul conto bancario del coyote parte del costo del viaggio alla partenza e il resto all’arrivo.

In alcuni casi i coyotes si trasformano in usurai e permettono ai migranti di rateizzare il costo del viaggio e pagarlo mentre lavorano negli Stati Uniti, a fronte di interessi molto alti. Chi non paga rischia di rimanere indebitato tutta la vita e di perdere, in caso ne abbia, appezzamenti di terreni famigliari e piccole proprietà, aggravando le proprie condizioni economiche.

Perché migrare

«Qui in Guatemala, io ricamo, rammendo vestiti e cucio – racconta Isabel -. Guadagno circa 450 quetzales al mese (58 Usd). Con questi soldi riesco a comprare il cibo per me e mio figlio, ma niente più di questo».

Il Guatemala si situa al nono posto al mondo, e al terzo in America Latina, per disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Questo è evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando come tessitrici informali, in genere guadagnano 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350.

«Tre persone su dieci dell’area maya ixil provano a migrare negli Stati Uniti – spiega Francisco Marroquin dell’organizzazione di diritti umani Asaunixil di Nebaj -. Lo stato guatemalteco non si è impegnato a generare nuovi posti di lavoro. Qui non ci sono attività commerciali e le infrastrutture, come le scuole e gli ospedali, sono mal gestite».

Il Guatemala ha vissuto un conflitto armato interno tra il 1960 e il 1996 (vedi MC giugno 2019). L’esercito, appoggiato dagli Stati Uniti, si è scontrato per più di 30 anni contro la guerriglia e la resistenza dei civili. Tra il 1982 e il 1983, l’esercito ha programmato una fase genocida contro il popolo indigeno maya ixil e la quasi completa distruzione del territorio. «Con la firma degli accordi di Pace nel 1996, in teoria lo stato guatemalteco avrebbe dovuto ricostruire le nostre comunità – continua Francisco Marroquin -. Ma purtroppo non ha fatto nulla e la gente ha cominciato a disperarsi e a cercare una via di fuga da qualche altra parte, come lavorare nelle piantagioni o, soprattutto negli ultimi 10 anni, migrare verso gli Stati Uniti».

L’Oim ha confermato un aumento della migrazione femminile guatemalteca in fuga da una situazione economica precaria, e dichiara che il 55,2% della popolazione è spinta a migrare verso gli Stati Uniti per ricerca di lavoro e mancanza di opportunità nelle proprie comunità di origine.

Il cammino in Messico

«Il viaggio attraverso il Messico è stato triste e faticoso – continua Isabel -. I coyotes si approfittano delle donne che viaggiano da sole. A volte obbligano qualche ragazza ad appartarsi e cercano di mettere loro le mani addosso. Una donna in questa situazione cosa può fare? Quando si viaggia con i coyotes non puoi neppure gridare o chiedere aiuto, perché loro comandano e se vogliono ti abbandonano in mezzo al deserto o ti ammazzano».

Nel 2017 la Commissione economica per l’America Latina (organismo Onu, ndr) ha riportato che il 50,1% dei migranti provenienti dalla regione centroamericana sono donne e Amnesty International ha confermato che 6 donne su 10, obbligate ad affidarsi alle reti del traffico umano per raggiungere gli Stati Uniti, sono vittime di violenza sessuale da parte del crimine organizzato e, a volte, anche delle forze di polizia messicana. «L’Istituto nazionale di migrazione messicano ha commesso numerosi crimini contro la popolazione migrante – dichiara Carolina Jimenez, vicedirettrice ricerche di Amnesty International Las Americas -. In particolare, la polizia ha spesso estorto denaro ai migranti e ha collaborato con il crimine organizzato nella gestione del traffico e della tratta».

Il viaggio attraverso il Messico per i migranti senza documento è una sorta di corsa a ostacoli guidata da uno o più coyotes che, in certi punti del viaggio, dividono il gruppo di migranti in sottogruppi, per essere meno visibili alle forze di polizia messicana. Molto spesso le reti di coyotes fanno accordi con i cartelli del narcotraffico che gestiscono le rotte migratorie e pagano una sorta di tangente per transitare nei loro territori, come spesso accade nei dipartimenti di Veracruz e di Tamaulipas.

In alcuni casi vengono consegnati interi carichi di persone ai narcotrafficanti che li usano per richiedere il riscatto ai famigliari. Nel 2010 a San Fernando di Tamaulipas i narcos Los Zetas uccisero 72 persone i cui corpi furono poi impilati uno sull’altro ed esposti alle intemperie perché i famigliari non avevano la possibilità di pagare il riscatto.

«In Messico abbiamo camminato spesso di notte – racconta Petrona -. Dovevamo vestirci di nero in modo che non ci vedesse la polizia. Abbiamo attraversato fiumi, camminato tra le sterpi, ci hanno buttato uno sull’altro in camion bestiami. Poi un giorno, attraversando un fiume, una ragazza che viaggiava con me è caduta e la corrente l’ha trascinata a valle. Avevamo paura, ma andavamo avanti. Dovevamo arrivare negli Stati Uniti».

Ultimamente pochi migranti usano il treno per muoversi dal Sud del Messico fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Fino a qualche anno fa, il treno denominato La Bestia era il mezzo di trasporto più frequentato. I migranti si sedevano sul tetto del treno fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Oggi non è più utilizzato perché è diventato un mezzo troppo pericoloso. Per scoraggiare l’immigrazione sulle rotte messicane, il governo di Enrique Peña Nieto aveva deciso di aumentare la velocità del treno, rendendo più difficile reggersi. Inoltre, La Bestia era spesso assaltato da narcos e dagli agenti dell’Istituto nazionale di migrazione messicano.

«I narcos organizzavano i sequestri in maniera rapida ed efficiente – commenta il professore e scrittore Rodolfo Casillas della facoltà latinoamericana di scienze sociali (Flacso) -. Con la complicità dei coyotes, tutte le persone che avevano una famiglia in grado di pagare il riscatto e le ragazze giovani che viaggiavano da sole erano fatte sedere nello stesso vagone. Quando i narcos fermavano il treno, sequestravano solo le persone di quel vagone. L’operazione durava pochi minuti e poi il treno riprendeva il suo viaggio».

L’arrivo (non-arrivo) negli Stati Uniti

Superare indenni il Messico non è garanzia di successo del viaggio. «Pensavo di essere arrivata – racconta Petrona -. Dopo aver attraversato la frontiera, ero piena di gioia, ma improvvisamente ci sono venute incontro delle moto e dei quad e abbiamo capito che era la polizia degli Stati Uniti».

Entrare in territorio statunitense senza un regolare visto, è considerato un reato, punito con la detenzione e, in molti casi, la deportazione nel paese d’origine. Da quando il presidente Donald Trump ha iniziato il suo mandato, le misure di contenimento della migrazione considerata illegale si sono indurite. Secondo i dati dell’agenzia statunitense per le dogane e la sicurezza delle frontiere Customs and Border Protection (Cbp), tra ottobre 2018 e marzo 2019 si sono verificate 361.087 catture di migranti in frontiera, che corrispondono al dato più alto dal 2007.

Oltre ad aver predisposto la costruzione di un muro di cemento lungo la frontiera con il Messico, il presidente degli Stati Uniti ha eliminato la pratica del catch and release, «cattura e rilascio», spesso attuata dai governi precedenti. In quel caso, la persona entrata nel paese senza documenti era rilasciata, durante il procedimento legale per discutere il suo caso.

Con la politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump, tutti i migranti catturati sul confine sono detenuti fino al momento della deportazione o della liberazione, nel caso di ottenimento di permesso negli Stati Uniti. «È una forma di detenzione arbitraria – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International -. Non c’è nessun motivo per tenere in carcere i migranti durante il processo, ma è la forma che usa il governo di Donald Trump per scoraggiare le persone a migrare. L’obiettivo è che queste persone, una volta deportate, raccontino quanto hanno sofferto e i loro parenti o conoscenti intenzionati a partire, rinuncino a farlo».

Una volta catturate sulla frontiera, le persone sono trasferite in celle di detenzione, dove inizia il processo di identificazione gestito dalla Cpb. «Mi hanno chiuso in una cella freddissima – racconta Isabel -. L’aria condizionata era al massimo e io avevo solo una maglietta a maniche corte. Sono stata lì con la luce accesa di notte e di giorno, senza sapere che ora era, per 5 giorni. Ero disperata». Le celle in frontiera sono chiamate dai migranti hieleras, ghiacciaie, perché le temperature sono tenute basse con l’utilizzo di condizionatori. In genere, le celle in frontiera non sono attrezzate con letti, perché considerate luoghi di passaggio in cui le persone dovrebbero essere detenute per poche ore. «Numerosi migranti hanno dichiarato di essere stati detenuti per molti giorni nelle hieleras – spiega la professoressa Ursula Andrade -. Le temperature basse servono, ufficialmente, per evitare il rischio di contagio, ma si tratta di una pratica inumana e degradante molto simile alla tortura».

Durante il procedimento legale in cui le autorità verificano se i migranti possono essere considerati titolari di protezione internazionale, le persone vengono trasferite in strutture detentive all’interno del paese. «In carcere, ho indossato l’uniforme arancione – racconta Petrona -. Come se fossi una criminale, come se avessi ucciso qualcuno, come se avessi rubato qualcosa. A un certo punto l’avvocato che seguiva il mio caso mi ha detto che non avevo diritto a uscire dietro cauzione, ma potevo fare appello e chiedere che rivalutassero il mio caso. Erano già 5 mesi che ero in carcere e non me la sono sentita. Ho quindi firmato la mia stessa deportazione».

Durante l’amministrazione Obama era possibile essere rilasciati dietro cauzione durante il processo, ma molti migranti non potevano pagarne il costo, per cui firmavano deportazioni volontarie per evitare di rimanere ulteriormente in carcere. «In prigione stavo sempre a letto, non mangiavo, vivevo con detenute violente che avevano commesso dei crimini gravi e io mi sentivo morire – racconta Isabel -. Ho chiesto di rimandarmi in Guatemala. Non ce la facevo più a vivere così».

Per chi riesce a superare la frontiera senza essere catturato, inizia la vita negli Stati Uniti che, in parte, verrà vissuta nel timore della deportazione. Nell’anno fiscale 2018, l’Ice, Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia statunitense che si occupa del controllo di dogana e dell’immigrazione anche all’interno del paese, ha ordinato 287.741 deportazioni di persone senza documenti che vivevano nel paese. Si tratta del più alto numero di deportazioni dal 1992. Tra di loro c’erano persone che vivevano e lavoravano negli Stati Uniti da anni.

Secondo i dati Oim del 2017, il 37% dei migranti guatemaltechi non riesce ad arrivare negli Stati Uniti e viene deportato nel paese di origine. Oltre al peggioramento delle proprie condizioni economiche a causa del pagamento dei debiti di viaggio, la detenzione e la deportazione lasciano traumi individuali difficili da sanare e che spesso coinvolgono la dimensione collettiva, perché per molti la migrazione è un progetto di famiglia, più che personale.

Dopo la deportazione, Petrona e Isabel non hanno pensato di provare nuovamente a migrare negli Stati Uniti a differenza di molte altre persone che continuano a cercare una via di fuga dal loro paese di origine. Nonostante le violenze subite lungo il cammino e sulle frontiere, c’è chi vive più esperienze migratorie nel corso della propria vita, perché l’obiettivo rimane «arrivare dall’altra parte», come si dice in America Latina, anche se il prezzo è alto.

«Gli stati di origine, destinazione e transito della migrazione devono provare a collaborare per creare delle politiche a favore delle persone più vulnerabili economicamente in modo che non siano obbligate a migrare – conclude Carolina Jimenez di Amnesty International -. E in caso una persona volesse migrare, dovrebbero garantire che possa viaggiare in forma sicura, fornendole dei documenti regolari, invece di anteporre, come avviene ora, la protezione delle frontiere e della nazione ai diritti umani delle persone».


I nuovi desaparecidos

Maria Ceto Sanchez ha solo una fotografia di sua figlia. L’ha fatta plastificare in modo che non si rovini nel tempo. Ogni tanto la prende in mano e la lucida, quasi ad accarezzarla. Altre volte la ripone nell’unico mobile che ha in casa e la copre con un pezzo di stoffa. In quei momenti, Maria non ha la forza di guardare negli occhi sua figlia Angelina.

«Quando è partita per gli Stati Uniti, Angelina aveva 16 anni e 2 mesi. Nel nostro villaggio girava la voce che i minorenni riuscissero ad avere un permesso per vivere negli Stati Uniti – racconta Maria Ceto -. E allora mi ha detto che voleva partire. Io non ero d’accordo, perché è la più piccola delle mie figlie e sapevo che mi sarebbe mancata tantissimo, ma alla fine ho ceduto e le ho dato il permesso».

Angelina aveva il sogno di costruire una casa per sé e sua madre, perché l’abitazione dove era nata era di lamiera, ma a lei sarebbero piaciute le pareti di cemento. Aveva pensato a tutto. Sarebbe arrivata in Virginia, dove viveva una sua cugina, e avrebbe lavorato una decina di anni come cameriera in qualche ristorante.

«Dopo quel periodo voleva tornare – continua Maria -. Mi aveva detto che avrebbe avuto i soldi sufficienti per pagarsi la retta di una buona scuola a Città del Guatemala e saremmo state sempre insieme».

Angelina è partita per il suo viaggio, insieme a un coyote, il 24 maggio del 2014. Pochi giorni dopo ha telefonato a sua madre Maria per dirle che stava bene ed era in procinto di entrare nel deserto di Altar Sonora da dove avrebbe attraversato la frontiera.

«Quella è stata l’ultima volta che le ho parlato – continua Maria -. Mi diceva di pregare per lei, di credere che ce l’avrebbe fatta e io pregavo e pregavo, ma poi è sparita. Deve essere successo qualcosa nel deserto, ma non so cosa. Dopo qualche giorno che non ricevevo sue notizie, ho chiamato il coyote, ma aveva staccato il telefono. Nessuno mi ha mai detto come sono andate le cose. Ho cominciato a disperarmi».

Il limbo dei migranti desaparecidos è il luogo dove si trovano tutte le persone che hanno intrapreso un percorso migratorio sulle rotte messicane e improvvisamente sono sparite. Si suppone che alcune di loro siano morte durante il cammino a causa della fatica del viaggio e degli agenti atmosferici, altre siano state rapite a fini di tratta, altre siano state investite mentre camminavano di notte sul ciglio della strada, o uccise dai narcos per mancato pagamento del riscatto. Di loro non si sa nulla. «In Messico si stimano tra i 70mila e 120mila migranti desaparecidos – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. Ma sono invisibili. Anche se dovessero essere ritrovati i loro corpi, non è possibile l’identificazione, perché quasi nessuno di loro viaggia con un documento di identità per paura di essere riconosciuti durante un controllo migratorio in Messico o alla frontiera degli Stati Uniti».

Sebbene sia raro incontrare viva una persona desaparecida, Maria non perde le speranze e vive il suo tempo nell’attesa. «Quando guardo la sua foto, io sento che Angelina è viva – sussurra Maria -. Altre volte piango perché mi demoralizzo, ma io sono qui. Io l’aspetto e so che lei tornerà da me».


Hanno firmato questo dossier:

• Simona Carnino

Giornalista e documentarista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe, vincitrice del premio Goldman, in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. È coautrice della serie «Passaggi», su cui MC ha pubblicato un dossier nel maggio 2017.

• A cura di:

Marco Bello, giornalista redazione MC.

• Frame Voice Report

La realizzazione di questo dossier rientra nell’ambito del progetto «The Power of Passport», eseguito da MAIS Ong, ed è stata possibile grazie al finanziamento dell’Unione Europea attraverso al bando «Frame, Voice, Report!» del Consorzio Ong Piemontesi (Cop). Il sito del progetto e un video sulla carovana:
www.thepowerofpassport.org
video.sky.it/news/mondo/sky-tg24-mondo-terra-promessa/v505199.vid

 

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Stati Uniti versus Cina: la lotta per la supremazia


Testo di Francesco Gesualdi


Trump accusa la Cina di pratiche commerciali sleali. Per questo ha adottato dazi sui prodotti cinesi, innescando una guerra commerciale che ha conseguenze mondiali. Quella tra Stati Uniti e Cina è una lotta tra giganti, a cui nulla importa delle persone e del Creato. Nel frattempo, l’Italia…

Uno degli elementi di complicazione del capitalismo è che le imprese non sono un corpo omogeneo. Unite dal medesimo obiettivo di fare profitto, si dividono in mille rivoli quando veniamo alle strategie. Grandi contro piccole, finanziarie contro produttive, locali contro globali, sono solo alcune delle contrapposizioni in campo. Ogni gruppo tenta di far prevalere il proprio interesse e, a seconda di quale si impone, il capitalismo cambia forma. Senza mai arrivare a un assetto definitivo perché la lotta è continua. Talvolta il cambiamento è così repentino che non facciamo in tempo a capire cosa è successo che già è in corso un nuovo mutamento. E, a rendere le cose ancora più complicate, ci sono i calcoli della politica che oltre a voler soddisfare le esigenze dei potentati economici hanno interesse a sopire le frustrazioni popolari per garantirsi un largo consenso. Ed ecco il riemergere di nazionalismi e posizioni di indiscussa fede mercantilista che, attribuendo la responsabilità di tutti i mali agli stranieri, pretendono di risolvere i problemi nazionali semplicemente spuntando rapporti più favorevoli nei confronti del resto del mondo. Magari cominciando a erigere muri contro chiunque pretenda di entrare in casa sua senza essere stato espressamente invitato.

I rappresentanti di questo nuovo corso sono Le Pen, Salvini, Orban, ma soprattutto Donald Trump che è stato anche il più audace in campo economico.

Produzione e posti di lavoro

Il paese contro il quale il presidente americano si è scagliato di più è stato la Cina accusandolo di avere fatto perdere agli Stati Uniti oltre tre milioni di posti di lavoro. In effetti, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono passate da 2 miliardi di dollari nel 1979 a 636 miliardi nel 2017. E se, nel 2000, gli Stati Uniti registravano un deficit commerciale verso la Cina (differenza fra importazioni ed esportazioni) pari a 84 miliardi di dollari, nel 2017 lo troviamo a 375 miliardi di dollari.

Ciò che Trump ha sempre omesso di dire è che gran parte della crescita delle esportazioni cinesi è pilotato dalle stesse imprese statunitensi che hanno eletto la Cina a principale paese in cui spostare la produzione. Valga come esempio la Nike che, in Cina, dispone di 116 terzisti su un totale di 527 imprese appaltate a livello mondiale. Oppure Apple, che in Cina annovera 380 terzisti sul migliaio che registra a livello planetario.

Sia come sia, già in campagna elettorale Trump aveva promesso battaglia alla Cina con un’accusa durissima lanciata in un comizio del 2 maggio 2016: «Non possiamo continuare a permettere alla Cina di saccheggiare la nostra nazione, perché questo è ciò che sta facendo. Stiamo assistendo alla più grande rapina della storia mondiale». E una volta vinte le elezioni, appellandosi alla Sezione 301, la legge Usa che consente agli Stati Uniti di porre limitazioni alle importazioni provenienti dai paesi che adottano pratiche sleali, Trump ha decretato aumenti doganali sui prodotti provenienti dalla Cina.

Al primo provvedimento, adottato nell’aprile 2018, ne sono seguiti altri, per cui si è messa in moto un’escalation della quale al momento è difficile prevedere gli esiti, perché ad ogni iniziativa statunitense la Cina reagisce con contromosse uguali e contrarie. Al di là di questa contrapposizione, è importante sottolineare che la questione commerciale è usata come pretesto per mettere i puntini sulle «i» su una serie di altre questioni, anch’esse di importanza strategica per le imprese statunitensi.

Le accuse e i dazi punitivi

Tre le questioni di fondo: la proprietà intellettuale, gli aiuti pubblici, l’accesso al mercato cinese.

La proprietà intellettuale è un tema che sta molto a cuore alle imprese americane basate sull’innovazione. In particolare quelle delle telecomunicazioni, dell’elettronica, della chimica, della farmaceutica, dei macchinari. La loro espansione si basa sulla capacità di elaborare prodotti nuovi, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, per cui è di vitale importanza che nessuno possa utilizzare le loro scoperte o le loro invenzioni senza licenza, che poi significa autorizzazione a pagamento. Per capire quanto sia potente la lobby dell’innovazione tecnologica, basti dire che uno dei 15 trattati istitutivi dell’Organizzazione mondiale del commercio è dedicato proprio alla proprietà intellettuale con lo scopo di definire i principi a cui ogni stato deve uniformarsi quando legifera in materia. Naturalmente la regola d’oro è che nessuna impresa può usare l’invenzione messa a punto da un’altra impresa senza contratto di licenza. E i risultati si vedono: la proprietà intellettuale smuove ogni anno svariate centinaia di miliardi di dollari a livello mondiale, con gli Stati Uniti in cima alla lista dei beneficiari. Nel 2017, le licenze sui brevetti hanno generato a favore delle imprese statunitensi incassi per 128 miliardi di dollari, di cui  8,8 miliardi da imprese cinesi. Il governo statunitense, tuttavia, ritiene che la cifra copra solo una piccola parte dei benefici realmente goduti dalle imprese cinesi, perché gran parte delle innovazioni sarebbero copiate in maniera abusiva procurando alle imprese americane un danno per 50 miliardi di dollari. Di qui i dazi punitivi contro la Cina.

La seconda accusa rivolta alla Cina è che sostiene in maniera eccessiva con aiuti statali le proprie imprese. La prova sarebbe contenuta nel documento di programmazione economica adottato dal governo cinese nel 2015, noto come Made in China 2025. Il piano, che si pone l’obiettivo di trasformare la Cina in un leader mondiale in alcuni settori chiave come i semiconduttori, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’energia rinnovabile, l’auto elettrica, il materiale biomedico, prevede di farlo attraverso una serie di misure che le autorità americane bollano come concorrenza sleale. Non solo perché le imprese cinesi possono godere di sovvenzioni pubbliche nell’ambito della ricerca, ma anche perché sarebbero previste delle procedure di acquisto che privilegiano le imprese nazionali a detrimento di quelle estere.

La terza accusa, infine, è che la Cina continua ad imporre troppi limiti e vincoli alle imprese estere che vogliono entrare nel capitale delle imprese cinesi. Uno degli obblighi più odiosi, a detta delle autorità americane, è quello di dover condividere i segreti industriali. Dunque, la questione tecnologica torna e ritorna, facendoci capire che è il vero nodo attorno al quale ruota l’intero contenzioso fra Cina e Stati Uniti, come del resto è confermato anche dal caso Huawei.

Il caso Huawei

Fra le più grandi multinazionali del mondo attive nel campo delle telecomunicazioni, delle reti e dei dispositivi informatici, c’è la Huawei, un’impresa cinese a proprietà collettiva, addirittura posseduta dai lavoratori stessi. Ma il condizionale è d’obbligo visto la cortina di segretezza che avvolge la Cina. Nata come impresa privata nel 1987, Huawei ha avuto uno sviluppo rapidissimo, con filiali sparse in tutti i continenti. Si narra, ad esempio, che sia di Huawei la tecnologia usata nei 16 mila uffici postali distribuiti in Italia. Uno degli ambiti in cui Huawei sta avanzando di più è quello del 5G anche detto «internet delle cose», la tecnologia dell’avvenire che permetterà di controllare a distanza elettrodomestici e macchinari nelle nostre case, uffici, stabilimenti.

Huawei è nel mirino del governo americano già dal 2012, con l’accusa di spionaggio e pirateria industriale. Ma recentemente è stata anche accusata di mantenere relazioni economiche con l’Iran contravvenendo alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Per questo il 1° dicembre 2018, Meng Wanzhou, alto dirigente di Huawei, è stata arrestata mentre era di passaggio in Canada e successivamente estradata negli Usa, dove dovrà rispondere di 13 capi d’accusa che vanno dallo spionaggio alla truffa finanziaria. Non contento, Trump ha anche chiesto ai paesi occidentali in rapporti commerciali con Huawei di sospendere qualsiasi relazione economica con questa impresa.

Dunque i rapporti fra Cina e Usa sono al calor bianco e non per qualche manciata di miliardi di import export, ma per il dominio dell’economia mondiale che si gioca su due piani: la supremazia tecnologica e la capacità di dominare le rotte commerciali.

L’Italia sulla «Via della seta»

Il tema delle rotte commerciali ci porta al progetto cinese inizialmente chiamato «Via della seta» e poi ribattezzato Road and Belt Initiative (in sigla Rbi) che potremmo tradurre come «Progetto di cintura stradale». Un progetto faraonico che ha il duplice scopo di rafforzare la rete stradale che collega la Cina all’Europa e quindi all’Asia Occidentale e di rafforzare le infrastrutture marittime dei paesi asiatici, africani ed europei. Il tutto per permettere alla Cina di espandere i suoi rapporti commerciali (come nella mappa sotto lo sguardo del presidente Xi Jinping).

Il costo totale del progetto, spalmato in più anni, è stimato in 8.000 miliardi di dollari e sarà sostenuto in parte dai governi che aderiscono all’iniziativa, in parte dal governo cinese. Più in particolare il governo cinese partecipa sia con investimenti diretti che con prestiti. Al 2017 si stima che il governo cinese abbia investito nel progetto 350 miliardi di dollari di cui 70 sotto forma di investimenti diretti e 280 sotto forma di prestiti. Su proposta del governo cinese, nel 2015 è stata istituita anche l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) come ulteriore strumento di finanziamento delle opere progettate nell’ambito della Road and Belt Initiative. A essa partecipa anche l’Italia per il tramite di «Cassa depositi e prestiti», che detiene il 2,58% del capitale sociale della banca pari a 2,5 miliardi di euro. Ed è stato proprio per rafforzare questo rapporto di collaborazione che, a marzo a Roma (e poi ad aprile a Pechino), il governo italiano ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un Memorandum d’intesa. «Le parti – è scritto nel documento – esploreranno modelli di cooperazione di reciproco beneficio per sostenere la realizzazione del maggior numero di programmi inseriti nella Rbi». Beneficio che, nel caso della Cina, si traduce nell’interesse a rafforzare la propria presenza nelle società che gestiscono  porti e autostrade d’Italia, senza dimenticare che già detiene il 5% di Società autostrade e il 49% della società che gestisce il porto di Vado presso Savona. Quanto all’Italia il suo interesse è sia industriale che finanziario. Da un punto di vista industriale l’interesse è quello di fare realizzare ai cinesi opere che altrimenti non potrebbero decollare per mancanza di fondi italiani. Un esempio è l’ampliamento del porto di Trieste. Da un punto di vista finanziario è quello di aprire nuove opportunità di affari per il sistema bancario italiano. E poi, chissà, se la Cina diventasse amica potrebbe anche comprarsi un po’ di debito pubblico italiano, considerato che già possiede il 5,6% del debito pubblico americano (circa 1.100 miliardi di dollari).

Lotta tra giganti

In conclusione, ha ragione l’America o la Cina? In una logica di espansione hanno ragione entrambi. L’America, che rappresenta chi è già gigante, vuole mantenere il primato imponendo al mondo intero le regole del gioco che vanno bene ai giganti. La Cina, che sta cercando di diventare gigante, vuole raggiungere il primato con metodiche di concorrenza protetta. Tutt’intorno i paesi minori come l’Italia che, non sapendo come finirà, cercano di essere amici dell’uno e dell’altro, godendo intanto di ciò che la situazione può dare. Il problema è che ciò che conta, ossia la dignità delle persone e la tutela del Creato, non è al centro dell’attenzione né di una parte, né dell’altra.

Come paesi minori, forse è proprio questo che dovremmo fare: sperimentare nuove formule economiche non orientate alla conquista, ma alla tutela delle persone e della sostenibilità in spirito di cooperazione e solidarietà. Ma, per riuscirci, dobbiamo uscire dalla logica delle bandiere e dell’accumulazione ed entrare in quella del rispetto.

Francesco Gesualdi

 




Esportare la libertà religiosa


Testo di Luca Lorusso |


Gli Usa pensano di avere una missione da compiere nel mondo. È l’eccezionalismo americano che si manifesta con la politica estera statunitense.
Anche la libertà religiosa ne è strumento e fine. Altri – come l’Ue – ne hanno seguito l’esempio. Ma dopo anni di ascesa del modello Usa di tutela della
libertà religiosa, oggi si registra un declino. Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore presso l’European University Institute di Fiesole.

Sono le 12 di venerdì 24 novembre 2017. Una bomba esplode dentro una moschea uccidendo decine di persone. I fedeli sufi scappano, ma fuori ci sono miliziani del Daesh che sparano sulla folla. Rimangono a terra 305 corpi, tra cui 27 di bambini.

Il sufismo è la via mistica dell’Islam, considerato dagli islamisti come un’eresia da combattere. La moschea al-Rawdah si trova a Bir al-Abed, nel Nord del Sinai.

È la strage più sanguinosa degli ultimi anni in Egitto, è uno dei troppi esempi di violenza nel mondo contro chi professa un credo religioso.

Non passa giorno, infatti, senza che il diritto di libertà religiosa subisca violazioni in Medio Oriente come in Asia, in Africa come in Europa o in America. Si parla dei Rohingya del Myanmar, musulmani apolidi perseguitati in un paese buddista. Si è parlato dei Copti in Egitto, dei Testimoni di Geova in Russia, delle politiche restrittive di paesi come la Cina o la Corea del Nord o il Pakistan.

In questo scenario il diritto di libertà religiosa è diventato un fine e, più spesso, uno strumento di vere e proprie strategie di politica estera. In primis da parte degli Usa, ma anche dell’Ue e, con accenti piuttosto differenti, di altri paesi non appartenenti al blocco occidentale come la Russia o quelli riuniti nell’organizzazione della Conferenza islamica.

Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore dell’European University Institute di Fiesole, autore del volume Esportare la libertà religiosa, edito dal Mulino nel 2015 e ora in lingua inglese dalla britannica Routlege.

Prof. Annicchino, sembra che il pericolo per la libertà religiosa nel mondo aumenti. Anche lei ha questa impressione?

«È più di una percezione. Abbiamo dati scientifici a tal proposito dai quali non possiamo prescindere. Faccio riferimento soprattutto ai report del Pew Forum. I loro dati indicano che nel mondo sono aumentate le restrizioni alla libertà religiosa mediante gli interventi legislativi dei diversi stati e che sono ugualmente aumentate le ostilità sociali a sfondo religioso.

Per quanto riguarda le norme che restringono la portata delle attività dei gruppi religiosi o del singolo fedele possiamo fare diversi esempi: le restrizioni volute dal partito comunista cinese, non solo rispetto al tema delle nomine dei vescovi cattolici che devono essere per forza approvate dal Pcc; le leggi anticonversione indiane (a dimostrazione del fatto che questo non è un problema legato ai soli paesi islamici, come spesso si tende a credere); la messa al bando, in Russia, di interi gruppi religiosi come ad esempio i testimoni di Geova, quasi in nome della sicurezza nazionale».

Il suo libro propone una tesi di fondo: negli ultimi 20 anni gli Usa hanno messo il tema della libertà religiosa come punto focale della loro politica estera.

«Tenuto conto del mio profilo scientifico concentro la mia analisi sull’International religious freedom act (Irfa), la legge approvata dal Congresso degli Usa nel 1998 che riguarda proprio la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa nel mondo. Nel mio studio provo a mostrare come quel modello, nel bene e nel male, abbia avuto una sua diffusione. Tanto è vero che altri paesi, soprattutto occidentali, tra cui Canada, Ue, Inghilterra, Olanda, hanno provato a fare qualcosa di simile segnalando che la libertà religiosa è importante.

Anche il governo italiano lo ha fatto: ricordiamo il caso di Mariam Ibrahim che, in Sudan, era stata incarcerata e fatta partorire in carcere, perché accusata di essersi convertita dall’islam al cristianesimo. Ora vive negli Usa anche grazie all’Italia.

Ovviamente, non sostengo che il modello americano abbia sempre funzionato, anzi, nel libro faccio esempi di palesi doppi standard di applicazione da parte degli Usa: ci sono paesi che violano il diritto di libertà religiosa che, per ragioni di real politik, non vengono sanzionati.

Io penso, però, che non si possa pretendere che i paesi privilegino la libertà religiosa in qualsiasi loro azione nei confronti di altri paesi. Privilegiarla sempre potrebbe anche portare a delle reazioni che sul lungo periodo danneggerebbero la libertà religiosa stessa. Se uno stato sta sempre col dito puntato sulla Cina, o altri paesi, dicendo: “Noi non facciamo nulla con voi fin quando voi non garantite il nostro stesso livello di tutela della libertà religiosa”, io credo che si possa bloccare un processo di dialogo.

Bisogna guardare a questi temi nell’ottica di un processo e non di un singolo atto».

Nel suo libro, lei lega questa azione degli Usa all’eccezionalismo statunitense.

«Gli Stati Uniti hanno una precisa autorappresentazione di se stessi: si vedono come un modello di comportamento per gli altri paesi del mondo. Ed essendo un paese in cui la narrazione del valore della libertà religiosa è importante, un paese fondato da dissidenti religiosi, il dibattito interno sul tema ha sempre avuto una sua centralità. Gli Usa hanno vissuto un processo lungo e travagliato per garantire la tutela della libertà religiosa internamente. Poi hanno recuperato il tema anche in chiave di politica estera, dicendo: “Questo è per noi uno dei diritti fondamentali e pensiamo che anche altri paesi possano far assurgere questo diritto a elemento centrale delle loro politiche”.

Per gli Usa la libertà religiosa non è un diritto tra molti, ma il fondamento di tutti gli altri, tanto è vero che F. D. Roosevelt, quando viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel ‘48, identifica nella libertà religiosa una delle quattro libertà fondamentali (libertà di espressione, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura, ndr)».

Quali sono gli strumenti che si sono dati gli Usa con la legge del ‘98 per tutelare la libertà religiosa nel mondo?

«L’Irfa è una legge molto complessa. Ci sono due tipologie di strumenti fondamentali: la prima è quella diplomatica classica, con tutta un’attività di comunicazione del Dipartimento di stato su altri paesi, affinché vengano garantiti alcuni diritti, e con le sanzioni vere e proprie, cioè il riconoscimento di status economici più o meno vantaggiosi. La seconda è quella delle sanzioni su singoli individui violatori del diritto di libertà religiosa. Un esempio è quello di Narendra Modi: ai tempi in cui era governatore dello stato indiano del Gujarat, ci furono violenze contro la minoranza musulmana e fu accertata dal governo degli Usa la sua responsabilità. A Modi fu interdetto l’ingresso negli Usa. Sanzione su singolo individuo che fu revocata quando Modi fu eletto primo ministro dell’India».

Ci sono dei risultati positivi di questa politica estera?

«Gli esperti hanno una doppia valutazione: da una parte è vero che su singoli casi è stato possibile salvare delle persone, dall’altra però, come tendenza generale, questa azione non ha garantito un abbassamento dei livelli di violazione del diritto alla libertà religiosa. Secondo me anche perché, rispetto al ‘98, viviamo in un mondo molto diverso, nel quale sono aumentate soprattutto le ostilità sociali rispetto alle minoranze religiose. Nel ‘98, ad esempio, non avevamo il dibattito che abbiamo oggi sui populismi e il ritorno degli identitarismi nazionali. Quello che gli scienziati sociali misuravano nel ‘98 è molto diverso da quello che misuriamo oggi. Nel ‘98 la chiesa ortodossa russa non aveva il ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale che ha oggi in Russia. Nel ‘98 l’induismo indiano non era al governo e non premeva per la produzione di norme contrarie ai diritti delle altre minoranze religiose, e così via».

© European Union 2015 – European Parliament | Pietro Naj-Oleari

La politica degli Usa sulla libertà religiosa nel mondo è stata imitata da vari paesi, tra cui l’Ue. In cosa si è distinta dagli Usa?

«Si è distinta a livello burocratico. L’Ue ha approvato delle linee guida per un’azione di soft law, cioè senza la creazione di grandi apparati burocratici, ma inserendo la libertà religiosa nella politica estera già esistente dell’Ue. Negli Usa, con l’Irfa si è creata una vera e propria commissione specializzata che fa solo quello, la Uscirf, si è creato tutto un meccanismo all’interno del Dipartimento di stato, si sono previsti due rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, si prevedono dei meccanismi per indicare quali sono i paesi che violano seriamente il diritto di libertà religiosa… Anche nell’Ue si è creato pochi anni fa un intergruppo parlamentare per la libertà religiosa che produce un suo rapporto annuale (Forb, ndr), ma sono storie diverse, anche dal punto di vista della narrazione ideale. Il dibattito sulla libertà religiosa e sulla religione in quanto tale non ha, a livello istituzionale nell’Ue, la stessa centralità che ha all’interno dell’impianto costituzionale Usa, dove il diritto di libertà religiosa è garantito addirittura dal primo emendamento costituzionale (1791), quindi è il diritto che viene, almeno descrittivamente, prima degli altri».

L’arrivo di Trump ha cambiato qualcosa?

«Parzialmente. Obama, soprattutto durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato, non premeva molto per la tutela del diritto di libertà religiosa. Trump, essendo stato portato alla presidenza anche da tantissimi voti di gruppi religiosi, soprattutto evangelici, ha premuto molto su questo tasto e sono previsti nuovi fondi a favore del Dipartimento di stato per la tutela di questo diritto».

Sembra però che la grande attenzione degli Usa per la libertà religiosa sia più rivolta all’estero che all’interno.

«Da un punto di vista formale, questo è il mandato che l’Irfa dà al Dipartimento di stato. Non è prevista un’indagine interna sullo stato della libertà religiosa negli Usa. È prevista solo un’azione esterna. Questa è una delle obiezioni classiche: “Voi guardate solo fuori e non guardate dentro”. Però qui parliamo di una politica concepita come politica estera. Per l’interno ci sono altri dipartimenti, altri ministeri e altre istituzioni.

Un’altra obiezione che viene fatta, soprattutto dai russi e dai paesi musulmani, suona così: “Voi pretendete di vagliare con i vostri standard occidentali il modo in cui viene rispettata la libertà religiosa in altri paesi che non hanno i vostri standard o, addirittura, non hanno i vostri valori”. Questo porta alcuni studiosi a parlare di “impossibilità della libertà religiosa”. Qui sorge a mio modo di vedere un problema di relativismo. “Ogni paese ha i suoi valori e quindi è difficile avere un discorso universale sul diritto di libertà religiosa”. Ma se una persona viene incarcerata perché si converte, qualsiasi sia la sua fede, io credo che sia possibile essere universalmente d’accordo che è ingiusto. A livello di tutele minime credo che sia necessario un discorso globale su questi temi, e credo che sia legittima l’attività di pressione da parte di alcuni stati per garantire, appunto, almeno le tutele minime. Non credo che si possa essere accusati di imperialismo perché si salva una persona che altrimenti viene costretta a partorire in carcere a causa della sua conversione».

AFP PHOTO / THOMAS SAMSON

I paesi islamici e la Russia ortodossa criticano questo approccio degli Usa perché hanno un’idea di libertà religiosa differente. Ci può spiegare quali sono i distinguo fondamentali?

«Uno dei problemi principali con i paesi islamici (non con l’islam) è sicuramente quello relativo alla facoltà di conversione. In alcuni paesi ci sono addirittura delle norme penali che prevedono l’incarcerazione.

In Russia invece c’è una problematica che riguarda la tutela delle minoranze religiose e la loro facoltà di operare, soprattutto dal punto di vista del proselitismo. Ad esempio verso i testimoni di Geova c’è stata una notevole azione dei servizi di sicurezza della federazione russa. Queste azioni portano a rendere inoperative le minoranze religiose. Tutto ciò dipende anche da una certa evoluzione teologica interna alla chiesa ortodossa russa che è maggioritaria, territoriale e nazionale e che influenza le politiche legislative dello stato. Venuto meno il collante dell’ideologia comunista, infatti, tantissima parte della costruzione del dibattito pubblico nella federazione russa si basa oggi, a mio modo di vedere, solo su questa pseudo identità collettiva ortodossa».

A volte la libertà religiosa non viene osteggiata in quanto tale, ma presa e utilizzata per un uso contrario. Pensiamo all’esempio del Pakistan che per difendere le sue leggi sulla blasfemia ricorre al concetto di tutela della religione.

«Anche qui c’è un problema teorico. In questo caso, come in altri casi di paesi musulmani, il diritto umano alla libertà religiosa viene inteso come diritto della religione in quanto tale ad essere tutelata. Ma questo non risponde agli standard internazionali di tutela che prevedono che i diritti umani siano diritti degli individui, non delle idee. L’idea in quanto tale non gode di protezione, soprattutto in un’ottica di tutela della libertà di espressione. Se si legittimano sanzioni penali per la blasfemia, questo può portare a punire anche casi in cui non vi siano offese della religione, ma soltanto descrizioni ritenute non veritiere dal detentore del sapere teologico».

Sempre sull’utilizzo della libertà religiosa a fini politici, nel suo libro fa l’esempio della guerra in Siria nella quale la Russia dice di sostenere il regime anche per tutelare la libertà religiosa delle minoranze cristiane protette da Bashar al-Assad.

«Anche lì la dinamica è la stessa. La cosa interessante è che, mentre spesso la Russia critica gli Stati Uniti perché nei rapporti statunitensi viene indicata come paese particolarmente problematico, in questo caso ha una identica veduta d’insieme per quel che riguarda le violazioni anticristiane. C’è una scelta politica che non mi sorprende, essendo la Russia il primo alleato del regime siriano, essa trova nell’istanza della tutela delle minoranze religiose un altro argomento a supporto della sua posizione».

Stringer – Anadolu Agency

Il sottotitolo dell’edizione inglese del suo libro è «ascesa e declino del modello Usa». C’è una fase di «ritirata» della libertà religiosa dall’agenda globale?

«Quello che è cambiato, soprattutto dal punto di vista del dibattito interno Usa, è che non c’è più la stessa visione sul ruolo della libertà religiosa all’interno e all’estero. La legge del ‘98 è stata approvata sostanzialmente all’unanimità dal congresso, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’impeachment di Bill Clinton. Cioè, un congresso profondamente diviso come solo nel caso di un’impeachment può esserlo, è riuscito ad approvare quella legge quasi all’unanimità. Questo vuol dire che il sentimento rispetto alla libertà religiosa era profondamente condiviso. C’era una sua centralità. Oggi non è più così, perché la libertà religiosa viene etichettata come un tema repubblicano o di destra, mentre la tutela di altri diritti, soprattutto i diritti delle minoranze Lgbt, sono associate a istanze più progressiste. Questo rappresenta uno dei segnali più evidenti della polarizzazione che oggi vive il sistema democratico statunitense, ma anche tante democrazie occidentali. Il fatto che la libertà religiosa, da un’istanza condivisa sia trasformata in un’istanza partitica o addirittura identitaria, come alcune esternazioni di Trump lasciano presagire, ne provoca un declino. E poi c’è sempre il problema dei doppi standard, come avviene con l’Arabia saudita, che a lungo andare sottrae credibilità».

A questo punto l’ultima domanda: quale futuro per questo tema a livello internazionale?

«A livello internazionale sicuramente il dibattito non scemerà, anzi, io credo che sia destinato a rimanere centrale, anche grazie al fatto che le nostre società diventano sempre più complesse e sempre più, quindi, realiste, perché dovranno confrontarsi sepre più con diverse istanze religiose. Nel caso italiano basta pensare alle problematiche che pone la presenza oramai di quasi due milioni di fedeli musulmani i quali hanno spesso rapporti molto forti con i loro paesi d’origine.

Mi auguro che i paesi occidentali riescano ad affrontare il tema con un minimo di coerenza. Uno dei principi anche giuridici dell’impianto del diritto dell’Ue è quello della coerenza tra politica interna e politica estera: non si può essere credibili fuori se noi non garantiamo i diritti dentro. E poi spero che ci sia un dibattito anche a livello di organismi internazionali, le Nazioni Unite piuttosto che altri, devono riuscire a coinvolgere quanti più paesi possibile nonostante la diversità di vedute si stia inasprendo.

Luca Lorusso




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)