Animal Sapiens


È opinione radicata che l’uomo abbia il diritto di sfruttare gli animali a proprio piacimento. Essi vengono così utilizzati per la nostra alimentazione, per esperimenti scientifici, per produzioni industriali. L’evoluzione è una piramide con l’uomo al vertice? Secondo recenti studi non è proprio così…

L’uomo si è sempre sentito superiore al resto del regno animale, a cui pure appartiene. E ciò per diverse prerogative che finora pensavamo fossero soltanto nostre. Ad esempio: il culto dei morti, la capacità di pianificazione, l’uso del linguaggio, l’utilizzo di strumenti. Oggi però i risultati di numerose ricerche e osservazioni sull’intelligenza e sul comportamento degli animali non umani stanno dando risultati sorprendenti. Che dire dell’osservazione che anche gli elefanti, pur non seppellendo i loro morti, indugiano parecchio, toccano e sollevano con la proboscide le ossa dei loro simili, quando le incontrano sul loro cammino? Per non parlare dell’abilità e intelligenza dimostrata da un polpo nello stappare un contenitore in vetro allo scopo di infilarcisi dentro o di quella dei corvi che, per spezzare il guscio delle noci, di cui si vogliono cibare, si appostano nei pressi di un semaforo, lasciandole cadere a terra, per farle rompere dalle auto in partenza e poi andare a recuperae il contenuto, quando la strada sia libera; o degli scimpanzé e dei cani, che hanno dimostrato di comprendere almeno in parte il nostro linguaggio. Eppure la nostra tendenza a sentirci superiori è ben radicata, come se l’Homo sapiens fosse l’apice del processo evolutivo. Grazie a questa ipotetica posizione apicale l’uomo si sente in diritto di sfruttare il resto del creato a proprio piacimento.

L’enciclica Laudato si’ rompe la visione antropocentrica

Cosa ci fa pensare di avere tale diritto? La risposta più ovvia è la presunzione che una maggiore evoluzione rispetto alle altre specie (nella nostra mente lo specismo e il razzismo spesso vanno di pari passo) ci dia il diritto di sfruttare gli animali considerati inferiori. Questa idea è già presente nella Bibbia (Genesi, 1:26, 1:28, 9:2), in cui si dice che gli animali saranno ridotti a subire il «dominio» e il «giogo» degli esseri umani e ad avee «timore» e «spavento». Anche Aristotele elaborò una scala naturae nel suo trattato Politica, mettendo al vertice gli esseri umani maschi e liberi, seguiti dalle donne, dagli schiavi e dagli animali non umani. E filosofi come Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Descartes e Kant hanno contribuito anch’essi a diffondere questo genere di idee. Fortunatamente con la sua enciclica Laudato si’, papa Francesco ha ribaltato questa visione antropocentrica, esortando al rispetto non solo di tutti gli uomini, ma anche di tutti gli altri esseri viventi. Ecco qualche esempio tratto dallo scritto del papa: «[…] dal prelievo incontrollato delle risorse ittiche, che provoca diminuzioni drastiche di alcune specie […]» (Ls,40); «oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature» (Ls,67); «Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone» (Ls,92).

È sufficiente osservare i molti modi in cui l’uomo sfrutta gli animali – per le nostre esigenze alimentari, per la produzione di capi d’abbigliamento, per la sperimentazione scientifica, per una serie di attività illegali (dalle scommesse sulle corse clandestine di cavalli alle lotte tra cani e tra galli) -, per comprendere il monito dell’enciclica e i numeri dell’ecatombe.

Cae e allevamenti-lager

Nei paesi ricchi il consumo di carne è cresciuto enormemente dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni ’40 in Italia il consumo procapite annuo era di circa 8 kg, negli anni ’60, in pieno boom economico salì a 50 kg e alla fine del secolo scorso arrivò a 80 kg. Negli Stati Uniti d’America è giunto addirittura a 120 kg. Il consumo di carne, essendo un simbolo di benessere raggiunto, sta inoltre aumentando moltissimo anche nei paesi emergenti. Peraltro le fonti scientifiche raccomandano di consumare non più di 30 Kg di carne all’anno. Nel Sud del mondo invece si sta ben al di sotto di questa soglia, con punte estreme come il Bangladesh (non più di 4 kg procapite annuo) ed il Burundi (5 kg).

La produzione di carne richiede, per i vari processi che portano al prodotto finale, una superficie di terra coltivabile pari a 16 volte quella necessaria per produrre legumi e altre proteine vegetali (con conseguente deforestazione di diverse aree, soprattutto nel Sud del mondo). È quindi chiaro che l’elevato consumo di carne non è estendibile a tutti gli abitanti del pianeta per mancanza di terreno sufficiente.

Un’altra ingiustizia è rappresentata dal trattamento riservato agli animali da macello. Basta pensare all’importazione di animali vivi: quelli di grossa taglia vengono fatti spostare utilizzando mezzi di coercizione come pungoli elettrificati e bastoni, fonti di terrore e sofferenza; gli animali di piccola taglia, dopo essere stati presi per le zampe o le orecchie, vengono stipati in gabbie riempite a forza, per fae stare il maggior numero possibile; gli animali con difficoltà di deambulazione, dovuta al peso raggiunto o a eventi patologici, vengono trascinati senza pietà.

La sempre più elevata specializzazione zootecnica, che per aumentare la produzione di carne e di latte ricorre alle biotecnologie e all’ingegneria genetica, ha portato alla selezione di razze iperproduttive. Ad esempio: le bovine frisone Holstein, che producono più di 100 quintali di latte all’anno, i polli da carne ad accrescimento accelerato, i tacchini dalla abnorme massa muscolare, il suino Landrace, che popola la stragrande maggioranza degli allevamenti intensivi del Nord Italia. Tutto questo però si accompagna spesso alla comparsa di patologie degenerative, che possono portare a gravissime infermità e/o morte dell’animale per lo più per infarto. Che dire poi delle galline ovaiole, stipate in allevamenti, dove la luce è sempre accesa (perché stimola la produzione di uova) e private di parte del becco, per impedire loro di ferirsi reciprocamente, dal momento che la cattività in condizioni di grave disagio ne aumenta l’aggressività? E dei bovini e dei suini negli allevamenti intensivi, costretti in spazi talmente esigui da non potersi girare e che non vedono mai un prato e la luce del sole dalla nascita fino alla morte?

Anche Valium e Prozac

Non si salvano dalla produzione di razze con caratteristiche particolari nemmeno gli animali da compagnia. Ad esempio sono molto ricercate le razze canine i cui esemplari sembrano perennemente cuccioli, con il muso schiacciato e grandi occhi sporgenti, che ricordano i lineamenti di un bimbo e suscitano più tenerezza. Così ci sono razze come il carlino originario della Cina o il bulldog francese nei quali il muso schiacciato provoca gravi problemi respiratori. Inoltre, per selezionare razze dai tratti infantili (il mantenimento dei tratti infantili negli adulti è detto neotenia) spesso ci si trova con animali da compagnia emotivamente immaturi, che presentano una versione canina delle nostre nevrosi. Naturalmente l’industria farmaceutica ha subito colto la palla al balzo ed ha messo in commercio confezioni veterinarie di Valium e di Prozac per animali ansiosi, depressi e ossessivo-compulsivi.

Penne e pellicce

Oltre agli animali vittime della nostra tavola, ci sono quelli vittime della moda, utilizzati per la produzione di pellicce e di capi d’abbigliamento con parti in pelliccia o di capi in vera piuma. Ogni anno milioni di oche e di anatre vengono allevate per l’industria della moda e le penne vengono loro strappate fino a quattro volte all’anno, senza alcun tipo di sedazione. Si stima inoltre che siano almeno 70 milioni gli animali allevati in tutto il mondo per la loro pelliccia. Si tratta soprattutto di visoni, cani-procione, conigli, ermellini, volpi, zibellini, scoiattoli, ma anche agnellini, cani e gatti. L’85% della produzione mondiale di pellicce deriva da animali provenienti da allevamenti intensivi che si trovano soprattutto in Europa, Cina, Stati Uniti, Canada e Russia. In Europa sono già diversi i paesi, che vietano l’allevamento per la produzione di pellicce, ad esempio l’Olanda, l’Austria, la Danimarca (solo per le volpi), Inghilterra, Irlanda del Nord, Scozia, Slovenia, Croazia e Bosnia.

In Italia, al contrario, gli allevamenti stanno aumentando. In particolare quelli di visoni attualmente sono circa venti, dislocati in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Abruzzo e complessivamente detengono circa 200.000 animali. Negli allevamenti gli animali sono detenuti in condizioni di privazioni estreme, che li portano spesso a comportamenti autolesionistici, nonché a episodi di cannibalismo e di infanticidio. Nel 2001, il Comitato Scientifico della Commissione Ue aveva denunciato gli allevamenti di animali da pelliccia come gravemente lesivi del benessere animale, ma da allora poco o nulla è cambiato. La situazione è ancora peggiore nei paesi extracomunitari come la Cina, dove non c’è la minima regolamentazione a tutela degli animali. Non è certo migliore il destino degli animali da pelliccia catturati in natura (si stima almeno 10 milioni ogni anno). Le normative inteazionali prevedono che la loro morte sia esente da crudeltà, ma sono solo parole. La caccia infatti riesce a eludere ogni controllo e colpisce spesso specie protette. Le vittime restano immobilizzate nelle trappole per ore o giorni e la loro morte sopraggiunge dopo una lunga agonia. Gli animali da pelliccia vengono solitamente portati nei mercati all’ingrosso, dove le grandi compagnie acquistano le pelli. Gli animali vengono storditi a colpi di bastone o schiacciati violentemente a terra e la scuoiatura avviene quando molti sono ancora coscienti. Nel 2004 in Italia sono state bandite le pelli di cani e di gatti e nel 2009 il divieto è stato esteso a tutta l’Europa.

Oltre alle crudeltà inflitte agli animali, la produzione di pellicce ha un impatto sul cambiamento climatico circa 14 volte superiore a quello per la produzione di analoga quantità di pile, di cotone, di acrilico e di poliestere. Per produrre 1 kg di pelliccia di visone sono necessarie 11,4 pelli e poiché un visone consuma circa 50 kg di cibo nella sua vita, sono necessari 563 kg di cibo per produrre un solo chilogrammo di pelliccia. Si stima che la pelliccia abbia un impatto sull’ambiente da 2 a 28 volte quello dei prodotti tessili alternativi, compresi quelli sintetici.

Animali per la ricerca

Un destino non meno crudele è quello degli animali utilizzati nelle sperimentazioni scientifiche, soprattutto topi, ratti, conigli, ma anche marmotte, gatti, cani e scimpanzé. Certamente i modelli animali sono indispensabili in alcune fasi della ricerca (altrimenti bisognerebbe sperimentare direttamente sull’uomo, sinistro ricordo di quanto avveniva nei lager nazisti), ma non sempre i risultati ottenuti da queste ricerche sono applicabili all’uomo. Quanto più il modello animale utilizzato è filogeneticamente distante dall’uomo, tanto meno sono attendibili i risultati ottenuti. Ad esempio, se si sperimenta sullo scimpanzé, si ottengono risultati applicabili all’uomo mentre la sperimentazione su animali molto diversi come il coniglio può portare a gravissimi errori di valutazione, come nel caso del Talidomide, farmaco tristemente famoso per avere superato tutti i test di tossicità nel coniglio e avere causato la nascita di moltissimi bimbi focomelici negli anni ’60, in quanto somministrato come ansiolitico durante la gravidanza. Eppure animali come topi, ratti e conigli vengono utilizzati in quantità industriale nella sperimentazione scientifica. Attualmente si cerca di utilizzare gli animali da laboratorio secondo il criterio della riduzione al minimo della sofferenza, ma nella storia della scienza non è sempre stato così. Un aspetto decisamente raccapricciante è che questi animali vengono acquistati in quantità sempre superiore alle necessità della ricerca. Una volta terminata quest’ultima, gli animali in eccedenza vengono eliminati senza tanti problemi: una parte viene utilizzata come cibo per serpenti o gufi nei giardini zoologici, ma la maggior parte viene cremata. La ragione principale dell’ingente surplus di topi da laboratorio è stata l’esplosione della ricerca, iniziata negli anni ’90, sugli animali geneticamente modificati (Gm), che nel 90% degli studi impiega topi (perché, sebbene il cammino dell’evoluzione che ha portato a uomini e topi si sia divaricato 60 milioni di anni fa, il 99,9% dei geni murini ha un omologo umano conosciuto, anche se distribuiti su un diverso numero di cromosomi). Come Descartes, che considerava gli animali semplicemente dei robot, incapaci di provare sentimenti, empatia e dolore, negli Stati Uniti d’America il Congresso non considera animali il 90-95% di quelli utilizzati per la ricerca, per cui questi non ricadono sotto la tutela della legge per la protezione degli animali. Le giustificazioni per la sperimentazione animale sostanzialmente poggiano sul concetto che l’organismo dal cervello più potente ha il diritto di condurre studi su creature con capacità mentali meno sviluppate. In genere però cadiamo nell’errore di considerare facoltà psichiche superiori negli animali quelle che più somigliano alle nostre, mentre una facoltà psichica è tanto superiore quanto più permette a chi la possiede di adattarsi al proprio ambiente e alle proprie esigenze.

Animali trafficati

Ciò che è ancora più riprovevole è l’impiego di animali opportunamente selezionati, per combattimenti e corse clandestine e non, che sono alla base di un ingente giro d’affari per la criminalità organizzata. I traffici legati allo sfruttamento illegale degli animali è variegato. Si va dal bracconaggio e dalla cattura di esemplari rari e protetti per rivenderli clandestinamente (traffico di animali esotici) o per ucciderli e rivendere loro parti (traffico dell’avorio e delle pellicce di tigri, leopardi, ecc.) ai macelli clandestini, alle lotte tra galli in America e quelle nostrane tra cani. Per queste ultime vengono selezionati animali sottoposti a incredibili vessazioni, in modo da forgiae il carattere e portare la loro aggressività all’eccesso. L’addestramento di cani di certe razze in modo da renderli particolarmente aggressivi per i combattimenti, oltre a stravolgere completamente il carattere degli animali, comporta anche un grave pericolo per la popolazione in generale, come dimostrato dalle aggressioni, sempre più frequenti, di cani «pericolosi» a persone.

I traffici illeciti di avorio e di pellicce pregiate stanno portando a rischio estinzione diverse specie come il rinoceronte nero (Diceros bicois, ridotto a meno del 10% dalla fine del secolo scorso nell’Africa subsahariana), le tigri (Panthera tigris, la cui popolazione si è ridotta del 95% dal 1900 ad oggi) e gli elefanti (Loxodonta africana). Secondo uno studio del 2014, la popolazione di questo animale è scesa tra il 2009 e il 2014 del 60% in Tanzania e quasi del 50% in Mozambico, per cui, se la caccia illegale proseguirà con il ritmo attuale, l’elefante africano potrebbe estinguersi in un decennio (National Geographic, giugno 2015).

Corse clandestine e canili

Ci sono poi le corse clandestine di cavalli, che si svolgono di notte in tratti di strada o di autostrada, eludendo i controlli delle forze dell’ordine ed utilizzando animali drogati. C’è il racket dei canili e ci sono le cupole del bestiame. C’è il traffico di cuccioli, portati via dalle loro mamme molto prima dello svezzamento, fatti viaggiare in condizioni così drammatiche da pregiudicarne spesso la sopravvivenza e venduti senza le vaccinazioni di legge. Va ricordato che, nel nostro sistema giuridico, soltanto il 1 agosto 2004 è entrata in vigore la nuova legge contro il maltrattamento degli animali e le corse clandestine (Legge 189/04).

Per quanto riguarda le corse clandestine di cavalli, in Italia in 15 anni sono state denunciate 3.321 persone e 1.228 cavalli sono stati sequestrati (Rapporto Zoomafia Lav, 2014). Il doping non è solo circoscritto alle corse clandestine, ma spesso interessa anche le corse ufficiali e sono circa 180 all’anno i cavalli dopati, che corrono in gare ufficiali.

Un vero affare per trafficanti e faccendieri è il business del randagismo, che garantisce agli sfruttatori dei cani randagi introiti da centinaia di milioni di euro l’anno, per via delle convenzioni con amministrazioni locali compiacenti. I canili sono spesso strutture fatiscenti, veri e propri lager, in cui gli animali non ricevono nemmeno lo stretto indispensabile per vivere, tant’è che spesso soccombono e le loro carcasse restano tra i sopravvissuti o vengono nascoste in congelatori. Solo nel 2013 sono state sequestrate 11 strutture, per un totale di 1.700 cani. Abbandonare un cane non comporta solo un immenso dolore per l’animale, ma favorisce la criminalità.

Per concludere, torniamo al punto da cui eravamo partiti: il processo dell’evoluzione. Gli studi più recenti hanno indicato che il risultato dell’evoluzione è più simile a un albero ramificato, di cui noi occupiamo soltanto uno dei rami, piuttosto che ad una piramide con noi al vertice.

Rosanna Novara Topino