Congo Rd. Padre Flavio, i Pigmei e i «verdi fratelli silenziosi»

«Qui davanti alla missione c’è la piccola piantagione di caffè che coltivo con i pigmei. È in piena fioritura, un esercito di api nella gioia e un profumo immenso. Come quello che si fa con il cuore e profuma la nostra vita». Flavio Pante, missionario della Consolata, ci manda le foto degli arbusti nel verde. Considera la natura una preziosa collaboratrice nel lavoro a Bayenga.

Le api ronzanti sui fiori a grappoli sono una benedizione. Per il miele? Quanto al miele, «ancora non ci siamo. I pigmei lo raccolgono in foresta sugli alberi e non pensano agli alveari. Con il tempo, troveremo un apicoltore che ci introduca un po’ alla volta. Ma la funzione di questi insetti è importantissima già di per sé: garantiscono l’impollinazione, delle papaie, degli avocado, di altre piante nutrienti».
Nell’ottica delle produzioni locali, la piantagione di caffè che qui chiameremmo «a chilometro zero» è una buona idea: «La bevanda serve alla missione, ma anche alla gente del posto. La tostatura è artigianale, su griglie con la brace sotto. Per i bantu il caffè mattutino, senza zucchero (non lo hanno), è normale. Anche i pigmei lo bevono, ma meno; forse per loro è un’usanza acquisita».

Alcuni Pigmei alle prese con il lavoro agricolo, a Bayenga, Rdc.

Padre Flavio precisa che le piantagioni commerciali in zona sono sparite: «Con tutte le guerre e invasioni degli ultimi decenni si è verificata una situazione di instabilità e insicurezza. Così gli investitori, soprattutto greci e ciprioti, che tenevano le piantagioni con la collaborazione di congolesi, hanno pensato che questo settore non fosse più sicuro. Aggiungiamo la svalutazione e altri fattori economici. Le piantagioni (di caffè e altro) non più curate, sono state “conquistate” dalla foresta. E le strade, cessato il traffico dei camion, si sono ristrette a piste».

Quale è il rapporto dei pigmei, popolo della foresta, con gli alberi, che padre Flavio chiama «verdi fratelli silenziosi che regalano frutti e ombra»? Ecco: «I pigmei non piantano gli alberi, non è nella loro cultura; è la foresta stessa che si rigenera. E allora, è importante avviarli (con un compenso per quanto piccolo) a queste attività. Per esempio, un vivaio in cui pianti i semi di caffè, poi li trapianti, e quando crescono gli arbusti devi togliere l’erba sottostante – sennò le piante ingialliscono e non producono. Coinvolgiamo le persone in tutte le fasi, nell’ottica della pedagogia del fare».

Fra le attività della missione, con le popolazioni bantu e i pigmei, padre Flavio spiega di aver introdotto un’altra pratica: «Procurare loro piccole piantine o semi, di papaie, di avocado che piantano non lontano dalla loro capanna per avere con il tempo i frutti. Anche solo due o tre alberi per famiglia. Ma è l’inizio di un cammino che magari ci porterà in futuro ad avere un frutteto in comune».
Padre Flavio illustra i numerosi altri servizi dei «grandi e silenziosi fratelli verdi»: «Per noi, almeno nella mia zona, dove non c’è la segnaletica, gli alberi secolari sono un riferimento negli spostamenti. C’è anche un’altra funzione. La nostra zona è molto soggetta a fulmini. Ebbene sono questi grandi alberi a proteggerci, sono loro che pagano e si bruciano sotto i fulmini…» Non solo: «Attenuano la forza del vento – qui la pioggia viene sempre portata dal vento – proteggendo i tetti delle nostre case e capanne. Ci aiutano veramente». Infine, «nella foresta i tronchi caduti possono fare da ponte sui torrenti tumultuosi e fangosi».

Marinella Correggia

Pubblichiamo questo articolo oggi, 16 gennaio, festa del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Piante di caffè piantate dai pigmei di Bayenga. In questo periodo sono in piena fioritura.




Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis