Ogni anno, l’Unione europea esporta milioni di tonnellate di rifiuti in tutto il mondo, in particolare nel Sud globale. Si va dalla semplice spazzatura, ai dispositivi elettronici, passando per il fast fashion (l’industria della moda di massa).
Il business, che ruota attorno alla loro gestione e smaltimento, è enorme ed estremamente redditizio. Soprattutto per le organizzazioni criminali che guadagnano miliardi dall’esportazione illegale di rifiuti in tutto il mondo.
Secondo la Commissione europea, infatti, circa un terzo del totale dei rifiuti inviati fuori dai confini dell’Unione è gestito dalla criminalità organizzata, cioè dalle cosiddette «ecomafie».
Quanti, dove e come
I dati dell’Eurostat (l’Istituto di statistica europeo) mostrano che la maggior parte dei rifiuti prodotti nell’Ue (61 milioni di tonnellate nel 2022) si sposta tra gli Stati membri. Una quota consistente (nel 2022, circa 32 milioni di tonnellate), però, viene esportata oltre confine. Il 60% di questi rifiuti giunge in soli tre Paesi: Turchia (38%), India (17%) ed Egitto (5%).
In più, c’è l’economia sommersa controllata dalle ecomafie. Le disposizioni – che stabiliscono quali materiali possono essere o meno esportati e dove – sono facilmente aggirabili, mentre le sanzioni decisamente scarse.
Così, lo sviluppo di business illegali è semplice, e in diversi Paesi europei sono sorte reti criminali per l’esportazione di rifiuti (sia pericolosi che non) in altre aree del mondo.
L’Europol (l’agenzia dell’Unione europea per il contrasto alla criminalità), infatti, stima che il traffico illegale di rifiuti sia il più redditizio dopo quello di droga, la contraffazione e la tratta di esseri umani.
Nella sola Italia, nel 2021, l’Agenzia delle Dogane ha sequestrato oltre 7mila tonnellate di rifiuti in partenza per l’estero.
Spesso, i prodotti la cui esportazione è illegale sono mescolati ad altri legali, così da renderne difficile l’identificazione. Le norme vengono aggirate con degli escamotage. Ad esempio, la Convenzione di Basilea del 1989 sul controllo dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione permette l’esportazione solo di quei dispositivi elettronici che sono riparati subito dopo l’arrivo. Dunque, è sufficiente denunciare il trasporto di «prodotti di seconda mano» per eludere i controlli.
Lo smaltimento nel Sud globale
Ogni anno, dai porti europei partono tonnellate di rifiuti inviati illegalmente in tutto il mondo. In particolare, verso il Sud Est asiatico e l’Africa subsahariana, i quali ricevono – tra gli altri – dispositivi elettronici non più funzionanti, vestiti non più utilizzabili e materiali plastici.
In questi Paesi, uno smaltimento adeguato è difficile: mancano strutture efficaci ed efficienti. La plastica è bruciata all’aria aperta e rilascia fumi tossici e materiali inquinanti con effetti estremamente dannosi su ambiente e salute. I dispositivi elettronici si accumulano in enormi discariche a cielo aperto dove gli abitanti dell’area – senza adeguate protezioni – si recano ogni giorno alla ricerca di pezzi rivendibili o componenti minerarie riutilizzabili.
In generale, l’accumularsi di questi prodotti nel Sud globale e le modalità con cui vengono gestiti e smaltiti causano l’inquinamento di aria, acqua e suolo. Oltre a frequenti malattie – soprattutto respiratorie – tra la popolazione locale.
Il regolamento europeo
A fine 2021, la Commissione europea ha avanzato una proposta per l’introduzione di un regolamento (poi approvato l’11 aprile 2024) per combattere il traffico illegale di rifiuti e ridurre l’inquinamento e le emissioni di gas serra correlate.
Per quanto riguarda il commercio legale, la normativa vieta l’invio in Paesi terzi di tutti i rifiuti da smaltire. Così come proibisce l’esportazione di quelli destinati al recupero ma considerati pericolosi in Paesi non appartenenti all’Ocse (cioè tutti quelli africani e quasi tutti quelli asiatici e sudamericani). Verso questi Stati non è più possibile nemmeno esportare materiali plastici «non pericolosi». Quest’ultima disposizione completa il divieto (in vigore dal 2021) di inviare al di fuori dei Paesi dell’Ocse i rifiuti plastici considerati «difficili da riciclare» e «pericolosi».
Il regolamento si pone anche l’obiettivo di contrastare le esportazioni illegali. Ma in realtà su questo fronte non cambia molto rispetto alle normative già vigenti. Sebbene siano state introdotte regole ancora più stringenti su ciò che può essere esportato o meno, eluderle continua a essere molto semplice. Mentre le sanzioni restano limitate e non incentivano l’abbandono di attività criminali.
Il regolamento si limita a invitare gli Stati europei a collaborare maggiormente tra loro nel contrasto ai traffici illegali, aumentando gli sforzi di indagine e la comminazione di sanzioni. Ma nei fatti non è niente di nuovo rispetto a quanto già in vigore.
Aurora Guainazzi
Desert dumps: migranti come rifiuti
Il 21 maggio è stata pubblicata un’inchiesta giornalistica che porta diverse prove di come i finanziamenti dell’Unione europea ai paesi del Nord Africa siano utilizzati per perpetrare violenze nei confronti dei migranti subsahariani.
Nell’inchiesta sono coinvolte alcune delle più importanti testate internazionali come il The Washington Post, Le Monde, El Pais, Lighthouse Reports e altre che hanno lavorato insieme per un anno per mostrare al mondo intero come i fondi dell’Unione europea e dei suoi paesi membri siano utilizzati nel Nord Africa per portare avanti operazioni violente e aggressive.
Viene raccontata la storia di François, trentottenne camerunense che è stato intercettato, insieme alla moglie e al figlio di 6 anni, su un barcone che stava solcando le acque del mediterraneo. Era la quarta volta che provava a imbarcarsi ma la Guardia costiera tunisina li ha fermati e riportati sulla terra ferma. Sono poi stati caricati su un camion che li ha obbligati a scendere in una zona remota del deserto vicino al confine con l’Algeria.
È proprio questa la pratica che dà il nome all’inchiesta, intitolata «Desert dumps», ossia discariche nel deserto, a indicare il modo in cui spesso vengono trattati i migranti che sono scaricati come rifiuti in mezzo al deserto. L’obiettivo è, nel caso le persone non muoiano, che desistano dal riprovare la traversata.
È la complicità dell’Unione europea il fulcro dell’inchiesta, vengono portate alla luce diverse prove di come in queste operazioni repressive abbiano avuto un ruolo i fondi europei. In teoria ogni finanziamento di Bruxelles dovrebbe essere vincolato al rispetto di certi standard di diritti umani, in pratica i soldi dei cittadini europei sono stati usati per finanziare gli addestramenti del personale di polizia e per fornire mezzi di trasporto, terrestri e marittimi, utilizzati in diverse di queste operazioni violente.
L’inchiesta si concentra su tre paesi: Tunisia, Marocco e Mauritania. Attraverso accurate ricostruzioni con le testimonianze dei protagonisti di queste storie, i video fatti dagli stessi e poi verificati analizzando le tracce Gps degli smartphone sono emerse situazioni preoccupanti. Ad esempio, dai video girati da François in mare, si distingue l’imbarcazione della Garde nationale maritime tunisina che lo ha intercettato, è una motovedetta di un particolare modello che era menzionato espressamente in un accordo stipulato tra Italia e Tunisia.
I video provenienti dal Marocco mostrano invece dei Toyota Land Cruiser, veicoli donati al paese dall’agenzia governativa spagnola FIIAPP che finanzia nel paese un progetto per combattere l’immigrazione irregolare. E veicoli analoghi sono stati identificati in Mauritania.
Sono questi quindi i contesti in cui si inseriscono i diversi accordi che l’Unione europea e i suoi paesi membri continuano a stipulare con i paesi del Nord Africa. Uno degli ultimi è stato fatto proprio con la Tunisia, si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci principali, di cui due rese disponibili da subito, che comprendono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del paese nordafricano e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori.
Questi soldi dati, con scarsi controlli su come verranno utilizzati, a un governo sempre più autoritario e che fa del razzismo uno dei suoi cavalli di battaglia, rischiano di diventare l’ennesima violazione dei diritti umani dei migranti portata avanti con la complicità dell’Unione europea.
Mattia Gisola
Unione europea. Diritto di asilo negato
Un nuovo pacchetto di riforme in materia di migrazioni è stato approvato dal Parlamento europeo. In teoria vuole superare gli accordi di Dublino, in pratica non garantisce nessun aiuto ai paesi di prima accoglienza e potenzia i sistemi di esternalizzazione delle frontiere e dei respingimenti.
Il Parlamento europeo, a due mesi dalle prossime elezioni, ha approvato il nuovo «Patto su migrazione e asilo». Definito da molti come una misura storica, comprende una serie di regolamenti volti a riformare e uniformare le procedure con cui i paesi europei gestiscono i flussi migratori. Ci sono però diversi punti critici che potrebbero mettere in pericolo i diritti dei migranti.
Il dibattito si è sviluppato soprattutto intorno a due questioni fondamentali. Il primo grande tema riguarda la volontà di riformare gli accordi di Dublino per cui l’accoglienza dei migranti è responsabilità dei paesi di primo arrivo. Questo crea un grosso carico sulle spalle dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, primo fra tutti l’Italia. Il nuovo Patto propone un meccanismo che vorrebbe superare questa disparità ma che, in realtà, risolve ben poco. Con l’applicazione delle nuove regole i paesi europei sarebbero apparentemente obbligati a partecipare agli sforzi dei paesi di primo approdo definiti «sotto pressione»: potranno scegliere se accogliere una parte dei migranti oppure pagare una quota economica ad un fondo comune. Non c’è quindi nessun vero obbligo alla redistribuzione delle persone accolte.
La quota che i paesi dovranno versare per ogni mancato ricollocamento potrà essere utilizzata dall’Unione per sostenere i paesi europei sotto pressione ma anche per finanziare accordi con paesi terzi volti al contenimento delle partenze. Accordi come quelli già in atto con Libia e Tunisia che, finanziate dall’Unione europea, bloccano con la forza quanti più migranti possibili. Questo rientra in un processo di esternalizzazione delle frontiere che l’Ue porta avanti ormai da anni con lo scopo di scaricare le responsabilità dei flussi migratori su paesi terzi, facendo finta di non sapere che in questi paesi gli standard sui diritti umani sono molto più bassi e che il contenimento delle partenze si traduce spesso in atroci violenze.
Un altro punto centrale, e molto criticato, di questo patto è l’istituzione di procedure accelerate per l’esame delle richieste di asilo, che oggi richiedono diversi mesi se non anni. Con la riforma tutte le persone che arrivano da paesi ritenuti «sicuri», criterio spesso fondato su basi più politiche che fattuali, o che comunque hanno un tasso di accettazione delle richieste di asilo inferiore al 20% potranno avere risposta in massimo 12 settimane. In questo modo sarà ancora più difficile, se non impossibile, valutare la reale motivazione per cui una persona ha deciso di lasciare il proprio Paese, e il processo sommario e superficiale con cui il suo futuro sarà deciso si baserà esclusivamente sullo Stato di origine ignorando la sua storia personale. Non si avrà così il tempo di valutare se nella specifica regione interna in cui vive c’è l’influenza di gruppi criminali o terroristici, o se il suo orientamento sessuale o politico la costringono a subire vessazioni che mettono in pericolo la sua incolumità.
Il nuovo Patto comprende tante altre riforme, volte a uniformare e spesso irrigidire i processi di accoglienza, il tutto nell’ottica di un progetto definito da molti «fortezza europa» in cui i confini dell’Unione appaiono sempre più alti e sicuri. I reali risultati a cui porteranno le nuove regole saranno evidenti solo con il tempo, ma nell’attesa di poterli giudicare è utile ricordare che questo approccio portato avanti ormai da diversi anni non ha mai ottenuto i risultati sperati di ridurre i flussi migratori, le rotte si sono via via adattate, diventando solo più pericolose per le vite che le percorrono.
Mattia Gisola
L’Ue indaga le big tech
La Commissione europea vuole fare sul serio nei confronti delle big tech californiane. Alphabet (Google), Apple e Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) sono sotto indagine ai sensi del Digital markets act e se non dimostreranno di essersi adattate in conformità alle nuove leggi europee rischiano pesanti multe.
Il primo novembre 2022 è entrato in vigore il Digital markets act (abbreviato Dma), la legge europea sui mercati digitali che punta a regolamentare l’azione delle grandi aziende tecnologiche cercando di costruire un panorama più equo garantendo una libera concorrenza.
La Commissione europea ha identificato le grandi aziende che ha deciso di definire «gatekeeper», ossia con una importante capacità di controllo degli accessi a contenuti e servizi, e a queste ha affidato nuovi obblighi da rispettare in modo da garantire condizioni e opportunità più eque a fornitori di contenuti, prodotti e servizi terzi, spesso oscurati dai monopoli delle big tech.
Sono state designate come gatekeeper sei aziende: Alphabet (proprietaria di Google e dei servizi collegati), Amazon, Apple, ByteDance (proprietaria di TikTok), Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) e Microsoft.
Adesso, a marzo 2024, sono scaduti i termini entro i quali queste grandi aziende avrebbero dovuto adattarsi alla legge e la Commissione europea ritiene che alcune di esse non abbiano fatto abbastanza. Per questo nella mattina del 25 marzo è stato annunciato l’inizio di un’investigazione in particolare su alcune presunte inadempienze di Alphabet, Apple e Meta.
Uno dei primi punti in questione riguarda la libertà, sancita dal Dma, degli sviluppatori di promuovere e far conoscere le proprie app in maniera libera. Alphabet e Apple sono sotto indagine perché l’Unione europea teme che pongano veri e propri ostacoli a sviluppatori terzi e ad altre modalità di scaricamento che esulino dai loro app store ufficiali.
La seconda questione riguarda i risultati del motore di ricerca Google, l’azienda è sospettata di favorire i propri servizi di ricerca verticale – come Google shopping per gli acquisti o Google flights per i voli aerei – a discapito di servizi terzi, falsando quindi la concorrenza che dovrebbe essere libera ed equa.
Apple è anche accusata di rendere difficoltosa e sconveniente la disinstallazione delle app proprietarie e la modifica di alcune impostazioni predefinite, limitando la libera scelta degli utenti.
Infine Meta – azienda proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp – è sotto accusa per il modello «pay or consent» con cui obbliga gli utenti dei suoi social network a pagare un abbonamento nel caso vogliano proteggere la loro privacy e limitare il numero di dati ceduti. Questo metodo non sembra fornire infatti una vera e propria libertà agli utenti per il controllo dei propri dati personali.
L’indagine dovrebbe concludersi in 12 mesi e, in caso di violazione, la Commissione può imporre multe fino al 10% del fatturato globale delle società, che possono salire al 20% in caso di violazione reiterata. Stiamo quindi parlando di miliardi di dollari a rischio.
Mattia Gisola
Europa armata. Negoziati invisibili
Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.
Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.
Perché queste prese di posizione?
È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?
Un messaggio a Putin
La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.
Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.
Un messaggio all’Europa
La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.
Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.
Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.
Un messaggio all’opinione pubblica
La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.
Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.
Il coraggio della trattativa
Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.
Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.
Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.
E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.
Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.
Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.
Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.
È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.
Paolo Candelari
Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.
Europa e migranti. Le quattro forme di violenza
«Non pensavamo di dover continuare a fuggire anche una volta giunti in Europa», dice un migrante agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) a Ventimiglia, al confine con la Francia.
Una conclusione a cui Msf è giunta grazie a testimonianze raccolte tra i beneficiari di dodici dei suoi progetti in Paesi europei (come Italia, Grecia e Polonia) ed extraeuropei (come Libia, Niger e Serbia).
Dal momento della partenza dai Paesi di origine a quello dell’ingresso nell’Ue, e anche dopo, salute, benessere psicofisico e dignità dei migranti sono messi a repentaglio.
In particolare, l’organizzazione umanitaria individua quattro fasi del percorso migratorio nelle quali la violenza diventa esplicita: la prima è l’intrappolamento nei paesi con i quali l’Ue ha preso accordi di contenimento; la seconda è l’assenza di assistenza e la violenza sui confini; la terza è la detenzione in condizioni spesso degradanti all’interno dei confini dell’Ue; la quarta è l’insicurezza sistematica, l’esclusione e l’indigenza sperimentate nei Paesi di approdo.
Intrappolati nei Paesi extra Ue
Accordi di cooperazione tra Ue e Paesi extra Ue (ad esempio, Libia, Tunisia e Serbia), da cui spesso i migranti transitano per compiere l’ultimo tratto di viaggio, permettono a Bruxelles di esternalizzare le proprie frontiere, intrappolando le persone in Stati non sicuri, dove le condizioni di vita sono difficili e le violenze quotidiane.
La Libia è l’esempio per eccellenza di questa prima forma di violenza fisica e psicologica sui migranti. Tra il 2016 e il 2022, la quantità di persone che dopo aver tentato di lasciare il Paese nordafricano vi sono state riportate a forza è cresciuta fino alla metà del totale delle partenze. Nei primi otto mesi del 2023, più di 11mila persone sono state intercettate e respinte in Libia. Dietro a questo incremento si nascondono i cospicui finanziamenti di Ue e governo italiano per rafforzare la capacità libica di controllare i propri confini.
Muri, barriere, assenza di soccorsi
Nonostante questo, i flussi verso l’Europa continuano. Ed è a questo punto che i migranti si scontrano con una seconda tipologia di violenza. Muri e barriere, dotati delle più moderne tecnologie di sorveglianza, costellano i confini esterni dell’Ue e testimoniano la brutalità dell’approccio securitario europeo alle migrazioni.
Ad esempio, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia corre una barriera di filo spinato alta 5,5 metri. Questa crea quella che viene chiamata la «zona della morte»: una terra di nessuno tra i due Paesi alla quale le organizzazioni umanitarie non possono accedere e dove i migranti – esposti alle intemperie e oggetto di violenze e umiliazioni da parte della polizia polacca di frontiera – si trovano bloccati.
Ma non sono solo muri e barriere a tenere fuori i migranti dell’Ue. Anche la decisione, sempre più frequente, dei Centri maltese e italiano per il coordinamento dei salvataggi in mare di ignorare la presenza di barche in difficoltà nelle proprie aree di competenza costituisce una forma di violenza psicofisica sui migranti. Questo mentre le organizzazioni umanitarie che cercano di supplire alla mancanza di operazioni di salvataggio sono criminalizzate e le loro attività osteggiate.
Detenzioni
Giunti nell’Ue, i migranti si scontrano con una terza forma di violenza, la detenzione. Molti si trovano a vivere in strutture di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.
Sono gli hotspot, introdotti in Italia e Grecia per velocizzare le operazioni di identificazione dei migranti ed eventuali processi di rimpatrio. Luoghi dove le persone sperimentano privazioni e restrizione di diritti e libertà. Questo genera in loro un senso di coercizione che aumenta le sofferenze fisiche e psicologiche già accumulate durante il viaggio.
Marginalizzazione
Infine, a testimonianza di quanto la violenza sia connaturata alle politiche migratorie europee, in diversi Paesi si verificano forme di rifiuto ed esclusione che impediscono ad adulti e bambini di accedere al sistema di accoglienza. In questo modo, i migranti sono forzati a vivere nella precarietà e non beneficiano, ad esempio, di un’abitazione o di assistenza sanitaria di base.
In più alcuni Paesi destinatari di movimenti secondari, come la Francia, ostacolano i flussi: per i migranti, superare il confine italo-francese a Ventimiglia è diventato molto difficile a causa del ripristino dei controlli alla frontiera.
Violenza connaturata alle politiche Ue
Quelle descritte dal rapporto di Medici senza frontiere sono quattro forme di violenza che generano un costo umano enorme. L’organizzazione umanitaria, infatti, riscontra tra i migranti, oltre a problemi fisici come malnutrizione, disidratazione, malattie della pelle e dell’apparato gastrointestinale, anche un’allarmante crescita di disturbi psicologici: disturbi del sonno, ansia, stato di allerta costante e flashback ricorrenti di momenti traumatici.
Nonostante l’evidenza dei dati, le politiche e le pratiche dell’Ue sulle migrazioni sono state confermate e normalizzate nell’ultima versione del Patto europeo su migrazioni e asilo del dicembre 2023. Lo scopo rimane quello di contenere i flussi, senza considerare però l’impatto su coloro che quei flussi li compongono: persone.
Aurora Guainazzi
Paesi Ue della Nato. Sempre più armati e insicuri
È aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022 la spesa pubblica per il comparto militare nei paesi dell’Unione europea membri della Nato. Complice (anche) la guerra in Ucraina che sta consumando gli arsenali dei paesi donatori.
Se prendiamo un arco temporale più ampio, la voce «Difesa» nei bilanci di questi stessi paesi tra il 2014 e il 2023 si è ingrossata del 46%: da 145 miliardi a 215. In media, ogni cittadino ha pagato per la spesa militare, tramite le imposte, 508 euro nel 2023 contro i 330 del 2013: il conto per ogni cittadino italiano è stato di 436 euro.
Nel medesimo periodo di dieci anni la spesa pubblica per l’istruzione è aumentata solo del 12%, quella per la protezione ambientale del 10%, quella per la sanità (che ha affrontato l’emergenza Covid) del 34%.
Insomma, mentre le economie dei paesi dell’Unione europea sono in grave affanno, le disuguaglianze sociali aumentano insieme alle difficoltà dei cittadini a curarsi, a progettare il proprio futuro, a vivere in un ambiente sano, il comparto militare fa festa: la sola spesa per gli armamenti nei Paesi Ue membri della Nato ha raggiunto nel 2023 i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio).
L’obiettivo di arrivare a una spesa per la difesa pari al 2% del Pil, imposto dagli Usa ai suoi partner della Nato, è quasi realizzato. Quello di una maggiore sicurezza, sia interna ai singoli paesi, che internazionale, invece, sembra allontanarsi a grandi passi.
È interessante sottolineare che le importazioni di armi da parte dei paesi Ue sono triplicate tra il 2018 e il 2022, e che la metà di queste importazioni proviene proprio dagli Usa.
Il rapporto Arming Europe pubblicato di recente da Greenpeace, con un focus particolare sulle spese militari di Germania, Spagna e Italia, mette in fila questi dati e diversi altri.
Tra le valutazioni centrali dello studio c’è quella che sottolinea l’irrazionalità dell’aumento delle spese militari: irragionevole sia dal punto di vista della sicurezza che da quello della crescita economica e sociale.
La corsa agli armamenti (in alternativa agli strumenti della cooperazione, della giustizia redistributiva, della diplomazia, della difesa civile), infatti, è da sempre uno dei fattori di inquinamento delle relazioni tra stati e, quindi, scatenanti delle guerre. Ed è anche una palla al piede per l’economia e, di conseguenza, per le politiche sociali dei singoli paesi.
La ricerca di Greenpeace ha il merito di confrontare le stime di crescita economica per diversi ambiti di spesa pubblica: cosa comporta – si chiede la ricerca – una spesa di 1.000 milioni in termini economici ed occupazionali? «In Germania – si legge nel report -, una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro. In Italia, l’aumento risultante è di soli 741 milioni di euro, poiché una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, l’aumento della produzione interna è di 1.284 milioni di euro. L’effetto sull’occupazione sarebbe di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna.
Invece, quando i 1.000 milioni di euro vengono spesi per l’istruzione, la salute e l’ambiente, l’impatto economico e occupazionale è maggiore.
I risultati più elevati si registrano per la protezione ambientale, con un aumento della produzione di 1.752 milioni di euro in Germania, 1.900 milioni di euro in Italia e 1.827 milioni di euro in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. In termini di nuovi posti di lavoro, in Germania 1.000 milioni di euro potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Italia, i nuovi posti di lavoro andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione. In Spagna, l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento nella spesa per le armi».
Se non bastassero le considerazioni etiche contro il riarmo, almeno quelle economiche dovrebbero indurre i governanti a valutare con maggiore attenzione l’uso del denaro pubblico e orientarlo in direzione di una maggiore giustizia, sia sociale che ambientale, sia nazionale che internazionale. Purtroppo pare, invece, che al momento gli interessi siano altri.
Luca Lorusso
Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti
Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.
«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.
Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».
Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.
«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.
I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».
Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.
«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.
La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.
Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.
«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».
I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.
Piccola, sperduta, spopolata. I boschi sono scomparsi da secoli. I ghiacciai stanno sparendo rapidamente a causa dei cambiamenti climatici. L’energia a disposizione è tanta, ma i turisti sono forse troppi. E anche i casi di depressione tra i suoi abitanti. L’Islanda è bella, ma non idilliaca come retorica racconta.
L’aria «si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra».
L’Islanda sarebbe stata la terra che il filosofo di Mileto, Anassimene (586-528 a.C.), da cui sono tratti questi versi, avrebbe probabilmente amato. I quattro elementi costituenti la materia da lui per primo teorizzati e che poi Empedocle (V secolo a.C.) avrebbe fissato in una concezione scientifica che avrebbe resistito fino al Medioevo, si scatenano da millenni nelle viscere di quest’isola per poi liberarsi sulla sua superficie plasmandone il territorio.
Anche se politicamente l’Islanda appartiene all’Europa, geologicamente l’isola è lo spettacolare palcoscenico in cui le due placche continentali europea e americana si incontrano permettendoci di calpestare il suolo dell’una o dell’altra.
I turisti si divertono ad attraversare il «Ponte tra i continenti» che si trova nella penisola di Reykjanes. Si lanciano saluti dalla placca americana a quella europea. A Þingvellir, le guide amano spiegare ai turisti che si inoltrano nel canyon di Almannagjá di stare camminando esattamente tra le due placche tettoniche, anche se in realtà le due faglie non sono così nettamente divise e il canyon di Almannagjà si trova interamente nella placca americana (e per calpestare il suolo europeo occorre attraversare per diversi chilometri tutta la pianura sino ai primi contrafforti che si vedono verso est).
Le forze naturali: risorse e disastri
È comunque proprio questa conflagrazione naturale causata dalle forze tettoniche – che qui in Islanda ha trovato la sua espressione più spettacolare – la causa del fallimento, prima, e del successo, poi, della colonizzazione di questa terra.
Fallimento, perché per secoli la popolazione dell’isola ha dovuto lottare contro l’esuberanza degli agenti naturali e un clima rigido che limitava la coltivazione del terreno rendendo la vita al limite della sopportazione.
Secondo Halldór Laxness, scrittore islandese premio Nobel nel 1955, i suoi connazionali sono l’unico popolo che ha distrutto la natura del loro stesso Paese. La colonizzazione è coincisa con la deforestazione secondo l’idea di una natura da combattere invece che da proteggere.
Successo perché proprio la natura, insieme all’isolamento del Paese, ha da un lato protetto l’Islanda dalle guerre che hanno imperversato in Europa e nel mondo e, dall’altro, a partire dagli anni Novanta, ha favorito lo sviluppo dell’industria turistica, da anni in continua espansione.
Turismo ed energia da fonti rinnovabili
Nel 2022 sono stati 1,29 milioni i turisti che hanno raggiunto il paese a fronte di una popolazione totale di soli 390 mila abitanti. Pur non avendo ancora raggiunto la punta massima del 2018, quando i visitatori furono 1,82 milioni, l’aumento post pandemia è comunque considerevole, tanto da contribuire per il 6,2% del Pil nel 2022, ma suscitando qualche critica anche da parte della popolazione.
Le arterie cittadine sono ormai trafficate, gli incidenti causati dai guidatori non esperti che si avventurano in strade non asfaltate o che rimangono impantanati nei guadi sono in aumento, così come i rifiuti e gli atti di vandalismo (voluti o accidentali). La pressione demografica, che a prima vista potrebbe sembrare poco influente in un paese di 103mila km2 (un terzo dell’Italia), inizia a farsi sentire sull’ambiente (il 90% dei viaggiatori si concentra in aree limitate e utilizza mezzi propri per gli spostamenti) mentre il costo della vita, dei servizi e del mercato immobiliare aumenta, soprattutto a scapito degli abitanti. I prezzi degli appartamenti sono improponibili anche per un islandese, il cui stipendio medio si aggira sui 3.800 euro al mese: un appartamento in centro in una città di medie dimensioni costa sui 4mila euro al metro quadrato e a Reykjavik raggiunge anche i 6-8mila euro. Accanto ai disagi creati dal turismo, la natura islandese dona però anche indubbi vantaggi, in primo luogo sul piano energetico.
L’87% dell’energia prodotta nell’isola proviene da fonti rinnovabili (nell’Unione europea rappresenta il 18.6%, in Italia il 18,4%). Le imponenti masse d’acqua che si riversano nei fiumi generando cascate impressionanti forniscono energia idroelettrica per il 62% del totale dell’energia prodotta nel Paese (nell’Unione europea è il 5,4%, in Italia il 6,4%), mentre il vapore che fuoriesce ininterrottamente dal sottosuolo, oltre a riscaldare le piscine termali, alimenta le centrali geotermiche che contribuiscono al 25% della produzione energetica nazionale.
Nonostante la geotermia sia considerata fonte energetica a basso impatto ambientale, le emissioni di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano) sono comunque considerevoli. I gas serra, sommati a gas tossici come l’idrogeno solforato (H2S), in un impianto geotermico sono emessi durante il processo di generazione. Nei giacimenti sotterranei i fluidi caldi, contenenti principalmente CO2 e metano, vengono portati in superficie, ma mentre il vapore acqueo può venire liquefatto, i gas in esso contenuti non sono condensabili. Al fine di evitare che i gas serra si diffondano nell’atmosfera a Hellisheiði, poco distante da Reykjavik, la più grande centrale geotermica islandese e l’ottava al mondo, è prevista l’installazione di un impianto Dacs (Direct air capture storage).
Mentre visito la struttura, Edda Aradóttir, Ceo della compagnia, mi illustra il progetto «Mammoth», un sistema che, una volta funzionante (si pensa entro il 2025), sarà capace di catturare nominalmente fino a 36mila tonnellate di anidride carbonica l’anno per poi insufflarla a 800-2.500 metri nel sottosuolo dove, nel giro di un paio d’anni, si trasformerà naturalmente in minerali carbonati.
Il riscaldamento climatico e i ghiacciai dell’isola
Il riscaldamento climatico, che gli islandesi cercano di mitigare limitando ulteriormente le già minime emissioni di gas serra rilasciate dal loro sistema energetico, è evidente a Fjallsárlón e Jökulsárlón dove trovo ad aspettarmi Andrea e Claude, entrambi geologi, con cui compio un giro per le lagune glaciali. L’innalzamento delle temperature che sta assottigliando il Vatnajökull, una massa di ghiaccio grande quanto il Friuli-Venezia Giulia, agisce in due modi: da una parte espone le morene all’aria e dall’altra fa arretrare il fronte glaciale. La fuliggine delle attività vulcaniche e la polvere che si deposita sulla superficie del ghiacciaio rendono il suo manto di un colore grigiastro che riduce l’albedo (il potere riflettente di una superficie bianca, ndr) con la conseguente accelerazione dello scioglimento, trasformando il ciclo in un pericoloso uroboro (l’uroboro è il serpente che si mangia la coda, ndr) climatico.
A dieci chilometri di distanza dal Fjallsárlón, si apre la laguna di Jökusárlón, più vasta e più bella della precedente e per questo anche quella più assaltata dai turisti. La Jökusárlón è formata dalla lingua glaciale del Breiðamerkurjökull che, dopo essersi espansa fino al 1890, dagli anni Venti del XX secolo ha iniziato a ritrarsi lasciando spazio a uno specchio d’acqua che si è venuto a formare a partire dal 1935. Oggi questo lago è ampio circa 18 chilometri quadrati e la sua superficie aumenta a velocità sempre più elevata. «L’Islanda ha solo 390mila abitanti e conta ben poco nella lotta contro il cambiamento climatico, ma è spesso presa a esempio per il suo impegno nel contribuire all’impegno per mantenere l’aumento della temperatura sotto il punto di non ritorno», afferma Andrea.
Vero è, però, che un paese poco densamente abitato che ha la fortuna di godere di fonti naturali energetiche poco impattanti dal punto di vista ambientale e – perdipiù – pressoché inesauribili, è sicuramente molto più favorito di altre nazioni.
Del resto, non tutto in Islanda funziona al meglio.
«Abitare in Islanda non è facile» mi dice Guðrún, studentessa di chimica all’University of Iceland che, per guadagnarsi da vivere, passa le vacanze lavorando come cameriera in un bar di Vik: «I turisti arrivano, rimangono estasiati dalla baia, dal Paese, dalle pecore, dalle cascate, dal mare, ma poi, dopo una o due settimane, se ne ritornano da dove sono venuti, nel caldo delle loro città, nella vita notturna, nei concerti. Escono al mattino con il sole e sanno che quella giornata rientreranno con il sole. Se vogliono possono bersi una birra o andare al ristorante senza spendere una fortuna. Da noi tutto questo è semplicemente impossibile».
Mi viene in mente un passo di «Miss Islanda», il libro di Auður Ava Ólafsdóttir, ambientato negli anni Sessanta, ma ancora attualissimo, in cui Hekla, trasferitasi a Copenaghen, scrive alla sua amica Ísey che «la pioggia (a Copenaghen, ndr) non è orizzontale, anzi scende giù verticalmente, come fili di perle».
Gli islandesi e il pericolo della depressione
Nella fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 29 anni, un islandese su dieci soffre di depressione acuta e lo Stato riserva il 12% del budget della sanità per le malattie mentali. Appena possono, i giovani fuggono dall’isola, spesso considerata come una prigione, per trasferirsi sul continente. Ogni anno circa duemila islandesi tra i 15 e i 64 anni si trasferiscono all’estero. Se è vero che essi rappresentano solo l’1% della fetta di popolazione di quell’età, è anche vero che oggi in termini assoluti sono ben 49mila gli islandesi (il 13,2%) che risiedono permanentemente fuori dal Paese.
A parte pochi paesini che contano qualche migliaio di abitanti (Húsavík, Akureyri, Stykkishólmur, Ísafjörður), la maggior parte dei centri islandesi sono deprimenti e senza alcuna attrazione.
La difficile situazione sociale islandese è raccontata oltre che dalla letteratura anche dalla filmografia: Virgin Mountain, Nói AlbÍnói, The Oath-il giuramento, Rams-Storia di due fratelli e otto pecore, e anche la serie Trapped, raccontano i risvolti di una società ben lontana dall’idilliaco stereotipo in cui i turisti si ostiniamo a dipingere la nazione.
Nell’Islanda dei libri di Halldór Laxness o di Ragnar Jónasson c’è molta più verità di una fotografia scattata durante una toccata e fuga nell’isola. È la vita reale di un’Islanda che preferiamo non vedere o non conoscere: famiglie spezzate, intrighi tra colleghi di lavoro, dialoghi ridotti all’osso ed ermetici, paesaggi desolati, quasi sempre cupi e piovosi, paesini malinconici.
Ne «I giorni del vulcano» di Jónasson, Ívar, il superiore di Ísrún, non vede l’ora di licenziare la collega, ma non potendolo fare le affida i lavori più noiosi e insignificanti mobbizzandola persino di fronte alla direttrice della redazione televisiva in cui lavora.
Mi dirigo verso Siglufjörður, a nord di Akureyri, dove è ambientata la serie televisiva Trapped e dove si dipanano le scene dei libri di Ragnar Jónasson. Una manciata di case sparpagliate su una baia per un totale di 1.300 abitanti. Nonostante non piova, le strade sono deserte. Solo qualche turista si aggira tra la banchina del porto e la fabbrica di aringhe alla ricerca di qualche scena che ricordi i luoghi calpestati da Andri Ólaffson, il poliziotto a capo delle indagini.
Ne «L’angelo di neve», Jónasson descrive magistralmente il paesaggio in cui mi immergo: «Il fiordo li accolse con il grigio opprimente di una giornata coperta. Nuvole scure nascondevano l’anello di montagne impedendo di ammirarne in pieno la magnificenza. Il grigiore rendeva opachi i tetti delle case e i giardini erano coperti da un leggero strato di neve».
A Djúpavik, lungo la costa Strandir, nei fiordi occidentali, la desolazione si ripresenta in modo ancora più deprimente. Nel villaggio vive una sola famiglia immersa nel nulla di un paesaggio che è tanto magnifico quando è illuminato dal sole quanto è demoralizzante quando piove. La cittadina più vicina, Hólmavik, si trova a settanta chilometri al termine di una strada non asfaltata. L’unico hotel è una magnifica oasi di pace aperta nel 1985 da Eva Sigurbjörnsdóttir e dal marito Ásbjörn Þorgilsson che, con i loro figli, hanno trasformato ciò che restava di una vecchia fabbrica di aringhe, chiusa nel 1954, in un piccolo museo in cui artisti esibiscono i loro lavori. D’altro non c’è molto: una stazione di benzina in disuso, il relitto arrugginito della Suðurland che, dopo aver smesso di fare servizio fra Reykjavik e il Breiðafjörður, venne trasferita a Djúpavik nel 1935 e usata per ospitare la manovalanza stagionale della fabbrica di aringhe.
Nonostante il villaggio sia quasi abbandonato, Halldór Laxness ha ambientato qui il suo romanzo «Guðsgjafaþula» (Una narrazione dei doni di Dio, non ancora tradotto in altre lingue), mentre nel 2006 i Sigur Rós hanno suonato nella vecchia fabbrica di aringhe e, nel 2016, Ben Affleck, Willem Dafoe e Jason Momoa hanno girato alcune scene di «Justice League».
La politica e la stretta migratoria
L’isolamento a cui sono costretti molti centri islandesi a causa dei collegamenti poco veloci o per le condizioni atmosferiche, ripropone in modo più che mai attuale la questione dello spopolamento delle campagne. Il 94% della popolazione si accalca nelle città. Reykjavik, la cui municipalità da sola raggruppa 243mila islandesi, si sta espandendo: nel 1972 era una cittadina quasi sconosciuta quando per qualche giorno occupò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo con la leggendaria sfida di scacchi tra Bobby Fisher e Boris Spassky e nel 1986 tornò alla ribalta grazie alla riunione tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv alla Höfði. Il summit, assieme all’inaugurazione, avvenuta pochi giorni dopo, della chiesa di Hallgrímskirkja, iniziata nel 1945 (anche in Islanda non tutto funziona in modo efficiente), segnarono la svolta della capitale.
Nel Paese iniziarono a riversarsi i primi turisti e, con loro, i primi immigrati. Dieci anni dopo quasi il 3% della popolazione islandese era straniero: oggi lo è il 19%.
L’apprezzata prima ministra islandese, Katrín Ja-kobsdóttir, del Movimento sinistra e verdi, pur avendo nel suo Dna una politica sociale progressista e illuminata, deve fare i conti con una singolare coalizione di governo che la vede alleata di minoranza di due partiti di centro destra, il Partito dell’indipendenza e il Partito progressista. Il primo, con 17 deputati su 63, è il maggior gruppo parlamentare con un orientamento a destra e liberale. Sostenuto dalle cooperative di pescatori e dagli imprenditori, è euroscettico, condividendo questo sentimento con gli altri due alleati.
Il Partito progressista si è invece sempre più avvicinato ai movimenti populisti abbracciando la retorica sovranista, opponendosi a un’eventuale entrata dell’Islanda nell’Unione europea, criticando le istituzioni e i creditori internazionali e chiedendo una stretta nella regolamentazione migratoria.
Chi ne fa le spese sono soprattutto gli immigrati. La politica islandese sta cambiando radicalmente: le difficoltà economiche, come spesso accade, hanno aumentato l’ostilità della popolazione e del governo verso l’immigrazione, in particolare quella economica. Di fronte alla minaccia di rimpatrio («deportazione» è il termine esatto utilizzato dalle Ong islandesi ) di trecento richiedenti asilo (principalmente di nazionalità irachena e nigeriana), nel 2022 diverse organizzazioni, tra cui la Croce Rossa, sono scese in piazza chiedendo al governo di rivedere la sua politica migratoria.
Nei primi quattro mesi del 2023 su 1.771 domande di asilo (813 da venezuelani, 629 da ucraini, 71 da palestinesi e varie altre nazionalità), solo 736 ne sono state accettate (547 ucraini, 67 palestinesi, 36 siriani).
La polemica religiosa
Nel 2018 il governo di Jakobsdóttir è stato anche al centro di una vivace polemica internazionale per il disegno di legge proposto dal Partito progressista che intendeva proibire la circoncisione con una pena fino a sei anni di prigione.
Di fronte a tale pericolo, l’Inter Faith Forum, presieduto da padre Jakob Rolland, della Chiesa cattolica islandese in collaborazione con l’Istituto di studi religiosi dell’Università dell’Islanda, ha indetto una conferenza a cui hanno partecipato rappresentanti laici, cristiani, ebrei e musulmani (la comunità ebraica islandese conta circa 500-600 membri e solo nel 2021 la fede ebraica è stata riconosciuta come una delle religioni ufficiali del Paese).
Il caso fu ripreso anche dalla stampa: «Se un Paese inizia a proibire una pratica religiosa con la giustificazione dei diritti umani, altre nazioni potrebbero seguirne l’esempio creando un precedente molto pericoloso», mi dice padre Rolland, il quale aggiunge che la sua famiglia polacca ricorda bene gli orrori dei campi di concentramento nazisti. «Era quindi chiaro per noi che dovevamo fermare la proposta sin dall’inizio per evitare che potesse passare inosservata aprendo porte che non devono assolutamente essere di nuovo aperte».
Dopo la conferenza dell’Inter Faith Forum, il parlamento islandese chiese la rettifica della legge al governo, ottenendone il congelamento (non la sua cancellazione).
Il marketing dei vichinghi e il nazionalismo islandese
«I nostri antenati erano vichinghi, il nostro popolo è abituato a lottare per la propria sopravvivenza. Se vuoi qualcosa te la devi meritare, non puoi arrivare in Islanda e pretendere che il governo ti conceda tutto quello che non hai avuto nel tuo Paese d’origine» mi dice un sostenitore del «Fronte nazionale islandese», un partito di estrema destra nato nel 2016 che, come si legge nel suo statuto, intende «proteggere il sistema sociale, l’indipendenza dell’Islanda e la cultura islandese».
L’immagine dell’islandese vichingo è oggi sempre più utilizzata in senso nazionalista dall’ultradestra del paese. In realtà, i primi colonizzatori, a partire da quell’Ingólfur Arnarson che nell’874 sbarcò con la moglie Hallveig Fróðadóttir e al fratello di sangue Hjörleifur Hróðmarsson, erano fuggiaschi norvegesi, per lo più poveri contadini, che cercavano terre da coltivare che non fossero soggette alla pesante tassazione reale.
«Siamo più eredi di poveracci che di fieri guerrieri. Dal punto di vista del marketing, però, l’eredità dei landnásmenn (i proprietari delle terre) non rende quanto quella di nerboruti e battaglieri combattenti», sostiene Lúna, neolaureata in Studi medioevali presso la University of Iceland.
Nel «Landnamabók» (Libro dell’insediamento) sono nominati circa quattrocento coloni che arrivarono in Islanda (tra cui centotrenta dalla Norvegia e cinquanta dalla Britannia).
Molti di essi fuggirono dalla Norvegia per le vessazioni di Harold Fairhair (Bellachioma, ndr), altri fuggirono dalle isole britanniche per le sconfitte subite nel Wessex e a Dublino nel 902.
Ancora oggi la storia della colonizzazione dell’Islanda è ricoperta da un velo di mistero. Si parla anche dell’arrivo di monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar» (vedi sotto).
Saghe, leggende e stereotipi
A proposito di stereotipi, nel 2019, ho partecipato a Edimburgo a una conferenza in cui era invitato Hallgrímur Helgason, scrittore pittore presentatore radiofonico, uno degli uomini più famosi in Islanda (e uno dei più contestati, specie negli ambienti della sinistra), vincitore di due Premi letterari islandesi (nel 2001 e nel 2018) e conosciuto anche in Italia per il suo romanzo «101 Reykjavik».
Nel suo intervento, incentrato sul turismo in Islanda, l’autore ha inanellato luoghi comuni degni del migliore assorbitore seriale di leggende metropolitane lette sui social: dalle coppie giapponesi che sbarcano in Islanda in inverno per avere la possibilità di concepire sotto l’aurora boreale perché ritenuto di buon auspicio (una storia inventata di sana pianta che ha avuto origine in Canada e in Alaska), ai gruppi che circolano per Reykjavik chiedendo «a che ora accendono l’aurora boreale» (l’aforisma – molto probabilmente inventato dallo stesso Helgason – deve piacere particolarmente allo scrittore perché lo cita spesso nei suoi interventi variando di volta in volta la nazionalità dei gruppi – ora cinesi, ora filippini, ora giapponesi – che però rimangono immancabilmente asiatici).
«Ecco, ora hai capito perché ci sentiamo in un certo senso orfani letterari», mi spiega una collega islandese. «Purtroppo dopo Laxness non siamo più riusciti a sfornare scrittori di talento».
Eppure, l’Islanda è il Paese in cui la letteratura, specialmente quella epica, è fiorita più che in altri: le innumerevoli saghe di cui si nutre la storia islandese hanno plasmato la cultura e il carattere della popolazione. Ogni luogo, ogni comunità, ogni anfratto racchiude storie di elfi, diavoli, tesori, troll di cui gli attuali toponimi trasmettono ancora l’eredità.
Lo scandalo finanziari0 e il «Best Party»
Continuando a parlare di miti e leggende, ma sul lato secolare, la leggenda che forse è più dura a morire riguarda l’integrità del sistema Islanda dopo la grande crisi finanziaria del 2008 (che ha visto il fallimento delle tre principali banche del paese, ndr).
Dei 202 imputati chiamati a rispondere delle loro responsabilità, solo 25 sono stati incriminati con pene relativamente miti (tra 6 mesi e 6 anni) e a quattro di questi la condanna è stata sospesa. La maggior parte di loro ha scontato la pena nella prigione di Kvíabryggja, un luogo di detenzione all’aperto e non recintata, e rilasciata dopo un anno. «Attraverso i cambiamenti legislativi, le condanne, già brevi, sono diventate comicamente brevi e in pochi mesi sono tornati a pilotare elicotteri e cenare con i loro coniugi nei migliori ristoranti di Reykjavik», afferma Jared Bibler, ingegnere al Mit di Boston e direttore della squadra investigativa che ha indagato sulla crisi pubblicando in un libro del 2021 un dettagliato resoconto della sua esperienza.
Geir H. Harde, il primo ministro islandese al tempo dello scandalo, dopo essere stato «punito» con la nomina ad ambasciatore dell’Islanda negli Stati Uniti, è oggi direttore esecutivo alla Banca mondiale per gli Stati nordici e baltici.
A seguito della debacle finanziaria, l’Islanda ha conosciuto una rivoluzione politica che si è riverberata sull’intero pianeta: un attore comico, Jón Gnarr, ha formato un partito, il Best Party, che con la sua satira affermava di non voler mentire ai propri elettori: «Dato che i partiti sono segretamente corrotti, noi promettiamo di essere apertamente corrotti».
Il Best Party, nato inizialmente come uno scherzo, è diventato ben presto una realtà politica: nel 2010 ha partecipato alle elezioni comunali di Reykjavik, vincendole con il 35% dei consensi e conquistando sei dei quindici seggi del consiglio comunale. Anarchico, figlio di un poliziotto comunista, Jón Gnarr, pur non avendo mai terminato le scuole secondarie, è diventato sindaco della capitale islandese per quattro anni.
Tra dichiarazioni ironiche («importeremo ebrei per avere finalmente in Islanda qualcuno che ne capisce di economia»), consiglieri improbabili («mi lascio consigliare dai Moomin e dagli elfi, che mi hanno detto che l’Islanda deve aderire all’Unione europea»), Reykjavik sotto Gnarr ha risanato il debito e si è riscoperta una città colorata abbandonando lo squallido grigiore e quella patina di austera compostezza che la contraddistingueva.
La Orkuveita reykjavíkur (Or), l’azienda energetica municipale che aveva accumulato due miliardi di dollari di debiti, è stata risanata licenziando il direttore generale e duecento dipendenti, chiamando esperti, depoliticizzando l’azienda e trasferendo gli uffici in una sede meno costosa. Le reti dei trasporti pubblici e delle strutture educative (scuole e asili) sono state riorganizzate (non senza vivaci proteste da parte della popolazione) e in città sono stati costruiti 25 km di piste ciclabili.
Dall’indipendenza alle guerre del merluzzo
L’ascesa politica di Gnarr e il suo stesso modo di parlare e di agire nel nome del popolo è stato certamente favorito dalla cultura islandese. Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore, una vita tranquilla (per molti, troppo tranquilla).
Non dobbiamo però farci ingannare: pur essendo un Paese pacifico e senza esercito, l’Islanda ha sempre tratto beneficio dalle guerre.
In «Gente indipendente», Halldór Laxness scrive che «La guerra mondiale continua a portare benefici al Paese e alla gente, tanto che non la chiamano altro che guerra benedetta […] e più andava avanti, più la gente ne aveva piacere. Tutti i buonuomini si auguravano che potesse continuare il più a lungo possibile».
La Seconda guerra mondiale ha segnato una tappa fondamentale per l’Islanda: con l’occupazione statunitense, che dal 1941 si sostituì a quella britannica, nel 1944 l’isola ottenne l’indipendenza dalla Danimarca, allora sotto occupazione tedesca. Dopo la fine del conflitto, gli islandesi ricevettero più aiuti procapite rispetto a tutti gli altri europei occidentali.
L’adesione alla Nato contribuì anche alle tre vittorie nelle «guerre del merluzzo» (1950-1970), combattute con successo contro il Regno unito a colpi di speronamenti e, a volte, anche con scambi di artiglieria navale tra la Guardia costiera islandese e la marina britannica, intervenuta a difesa dei propri pescherecci. Con il 10% del Pil legato alla pesca, Reykjavik non poteva (e ancora oggi non può) permettersi di condividere con altre flotte più numerose e attrezzate della sua, le pescose acque artiche. Il governo islandese chiedeva con insistenza che lo sfruttamento dei mari fosse esclusiva prerogativa delle sue navi. Priva di una propria marina, l’Islanda giocò la carta geopolitica minacciando di uscire dalla Nato nel caso le sue richieste non fossero state accettate. Alla fine, fu Kissinger a convincere Londra a ritirare le proprie navi. Così, al termine delle tre guerre (1958-61; 1972-73; 1974-75), Reykjavik riuscì a estendere le acque territoriali a duecento miglia dalle proprie coste.
Tra Unione europea e Cina
La questione ittica, con il mancato accordo sulle quote di pesca, è stato anche uno dei motivi del ritiro, annunciato nel 2013 e messo in pratica nel 2015, della richiesta di adesione dell’Islanda all’Unione europea, anche se, secondo un sondaggio svoltosi nell’aprile 2023, il 44% degli islandesi sarebbe favorevole all’entrata nella Ue contro il 34% dei contrari.
Nel frattempo, però, l’economia islandese deve trovare nuovi sbocchi e nuovi partner. E un nuovo partner lo ha trovato, preoccupando seriamente gli Stati Uniti, nella Cina.
Dopo il crollo della cortina di ferro e lo spostamento dell’attenzione internazionale in Asia, la piccola, sperduta e spopolata Islanda, anziché perdere la sua importanza strategica, l’ha aumentata. In particolare, a partire dal 2013, quando, su iniziativa dell’allora presidente Ólafur Ragnar Grímsson, Reykjavik ospitò la prima assemblea del Circolo artico. Questo, a differenza dell’Arctic council, il consiglio governativo formato nel 1996, è un organismo a cui possono partecipare istituzioni di vario genere, governative, private, Ong, università, ecc. non necessariamente geograficamente ed economicamente coinvolte nelle attività artiche. Vi partecipano, quindi, anche Cina, India, Corea del Sud, Singapore, Emirati arabi, e questo allargamento di confini ha aumentato il peso specifico della politica islandese aprendo le porte dell’isola all’economia di Pechino. La nuova Via della seta passa anche da qui.
Piergiorgio Pescali
Dorsali, placche, magma, geyser
La dorsale medio atlantica si allunga per circa 15mila chilometri nel fondo dell’oceano e, a mano a mano che il mantello della crosta terrestre si eleva, al di sotto di esso viene a crearsi una depressione che riscalda la roccia. Questo aumento di temperatura porta allo scioglimento della crosta che trova sfogo nelle parti meno spesse dando così origine ai fenomeni vulcanici.
Lungo la dorsale, il magma fuoriesce dalle viscere della terra e, a contatto con l’acqua, solidifica. È così che ogni anno il fondo marino si innalza di 2,5 cm, ma vi sono dei punti in cui il movimento è più attivo che in altri ed è qui che il suolo si è innalzato tanto da affiorare sul livello del mare per formare isole più o meno grandi. L’Islanda è la maggiore tra queste e il suo territorio viene letteralmente spaccato dalla dorsale che si incunea per tutta la sua lunghezza. Una diramazione si stacca verso sud dalla faglia principale all’altezza dei vulcani Grimsvötn e Laki-Fogrufjöll per creare una terza «isola» tettonica che comprende i vulcani Katla e Hekla, mentre nella piana di Þingvellir, sede storica del primo parlamento islandese, la placca continentale americana si divide da una placca minore a sé stante, la microplacca di Hreppar.
Terra tra le più giovani del pianeta (è iniziata ad affiorare circa 20 milioni di anni fa), l’Islanda è in continua evoluzione, come testimoniano i numerosi vulcani attivi e le sorgenti termali di cui i geyser sono l’espressione più scenografica.
Le fratture tra le due placche si allargano ogni anno di circa 2,5 centimetri e il movimento, seppur impercettibile ai nostri occhi, causa una vivace attività sismica che si trasmette in fenomeni che toccano più direttamente la vita della popolazione: terremoti, eruzioni magmatiche o geotermiche.
I materiali ricchi di metalli alcalini sono trasportati in superficie dai cosiddetti hotspot, punti circoscritti particolarmente caldi che affiorano seguendo cunicoli e pennacchi. La presenza di acqua, invece, da una parte è la causa della formazione di getti ad alta pressione che fuoriescono sotto forma di geyser, fenditure del terreno che si collegano a falde riscaldate da rocce a contatto con il magma, dall’altra, quando entra in contatto direttamente con il magma, l’acqua si trasforma in vapore dissociandosi in idrogeno e ossigeno. Questa miscela, innescata dai getti incandescenti, esplode con violenza spargendo cenere vulcanica in tutta la regione e cambiando radicalmente la conformazione del terreno.
Pi.Pes.
I vichinghi, «guerrieri del mare»
L’immagine dell’islandese vichingo è uno stereotipo che ha fatto il suo tempo, ma che continua a essere molto popolare all’estero.
Il termine vikingr al maschile era usato dai norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia) per indicare «guerrieri del mare», mentre al femminile, viking, indicava le «spedizioni marittime a fini militari». Oggi la parola vikingr è usata per descrivere chiunque abbia origini norrene nell’era vichinga.
Solitamente assimilati a uomini rudi, mezzi nudi e pelosi, con il barbone rosso che cala dal mento e che si confonde con i capelli lunghi e arruffati nascosti parzialmente da un curioso elmo cornuto, in realtà, i norreni erano una popolazione dai gusti raffinati, eleganti, dedita al commercio con le nazioni più potenti dell’epoca, il Sacro Romano Impero, l’impero arabo, quello bizantino.
I rapporti non si limitarono solo a negoziazioni commerciali di beni di prima necessità, ma consentirono alla società norrena di approfondire la conoscenza di altre culture e apprezzarne la ricchezza artistica.
Grazie ai drekar, le navi dalla chiglia piatta, il popolo dei norreni poteva navigare in mare aperto così come lungo i fiumi a basso pescaggio compiendo esplorazioni in Groenlandia, Islanda e raggiungendo le coste del Nord America, qualche secolo prima di Colombo.
Quella dei vichinghi è un’era che si dipana tra il 750 e il 1050 d.C. Chiamata «Età dell’oro», in essa le società scandinave espansero la loro economia, le loro conoscenze e, dall’XI secolo, assorbirono le influenze cristiane.
Deluderà forse sapere che le corna poste ai lati degli elmi che ancora oggi piacciono tanto ai turisti e ai negozi di souvenir, sono frutto di una leggenda nata in tempi recenti. Fu lo scenografo Carl Emil Doepler a disegnare proprio un elmo del genere per il ciclo «L’anello dei Nibelunghi». Molto probabilmente i vichinghi raramente indossavano copricapi in ferro, preferendo quelli in cuoio, lasciando gli elmi per le cerimonie dei nobili, che se li portavano nelle loro tombe come simbolo distintivo sociale.
L’ecllissi della società vichinga avvenne in concomitanza con la transizione verso il cristianesimo grazie all’opera del re Olaf II Haraldsson (995-1030), il Sant’Olaf a cui tutta la cultura baltica e slava è particolarmente affezionata. È a seguito della conversione forzata del popolo norreno che venne realizzata la famosa stele di Dynna, oggi conservata nel museo di Storia di Oslo. Questo monolito piramidale di tre metri rappresenta una delle prime testimonianze cristiane della regione scandinava. I suoi bassorilievi propongono una commovente Natività e i tre re Magi che seguono la stella di Betlemme, non ancora trasformatasi nella cometa di cui Giotto sarà primo autore, tre secoli più tardi, nella Cappella degli Scrovegni, a Padova.
Pi.Pes.
Geotermia, dall’Italia all’Islanda
La generazione di energia elettrica e di calore da geotermia è iniziata in Italia nel 1818 grazie all’ingegnere di origini francesi, Francesco Giacomo Larderel che pensò di sfruttare i getti di vapore che uscivano dal suolo nel comune di Pomarance, nell’allora Granducato di Toscana, per produrre boro utilizzandolo nelle industrie farmaceutiche.
Per omaggiare l’ingegno di Larderel, Leopoldo II decise di dare al luogo il nome dell’ingegnere e il 4 luglio 1904 il proprietario della ditta, Piero Ginori Conti, decise di sperimentare un generatore la cui bobina era alimentata con il calore geotermico. Con l’accensione di cinque lampadine, quel 4 luglio 1904, si inaugurò la geotermia. Sette anni dopo, la prima centrale geotermica al mondo venne inaugurata a Larderello e oggi le 34 centrali geotermiche italiane producono seimila GWh (2.976 GWh in provincia di Pisa, 1.492 GWh in provincia di Siena e 1.403 GWh in provincia di Grosseto), circa la stessa quantità generata in Islanda (5.960 GWh).
La compagnia energetica nazionale islandese, la Orkustofnun, ha la possibilità di rilevare le risorse energetiche presenti nel sottosuolo di qualsiasi terreno, privato o pubblico, nel Paese. Un proprietario di terreno può richiedere la licenza d’uso per poter sfruttare risorse geotermiche (e del sottosuolo in generale) per un periodo limitato.
In Islanda, ad oggi sono state individuate 20 aree geotermiche all’interno di zone vulcaniche attive con vapori che raggiungono temperature sotterranee di 250°C entro i mille metri di profondità e circa duecentocinquanta aree geotermiche lontane dalle zone vulcaniche, i cui vapori, sempre a mille metri di profondità, non superano i 150°C.
Oggi il 90% delle abitazioni islandesi sono riscaldate con impianti che traggono calore dall’energia geotermica e in alcune zone di Reykjavik e di altre città islandesi i marciapiedi, le strade e le aree di parcheggio sono dotate impianti di riscaldamento a geotermia per sciogliere il ghiaccio durante i mesi invernali.
Nel 2000 un consorzio di compagnie energetiche private e pubbliche (HS Orka hf, Landsvirkjun, Orkuveita Reykjavíkur e la Orkustofnun) ha iniziato un progetto, l’Iceland deep drilling project, Iddp, per sfruttare sistemi idrotermali ad altissima temperatura al fine di raggiungere fluidi supercritici che si trovano a 4-5 km di profondità con temperature che raggiugono i 400-600°C. I giacimenti supercritici potrebbero arrivare a una potenza sino a dieci volte superiore rispetto a quelli convenzionali: mentre questi ultimi raggiungono una profondità media di 2,5 km con una potenza equivalente di 5 MWe, quelli Iddp riescono ad attingere giacimenti supercritici con temperature superiori a 450° con una potenza equivalente prodotta pari a 50 MWe.
Pi.Pes.
Chiese e fedeli
La leggenda dei «papar»
Come negli altri paesi nordici, anche in Islanda la grande maggioranza dei fedeli segue la Chiesa luterana. I cattolici arrivarono presto, ma la loro vicenda è priva di certezze storiche.
Padre Jakob Rolland, cancelliere ecclesiastico della diocesi cattolica di Reykjavik, che incontro presso la cattedrale di Landakotskirkja (Cristo Re), afferma che i primi abitanti dell’Islanda furono monaci irlandesi, i cosiddetti «Papar», dal celtico pap e dal latino papa, «padre» o «papa».
Secondo lo storico Axel Kristinsson, invece, non vi è alcuna prova archeologica secondo cui l’Islanda fosse in qualche modo abitata prima dell’arrivo dei norreni (nome generico per i popoli della Scandinavia, ndr) nel IX secolo. Il testo più antico che testimonia la presenza dei papar è l’«Íslendingabók» (Libro degli islandesi), scritto tra il 1122 e il 1133 dallo scrittore e religioso Ari Þorgilsson (1067-1148) in cui si afferma che «L’Islanda fu colonizzata per la prima volta dalla Norvegia ai tempi di Harold Fairhair. […] A quel tempo l’Islanda era coperta da boschi tra le montagne e la costa. C’erano cristiani, che i norvegesi chiamano papar, ma che se ne andarono perché non volevano convivere con i pagani lasciando libri irlandesi, campane e pastorali. Da questo si poté capire che fossero uomini irlandesi». Ma l’Íslendingabók, oltre a essere stato scritto da un rappresentante della Chiesa, non porta alcuna prova, oltre a quella tramandata oralmente circa tre secoli dopo i fatti raccontati, della presenza cristiana.
Quel che è certo, è che la fede cristiana venne abbracciata nel 999 d.C.
Cristiano III e il luteranesimo
Nel villaggio di Holmavík, c’è uno dei musei islandesi più particolari e originali: quello di magia e stregoneria, diretto da Anna Björg Þórarinsdóttir. «In Islanda la Chiesa cattolica e il paganesimo, che portava con sé pratiche magiche, hanno convissuto abbastanza pacificamente», ha commentato la direttrice.
Fu solo dopo il XVI secolo, quando Cristiano III (1503-1559), re di Danimarca e Norvegia, impose la fede luterana anche all’isola, allora possedimento danese, che iniziò la caccia alle streghe.
«Il primo caso di messa al rogo registrato è avvenuto a Eyjafjörður, quando un certo Jón Rögnvaldsson venne accusato di aver praticato casi di stregoneria, mentre l’ultimo avvenne nel 1719 a Þingvellir».
Luterani e cattolici nell’Islanda di oggi
In termini percentuali, la Chiesa cattolica islandese è la più grande tra quelle dei paesi del Nord Europa, tutti dominati dalle Chiese luterane. Dal 2015 la comunità cattolica è guidata da monsignor Dávid Bartimej Tencer, dell’ordine dei frati minori cappuccini.
La Chiesa principale (70 per cento dei fedeli) è la Chiesa nazionale d’Islanda, luterana. Dal 2012 essa è retta da Agnes Margrétardóttir Sigurðardóttir, la prima donna vescovo del paese.
Piergiorgio Pescali
Hanno firmato il dossier:
Piergiorgio Pescali, ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è un assiduo collaboratore di Missioni Consolata.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione mc.
Ucraina, tempo di deporre le armi
L’aggressione della Russia all’Ucraina rientra nella prassi delle grandi potenze. In questo caso, a causa del pericolo nucleare, la situazione è ancora più rischiosa. La domanda da porsi è la seguente: è possibile difendersi da arroganza, soprusi e violenza senza ricorrere alle armi?
L’aggressione contro l’Ucraina da parte della Russia di Putin è l’ennesimo esempio di come le grandi potenze si sentano autorizzate a utilizzare la forza delle armi ogni volta che non trovano altro modo per imporre la propria volontà. Per quanto riguarda la Russia, era già successo negli anni passati con l’aggressione alla Cecenia (1999-2009) e alla Georgia (2008). Per quanto invece riguarda l’Occidente, possiamo citare l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan. Ovviamente una giustificazione è fornita sempre, possibilmente nobile. Ad esempio: la difesa della libertà, l’esportazione della democrazia, la liberazione delle donne. E, naturalmente, la sicurezza, ragione principe invocata anche dalla Russia per giustificare l’invasione dell’Ucraina.
Crimea e Donbass
Fino al 1991, l’Ucraina era una delle Repubbliche dell’Unione Sovietica. Poi, quando l’Urss si disgregò, divenne una nazione indipendente, al pari della Russia. Con una popolazione di 44 milioni di persone, il 70% dei residenti in Ucraina parla ucraino, l’altro 30% russo, porzione collocata soprattutto nella parte meridionale e orientale del paese, in particolare nelle regioni della Crimea e del Donbass. Da vari anni in queste regioni si erano sviluppati movimenti separatisti, che, nel 2014, diedero alla Russia il pretesto per invadere e annettersi la prima. E non è un caso se, nel febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina è cominciata proprio con l’invio di truppe in Donbass, dove, va detto, il conflitto che dura da oltre un lustro ha già provocato all’incirca 14mila vittime da ambedue le parti, le milizie filo russe e l’esercito ucraino.
La Crimea venne occupata sostenendo che lo chiedeva la popolazione locale. In realtà interessava alla Russia per la sua posizione strategica: affacciata sul Mar Nero, essa permette alle fregate russe di raggiungere il Mediterraneo attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli. Ma l’invasione avvenne nel febbraio 2014, una data che, collegata ad altri eventi, mostra come l’annessione della Crimea avesse anche un altro scopo, al tempo stesso punitivo e intimidatorio. Da tempo fra Ucraina e Unione europea erano in corso trattative per stipulare un accordo di libero scambio (in vista di una piena adesione all’Ue), ma quando arrivò il tempo della firma, nel novembre 2013, il presidente in carica, Viktor Janukovyč, si rifiutò di farlo. Immediatamente nel paese si svilupparono vaste proteste represse nel sangue dalla polizia ucraina. Esse, però, alla fine ebbero come risultato la fuga e la messa in stato di accusa di Janukovyč. Le proteste popolari mostrarono chiaramente che una larga fetta della popolazione voleva e vuole un processo di avvicinamento all’Unione europea, ma questo alla Russia non è mai piaciuto. E qui sta il vero nodo del contendere: la Russia non tollera di avere un paese confinante deciso ad orbitare attorno a un altro centro gravitazionale. Non lo tollera per ragioni economiche e per ragioni militari.
Ucraina e Unione Europea
Come c’era da aspettarsi, nella fase iniziale di spezzettamento dell’Unione Sovietica, le relazioni economiche dell’Ucraina erano principalmente con Mosca. Tuttavia, un po’ alla volta, la Russia è stata sostituita con l’Unione europea che, oggi, assorbe il 43% delle esportazioni ucraine e contribuisce al 41% delle sue importazioni. I settori forti dell’economia ucraina sono la siderurgia, l’agricoltura, il settore minerario. Settori che la rendono importante perfino a livello mondiale. In campo agricolo, ad esempio, l’Ucraina è il primo esportatore mondiale di olio di girasole, il terzo produttore al mondo di patate e il quinto esportatore di grano. In ambito minerario è il primo paese europeo per riserve di uranio, il secondo paese del mondo per riserve di ferro, l’ottavo al mondo per riserve di carbone, minerale tornato tristemente in auge.
L’Ucraina svolge un ruolo importante anche come paese di transito del gas russo. Ruolo che tuttavia si è andato attenuando da quando nel 2012 è entrato in funzione il Nord Stream, il gasdotto che porta il gas direttamente in Germania passando per il Mar Baltico. Tant’è che oggi solo il 30% del gas russo diretto all’Europa passa per l’Ucraina, con danno evidente per l’economia del paese che si vede ridurre gli introiti per questo servizio. Pur con questo neo, nell’ultimo decennio l’economia ucraina è cresciuta costantemente. Con i suoi 44 milioni di consumatori, molti servizi pubblici privatizzabili, abbondanza di terre agricole, vasti giacimenti da sfruttare, l’Ucraina esercita un forte appeal sull’Unione europea che, pur di averla come 28° membro, ha anche deciso di spenderci. Dal 2014 a oggi, l’Unione europea ha sborsato all’Ucraina 17 miliardi di euro, parte a fondo perduto, parte sotto forma di prestiti, per consentirle di portare avanti le riforme necessarie a poter entrare nell’Unione. La Russia, da parte sua non ha speso neanche un rublo, ma vorrebbe tanto che l’Ucraina divenisse il sesto membro dell’«Unione economica euroasiatica», l’alleanza economica instituita nel 2014 fra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia.
Il ruolo della Nato
Più dello smacco economico, a innervosire la Russia è però la questione militare. Quando il mondo comunista cominciò a disgregarsi, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, esistevano due alleanze militari: da una parte il Patto di Varsavia, dall’altra l’Alleanza Atlantica, in sigla Nato.
Il Patto di Varsavia era stato istituito nel 1955 e, oltre all’Unione Sovietica, comprendeva altri sette paesi del blocco comunista: Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania. Il Patto Atlantico, invece, era stato istituito nel 1949 e oltre a Stati Uniti e Canada, comprendeva un’altra decina di stati europei del blocco capitalista. Le due alleanze avevano entrambi lo scopo di permettere ai paesi aderenti di sostenersi a vicenda nel caso uno di loro fosse stato attaccato da un paese del blocco opposto. Con il disgregarsi del blocco comunista e il conseguente sfaldamento del Patto di Varsavia, molti si dissero che la Nato non aveva più ragione d’esistere, ma invece di dissolversi si rafforzò perché molti paesi ex comunisti chiesero di farne parte. E oggi la Nato è un’alleanza militare formata da30 paesi, che complessivamente spendono in armamenti oltre 1.000 miliardi di dollari all’anno, oltre le metà della spesa mondiale per armamenti che, nel 2021, è stata pari a 1.981 miliardi. In testa gli Stati Uniti che da soli hanno speso 778 miliardi, il 39% della spesa mondiale. La Cina, seconda in classifica, spende 252 miliardi, mentre la Russia si attesta a 62 miliardi dietro l’India che ne ha spesi 73. In termini di spesa pro capite fa 2.364 dollari per gli Usa e 430 per la Russia.
Oltre a chiedere dientrare nell’Unione europea, l’Ucraina chiede di entrare anche nella Nato. Il processo di ammissione è in atto in entrambi i casi. Per l’entrata nell’Alleanza, un tavolo di consultazione permanente è stato istituito nel 1997. Nel frattempo, sono possibili piani di collaborazione, come l’invio di istruttori militari da parte della Nato o la messa a disposizione di truppe da parte del nuovo candidato, per operazioni militari che coinvolgono la Nato. Ad esempio, nel 2003 l’Ucraina ha inviato in Iraq qualche migliaio di soldati che ci sono rimasti fino al 2008. Scelta ripetuta nel 2007 con l’invio di truppe in Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno ringraziato, inviando 2,7 miliardi di dollari dal 2014 a oggi per il rafforzamento dell’esercito ucraino.
Intanto, nel 2017, un nuovo atto del parlamento ucraino ha confermato la richiesta di ingresso nella Nato, permettendo al presidente Zelensky di proseguire con le procedure di ammissione. La Russia però si oppone strenuamente a questa prospettiva, perché non gradisce l’idea di avere basi e truppe Nato a ridosso dei propri confini. Da un trentennio Mosca si oppone all’allargamento dell’Alleanza Atlantica, chiedendo all’Ucraina di scegliere la strada della neutralità, come fanno vari altri paesi in Europa: Moldova, Svezia, Finlandia, Austria, Irlanda, Svizzera. E, fra tutti, il riferimento è la Finlandia, paese nordico che confina con la Russia. La Finlandia fece la scelta della neutralità nel lontano 1955 come contropartita dello smantellamento della base militare russa a Porkalla, un porto navale a pochi chilometri da Helsinki. Un precedente storico che dovrebbe far riflettere.
Tra sanzioni e armi
Fortunatamente, la scelta effettuata dall’Occidente come contromisura contro le ripetute aggressioni russe è stata quella delle sanzioni economiche, anche se, in controtendenza, in occasione dell’aggressione di febbraio è stato deciso di inviare anche armi alle forze ucraine. Scelta che era meglio non fare, ricordandoci che, secondo l’articolo 11 della Costituzione, «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Che non significa rinunciare a difenderci o tollerare qualsiasi sopruso e arroganza, ma rivedere il modo di opporci alle violenze. La politica perseguita fino a oggi dall’Occidente, Italia compresa, è l’attuazione del motto «Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra. La cosa da fare è ribaltare questo postulato affermando che la pace si prepara con la pace. Che in concreto significa due cose.
La prima: prepararci a forme di difesa basate sulla non collaborazione. Ad esempio, nel caso ucraino piuttosto che armi avremmo dovuto inviare corpi civili di pace col duplice scopo di soccorrere la popolazione locale e mettere in difficoltà l’esercito invasore.
La seconda scelta è quella di smettere di intervenire a cose fatte, quando il vaso si è rotto e cercare invece di prevenire la rottura del vaso. Che, fuori di metafora, significa lavorare per la distensione invece che per la tensione. Oggi, un passo fondamentale in questa direzione sarebbe lo smantellamento della Nato e di qualsiasi altra organizzazione militare che crea blocchi militari. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è la chiara dimostrazione di come i blocchi militari generino paura e la paura generi violenza.
I vuoti proclami delle Nazioni Unite
L’unica strada per interrompere l’escalation militare è il multilateralismo. Il rafforzamento, cioè, di sedi internazionali all’interno delle quali portare i dissidi internazionali con l’intento di trovare soluzioni basate sulla mediazione e l’accordo, piuttosto che sulle armi. L’umanità aveva già fatto un tentativo in questa direzione tramite l’istituzione delle Nazioni Unite. Ma non ci ha creduto abbastanza e oggi le Nazioni Unite sono poco più di un luogo dove si pronunciano vuoti proclami. È arrivato il tempo di cambiare tutto questo.