La lanterna resta accesa. Padre Bernardo Sartori, missionario


L’ultima volta che lo incontro è a Roma, lungo Via San Pancrazio. Un caldo giorno d’estate del 1968. Sono in autobus, quando scorgo sul marciapiedi una veste nera e una barba bianca.

«Ferma, ferma! – grido al conducente del bus -. C’è un’emergenza!». L’autobus si ferma fra lo stupore generale. Le porte a fisarmonica del mezzo si aprono.

Corro da lui, distante circa 70 metri, e lo chiamo: «Padre Bernardo!».

Quando mi vede, esclama: «Varda, varda el fiòl de Marino» (Guarda, guarda il figlio di Marino).

«Cosa fai qui a Roma?», mi chiede.

«Sto studiando teologia».

Conversiamo un po’. Naturalmente in dialetto veneto.

Padre Bernardo Sartori, quando ti incontra, chiunque tu sia, ti fa sentire «unico» nella sua vita. Così è anche per me in questo giorno romano.

Tuttavia, le persone accolte nel suo cuore sono migliaia e migliaia: a Falzé di Trevignano (Treviso), suo paese natale, a Troia (Foggia), dove ha operato come animatore missionario e, soprattutto, in Uganda, che lo vedrà missionario per 49 anni filati.

Padre Bernardo ha una parola speciale «solo per te». Una parola gioiosa.

Alla fine del nostro incontro nella capitale mi prende per mano dicendo: «Méname casa, parché me son pers qua a Roma» (Portami a casa, perché mi sono perso qui a Roma).

Padre Bernardo Sartori dal 2022 è «venerabile». Presto sarà «beato». Un fulgido esempio della Chiesa missionaria.

Quella stupida guerra

Bernardo Sartori nasce il 20 maggio 1897. Una frazione con meno di mille persone, tutta campi di frumento, granoturco, foraggio per vacche e buoi, gelsi per i bachi da seta e filari di viti. Ma spesso la metà dei raccolti è roba del «paròn». I contadini, infatti, in stragrande maggioranza sono fittavoli o mezzadri.

Fra i «paroni» c’è pure un conte. I bambini, quando lo vedono passare per strada fumando il sigaro, lo sbeffeggiano con la cantilena: «Conte coe braghesse onte / conte col capel de paia / conte canaia» (Conte con i pantaloni unti / conte con il cappello di paglia / conte canaglia).

Quei «paroni», con le loro mogli e amanti, sono spesso «canaglie», incuranti della fame e pellagra che affligge i contadini.

Un giorno padre Angelo Pizzolato, frate cappuccino di Falzé, durante un’omelia denuncia: «La nostra gente è rimasta povera a causa di due, tre signorotti».

Povera è pure la famiglia di Bernardo Sartori. Ad esempio: per pagare la retta del seminario diocesano, dove Bernardo studia da prete, i genitori devono togliersi la polenta dalla bocca. Polenta, perché il pane lo mangiano solo i «paroni».

Scoppia la Prima guerra mondiale (1914-1918). È «la grande guerra».

«Un’inutile strage», come lamenta il papa Benedetto XV. Falcia la vita a 10 milioni di persone. I caduti italiani sono 650mila (senza contare i civili) e i mutilati 450mila.

Nel 1917 anche Bernardo Sartori, ventenne, viene arruolato e mandato sul fiume Isonzo.

Una notte le mitragliatrici degli austriaci crepitano furiose a pochi passi da lui, le granate gli piovono intorno come arpie seminando morte. I cadaveri si ammassano al suolo tra urla disperate. Bernardo dice a se stesso: «È finita anche per me».

Poi si inginocchia, stringe la corona del rosario e prega: «Madonna santa, non farmi morire in questa stupida guerra. Io voglio andare fra i neri dell’Africa».

Amico lettore, se ti capita di entrare nella chiesa parrocchiale di Falzé, sosta davanti all’altare della Madonna del Carmine. Fra i vari ex voto «per grazia ricevuta» ne troverai uno firmato «Chierico Bernardo Sartori». Testimonia la sua vittoria in «una stupida guerra».

Da Troia a Ortisei

«Io voglio andare fra i neri dell’Africa».

Quella notte, sotto una tempesta di bombe, Bernardo Sartori promette di diventare missionario. E missionario sarà sulla scia di san Daniele Comboni, fondatore dell’omonimo istituto missionario.

Ordinato sacerdote il 31 marzo 1923, padre Bernardo è pronto per il grande balzo verso l’Africa, ma lo scoprono tisico con i polmoni bucati. La morte lo attende impietosa. Il tubercolotico, però, guarisce, ancora «per grazia ricevuta» dalla Madonna del Carmine di Falzé.

Ora si parte? Non ancora. Nel 1927 il superiore dei Comboniani lo manda a Bovino, in provincia di Foggia, per iniziare un seminario missionario. Però il seminario nascerà nella vicina, gloriosa ed antica Troia, che nulla ha a che fare con la Troia della seducente Elena, descritta dal poeta greco Omero.

Siamo sempre nel foggiano. Qui padre Bernardo e alcuni comboniani fanno i preti, risiedono in una casa (un ex convento) dedicata a «Maria Mediatrice di tutte le grazie». Sennonché «la Mediatrice» non c’è. Mancano pure i quattrini per comprarne un’immagine.

La notizia giunge fino al vescovo Fortunato Farina, che mette mano al suo portafoglio.

Padre Bernardo, in fatto di Madonne, ha gusti fini. Non si accontenta di immagini qualsiasi, magari rabberciate con lo spago. Per Troia, Bernardo esige una Maria Mediatrice pregevole, artistica, nuova di zecca. Soprattutto che parli al cuore dei troiani.

A tal scopo raggiunge Ortisei, in Alto Adige, dove si intagliano statue sacre in legno pregiato.

«Non voglio “una Madonna nordica”, perché io sono missionario nel Sud Italia – esordisce padre Bernardo di fronte all’artigiano altoatesino -. Inoltre, deve essere una Madonna missionaria».

«Si spieghi meglio, reverendo, perché lei sta andando sul difficile», replica l’artigiano dall’accento teutonico.

«La Madonna – spiega padre Sartori – tenga in una mano il piede di Gesù Bambino e con l’altra ne sorregga il braccio, quasi voglia porgerlo ai fedeli visitatori. Insomma, una Madonna che presenti a tutti Gesù salvatore del mondo». Oggi, secondo la mariologia moderna, la Madre del Signore è immagine e inizio della Chiesa, che avrà il suo compimento domani e dopo domani. Nel frattempo, Maria, per il travagliato popolo di Dio, «brilla quale segno di sicura speranza e consolazione» (Lumen Gentium 68). Infine, nel 1965, al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II, papa Paolo VI (oggi santo) dichiarerà Maria «Madre della Chiesa». La dimensione mariana è uno dei cardini della spiritualità del nostro missionario.

Maria, Sultana d’Africa

Emoziona il tenore Andrea Bocelli, cieco, quando canta: «Con te partirò. Paesi che non ho mai veduto e vissuto con te, adesso sì li vedrò».

Finalmente anche padre Bernardo Sartori parte. Parte per un paese mai visto. È l’Uganda dei martiri Carlo Lwanga e dei suoi 21 compagni (alcuni anglicani). Parte il 5 novembre 1934 con in cuore tutte le persone cui ha comunicato la sua passione missionaria in Italia.

Quando arriva a Gulu, trova ad attenderlo fratel Arosio, un amico fin dai tempi di Troia.

«Ciao, vecchio. Cosa sei venuto a fare in Uganda?», lo canzona Arosio.

«Sono venuto a costruire chiese per la Madonna», sorride Bernardo.

«Ed io ti aiuterò», conclude Arosio.

«Costruire chiese per la Madonna». Grazie al sostegno dei compaesani di Falzé, degli amici di Troia e di altri benefattori, padre Bernardo costruirà numerose chiese in onore della Madre del Signore.

Ne ricordo quattro: Maria Sultana d’Africa a Lodonga, Maria Madonna di Fatima a Koboko, Maria Regina Mundi a Otumbari, Maria Madre della Chiesa a Arivu.

A Lodonga la vita è particolarmente complessa, perché è controllata in tutto dai musulmani. I colonialisti inglesi, che dominano l’Uganda, ritengono che a Lodonga l’Islam diventerà presto l’unica religione dell’intera tribù dei Logbara. Però padre Sartori erige una barriera con Maria, Sultana d’Africa. Ebbene, l’avanzata islamica si arresta. Nel 1961 i musulmani sono 30mila, e 30mila rimarranno a tutt’oggi, mentre i cattolici aumenteranno. Inoltre, parecchi musulmani abbracceranno il Cristianesimo. Di qui l’affermazione: «L’unico missionario capace di convertire i musulmani è padre Bernardo Sartori».

C’è «una logica soprannaturale» nel missionario: Maria è la porta dell’evangelizzazione (ad Iesum per Mariam). Così la chiesa materiale è il coronamento visibile di un’altra realtà più importante: la nascita della Chiesa viva.

Alla costruzione di chiese padre Bernardo abbina sempre un’altra opera assai più impegnativa e significativa: l’annuncio della «lieta notizia».

Ecco, allora, le interminabili visite alle comunità cristiane a piedi, in bicicletta o con la famosa moto a monocarrello; ecco le interminabili maratone sacramentali, le istruzioni, le penitenze. Il tutto accompagnato da una predicazione appassionata, canti coinvolgenti e una costante promozione sociale e spirituale.

Last but not least, tanta preghiera personale e altrettanta affabilità verso tutti.

Solo così si spiegano le conversioni dei seguaci di Muhammad.

Quello storico mattino

Dal 1971 il missionario vive le drammatiche vicende della bizzarra quanto brutale dittatura di Idi Amin Dada, nonché la sua caduta nel 1979, conseguente alla guerra Uganda-Tanzania.

Nel 1979 l’esercito del Tanzania invade l’Uganda fino alla capitale Kampala. È una dura «ritorsione», giacché i soldati di Amin hanno invaso per primi il Tanzania a Kagera.

Il Tanzania pagherà salatissima, in termini economici, quella invasione di «liberazione», mentre l’Uganda sprofonderà nella guerra civile.

Nella missione di Arivu tanti cristiani di padre Bernardo cercano scampo nel Congo (allora Zaire). Il missionario li segue, profugo tra i profughi.

Nel 1980 ritorna in Uganda e il 28 aprile rimane coinvolto in una sparatoria a Otumbari.

Da giugno a luglio 1982, padre Bernardo è nuovamente profugo in Congo. Instancabile nella pastorale e nell’assistenza alla popolazione abbattuta nel fisico e nel morale.

Ritorna in Uganda, nella missione di Ombaci. Ha 85 anni. È molto stanco.

Ma ogni mattina sosta in chiesa dalle ore 4 alle 8. Come se non bastasse, trascorre notti intere in preghiera.

Pure quel mattino, mentre in cielo si rincorrono le stelle sotto lo sguardo assorto della luna, il missionario entra in chiesa facendosi luce con una lanterna al cherosene.

È storico quel mattino, perché è il mattino di Pasqua del 3 aprile 1983.

Ora padre Bernardo Sartori giace esamine sul pavimento della chiesa al cospetto del Santissimo. È ritornato alla casa del Padre.

La lampada è ancora accesa, segno di una fede che ha vinto la morte.

L’arrivederci del popolo di Uganda al suo missionario è una apoteosi di commozione e riconoscenza senza pari.

La notizia raggiunge la gloriosa Troia, che proclama il lutto cittadino.

Mentre la modestissima Falzé canta l’alleluia pasquale, perché il loro indimenticabile compaesano è risorto.

Francesco Bernardi

 

L’articolo si rifà liberamente al libro «La sfida di un uomo in ginocchio» (padre Bernardo Sartori, missionario comboniano in Uganda), scritto da Lorenzo Gaiga, Emi, Bologna 1985.




Un missionario medico per amore


Dopo due anni di attesa e rinvii a causa della pandemia, il missionario comboniano è stato finalmente riconosciuto beato il 20 novembre scorso, durante una celebrazione eucaristica nella sua missione di Kalongo, nel nord dell’Uganda. Il suo nome compare ora nella schiera di Santi e di Beati che la Chiesa già venera.

Medico missionario comboniano, spese la sua vita a servizio degli ultimi facendosi interprete del Mandatum novum conferito da Nostro Signore agli Apostoli duemila anni fa. Fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte, ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni sorta di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile la Buona Notizia e, da questo punto di vista, la testimonianza da lui manifestata in sala operatoria o in corsia era, a dir poco, strabordante.

Appassionato del Regno di Dio, era pienamente consapevole delle proprie responsabilità. Emblematico è quanto egli scrisse ai suoi cari: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura».

Il servizio agli ammalati per lui era una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione. Come ha scritto pertinentemente di lui padre Arnaldo Baritussio, postulatore della sua causa: «Padre Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, ha contribuito con l’offerta della sua professionalità medica ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati è una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione».

Medico e missionario

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Dal 1942 al 1950, il giovane Ambrosoli completò la sua formazione classica e professionale e pose le basi di una solida spiritualità che aveva già avuto modo di manifestarsi nell’apostolato tra i giovani dell’Azione Cattolica.

Con grande zelo, si iscrisse alla facoltà di medicina con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore»,  spiegò ai propri familiari.

Nel 1949 fece visita al superiore dei Comboniani di Rebbio (Como) con l’intento di mettere a servizio della missione ad gentes la sua qualifica di medico. Ricevuto l’assenso, chiese un periodo di riflessione prima di decidere definitivamente di entrare nella congregazione. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale al «Tropical Hygiene» di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, si lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria.

Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano, in provincia di Novara, il 18 ottobre 1951, e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955, venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro papa Giovanni Battista Montini. Questo periodo segnò propriamente il completamento della formazione religiosa e teologica di padre Ambrosoli.

Uganda

Il 10 febbraio del 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu, capoluogo dei territori nord del Paese. Da qui si trasferì a Kalongo nell’East-Acholi, mentre seguiva e terminava gli studi dell’ultimo anno di teologia al seminario intervicariale di Lachor a Gulu. Il suo servizio missionario si svolse in quella porzione del popolo Acholi che occupava l’estremo Est dell’attuale arcidiocesi di Gulu.

La geografia di quelle terre, è bene rammentarlo, è anni luce distante dal nostro immaginario non foss’altro perché rappresenta un unicum all’interno della stessa Africa subsahariana. Stiamo parlando dell’Uganda settentrionale, un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50mila chilometri quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia.

L’altitudine media di questo territorio si aggira attorno ai mille metri sul livello del mare, ma questo non impedisce che sia una delle zone più calde dell’Uganda. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che servono come confine naturale con il Sudan meridionale; si tratta di alture che un tempo venivano utilizzate come rifugio dai ribelli. Il paesaggio è comunque seducente agli occhi di qualunque viaggiatore. Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge, dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit.

Kalongo

È proprio nel settore orientale di questo territorio, a valle di un’enorme e suggestiva spina vulcanica di granito con un dislivello di 500 metri, il monte Oret, che si erge la piccola e ospitale cittadina di Kalongo. è qui che padre Ambrosoli trascorse il resto della sua vita, esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987.

Quando vi giunse, trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò in un vero e proprio ospedale. Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, con l’aiuto della consorella comboniana suor Eletta Mantiero, la Scuola per ostetriche e infermiere. Nel 1972 poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm.

Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero. La comboniana suor Caterina Marchetti descrive così una giornata di lavoro di padre Ambrosoli: «Incominciava con la sala operatoria verso le 7.30 del mattino e finiva alle 13.30 e a volte anche oltre. Rientrava per il pranzo; poi una breve pausa di riposo e quindi in dispensario a visitare gli ammalati fino alle 8 di sera. Subito dopo rivedeva gli operati della mattina e poi andava a cena. In seguito lo si vedeva recitare il rosario camminando nel cortile della missione, poi andava in chiesa dove rimaneva parecchio tempo. Prima di andare a letto rivedeva i conti o scriveva lettere. Le sue ore di sonno erano molto poche. Spesso di notte lo chiamavamo in maternità per emergenze di ostetricia. Uno si domanda come facesse, anche perché molto tempo lo dedicava alla preghiera».

Aneddoti

La fama di questo medico missionario si diffuse un po’ ovunque, non solo in territorio Acholi, ma anche tra altri gruppi etnici della regione come i Lango, i Kuman e i Teso. A questo proposito sono numerosi gli aneddoti che ne descrivono la popolarità.

Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale, nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, a un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale. Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome.

Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale, ma di una partecipazione totale, dal profondo del proprio essere, a quello che stava testimoniando, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto nei suoi confronti. D’altronde era un contemplativo con l’anima e con il cuore.

«Ajwaka Madid»

Inizialmente venne soprannominato «Ajwaka Madid», lo «stregone bianco». Poi, per la sua carica spirituale, venne chiamato «medico della carità».

Il servizio missionario di padre Ambrosoli venne scandito da diversi avvenimenti che segnarono positivamente e anche tragicamente la storia d’Uganda della seconda metà del Novecento. Visse infatti la parte finale della stagione coloniale britannica, a cui seguirono l’indipendenza, l’ascesa al potere di Milton Obote, l’avvento del dittatore Idi Amin Dada, il ritorno di Obote e l’ascesa dell’attuale presidente Yoweri Museveni.

Gli ultimi anni della sua vita furono segnati in particolare dalla guerriglia di cui ancor oggi il nord Uganda conserva profonde ferite.

Proprio in seguito ai ripetuti scontri tra forze governative e fazioni ribelli, il 13 febbraio 1987, fu costretto a evacuare l’ospedale di Kalongo. Si pose allora per lui la questione più spinosa: quella di trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la scuola per ostetriche e infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compromessa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte per insufficienza renale.

Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo.

1958, Kalongo, padre Giuseppe Ambrosoli con le allive della scuola infermiere e suore Comboniane

Il miracolo

Com’è noto, per la beatificazione è necessario il miracolo, vale a dire il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per la sua congregazione, per la Chiesa locale che l’ha visto nascere, e poi per quella comunità che l’ha accolto nell’adempimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha poi conservato il corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie padre Ambrosoli ne aveva ottenute in vita, ma quella che canonicamente è stata riconosciuta come un vero e proprio miracolo dalla Chiesa è quella avvenuta nel 2008 nell’ospedale di Matany, nella regione del Karamoja, nell’estremo nord est dell’Uganda, che ha coinvolto una giovane mamma di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir.

La donna, perso il figlio che portava in grembo, stava per morire di setticemia. Dal punto di vista clinico, non c’erano più speranze di salvarla. Ma il medico che la stava seguendo, Eric Dominic, di origini torinesi, le mise sul cuscino l’immagine di padre Ambrosoli e chiese ai familiari di invocare «il grande dottore». La mattina dopo Lucia apparve come rinata.

L’allora vescovo di Moroto, monsignor Henry Apaloryamam Ssentongo, sotto la cui giurisdizione si trovava la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, volle che si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio della Congregazione delle cause dei santi.

Così il 17 settembre 2010 iniziò il processo del presunto miracolo. Vennero convocati i testimoni presenti al fatto, oltre a due medici specialisti e due periti. Raccolta anche tutta la documentazione clinica, il processo si concluse positivamente quasi un anno dopo a Moroto, il 21 giugno 2011. Successivamente, questa guarigione venne decretata come «straordinaria e inspiegabile» dalla commissione medica istituita dalla Congregazione per le cause dei santi.

Una scelta d’amore

Un medico che lavorò fianco a fianco con padre Ambrosoli, ha scritto questa testimonianza: «Egli può essere considerato una figura radicalmente esemplare: non tanto per la sua bravura e polivalenza chirurgica, né per la sua capacità organizzativa e gestionale, e neppure per la scelta degli “ultimi”, come si usa dire oggi. Nonostante tutto ciò rimanga innegabilmente vero, è soprattutto per aver fatto una scelta di servizio e quindi di amore, supportata da una forte capacità organizzativa, che la sua figura diviene esemplare. La sua fu una scelta operata non per vanagloria o smania ascetica e autorealizzativa, quanto invece per rispondere, in umiltà e ubbidienza, quindi “negando se stesso”, a un invito di amore e di servizio basato sulla fede che è come attuazione del comandamento divino di “amare il prossimo”». Questo è l’elemento fondamentale che, secondo il postulatore della causa, padre Baritussio, conferisce all’opera di padre Ambrosoli un significato universale: «Accessorio e accidentale è il fatto che tutto questo egli lo abbia realizzato in un ospedale della savana africana. Essenziale invece, è che tale scelta di servizio “tecnico”, basata sulla fede come adesione operativa al Padre celeste, egli l’abbia realizzata integrandola direttamente in una prospettiva pastorale: carità al servizio del Vangelo ossia al servizio di un “annuncio di salvezza”. Questa è la ragione per cui padre Ambrosoli, nel suo operare, non è rimasto succube di una contraddizione tra sacerdozio e professione, ma ha saputo utilizzare l’una a vantaggio dell’altra realizzando tra le due una perfetta integrazione al servizio dell’uomo in un’ottica di fede».

L’ospedale vive

L’opera del beato Ambrosoli ha trovato un felice prosieguo nell’impegno profuso da un altro medico missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e dalla Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dai suoi familiari e dai comboniani. Motivo per cui ancora oggi i pazienti di Kalongo non possono fare a meno di dire: «Apwoyo, Brogioli», grazie padre Ambrosoli. Una testimonianza, la sua, di fedeltà all’ideale comboniano di «salvare l’Africa con l’Africa».

Giulio Albanese

Tomba del beato nel cimitero di Kalongo




Uganda: I nipotini alla riscossa


In Uganda i missionari della Consolata hanno una presenza piccola, ma vivace, che data 34 anni. Il paese è in una posizione strategica, tra i colossi dell’Africa dell’Est e quelli dell’Africa centrale. Oggi soffre a causa di un presidente padrone che ha difficoltà a farsi da parte. Per questo i giovani ugandesi sono in fermento e chiedono leader che «parlino la loro lingua».

Padre Leo Bagenda è un raro missionario della Consolata di nazionalità ugandese. Entrato nell’Istituto nel 1983 frequentando la filosofia a Nairobi (Kenya), è stato ordinato nel 1992. La sua prima missione è stata in Tanzania, paese nel quale ha operato diversi anni. Nel 2003 è tornato in Uganda, dove lavora tuttora. Negli ultimi anni, fino a giugno 2019, è stato parte del consiglio regionale dei missionari della Consolata di Kenya e Uganda come consigliere responsabile per il suo paese.

Padre Leo è vispo e parla un ottimo italiano. Ci racconta la realtà dell’Istituto in Uganda, vivace ma poco conosciuta.

Attualmente lavora nella parrocchia di Bweyogerere, «la prima dei missionari della Consolata in Uganda», tiene a precisare, «fondata nel 1985 da padre Luigi Barbanti (+1999)». Padre Leo offre il suo appoggio alle altre due missioni nel paese, quella di Kapeka, da lui fondata nel 2003, e di Bulugui, la nuovissima missione inaugurata il 30 settembre dello scorso anno. Segno anche questo di vitalità della compagine ugandese. Completa la presenza dell’Istituto nel paese il centro di animazione vocazionale di Kiwanga, non lontano da Kampala, la capitale.

I missionari della Consolata di nazionalità ugandese sono una quindicina e, in questo momento, lavorano in Kenya, Sud Africa, Colombia, Brasile e Stati Uniti, oltre ad alcuni in servizio nel loro paese.

«Uganda mon amour»

Padre Leo ci parla del suo paese e accenna alla guerra civile che lo ha attraversato a partire dagli anni ‘80 e poi fino a metà 2000: «Nel Nord dell’Uganda la guerra è finita, ma ha rovinato la vita sociale. Le popolazioni locali sono nomadi, e molti abitanti sono andati via, lontano, a causa del conflitto. Le famiglie sono state smembrate. Inoltre l’educazione è sempre complessa per questa tipologia di persone, ovvero è difficile per i bambini nomadi andare a scuola. È anche un discorso di mentalità da cambiare. Inoltre la guerra ha rovinato le infrastrutture esistenti».

Nel Nord dell’Uganda imperversava il sanguinario Joseph Kony leader del Lord resistence army, gruppo armato che ha agito nel paese dal 1986 a metà 2000, quando è stato cacciato e si è spostato in altri paesi (vedi MC giugno 2012). «Kony ha ammazzato tanta gente, ha diviso famiglie, arruolato a forza bambini. Per rifare la vita ci vuole tempo. Inoltre la gente ha dei dubbi, vuole capire se la guerra è davvero finita. Psicologicamente il trauma è enorme».

Padre Leo ci spiega che il Nord, al contrario del Sud, è una zona ancora molto missionaria. «Nelle diocesi del Sud c’è molto clero locale, siamo tranquilli con il personale. Al contrario nel Nord, dove, come detto, il livello di scolarità è molto basso, il clero è raro ed è necessario avere sacerdoti stranieri o di altre zone del paese. Anche i vescovi arrivano spesso dall’estero».

Il padre ci racconta della situazione attuale del paese, e in particolare di politica. Qui, Yoweri Museveni, presidente della repubblica dal 1986, non accenna a voler lasciare la poltrona, e si ricandiderà alle elezioni del 2021. Su di lui circolano diverse storie. La più incredibile riguarda la sua età: «Di fatto non si sa con certezza la data di nascita del presidente. Qualche anno fa, ha fatto cambiare la Costituzione che prevedeva il limite massimo dei 75 anni per la candidabilità. Oggi però non sappiamo quanti anni abbia. Ci sono alcuni personaggi, che hanno studiato con lui, quindi suoi coetanei, che hanno oltre 80 anni. Ma lui dichiara di averne almeno sette di meno».

Quanto è difficile lasciare

«Museveni ha lavorato bene come presidente, ma ora non vuole mettersi da parte», è il parere di padre Leo. «È diventato quasi un dittatore, non vuole che altri si presentino come candidati alla presidenza della Repubblica e cerca di screditarli. Inoltre ha nominato diversi famigliari in posti chiave, facendo diventare la gestione della cosa pubblica quasi una cosa di famiglia». È un ex militare, un uomo forte, che si impone. Tuttavia il rischio per il paese è quello tipico dei presidenti che stanno a lungo al potere: «Quando cadono, non c’è nessuno abbastanza forte che li sostituisce, e si scatena una guerra per la successione».

Il missionario lamenta anche una mancanza di diritti di base nel suo paese e fa il confronto con il Kenya, che conosce bene: «Il Kenya ha fatto qualche passo in avanti. Oggi non si può bistrattare l’opposizione e incarcerarne i membri senza ragione. In Uganda è ancora possibile. In Kenya c’è una maggiore libertà di parlare in pubblico, di fare convegni e manifestazioni anche contro il partito al potere. Nel mio paese non è assicurato. Le forze dell’ordine possono intervenire rapidamente, e lo fanno, con lacrimogeni, disperdendo le manifestazioni e arrestando le persone».

Uganda’s President Yoweri Museveni addresses the nation at State House in Entebbe, Uganda, on September 9, 2018. (Photo by Sumy SADURNI / AFP)

I giovani e la politica

«Museveni dice di essere voluto da tutti ma, in realtà, io vedo un desiderio di cambiamento nella gente, e soprattutto nei giovani, che sono la maggioranza della popolazione».

Chi ha oggi 40 anni, non ha visto che lui come capo di stato, che è al potere da 33. Negli ultimi tempi si è creato un movimento intorno al cantante Robert Kyagulanyi Ssentamu, in arte Bobi Wine, 37 anni, che ha iniziato a produrre canzoni politiche. Aumentata la sua popolarità, tre anni fa si è candidato in parlamento ed è stato eletto. Ora punta alla presidenza, con il suo movimento «People Power, our power», che si definisce «un gruppo di resistenza e di pressione, che vuole farla finita con gli abusi dei diritti umani e la corruzione in Uganda». Un movimento giovane, il cui leader, come spesso sta accadendo sul continente, è un cantante che ha veicolato il messaggio politico attraverso la musica. «Bobi parla del presidente Museveni come se fosse suo nonno. Un famoso testo – ricorda padre Leo – recita: “Nonno, è tempo che tu lasci il posto ai tuoi nipotini. Dovevi lasciarlo ai tuoi figli, ma adesso sei in ritardo. Stai tranquillo che tutto sarà sotto controllo”».

Padre Leo continua: «Bobi Wine parla chiaro. Dice che il popolo ugandese è giovane e vuole dei leader che parlino la sua lingua, che lavorino per lo sviluppo del paese. E per questo fa campagne e ha molta gente che lo sostiene. Il presidente Museveni lo teme e lo ha già fatto incarcerare più volte, con svariate scuse. Spesso le sue manifestazioni sono bloccate con il pretesto che non hanno il permesso. Salvo il fatto che quando il permesso viene richiesto è concesso in ritardo. Inoltre quando deve fare un concerto, le autorità cercano d’impedirlo, perché molte canzoni sono a sfondo politico e assembrano masse di giovani. Ad esempio, per la festa dei martiri ugandesi, quando è arrivato Bobi, c’era più di un milione di persone. È diventato pericoloso per il presidente».

Conclude padre Leo speranzoso: «Questo fenomeno ci fa dire che la voglia di cambiamento da parte del popolo giovane c’è, e speriamo che riesca a smuovere qualcosa».

Robert Kyagulanyi / Sumy SADURNI / AFP

Ugandesi social?

I giovani sono aiutati nella mobilitazione, anche politica, dalle nuove tecnologie. In particolare dai social network come Facebook  (Fb) e i programmi di messaggistica come Whatsapp. «Infatti – spiega padre Bagenda -, quando ci sono crisi politiche, lo stato blocca i mezzi di comunicazione, a partire dai social, poi i telefoni. È il fenomeno noto come media blackout. I leader autoritari dicono a se stessi: “Fb e Whatsapp non ci portano da nessuna parte. I casi sono due: o li blocchiamo o li controlliamo”. Ma questo non si può fare, almeno non completamente. Inoltre su Fb la gente dice tutto quello che pensa, e usa anche un cattivo linguaggio. Ma adesso non è possibile tornare indietro, i giovani ovunque hanno il cellulare. In tante scuole, ad esempio, li fanno depositare all’ingresso, perché è un disturbo per le lezioni». Questo vale per le città. Nelle campagne la rete internet è più debole, ci spiega il missionario, e così anche la possibilità di collegarsi.

I cellulari sono anche molto utilizzati per il trasferimento di soldi (money transfer), e per il pagamento diretto di prodotti e servizi, abitudine che invece è ben diffusa nel vicino Kenya.

Il sogno americano

I giovani che vogliono lasciare l’Uganda per cercare una vita migliore altrove sono ancora molti. «Aumentano tutti gli anni – ci conferma il missionario – e oggi si emigra sotto forme diverse. Esiste ad esempio una migrazione organizzata verso i paesi della penisola arabica. Agenzie specializzate selezionano i ragazzi a Kampala e se li trovano idonei per alcuni lavori, di solito di basso livello, come guardiani, ecc., li reclutano e poi organizzano la documentazione necessaria e il viaggio stesso. Il pacchetto completo insomma.

Così all’aeroporto di Entebbe (Kampala) capita di vedere gruppi di ragazzi ugandesi, molto giovani, tutti con la stessa maglietta, che, come fossero in una vacanza studio, si imbarcano per un paese del Golfo. In realtà vanno a lavorare». Padre Leo non lo dice, ma uno dei rischi di chi va in quei paesi, soprattutto per le ragazze, è quello di finire sfruttati o schiavizzati.

Gli altri paesi di attrazione per gli ugandesi sono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, anche a causa dell’affinità linguistica. In questi ultimi, ci racconta padre Leo, si è diffusa la pratica del matrimonio di comodo: «Ho saputo di donne ugandesi che riescono a recarsi negli Usa con un visto turistico. Qui fanno un accordo con uomini cittadini statunitensi per sposarsi civilmente. In questo modo la donna ottiene il permesso di soggiorno. Nell’accordo la donna si impegna a restituire un debito, di solito 5-10mila dollari, al marito di comodo. La donna lavora e rimborsa a rate. Saldato il debito, e possono passare anni, i due richiedono il divorzio».

Padre Leo ci racconta che molti giovani, anche di classe media, finita l’università, anche se trovano lavoro in Uganda, poi fanno di tutto per migrare negli Usa. Alcuni utilizzano la scusa degli incontri internazionali del Rotary International: «Si iscrivono, passano alcuni anni come soci, poi prendono l’occasione di una convention in Canada o negli Usa. Come Rotary ottengono facilmente i visti. Ma una volta lì, si dileguano, diventando clandestini».

Negli Stati Uniti o in Canada non è detto che si riesca a inserirsi per le competenze che si hanno. Padre Leo ci racconta di un suo parente medico che, da diversi anni, lavorava in Uganda guadagnando poco. Ha voluto seguire l’esempio di un collega che era andato negli Usa. Là il collega, non potendo fare il medico in quanto la sua laurea non è riconosciuta, si era messo a lavorare come assistente in una casa di riposo, con un buon guadagno. Il parente del missionario è partito a sua volta. Ora si è integrato, ha un lavoro, una famiglia, una casa. Ovviamente non fa il medico.

«I giovani continuano a lasciare i nostri paesi perché hanno informazioni su altri e cercano una vita migliore. I ragazzi che muoiono in Libia o nel Mediterraneo sono disperati. Quando sono nel proprio paese sentono dire che la vita è migliore in Europa e decidono di correre il rischio. Secondo me, l’unico modo di evitare questo esodo, è appoggiare i paesi di origine, ma certo non è facile. Voglio dire che un ugandese non è attratto dalla prospettiva di andare a vivere in Kenya, perché il livello di vita è simile, ma in Europa sì. Il problema poi resta l’integrazione».

Marco Bello


Cronologia essenziale

Nel regno incontrastato di Museveni

  • 1962, 9 ottobre – Proclamazione dell’indipendenza. Un anno più tardi l’Uganda diventa Repubblica.
  • 1966, 22 febbraio – Colpo di stato del primo ministro Milton Obote con l’aiuto del generale Idi Amin.
  • 1971, 25 gennaio – Colpo di stato del generale Idi Amin Dada, Obote si rifugia in Tanzania.
  • 1972, settembre – Iniziano le violenze etniche contro Acholi e Lango. Obote cerca di riprendere il potere ma fallisce. Nel ‘74 iniziano campagne di persecuzioni contro etnie rivali di Amin e partigiani di Obote.
  • 1976, 25 giugno – Idi Amin, che si è proclamato maresciallo, si nomina presidente a vita.
  • 1978, ottobre – Inizio della guerra contro la Tanzania. Nell’aprile del 1979 l’esercito tanzaniano conquista Kampala, Idi Amin fugge in esilio. Si susseguono due presidenti (Yusuf Lule e Godfrey Binasa) insediati dal Fronte di liberazione nazionale dell’Uganda (Unlf) e una Commissione militare.
  • 1980, 10 dicembre – Milton Obote vince le elezioni presidenziali.
  • 1981, giugno – Yoweri Museveni fonda l’Esercito di resistenza nazionale (Nra), braccio armato del Movimento di resistenza nazionale. L’Nra si oppone all’esercito governativo.
  • 1986, 25 gennaio – L’Nra conquista la capitale e quattro giorni dopo Yoweri si proclama presidente.
  • 1987, gennaio – Iniziano combattimenti nel Nord del paese a causa dei ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) comandato da Joseph Kony.
  • 1993, 5-10 febbraio – Visita di Giovanni Paolo II.
  • 1996, 9 maggio – Yoweri Museveni vince le elezioni presidenziali. Sarà rieletto nel 2001, 2006, 2011 e 2016 (quello attuale è il quinto mandato di 5 anni).
  • 2005, 12 luglio – Il parlamento sopprime la limitazione ai mandati presidenziali.
  • 2005, 6 ottobre – Mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro 5 capi dell’Lra, tra i quali Joseph Kony.
  • 2006, 29 giugno – Firma di un accordo di responsabilità e riconciliazione tra governo e Lra. Il 31 luglio Kony incontra i rappresentanti del governo.
  • 2006, 26 agosto – Firma a Juba (Sud Sudan) di un accordo di cessate il fuoco tra Lra e governo.
  • 2010, 11 luglio – Doppio attentato a Kampala rivendicato dagli islamisti di Al Shabaab (76 morti).
  • 2011, 22 novembre – L’Unione africana dichiara l’Lra «gruppo terrorista».
  • 2013, 20 dicembre – Adozione di una legge molto dura nei confronti degli omosessuali.
  • 2015, 3 gennaio – Cattura in Repubblica centrafricana di Dominic Ognwen, uno dei capi dell’Lra.

Ma.Bel.

 


Uganda in cifre

  • Superficie: 241.038 km2 (poco meno dell’Italia)
  • Popolazione: 42,8 milioni (2017)  |  Crescita demografica: 3,3%
  • Speranza di vita: 60 anni  |  Mortalità infantile (0-5 anni): 49‰ (2017)
  • Alfabetizzazione adulti: 73,8%
  • Lingue: ufficiali inglese e swahili, parlate tutte le lingue dei gruppi etnici, tra cui ancholi, kiganda, konjo, lusoga
  • Religioni: cattolici (44,6%), anglicani (39,2%), musulmani (10,5%), altri
  • Pil e crescita del Pil: 26 miliardi di dollari; 3,9% (2017)
  • Pil pro capite: 620 dollari / anno
  • Indice di sviluppo umano: 162° paese su 189 (2017)

Fonti: Banca mondiale, Pnud, Atlante De Agostini

 




Premio Elsa Morante


La giuria presieduta da Dacia Maraini inizia ad annunciare i vincitori di alcune sezioni dell’edizione 2016, anno del trentennale della celebre kermesse culturale

 La giuria del Premio Elsa Morante, presieduta da Dacia Maraini, e composta da Silvia CalandrelliFrancesco Cevasco , Enzo Colimoro, Maurizio CostanzoRoberto FaenzaDavid MoranteTjuna Notarbartolo (direttore della manifestazione), Paolo Ruffini , Emanuele Trevi,  Teresa Triscari, consegnerà il Premio Elsa Morante 2016 per la saggistica ad Aldo Cazzullo che vince con  il suo “Le donne erediteranno la terra” (Mondadori).

Questo saggio, vivace ed approfondito, fotografa, con sagacia e delicatezza, il mutamento di ruoli e percezioni dell’universo femminile, tracciandone la storia passata, attraverso figure esemplari e di ogni settore, e prevedendo un definitivo avanzamento della donna di cui il nostro secolo sarebbe testimone.  Sono moltissime le figure femminili che, inteazionalmente, ricoprono ruoli di prestigio o di potere. L’Italia resta un Paese maschilista; eppure sono donne importanti amministratrici, o scienziate. “Le donne erediteranno la terra perché sono più dotate per affrontare l’epoca grandiosa e terribile che ci è data in sorte. Perché sanno sacrificarsi, guardare lontano, prendersi cura.”

aldo-cazzulloAldo Cazzullo, giornalista, inviato ed editorialista del Corriere della Sera. Romanziere, saggista, ha dedicato oltre dieci libri alla storia e all’identità italiana.

suor-rosemary-nyirumbe-webE una donna che “erediterà la terra” è sicuramente Suor Rosemary Niyrumbe, già eroe dell’anno per la CNN e inserita tra le cento personalità più influenti del mondo secondo Time Magazine, a cui sarà conferito il Premio Elsa Morante per l’Impegno Civile. Coraggiosa, generosa, illuminata, da anni conduce in Uganda una pacifica battaglia fatta di istruzione, lavoro e riscatto, salvando le baby-soldato barbaramente impiegate nelle guerre che da anni brutalizzano l’Africa. La sua storia è raccontata nel recente libro “Suor Rosmary Niyrumbe. Cucire la speranza” pubblicato dalla Emi.

Suor Rosmary, religiosa ugandese sessantaduenne, appartiene alla congregazione delle suore del Sacro Cuore di Gesù, ostetrica, laureata e con Master in Etica dello sviluppo, è diventata suora a soli 15 anni, «per amore dei bambini». Ha fondato la scuola di Santa Monica dove hanno trovato rifugio migliaia di donne e bambini.

I due vincitori, insieme agli altri che saranno annunciati nei prossimi giorni, ritireranno il prestigioso riconoscimento nel corso della cerimonia di premiazione del Morante 2016 che si terrà il prossimo 12 dicembre, al teatro Mercadante di Napoli, alle ore 18,00.

Il Premio Elsa Morante, è organizzato dall’Associazione Culturale Premio Elsa Morante -onlus, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli, la Città Metropolitana di Napoli ed il Teatro Mercadante. Il cornordinamento è affidato alla giornalista Iki Notarbartolo e la comunicazione alla giornalista Gilda Notarbartolo. Media partner Rai Cultura.

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