A un anno dal colpo di stato contro il presidente Mohamed Bazoum, il 26 luglio 2023, il bilancio del governo della giunta non è certo positivo. I militari presero il potere con la forza, motivando la loro azione con la necessità di sanare problemi di mal governo e riportare la sicurezza nel Paese.
Il Cnsp (Consiglio nazionale di salvaguardia della patria, la giunta), con alla testa il generale Abdourahamane Tiani, ha il controllo totale del paese. L’attività di partiti politici rimane sospesa, così come tutti gli organi democratici di governo, a livello nazionale e locale.
Il Cnsp ha imposto al contingente militare francese di partire, e recentemente, a quello Usa e tedesco, che devono lasciare il suolo nigerino entro fine agosto. Solo alcune centinaia di militari italiani (anche loro facevano parte della forza anti terrorismo ed erano stati chiamati dai francesi) rimangono nel paese, a spese dell’ignaro contribuente della penisola, e non è chiaro con quale incarico.
Sicurezza e diritti umani
In questo anno di governo militare, la situazione della sicurezza è peggiorata. È aumentato il numero degli attacchi da parte di gruppi armati, e anche quello delle perdite tra i soldati nigerini. I gruppi jihadisti hanno esteso il territorio sotto la loro influenza: sia nella zona di frontiera tra Niger e Benin, nella zona delle tre frontiere (Burkina Faso, Mali, Niger) e addirittura nel Sud Est, dove Boko Haram pareva domato.
La società civile denuncia un forte degrado della situazione dei diritti umani. Sono state ristrette tutte le libertà civili, politiche e la libertà di stampa e di espressione. Molti politici e personalità legate al governo democratico sono ancora imprigionate, senza un preciso capo d’accusa. Diversi giornalisti sono stati arrestati o hanno subito pressioni, altri sono costretti ad applicare l’auto censura.
Il generale Tiani, che inizialmente aveva parlato di una transizione di tre anni, non ha più proposto alcun programma o scadenza per un ritorno alla democrazia. Intanto, dopo la prima fase di sanzioni, la comunità internazionale si è piegata alla realpolitik. La Cedeao (Comunità economica regionale) ha tolto le sanzioni economiche a gennaio, mentre Banca mondiale e Fondo monetario internazionale hanno inviato esperti e ripreso a finanziare il paese a partire da giugno.
L’Unione europea ha invece mantenuto la sospensione della cooperazione, fatta eccezione di Italia e Spagna.
Nuovi e vecchi amici
Intanto, nel settembre scorso, Niger, Mali e Burkina Faso – anche questi ultimi due retti da giunte militari golpiste – hanno creato l’Alleanza degli stati del Sahel (Ass). Alleanza che a inizio luglio (durante un incontro dei tre capi di stato militari proprio a Niamey) è diventata una Confederazione che si contrappone alla Cedeao, vuole intensificare gli scambi commerciali e cambiare la moneta lasciando il franco Cfa. Una tendenza all’isolamento, questa, almeno nei confronti degli stati confinanti.
A livello globale, il Niger si sta rivolgendo ad altri partner. Ha negoziato un prestito di 400 milioni di dollari con la Cina (che sta sfruttando il petrolio nigerino del giacimento di Agadem), necessario per pagare altri prestiti. Mentre per far funzionare l’apparato statale si valuta necessaria una spesa di circa 100 milioni di euro all’anno).
Il primo ministro (de facto), Ali Mahamane Lamine Zeine, inoltre, a inizio anno ha visitato Teheran, Mosca e Ankara, per rafforzare il legami con i paesi che stanno sostituendo quelli occidentali nello scacchiere saheliano.
In particolare la Cina è interessata alla cooperazione sul petrolio, ed è in vista un investimento per una raffineria nella regione di Dosso, e un secondo oleodotto verso il Ciad. Il primo, ultimato e funzionante, è gestito dalla China national petroleum corporation (Cnpc) porta il greggio in Benin, ma è soggetto alle problematiche legate al rapporto non buono tra i due paesi.
La Russia interviene con una cooperazione militare in cambio di risorse, come già in Mali e Burkina Faso. In Niger c’è un particolare interesse per l’uranio, del quale il Paese è uno dei maggiori produttori mondiali.
Marco Bello
L’economia dei respingimenti
Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.
Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.
Le strategie dei governi
Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.
Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.
In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.
Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.
Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.
Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.
Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.
L’accordo con la Libia
Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.
Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.
Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.
In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.
Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.
Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.
In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».
L’accordo con la Tunisia
Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.
Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.
L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.
Stati Uniti (ma anche India)
Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.
Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.
In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.
Intanto, in Europa
A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.
Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.
Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.
Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.
A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.
In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.
Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».
Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.
Francesco Gesualdi (prima parte – continua)
Somalia. Sognando la normalità
Uno Stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?
I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. Hanno l’adrenalina al massimo anche se, per loro, questa è una missione come un’altra in una delle città più pericolose del mondo: Mogadiscio, la capitale della Somalia. Sono una decina sul pick-up che ci precede. Un’altra ventina sui due mezzi che ci seguono. Tra noi e loro il fuoristrada del comandante della scorta, un sudafricano alto due metri e massiccio come una roccia. «Qualsiasi cosa succeda – dice prima di partire -, non scendete dal fuoristrada se non ve lo ordino io. E, una volta a terra, continuate a seguire le mie indicazioni». Questo è quanto attende un europeo che voglia lasciare il compound dell’aeroporto di Mogadiscio per avventurarsi in città.
Lo scalo, costruito dagli italiani e ristrutturato dai turchi, è una sorta di città fortezza dove c’è di tutto: alberghi, negozi, aziende. La struttura è protetta da mura solide sormontate da chilometri di filo spinato. Rinunciare alla scorta è impossibile: militari, contractors o uomini di compagnie di sicurezza devono accompagnare qualsiasi convoglio sia all’interno dell’aeroporto sia all’esterno.
Appena fuori dall’hotel, troviamo un primo posto di blocco con sbarre, gestito da soldati ugandesi armati con Ak-47. Poi un altro, sempre composto da soldati ugandesi. A fianco delle sbarre un mezzo dell’Unione africana simile agli Iveco Lince in dotazione delle forze armate italiane. Più avanti un altro blocco. Questa volta la colonna è costretta, da una fila di jersey in cemento a rallentare drasticamente e a fare una serpentina. Si entra in città.
Mogadiscio è viva
L’immagine che avevamo prima di arrivarci era quella di una metropoli spaventata, chiusa in sé, con poco traffico e poca gente. Invece le strade sono piene di uomini, donne, animali (soprattutto capre e asini). Ai bordi, piccoli mercati, negozi, locali affollati. C’è un continuo viavai di piccoli taxi apecar. Mogadiscio è viva. C’è fermento.
Certo le strade sono malridotte, sporche (anzi, sporchissime), il traffico è caotico, ma non è una metropoli spenta. Nell’aria, però, c’è una tensione palpabile. Ogni volta che il nostro convoglio rallenta o si ferma, gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e controllano intorno. Raggiunta la nostra meta, un’altra scena di guerra. Tutti gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e bloccano la via. La nostra jeep entra nel compound e, solo dopo che i nostri uomini hanno accertato che le condizioni sono buone, possiamo scendere.
La portiera del mezzo pesa moltissimo. Si fa fatica ad aprirla, la blindatura è consistente. Dopo una breve sosta, dobbiamo andare verso un’altra meta.
Passiamo il Km4, rotonda già teatro di attentati di al-Shabaab. Poco più in là. Due camion ostacolano la strada. Li superiamo. Poi, uno, due, tre colpi di arma da fuoco. La colonna prosegue, ma arriva l’ordine: «Rientrare!». Più avanti, ci viene detto, c’è una manifestazione di studenti. La polizia ha sparato per disperdere i manifestanti. La colonna fa dietro front. Ci aspettano ancora i posti di blocco. Rientriamo nella nostra bolla di sicurezza.
Sconfiggere al-Shabaab
La Somalia vive ancora nell’insicurezza. Nonostante il governo guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud, sostenuto da Usa, Unione africana, Unione europea e Turchia, abbia lanciato un’offensiva a tutto campo contro al-Shabaab, le milizie fondamentaliste legate ad al-Qaeda hanno ancora molte basi nell’entroterra. Covi dai quali lanciano continuamente attacchi contro le istituzioni e le caserme federali.
«Nell’arco di un anno – ha detto il capo dello Stato – sconfiggeremo gli islamisti». Un ottimismo forse eccessivo, ma al quale la popolazione vuole dare credito. «Il nostro presidente ha detto che al-Shabaab sarà sconfitto nell’arco di un anno. Io penso che ce ne vorranno almeno due per eliminare le milizie fondamentaliste». Non ha dubbi Jamila, giovane insegnante somala. Secondo lei il destino della filiale locale di al-Qaeda è segnato.
Al-Shabaab arruola giovani poveri, non istruiti, con nessuna formazione professionale né lavoro. Al-Shabaab ha promesso loro una vita migliore e loro ci vedono un’opportunità.
Sono ragazzi vittime di anni in cui la Somalia era uno Stato senza autorità, senza legge, senza servizi per la popolazione. «Oggi – continua Jamila – le cose stanno cambiando. Lo Stato c’è, anche se è debole. Le scuole hanno riaperto. I ragazzi e le ragazze possono studiare. Persone istruite e con un lavoro non hanno interesse ad aderire a una formazione estremista che offre, ora lo sappiamo, un’unica prospettiva, quella della morte, della violenza e della distruzione».
I militari hanno ottenuto numerosi successi sul campo. La vera incognita è se riusciranno da soli a respingere l’offensiva di al-Shabaab. Le forze Atmis (African union transition mission in Somalia, è la missione dell’Unione africana che ha sostituito la precedente, Amison nell’aprile 2022, ndr) hanno infatti annunciato che, gradualmente, si ritireranno lasciando la sicurezza interamente in mano ai somali. «Gli attentati, anche nella capitale, sono sempre dietro l’angolo – conclude l’insegnante -. Il futuro però è segnato. I fondamentalisti saranno sconfitti nei fatti e noi potremo tornare a essere un Paese normale che si gioca il suo futuro sui binari della pace e dello sviluppo. A partire dai giovani».
Sicurezza ed economia
Se la sicurezza è una priorità del governo somalo, il rilancio dell’economia è altrettanto fondamentale. Più di trent’anni di guerra civile hanno messo al tappeto un sistema economico già fragile. Eppure le risorse per il rilancio non mancano. Il Paese può contare su un mare pescoso, su un allevamento di animali (cammelli soprattutto) molto forte, su risorse naturali (petrolio), terreni fertili (vicino ai principali corsi dei fiumi).
Il 2023 potrebbe poi essere un anno di svolta per la Somalia anche per il riconoscimento internazionale della ristrutturazione del suo debito estero. «La Somalia potrà tornare sul mercato internazionale per ottenere fondi – osserva Ygor Scarcia, responsabile a Mogadiscio di Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale -. Si tratta di un segno importante per l’intero Paese. Mogadiscio dovrà però essere capace di investire questi fondi secondo priorità precise evitando gli errori del passato. Un passaggio nel quale la Somalia dovrà dimostrare serietà e nel quale la comunità internazionale dovrà accompagnare le autorità locali».
Presenza turca
A lavorare attivamente in Somalia c’è la Turchia. Ankara ha scommesso sul Paese quando era ancora quasi interamente in mano ad al-Shabaab.
Era il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, quando Recep Tayyp Erdogan atterrava nella capitale somala, accompagnato da moglie e figlia, dai suoi ministri e dalle loro famiglie, portando con sé una parte dei 250 milioni di dollari raccolti in Turchia da privati cittadini a sostegno dell’appello contro la carestia.
Un gesto che fece scalpore e fu seguito da altre azioni di soft power come la concessione di borse di studio, la possibilità offerta ai giovani somali di studiare in università turche, aiuti alle regioni più svantaggiate economicamente, ecc.
Alla Turchia si sono aperte le porte della Somalia. Le aziende di Ankara hanno ristrutturato l’aeroporto e il porto di Mogadiscio. Molti nuovi quartieri della capitale sono stati ricostruiti da imprese edili turche.
E l’Italia? L’ex potenza coloniale quale ruolo può avere nel rilancio della Somalia? «L’Italia – ha detto Hamza Abdi Barre, premier somalo, intervenuto al forum Somalia economic conference che si è svolto Mogadiscio il 30 e il 31 maggio – in passato ha sostenuto l’agricoltura somala e ha permesso al nostro Paese di godere di maggiore sicurezza alimentare. L’Italia deve continuare su questa strada per garantire stabilità e sviluppo».
Il governo somalo spera che l’Italia diventi il principale investitore nel Paese. «Stiamo lavorando per garantire stabilità e sicurezza combattendo al-Shabaab – ha osservato -. Questa conferenza può e deve essere un punto di partenza per rafforzare i legami tra i nostri Paesi».
Gli ha fatto eco Abdirizak Osman Giurile, consigliere del presidente somalo per la democratizzazione e il buon governo e incaricato di sostenere il capo dello Stato nelle relazioni con il nostro paese. «Il rapporto con l’Italia – ha detto all’agenzia InfoMundi – negli ultimi trent’anni ha avuto alti e bassi. Ora non va male. L’incontro dei vertici italiani e somali a febbraio a Roma è stato un momento importante».
Il funzionario ha però lamentato uno scarso impegno economico italiano. «Uno stanziamento di 20 milioni è troppo basso. Lo ha riconosciuto lo stesso ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. L’Italia deve fare di più e sostenerci nei settori di punta della nostra economia».
Anche sotto il profilo culturale i somali chiedono un maggiore intervento italiano. «Chiediamo – ha sottolineato ancora Giurile – che l’Italia riattivi e riattualizzi l’accordo del 1973 che prevedeva un sostegno economico importante per aiutare la nostra università, finanziando gli stipendi dei professori e le attrezzature per le facoltà. Il Governo di Roma ha detto che lo farà. Stiamo aspettando».
L’Italia tornerà?
Da parte italiana c’è stata un’apertura. Alberto Vecchi, ambasciatore d’Italia in Somalia, ha dichiarato sempre all’agenzia InfoMundi: «Questa conferenza è il frutto di un impegno che il presidente somalo ha preso nel corso della sua visita a Roma. Sono felice che siamo riusciti a dare seguito a quell’impegno. La Somalia ha relazioni speciali con il nostro Paese che affondano le radici nella storia, e che sono proseguite nel tempo».
Il paese africano, secondo il diplomatico, è unico per la sua posizione particolare e per le sue grandi risorse naturali: «Vogliamo contribuire a dare alla Somalia la possibilità di sfruttare queste risorse e diventare un importante punto di riferimento per la regione».
«L’Italia ci ha lasciato, perché? Perché da trent’anni non investe più da noi? I legami antichi sono spariti?», così parla un vecchio professore somalo che insegna italiano all’università di Mogadiscio. Nelle sue parole c’è il rimpianto per una vecchia amicizia che c’era un tempo e che oggi sembra appannata.
«Ve ne siete andati – osserva – e ora il vostro posto è stato preso da altri. I turchi soprattutto. In Somalia c’erano molte imprese italiane, ma adesso è tabula rasa. Non c’è più nulla. Eppure le opportunità ci sono. La comunità somala in Italia è grande e può fare da ponte tra le due nazioni. L’amore per l’Italia non è svanito».
Se gli si fa notare che la Somalia è un Paese instabile in cui molte regioni sono ancora sotto il giogo dei fondamentalisti islamici, lui risponde duro: «I turchi sono venuti qui nel periodo peggiore. Non c’era sicurezza, né possibilità economica. Ma loro c’erano, voi siete spariti. Tornerete? Me lo auguro. La nostra storia è la vostra e viceversa. Non possiamo dimenticarlo».
Enrico Casale
Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti
Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.
«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.
Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».
Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.
«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.
I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».
Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.
«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.
La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.
Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.
«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».
I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.
Turchia. Nelle mani del sultano
Lo scorso maggio si sono chiuse le elezioni presidenziali. Da vent’anni al potere, Recep Tayyip Erdoğan ha vinto ancora. Le speranze di molti, soprattutto giovani e intellettuali, di vedere il tramonto del sultano si sono infrante. Tra crisi economica, politica estera ondivaga, islamizzazione e restrizioni delle libertà individuali, il futuro del paese rimane molto incerto.
Istanbul. Quando atterro nella metropoli turca – è il 13 maggio, vigilia delle elezioni -, il clima è tesissimo. Le strade sono tappezzate di bandiere e striscioni con i volti e gli slogan dei candidati. In questi giorni sono state arrestate 78 persone, la maggior parte attivisti e giornalisti, accusati di aver postato sui social media contenuti «inopportuni» contro Erdoğan. Alcuni reporter, all’ingresso in aeroporto, si sono visti anche rifiutare il permesso d’ entrata, ragione per la quale mi sono presentato, alle autorità, come semplice turista. I contendenti alla presidenza sono: l’attuale presidente Erdoğan e il settantaquattrenne Kemal Kılıçdaroğlu, principale oppositore del sultano. Kılıçdaroğlu rappresenta la sinistra, la sua è una visione liberale e inclusiva di tutte le etnie presenti in Turchia. Il terzo candidato è l’outsider: Sinan Oğan, esponente dell’Unr, un partito di estrema destra ma comunque sempre di opposizione. Nella corsa alla presidenza era presente un quarto candidato: Muharrem Ince, ritiratosi dopo essere stato vittima di una pesante campagna diffamatoria. Il terremoto del 6 febbraio ha cambiato qualcosa nell’opinione pubblica. Molto ha pesato la cattiva gestione dei soccorsi da parte del presidente, il quale ha favorito l’invio di aiuti in alcuni luoghi, rallentando invece quelli verso le zone a lui ostili, come quelle a maggioranza curda. Inoltre, l’altissimo livello di corruzione presente in Turchia si è nuova-
mente palesato quando si è scoperto che le enormi cifre destinate alla messa in sicurezza degli edifici a rischio non sono mai state impiegate o, comunque, sono state usate solo parzialmente. Tutto questo ha aperto gli occhi a molti elettori, soprattutto i più moderati, che hanno spostato il proprio voto su Kılıçdaroğlu. Ad oggi, le preferenze degli abitanti di Istanbul, così come quelle di tutto il popolo turco, sono divise quasi perfettamente a metà.
A Sultanahmet, uno dei quartieri più famosi della città, luogo dove sorgono la Moschea Blu e Aya Sophia, un numeroso gruppo di persone già festeggia la vittoria di Erdoğan. I sostenitori sventolano bandiere della Turchia cantando che: «C’è solo un uomo in grado di guidare il Paese».
È blindata Sultanahmet, polizia e militari hanno transennato le strade impedendo l’accesso a qualsiasi veicolo, tutta la zona è sorvolata da elicotteri. Proprio qui, questa sera, si terrà il discorso di chiusura della campagna elettorale di Erdoğan.
Un «dedem» come avversario
Il modo di comunicare dei due principali candidati, fino a ora, è stato totalmente opposto. Altisonante quello di Erdoğan che ha parlato spesso dal palazzo presidenziale, circondato dai suoi uomini e dai militari come in una continua parata.
Kılıçdaroğlu, invece, ha spesso postato video su internet dalla sua cucina, quella di una normalissima casa. Per la sua età, i modi pacati e le buone maniere, l’avversario di Erdoğan è stato soprannominato dai suoi elettori più giovani: «dedem» (mio nonno, in turco).
Arrivo nel quartiere di Besiktas, una delle roccaforti di Kılıçda- roğlu, il 14 maggio. Anche questa mattina c’è molta tensione, le strade sono semideserte in una calma irreale. Massiccia è la presenza di militari e polizia. Malgrado tutti i candidati abbiano chiesto, ai propri elettori, di non uscire per strada e di non manifestare, si ha molta paura che, qualsiasi sarà il risultato, possano esserci scontri e violenze. Incontro il mio interprete, ha appena votato per Kılıçdaroğlu: «Sono venuto qui a lavorare con te in segreto. Lavoro per una compagnia gestita dalla famiglia di Erdoğan, potrei perdere il mio posto se si venisse a sapere che sto collaborando con un giornalista. Potrei comunque anche perderlo se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, ma non mi importa. Siamo stanchi di questa situazione, cambierei volentieri lavoro se questo dovesse significare avere un presidente diverso».
Mentre ci rechiamo in una delle scuole adibite a sede elettorale, un gruppo di anziani richiama la nostra attenzione mostrandoci, con le dita, il segno «V» di vittoria.
«Questa notte finalmente potremmo riavere una vera democrazia – spiega uno di loro -. Sono pensionato, ho lavorato come rappresentante commerciale in giro per la Turchia e per l’Europa. Molti vedono il nostro Paese ancora come un luogo dalla mentalità chiusa, ma il desiderio di molti di noi è quello di convivere con tutte le nostre religioni ed etnie: musulmani, cristiani, curdi, turchi, tutti pacificamente. La politica di Erdoğan è sempre stata incentrata su odio e divisione. Ma questa sera, sarà la fine di tutto questo».
Arrivato davanti a una scuola, noto moltissimi giovani che camminano avanti e indietro tra le aule e l’ingresso: sono volontari, sostenitori di Kılıçdaroğlu. Sono qui per assicurarsi che non ci siano brogli e che tutto avvenga regolarmente. I timori di irregolarità in queste elezioni sono ben giustificati. Solo pochi giorni fa, a Mardin, sono state sequestrate migliaia di schede elettorali finte. La presenza di tutti questi volontari fa ben sperare che, davvero, questa possa essere la fine di Erdoğan.
Meglio l’anonimato
Un altro quartiere da sempre liberale, e opposto all’attuale presidente, è quello di Kadikoy. Situato sul golfo del Mar di Marmara, pieno di locali e luoghi di ritrovo, Kadikoy è il ritrovo dei giovani artisti e intellettuali di Istanbul.
Avvicino alcuni di loro, seduti a un tavolo di un caffè. Discutono di quello che potrebbe essere il risultato finale di questa notte. Uno di loro dice: «Io penso che vincerà Kılıçdaroğlu, ma la vittoria non sarà schiacciante, sarà un testa a testa fino alla fine. Noi ci siamo laureati da poco, lavoriamo per multinazionali straniere che hanno delle sedi qui, ma, per colpa di Erdoğan, siamo sottopagati. Il nostro stipendio si aggira sulle 15mila lire al mese (circa 600 euro), ne paghiamo 10mila di affitto. I costi aumentano, i nostri stipendi rimangono uguali. Erdoğan ha trasformato la Turchia in un Paese di manodopera a basso costo per aziende occidentali. Questa è la realtà».
Cosa fareste se dovesse vincere Erdoğan?, chiedo. «Io penso che cercherei un modo di andar via – risponde un altro ragazzo -. Penso che se continueremo con Erdoğan al potere, questo Paese andrà sempre più verso un’islamizzazione estrema, fino a somigliare a un vero regime, come quello iraniano».
Domando: «Come festeggerete questa sera se dovesse vincere Kılıçdaroğlu?». «Non penso che festeggeremo – dice una ragazza del gruppo -. Sinceramente, io ho paura che ci possano essere scontri e che delle persone possano rimanere uccise. Soprattutto se dovesse vincere “dedem”. I sostenitori di Erdoğan uscirebbero in strada per sfogare la loro rabbia su chi sta celebrando. Per questo, tutti i leader politici ci hanno rivolto degli appelli a non uscire di casa, qualsiasi sarà il risultato».
Prima di andare via, chiedo il permesso di poter scrivere i loro nomi, ma i ragazzi hanno paura e si rifiutano. Uno di loro aggiunge: «Questo, però, dillo. Scrivi che i giovani di Istanbul sono così terrorizzati da Erdoğan da non poter dare nemmeno il proprio nome».
«Occorrerebbe una rivoluzione culturale»
Continuando a camminare nel quartiere di Kadikoy, arrivo a un’altra sede elettorale. Sono le 16, c’è ancora un’ora a disposizione, dopodiché, le elezioni saranno chiuse. Anche le scuole di Kadikoy pullulano di volontari che controllano l’effettiva regolarità della votazione.
Tra questi ragazzi, si avvicina un uomo. Si chiama Omer Faruk, è uno scrittore ed editore turco:
«Rimarrò qui fino allo spoglio delle cartelle. Non mi fido assolutamente di quello che può succedere. Il problema in ogni caso, anche se dovesse vincere Kılıçdaroğlu, rimane. La Turchia è un Paese che ha ancora una mentalità troppo arretrata. Un Paese che, per metà, vota ancora per Erdoğan è un Paese che ha bisogno di un cambiamento radicale. La Turchia è ancora schiava della religione. Gli estremisti, che rappresentano la maggior parte dei suoi elettori, hanno ancora troppo potere nella società. Anche cambiando governo, questo Paese ha bisogno di affrontare una rivoluzione culturale».
Gli elettori di Erdoğan
Nella metropoli turca, chi sono i sostenitori di Erdoğan? Molti sono imprenditori, anche stranieri, residenti qui da anni. Nel Paese sono stati tanti gli investimenti edilizi illeciti, soprattutto a Istanbul, città della quale Erdoğan è stato anche sindaco. In molti casi, qui basta pagare una tangente per ottenere permessi di costruzione, anche dove non sarebbe possibile. Un’altra nutrita parte di elettori, fedelissima, la si trova tra i musulmani conservatori.
Un terzo gruppo è rappresentato dalle persone facilmente influenzabili, vittime della interminabile campagna mediatica di Erdoğan che, con la sua famiglia, controlla quasi tutti i canali di comunicazione del Paese.
Camminando per Istanbul è facile capire quali quartieri siano a lui devoti. Luoghi, ad esempio, come il quartiere di Fatih, parte della città dove risiedono i musulmani più estremisti. Le strade sono decorate da bandiere che raffigurano il suo volto, quasi tutte le donne indossano il tradizionale chador, e praticamente nessuno vuole rilasciare dichiarazioni riguardanti le elezioni. I pochi commenti che riesco a raccogliere sono soltanto lodi alla grandezza del presidente e slogan per la sua sicura vittoria.
Per aspettare il risultato dello spoglio elettorale, mi sposto a Taksim, una delle piazze principali della città. Qui, nel 2013, si svolsero le proteste contro il governo di Erdoğan. La polizia represse i manifestanti con un bagno di sangue: 11 morti e quasi novemila feriti. Anche questa notte si teme che possa accadere la stessa cosa. Quindi, le misure di sicurezza sono eccezionali.
Alle 23, quando cominciano a uscire le prime proiezioni, le poche persone in giro cominciano ad andar via. Per strada rimaniamo solo in pochi giornalisti stranieri, molti collegati in diretta Tv con i propri Paesi. I sostenitori, di tutti e tre i leader, rimangono a distanza ai margini della piazza, seduti in cerchio a osservare l’aggiornamento dei risultati dai loro cellulari.
È circa l’una di notte quando viene dato l’annuncio, anche se non ancora ufficiale, i giochi sembrano fatti: Erdoğan ha chiuso le votazioni con poco più del 49%, Kılıçdaroğlu al 44% e Oğan appena sopra il 5%. A fine mese si tornerà al voto.
Il ballottaggio spegne la speranza
È il 28 maggio. Rispetto a due settimane fa, le speranze di un cambiamento sembrano affievolite. Rispetto al primo turno di elezioni, i giorni che hanno preceduto il ballottaggio hanno visto una campagna elettorale ancora più aggressiva. Erdoğan, in particolare, ha usato tutto il suo potere mediatico per gettare discredito su Kılıçdaroğlu, accusandolo anche di essere simpatizzante dei terroristi del Pkk.
Erdoğan controlla l’85% dei media turchi, tra cui i principali giornali e televisioni. Il suo governo ha posto pesanti censure su Twitter, YouTube e Facebook. Già nella prima parte delle elezioni, la disparità di visibilità tra i due contendenti è stata abissale. Secondo Rsf (Reporter senza frontiere), Erdoğan ha ottenuto 60 volte la visibilità di Kılıçdaroğlu. Sulle Tv nazionali, i minuti messi a disposizione a Kılıçdaroğlu sono stati appena 30, contro le 32 ore per Erdoğan. Il candidato Oğan ha espressamente chiesto ai suoi elettori di votare per Erdoğan, mentre il suo partito si è dissociato da queste dichiarazioni, appoggiando Kılıçdaroğlu.
Gruppi armati di bastoni, coltelli e catene, inoltre, si sono recati in alcune scuole nel quartiere di Kadikoy, vandalizzandole, così da scoraggiare gli elettori ad andare alle urne. Si è stimato che quest’atto abbia abbassato l’affluenza del 10%. In questo caso, tutti voti in meno per Kılıçda-roğlu.
Le speranze si spengono definitivamente alle 22, quando Erdoğan, dal palazzo presidenziale, annuncia la sua vittoria: rimarrà presidente per altri 5 anni, avendo ottenuto il 52,16% dei voti. In conferenza stampa, Kılıçdaroğlu dichiara che queste sono state le elezioni più scorrette della storia recente. Prega i suoi elettori di tenere viva la lotta per la democrazia.
Il nuovo governo di Erdoğan si troverà a fronteggiare il malcontento di quasi il 50% della popolazione, la ricostruzione delle regioni distrutte dal terremoto di febbraio, e un’inflazione che sfiora l’80%.
Non da ultimo, le ambigue amicizie del presidente con Cina e Russia, una lenta, ma costante, islamizzazione del Paese e le continue violazioni dei diritti umani, fanno guardare con preoccupazione a quello che potrebbe accadere in Turchia nei prossimi cinque anni.
Angelo Calianno
Erdoğan e la politica estera: Più Mosca e Pechino che Bruxelles
La posizione geografica della Turchia, da sempre, la rende uno dei luoghi strategici più importanti di tutto il Medioriente, essendo un punto di connessione tra Asia ed Europa. Con 1.148 imprese registrate sul territorio, la Cina è uno dei principali investitori in questo Paese. La Turchia è il ventitreesimo maggior destinatario di investimenti cinesi nel mondo. La maggior parte delle aziende di Pechino si occupano di trasporti e logistica, utilizzando la rete ferroviaria (che hanno contribuito a modernizzare) e quella marittima. Importantissimi poi sono gli investimenti cinesi sulle telecomunicazioni: società di telefonia, infrastrutture per la rete 5G. Le banche cinesi, come la Bank of China, hanno partecipato al finanziamento della costruzione della centrale termica di Hunutl e di diversi gasdotti.
Un altro importantissimo, e storico, alleato della Turchia sin dalla fine della guerra fredda, è la Russia. Mosca fornisce quasi la metà del gas naturale importato, oltre che il 25% delle importazioni di petrolio. La Russia sta costruendo la prima centrale nucleare turca. Il commercio bilaterale, sull’asse Mosca-Ankara, valeva 26 miliardi di dollari nel 2019: da un lato importazioni turche di energia e grano, dall’altro gli acquisti russi dei prodotti agricoli turchi. Preoccupano molto alcuni accordi, tra Mosca e le banche turche, che hanno introdotto la possibilità di pagare con «carta Mir». Mir è un circuito di pagamento russo che si avvale di conti virtuali e carte di credito, un sistema potrebbe aiutare la Russia ad aggirare le sanzioni occidentali.
Uno dei principali rivali politici della Turchia, in questi anni, sono stati gli Emirati Arabi Uniti. I due Paesi si sono accusati a vicenda nell’ultimo decennio: Erdoğan ha ritenuto colpevoli gli Emirati Arabi di aver appoggiato il tentativo di colpo di Stato del 2016. Gli Emirati Arabi hanno lamentato il sostegno turco ai Fratelli musulmani durante le rivolte arabe. Dal 2021 però, dopo un’intensa attività diplomatica, i due Paesi hanno ripreso a dialogare.
L’interesse degli emiratini a investire in Turchia è concreto. Su tutti: l’Abu Dhabi investment authority. Il piano economico, messo in standby durante le elezioni, potrebbe diventare sempre più intenso adesso.
Senza tregua è la lotta dell’attuale presidente contro l’etnia curda. Continui sono gli arresti ingiustificati di giornalisti, attivisti, tutti per presunta affiliazione al Pkk, spesso senza prove concrete. L’ultimo atto, in questo senso, è stato il bombardamento della Turchia nel Rojava, la regione curda nel nord della Siria, a novembre e dicembre del 2022. Bombardamenti e tentativi di invasione che Erdoğan riprende con ogni pretesto.
Infine, una delle questioni più complesse dei governi di Erdoğan degli ultimi 20 anni, è stata il rapporto con l’Unione europea e i Paesi occidentali. Pur avendo avviato dal 2005 i negoziati di adesione alle Ue, l’entrata ufficiale della Turchia è in stallo dal 2018, soprattutto per i continui passi indietro del Paese in materia di democrazia. Censure ai media, arresti arbitrari e la dubbia posizione sulla guerra in Ucraina, vedono oggi la Turchia più lontana che mai dall’Europa.
An.Ca.
Turchia: Da paese laico a paese islamico
Da Kemal Atatürk a Erdoğan
Nonostante la Turchia abbia una costituzione di ispirazione laica, con Erdoğan al potere, gli ultimi 20 anni costituiscono uno degli esempi più longevi di politica islamista in Medioriente. L’orientamento all’islam di Erdoğan è cominciato fino dalla sua giovinezza. Nato a Kasimpasa, quartiere povero di Istanbul, viene mandato dal padre a studiare in una scuola religiosa. Negli anni perfeziona lo studio del Corano e della vita di Maometto. Durante l’adolescenza, si unisce all’ala giovane di partiti islamico-nazionalisti, anti occidentalisti e anti semiti come l’Mnp (Milli selamet partisi). Malgrado, a un certo punto, questi partiti vengano banditi per aver violato la Costituzione turca, Erdoğan continua la sua militanza, formandosi poi con l’ideologia sulla quale si baserà per tutta la sua carriera politica: populismo e anti kemalismo (termine indicante la politica di Kemal Atatürk, ndr).
Il primo grande successo di Erdoğan arriva nel 1994, quando diventa sindaco di Istanbul. In pochi anni raccoglie milioni di consensi, facendo leva soprattutto sul «vittimismo» di molti musulmani che, dalla formazione di uno Stato turco di stampo laico, quello di Atatürk, non hanno più trovato lo spazio e l’importanza del passato.
Dal 1924, per ordine di Atatürk, in Turchia è presente un organo chiamato: Diyanet (dal turco «Diyanet işleri başkanlığı»), ovvero Direttorio per gli affari religiosi). Inizialmente il Diyanet era un ufficio nato per supervisionare gli affari religiosi, costituito per proteggere la Repubblica turca da pressioni e infiltrazioni religiose estremiste. Con Erdoğan però, esso cambia totalmente ruolo. Da quando il presidente è salito al potere, nel 2002, il Diyanet si occupa della promozione dell’Islam sunnita, sia in Turchia che all’estero, e della divulgazione dei valori della vita tradizionale. Negli ultimi 10 anni, il budget del governo destinato al lavoro del Diyanet è stato quadruplicato, oggi conta 150 mila dipendenti. Ultimo atto di questo organo amministrativo, sono state pesanti tassazioni sulle bevande alcoliche e il divieto di servirle a bordo di arei nelle tratte domestiche. Oggi Erdoğan è considerato uno dei principali leader dell’islam nel mondo. È stato soprannominato il nuovo sultano o califfo. Nel 2019, nella lista della Royal islamic strategic studies centre, si è classificato come uno dei 500 musulmani più influenti del mondo.