Il trono del crisantemo (da Akihito a Naruhito)

Testo e foto di Piergiorgio Pescali |


Lo scorso 30 aprile l’imperatore Akihito (85 anni) ha abdicato in favore del figlio Naruhito (59). Con il nuovo tenno (sovrano celeste) per 127 milioni di giapponesi si è aperta una nuova era (gengo), chiamata «Reiwa». Nel 2019 quanto contano ancora le tradizioni imperiali per una potenza mondiale come il Giappone? Nel frattempo, il primo ministro Shinzo Abe sta operando su vari fronti: dal progetto di un esercito nazionale alle Olimpiadi del 2020.

Il 1° maggio 2019 centoventisette milioni di giapponesi hanno cambiato, per la terza volta dal secondo dopoguerra, il loro gengo, il calendario nazionale legato al proprio imperatore, entrando in una nuova era, quella «Reiwa» (令和, «bella armonia»).

Il gengo, o nengo, è il calendario usato nei documenti ufficiali, nelle monete, nei giornali, nei calendari giapponesi e, secondo un sondaggio della Kyodo News Agency, utilizzato ancora oggi nella vita quotidiana dal 24,3% dei giapponesi (il 39,8% usa sia il gengo che il calendario occidentale e il 34,6% fa uso del solo calendario gregoriano). Un calo significativo rispetto all’82% dei giapponesi che nel 1975 usava il computo imperiale.

L’abdicazione di Akihito era stata annunciata sin dal 1° dicembre 2017 e l’incoronazione ufficiale del nuovo tenno (天皇, «sovrano celeste») avverrà solo il prossimo 22 ottobre, al termine di un lungo periodo di transizione che permetterà alla casa imperiale giapponese di illustrare al nuovo regnante le rigide etichette di un mondo che rischia di distanziarsi sempre più dalla vita politica e quotidiana della nazione.

L’imperatore

Da tempo la figura dell’imperatore è ininfluente nelle scelte e nelle vicende del Giappone, ma la struttura della società giapponese e l’attitudine del popolo a piegarsi all’autorità con assoluta obbedienza continua a dare forza morale al tenno. E questo nonostante la Costituzione del 1947, imposta dagli Stati Uniti a una nazione devastata e umiliata, abbia ridotto il suo ruolo, già storicamente marginale, a puro «simbolo dello Stato e dell’unità del popolo» spogliandolo anche di quell’ultima parvenza di aureola di divinità che lo caratterizzava. Sia chiaro, il sovrano celeste non ha mai rivestito alcuna posizione determinante nell’arcipelago, ma fino al 1947 la presunta discendenza divina era una costante che non era mai stata messa in seria discussione. Un lignaggio che le due più antiche cronache giapponesi, il Kojiki e il Nihonshoki (rispettivamente del 712 e 720 d.C.), fanno risalire ad Amaterasu, dea del Sole (nella religione shinotista), da cui discenderebbe il primo leggendario imperatore Jimmu che, in realtà, era solo il pro-pronipote della dea.

La retrodatazione mitologica che arriva fino al 660 a.C. è servita per millenni a giustificare un’origine autonoma della nazione svincolata dalle influenze coreane e cinesi chiaramente riscontrabili nella cultura, nella storia e nell’archeologia nazionale.

Poco importa, anche alla luce della scienza moderna, se il primo tenno di cui si hanno evidenze storiche accertate sia vissuto solo nel VI secolo d.C. (Kinmei, 539-571 d.C.): la divinizzazione della famiglia imperiale, nonostante la storia, la costituzione, la secolarizzazione continua a rappresentare un punto di riferimento inscindibile dalle tradizioni giapponesi.

L’imperatore emerito Akihito e l’imperatrice emerita Michiko / The Yomiuri Shimbun

Akihito e Michiko

Va dato merito ad Akihito, l’imperatore che ha abdicato e padre di Naruhito, di aver contribuito a riportare la figura del sovrano in una cornice più umana.

La sua insegnante di inglese, la bibliotecaria statunitense Elizabeth Gray Vining, riuscì a iniziarlo alla cultura occidentale e a presentargli i valori di uguaglianza e democrazia di cui il Giappone era a digiuno.

Fu la sorprendente cocciutaggine di Akihito a rompere la millenaria (e geneticamente pericolosa) prassi di trovare moglie tra i lignaggi della casa imperiale. Scelse Michiko Shoda che, oltre a non avere alcun sangue blu nelle vene, discendeva da una famiglia cattolica (anche se lei non era stata battezzata). Il matrimonio incontrò l’opposizione dell’imperatrice Kojun (moglie di Hirohito e madre di Akihito), degli ingessati funzionari della Casa imperiale e anche di ambienti culturali conservatori. Yukio Mishima (scrittore e artista giapponese di fama internazionale morto nel 1970, ndr) definì uno scandalo l’unione perché portava la «famiglia imperiale a perdere la sua dignità mischiandosi con il popolo». Il popolo, invece, approvò, così come approvò la classe politica del paese che vedeva nel matrimonio il biglietto da visita di una svolta sociale e economica che avrebbe contraddistinto la nazione nei decenni a venire.

Michiko dovette rinunciare alla fede cattolica, ma fu ancora Elizabeth Gray Vining, quacchera convinta e praticante, a convincere Akihito e Michiko a fare crescere i loro figli tra le mura della residenza imperiale anziché allontanarli dalla famiglia come era d’uso.

La coppia iniziò anche a viaggiare per il mondo, a «mischiarsi» tra la folla, a partecipare e condividere con i giapponesi gli eventi e i lutti che puntellarono l’era Heisei (平成 cioè «raggiungimento della pace») iniziata con l’ascesa al trono di Akihito nel 1989.

L’imperatore Naruhito e l’imperatrice Masako / Behrouz MEHRI / AFP

Naruhito e Masako, più forti delle maldicenze

L’imperatore attuale, Naruhito, non ha solo ereditato i tre tesori sacri che consacrano solennemente la figura del tenno, ma ha anche ripercorso, finora in modo sorprendentemente simile, le gesta del padre. Ha sposato Masako Owada la quale, forte della sua laurea ad Harvard e della perfetta conoscenza delle lingue inglese, tedesco e francese, era avviata ad una brillante carriera diplomatica. Masako ha resistito alle insistenti avancés di Naruhito fino al 1993. Intelligente, colta ed emancipata avrebbe di certo preferito dedicarsi al lavoro piuttosto che rinchiudersi nelle stanze imperiali sottoponendosi alle continue critiche che le venivano mosse dagli uffici di palazzo e alle tremende pressioni per garantire alla famiglia un erede maschio. Un’altra contraddizione della politica giapponese: nonostante Amaterasu fosse una dea femminile, solo otto donne hanno ricoperto la carica imperiale (l’ultima fu Go-Sakuramachi, che regnò dal 1762 al 1771) e dal 1889 la Costituzione Meiji ha escluso che sul «Trono del crisantemo» possa sedere una donna.

La coppia, però, è affiatata: Naruhito ha più volte rimbrottato la stampa e la stessa Casa imperiale per gli attacchi gratuiti lanciati contro la moglie, strali che hanno causato a Masako una profonda depressione da cui si è ripresa solo dopo la nascita della loro unica figlia. Lo stesso imperatore è interessato più a cose terrene che spirituali: appassionato tifoso di baseball, instancabile camminatore è anche un ambientalista esperto di controllo e di risparmio idrico, grazie ad un master conseguito ad Oxford. Come suo padre, ma a differenza dei suoi predecessori, Naruhito ha più volte mostrato empatia nei confronti dei suoi connazionali colpiti da catastrofi naturali e, assieme alla moglie, si è recato sui luoghi dei disastri per ascoltare le testimonianze delle vittime.

Noi lo abbiamo visto, piccolo e impacciato, accogliere le insegne regali il cui possesso caratterizza la linea imperiale e la discendenza divina.

Tra fantasia e realtà

Le regalie, infatti, sarebbero appartenute nientemeno che alla dea Amaterasu: uno specchio (Yata no kagami), simbolo della conoscenza e della verità, una spada (Kusanagi), simbolo della forza, e un gioiello (Yasakani no magatama), simbolo della salute. La loro storia è oscura quanto la sicurezza della loro stessa esistenza, e rappresenta efficacemente quanto labile sia il confine tra fantasia e realtà nel mondo giapponese, non per nulla patria di Godzilla, dei manga e delle anime. Amaterasu, dea del Sole, offesa dai continui dispetti di gelosia da parte del fratello Susano-O, dio delle tempeste, si rintanò in una caverna facendo piombare l’intero mondo nelle tenebre. Per convincerla ad uscire e ridare la luce, la dea Uzume piazzò uno specchio all’entrata della grotta iniziando una danza che venne accolta con clamore dagli altri kami (gli dei della religione shinto). Amaterasu si affacciò per vedere cosa accadesse e, vedendo il suo volto riflesso nello specchio rimase stupita per la propria bellezza (l’umiltà non è una caratteristica degli dèi). Fu allora che un altro kami la agganciò con un gioiello ricurvo trascinandola fuori dalla grotta. A quel punto Susano-O, in segno di pentimento, diede alla sorella la spada.

Sono questi tre sacri tesori che Amaterasu diede in consegna ai suoi discendenti per comprovare la parentela divina e reclamare il diritto di dominio sul Giappone.

In realtà, nessuno ha mai visto questi gioielli; anzi molti dubitano della loro stessa esistenza. Lo Yata no kagami sarebbe custodito nel santuario di Ise, nella prefettura di Mie; lo Yasakani no magatawa si troverebbe nel santuario del Palazzo imperiale di Tokyo, mentre la Kusanagi no tsurigi verrebbe conservata nel santuario di Atsuta a Nagoya. Nel Heike monogatari (1371), però, si racconta che la spada venne definitivamente perduta negli abissi dello stretto di Shimoinoseki quando l’imperatore bambino Antoku fu costretto al suicidio dalla madre che, sconfitta dal clan dei Minamoto, decise di darsi alla morte portando con sé la spada Kusanagi no tsurigi.

Il significato degli ideogrammi imperiali

È evidente, quindi, che il Giappone è un paese dove tradizione e progresso si intersecano continuamente per formare un tessuto inestricabile. Il gengo, il calendario imperiale, ne è un esempio. Introdotto nel 645 d.C. dall’imperatore Kotoku ad imitazione della dinastia Han cinese, indica che l’imperatore è dominatore non solo del regno, ma anche del tempo.

Il gengo veniva cambiato in occasione di eventi significativi (guerre, catastrofi, giubilei), quindi era possibile che un solo imperatore regnasse durante più gengo. Solo dall’era Meiji (明治 «legge o governo illuminato», 1868-1912) si passò ad identificare l’era con la durata di regno di un singolo tenno.

Così la Reiwa, l’era attuale iniziata il 1° maggio scorso, è il duecento quarantottesimo gengo che traccia la storia del Giappone mentre Naruhito è il centoventiseiesimo imperatore che succede sul «Trono del crisantemo».

Anche se il gengo caratterizza l’era imperiale ed è strettamente connesso all’istituzione monarchica, il suo nome viene scelto dal primo ministro. In questo caso Reiwa è stato selezionato da Shinzo Abe e il nome avanzato da Susumu Nakanishi, professore emerito di 89 anni della Osaka Women’s University ha prevalso su una rosa di sei candidati suggeriti da Tadahisa Ishikawa, 86 anni, della Nishogakusha University e On Ikeda, 87 anni, dell’Università di Tokyo.

Una serie di circostanze ha scatenato una ridda di polemiche che non si sono ancora placate sulla scelta operata dal primo ministro perché il gengo non è mai neutro o un semplice corollario folcloristico, ma getta le basi ideali della nazione e del corso politico che verrà intrapreso dal governo negli anni successivi.

Colpisce il fatto che, proprio in un periodo in cui il nazionalismo giapponese si sta rifacendo largo, sia stata violata la tradizione di scegliere i kanji (caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese) che compongono l’ideogramma dell’era imperiale, dai classici cinesi. Nel corso della storia 36 gengo sono stati tratti dal Libro dei documenti, il libro più antico di storia cinese, 27 dall’I Ching, mentre tutte le ultime quattro ere moderne – Meiji, Taisho, Showa e Heisei – derivavano i loro nomi dai Cinque libri classici del confucianesimo.

Con Reiwa, per la prima volta si è voluto prendere spunto da una raccolta di poesie classiche giapponesi, il Manyoshu, una scelta vista da molti come un rafforzamento delle istanze nazionaliste propugnate da questo (e non solo questo) governo. Ciò che più ha colpito gli analisti, però, è l’ambiguità con cui gli ideogrammi di Reiwa posso essere interpretati.

Il primo carattere, «rei» (令), nell’uso corrente della lingua giapponese è utilizzato per indicare le parole «comando» (命令meirei), «ordine», «legge» (法令horei) mentre il secondo, «wa» (和), appare nei kanji di Yamato (大和), il nome antico del Giappone che ha connotazioni militariste, oltre che essere il nome della nave da guerra più grande della marina imperiale durante la Seconda guerra mondiale ed essere un kanji dell’era Showa (昭和 «pace splendente» o «pace illuminata», 1926-1989), il gengo che caratterizzò, nella sua prima parte l’ascesa militare e colonizzatrice del Giappone prima e durante il secondo conflitto mondiale.

Nazionalismo e militarismo

Queste circostanze, sommate al fatto che Shinzo Abe ha avviato un pericoloso processo di emendamento costituzionale che permetterebbe al Giappone di dotarsi di un esercito, hanno creato un senso di preoccupazione tra i paesi asiatici che più hanno sofferto il nazionalismo giapponese nella prima metà del XX secolo, in particolare Cina e Corea.

Proprio l’ambiguità del nome Reiwa ha costretto il governo di Tokyo a ribadire, tramite il portavoce del ministero degli Esteri Hiroatsu Satake, che il nome dato alla nuova era non ha alcuna connotazione nazionalista o di prevaricazione, indicando il significato ufficiale come quello di «bella armonia».

Lo stesso Shinzo Abe ha ritenuto opportuno intervenire nell’aspro dibattito specificando che il nome Reiwa ha voluto enfatizzare «la storia da tempo immemore, la nostra altissima e rispettata cultura, la bellezza unica della nostra natura in ognuna delle quattro stagioni. Noi passiamo queste caratteristiche nazionali del Giappone alla prossima era. Proprio come i boccioli di prugno annunciano l’arrivo della primavera dopo il duro e freddo inverno e sbocciano splendidi in tutta la loro gloria così tutti i giapponesi saranno capaci di far sbocciare i loro germogli in tutta la loro bellezza assieme alle loro speranze per il futuro».

L’inquietudine, però, rispetto alla politica di Shinzo Abe, permane nelle diplomazie straniere e in ampi strati delle forze politiche giapponesi, in particolare tra la sinistra (o quello che ne rimane).

Del resto la maggioranza dei giapponesi, appena ha visto il nome Reiwa mostrato dal Segretario di gabinetto Yoshihide Suga, ha subito collegato gli ideogrammi al senso di comando e sono in molti coloro che hanno ricordato che lo stesso kanji «rei» era presente in Reitoku (令徳), uno dei nomi del nuovo gengo proposto nel 1864 alla famiglia Tokugawa e da questa scartato perché presupponeva un senso di comando imperiale sullo shogun (comandante militare, ndr).

L’era Heisei iniziò nel 1989 quando il Giappone era la seconda economia del mondo dopo gli Usa e galoppava verso orizzonti che sembravano perfettamente limpidi e sereni.

Un anno dopo iniziò la crisi ed oggi il Giappone è in recessione, ha una crisi d’identità e la sua economia arranca superata da quella cinese.

Nel 1989 i giapponesi vivevano in condizioni poco invidiabili all’estero: appartamenti minuscoli, prezzi al consumo elevati, un sistema politico monopolizzato dal Partito liberaldemocratico (Pld), una corruzione altissima, una burocrazia che impediva gli investimenti stranieri nel paese e l’importazione di molti prodotti alimentari come riso e carne dall’estero. Durante l’era Heisei le condizioni di vita dei giapponesi sono migliorate: oggi vivono in appartamenti più grandi, i giovani si divertono di più, la vita politica ha visto il crollo del monopolio del Pld, gli agricoltori, ossatura del Pld, hanno perso parte dei sovvenzionamenti che rendevano i prodotti giapponesi carissimi, il mercato si è aperto all’estero e il Giappone si è inserito nella politica mondiale.

I piani di Shinzo Abe

Nel 1995 e nel 2011 la nazione è stata scossa da due terremoti e da uno tsunami che hanno lasciato in eredità il problema di Fukushima. Più dei disastri naturali in sé, però, queste catastrofi hanno minato la fiducia dei giapponesi verso un governo e un sistema che ha spudoratamente mentito sull’immediata gravità della situazione.

Shinzo Abe sta cercando di ridare fiducia ai suoi concittadini puntando tutto sul rilancio economico e su una maggiore presenza di Tokyo nelle scelte internazionali. Le Olimpiadi del 2020 e la Corea del Nord sono funzionali a questa politica di rilancio.

I test missilistici nordcoreani, in particolare i due Howasong-12 che hanno sorvolato Hokkaido nel 2017, hanno permesso a Tokyo di accelerare il processo di riforme iniziato già nel 2015 cementando il ruolo delle Forze di autodifesa nel paese.

Sebbene i 45 miliardi di dollari spesi nel 2017 in campo militare rappresentino solo lo 0,935% del Pil (contro l’1,3% italiano), il governo di Shinzo punta tutto sull’emendamento costituzionale dell’articolo 9 per permettere alla nazione di dotarsi di un esercito legittimato dalla Costituzione e in grado di intervenire in situazioni di potenziale pericolo per la sicurezza del paese anche in senso preventivo.

L’obiettivo di Shinzo Abe è quello di terminare il processo di revisione entro il 2020, anno in cui Tokyo ospiterà i Giochi Olimpici mostrati dal governo come un nuovo inizio della rinascita giapponese, esattamente come i «boccioli di prugno annunciano l’arrivo della primavera dopo il duro e freddo inverno e sbocciano splendidi in tutta la loro gloria». L’era Reiwa è iniziata.

Piergiorgio Pescali




Iran: più mondo meno cielo

La religione islamica e i suoi precetti vengono associati al governo. Per questo, appena possibile, gli iraniani trasgrediscono. Nella quotidianità, apparenza e realtà divergono in maniera sostanziale.

Teheran. Metrò: io sono ancora in piedi, con la borsa dei libri, il mio strumento del mestiere (sono insegnante). Molte delle giovani passeggere sedute davanti a me hanno lo sguardo fisso ai cellulari, qualcuna chiacchiera con la vicina, dorme, o si rifà il trucco. Magari prova la nuova matita per le labbra appena acquistata da una venditrice ambulante. Ci sono stuoli di venditrici e venditori che percorrono con le loro borse i vagoni del metrò. Il commercio è particolarmente attivo in articoli femminili, in cima quelli per il trucco. A vedere le quantità che se ne consumano, si ha l’impressione che l’Iran debba detenere il record delle vendite in questo settore. A volte le venditrici sono così numerose che devono aspettare il proprio tuo per reclamizzare la propria merce e passare con i borsoni, facendosi largo tra le passeggere in piedi.

Oggi sono particolarmente sfortunata, mi sa che mi faccio tutta la tratta in piedi, circa cinquanta minuti di viaggio. Meno male che siamo all’inizio della giornata e le forze sono fresche. Vedo liberarsi e subito rioccuparsi i posti intorno e dietro di me, ma non quelli davanti, che mi darebbero una sorta di diritto a sedermi. Però sono in buona compagnia. Un po’ più in là un’altra signora cinquantenne aspetta invano che le ceda il posto qualche signorina, poco cambia che sia vestita alla moda o porti l’islamico manto nero. Anche in Iran, e forse più che altrove, l’abito non fa il monaco. Questo non vuol dire che nessun posto venga mai offerto a persone più anziane. A me è successo molto raramente, ma ho notato che ciò accade più di frequente a signore in chador e più in carne di me. Chissà, forse è perché danno più nell’occhio. Ci sono volte, tuttavia, in cui la mancanza di attenzione verso le donne più anziane ha del sorprendente. Un mezzogiorno nel nostro vagone è entrata una signora ultrasessantenne. Persone di quest’età sono un’eccezione e si notano subito nella folla delle giovani. È rimasta parecchio tempo in piedi, visibilmente affaticata, prima che una madre quarantenne con la figlia adolescente, sedute davanti a lei, scendessero e le liberassero un posto. Nel frattempo molte signorine erano scese e altre avevano trovato posto lì intorno, ma nessuna si era offerta di far sedere l’anziana signora.

Quando vado al lavoro stare in piedi non mi pesa molto e quando too, dato che salgo quasi al capolinea, ho maggiori probabilità di sedermi. Nelle sere in cui c’è più ressa, però, so in partenza come andrà a finire, perché a fine giornata la stanchezza rende la competizione per quel bene così scarso ancora più agguerrita. Una sera che ero riuscita a sedermi, alla fermata successiva ho visto salire una ragazza con le stampelle accompagnata da un’amica. Ha percorso il corridoio tra le due file di posti, tutti occupati, ed è andata ad appoggiarsi nell’angolo tra i sedili e la porta. Mi sono guardata intorno: da parte delle passeggere nessuna reazione, io avrei potuto essere la madre di tutte loro, ma era impossibile non cedere il mio posto alla ragazza con le stampelle. Non perché sia particolarmente brava, ma perché non avrei potuto comportarmi in modo diverso. Se l’educazione, religiosa o meno, non si traduce in gesti elementari di attenzione verso gli altri, allora a che serve?

La forma e la sostanza

Come è noto, il rispetto per gli anziani, l’attenzione verso i deboli, sono valori insegnati da tutte le grandi religioni, sono i pilastri delle società tradizionali, e l’Iran non fa eccezione, anzi. In città, come in campagna, qui è ancora normale dare del «voi» ai genitori. Questi valori sono anche ufficialmente predicati. Quindi fa ancora più specie vedere con sempre maggior frequenza comportamenti che vanno esattamente in direzione opposta. Eppure, a pensarci, non è così strano. Il fatto che la religione sia associata a tutto ciò che è pubblico, ufficiale, governativo, ha incoraggiato il formalismo: si mostra ciò che non si è, si appare in un certo modo perché conviene, ripaga in termini di carriera, reputazione, o perché non si può fare altrimenti. È chiaro che ciò porta a uno svuotamento di contenuti: i valori diventano dei gusci vuoti da esibire quando la circostanza lo richiede, ma quando si è in metropolitana, per la strada, in qualsiasi situazione non ufficiale, o in ambito privato, ci si può permettere di ignorarli.

Anche se si tratta di un punto di osservazione molto particolare, le impressioni raccolte durante i miei viaggi in metrò mi sono sembrate degne di nota proprio perché si sono concentrate sul comportamento delle donne in un ambito protetto da altri sguardi (sono vagoni destinati solo a loro, tanto che alcune rimangono a capo scoperto) e dove, quindi, esse si sentono abbastanza libere di mostrarsi quali sono. Anche in strada, tuttavia, un altro ambito dove l’anonimato è quasi sempre garantito, si possono vedere scene interessanti. Gioi fa, ad esempio, dalla vetrina di un negozio ho assistito alla lite di due fidanzati, impossibile non sentire quello che si stavano dicendo. Lui aveva scoperto che lei se l’intendeva con un altro e ora alla suocera, che era presente, spiegava perché non aveva più intenzione di chiedere la mano della figlia. Questa, montata in furia nel vedersi rifiutata, dopo aver chiesto alla madre di tenerle la borsetta, si è messa a tempestare di pugni il fidanzato. Qualcuno dentro il negozio sarebbe voluto andare in aiuto del giovane, ma poi si è optato per la neutralità.

Certo, un simile comportamento fa più impressione in una donna. Una scena a ruoli invertiti sarebbe apparsa più prevedibile. Ma dobbiamo cominciare ad abituarci a questo sconvolgimento di ruoli anche in Iran. In compenso, tra i ragazzi si manifesta una vanità molto femminile. Li vedi per strada, compiaciuti del proprio aspetto, pantaloni attillati, depilati, profumati, freschi di parrucchiere, naso rifatto, palestrati. Il culto del muscolo, e spesso del muscolo facile, fa prosperare le palestre e l’industria degli integratori alimentari.

La propaganda del regime e l’Islam

Anche in Iran, dunque, il Mondo trionfa e il Cielo attrae sempre meno. C’è una fuga dai valori tradizionali e questo vuoto, come da noi, è riempito dai facili pseudo valori dei soldi, del successo, della bellezza fisica, e da tutti gli oggetti di consumo: macchine, vestiti, cellulari e via dicendo, che «riempiono» la vita dei nostri giovani e meno giovani. Questa fuga sembra aver subito un’accelerazione negli ultimi anni, dovuta anche al fatto che questi valori sono associati al regime illiberale che li propaganda e che ha fallito nell’obiettivo di renderli attraenti. Più ci si allontana dai giorni della rivoluzione, dagli anni della guerra con l’Iraq, più si approfondisce il solco tra il discorso ufficiale e il sentire della gente. Si fugge da ciò che è percepito come imposto. Questa posizione è espressa molto bene nella frase che ho sentito più volte ripetere dai miei studenti iraniani: «L’Islam è la religione degli arabi, non la nostra». Salvo poi tacere su quale sia la loro. Alludono al fatto che l’Islam è arrivato in Iran con le scimitarre dei guerrieri arabi. L’antica religione iranica è lo zoroastrismo e i simboli a essa collegati, in effetti, sono tornati di moda e sono esibiti, ma ciò non vuol dire che chi porta al collo il faravahar alato (il simbolo dello zoroastrismo, ndr) abbia idea di che cosa esso rappresenti, o creda nell’insegnamento di Zoroastro.

Le mode e le evasioni del nostro occidente secolarizzato trovano terreno fertile tra i giovani iraniani, che escogitano il modo di praticarle nonostante i divieti. A parte il consumo di stupefacenti, uno dei più alti al mondo, quello di alcolici è cresciuto moltissimo ed è ormai cosa ordinaria nelle città. Li si produce in casa, o li si compra sottobanco. Come qualcuno osservava, in Occidente devi scomodarti ad andare fino al negozio, qui fai una telefonata e in dieci minuti ti recapitano tutto quello che vuoi al domicilio. Le nuove mode sono rapidamente importate. Ad esempio, per rimanere in argomento, ho recentemente scoperto che è arrivata quella delle feste di divorzio. Ma ci sono anche mode locali, dettate dalle circostanze della vita in Iran, come quella di bere alcolici durante i viaggi in macchina, lontani da occhi indiscreti; meglio farlo di sera, quando è più difficile capire quello che avviene all’interno dell’abitacolo.

Se, dunque, non si vede differenza tra i giovani cresciuti in uno stato teocratico e quelli cresciuti in paesi laici, in quell’Occidente secolarizzato che in Iran è ufficialmente indicato come la fonte di tutti i mali, allora viene spontaneo chiedersi: «Oh Repubblica islamica, dov’è la tua vittoria?».

Maria Chiara Parenzo
(seconda parte – fine)