«Gli eventi traumatici estremi come la tortura e la violenza intenzionale portano a una drammatica frammentazione delle funzioni psichiche di coloro che le subiscono. Allo stesso modo, il percorso di cura può essere visto – metaforicamente e nei fatti – come un processo di ricomposizione dei “frammenti” della mente e del corpo dei sopravvissuti».
Inizia con queste parole il rapporto «Frammenti» di Medici per i diritti umani (Medu), un’organizzazione che lavora per fornire una risposta al bisogno di salute mentale proveniente da migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Italia. Le sue iniziative si rivolgono soprattutto a coloro che sono sopravvissuti a tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
Un’esigenza di intervento evidenziata anche dai dati: dei 1.500 migranti che Medu ha assistito nei suoi progetti dal 2014, l’80% ha riferito di aver subito tali trattamenti nei Paesi di origine e/o di transito. In particolare in Libia, che Medu denuncia essere ormai una vera e propria «fabbrica della tortura».
In Italia, il sistema di accoglienza e quello sanitario sono decisamente lontani dall’essere in grado di individuare precocemente e prendere in carico efficacemente richiedenti asilo e rifugiati che hanno subito torture, stupri e altre forme gravi di violenza fisica, psicologica o sessuale.
È in questo contesto di carenza di adeguati servizi medici e psicosociali che Medu ha fondato i centri Psyché.
A Firenze, Ragusa e Roma, queste strutture si occupano della salute mentale transculturale di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. La loro nascita è stata resa ancor più necessaria dalla riduzione dei servizi legali e psicologici nei Centri di accoglienza straordinaria a seguito dell’introduzione della legge 50 del 2023 (il cosiddetto «Decreto Cutro», l’ennesima stretta al sistema di accoglienza italiano).
I centri Psyché dunque cercano di riempire questo vuoto. Nascono per fornire assistenza psicologica, psichiatrica e psicosociale ai sopravvissuti a tortura, trattamenti inumani e degradanti, violenza sessuale e di genere. Ma sono aperti anche a tutti coloro che presentano disagi psichici di natura post-traumatica, indipendentemente da condizione giuridica, economica e sociale.
In questi centri, una figura essenziale è il mediatore linguistico-culturale. In un video contenuto nel rapporto «Frammenti», Najla Hassen, mediatrice di Medu, racconta: «Ci occupiamo di ferite, quindi è essenziale dialogare nella lingua dei pazienti per avvicinarci il più possibile a loro. La mediazione linguistica non è soltanto una traduzione letterale, è un’interpretazione e un costruire un dizionario per ogni persona che incontriamo».
Mentre il suo collega Abdoulaye Toure aggiunge: «Il mediatore non è una presenza basata solo sulla trasmissione, sulla traduzione della lingua, ma sul fatto di stare lì. Il paziente ha vicina una persona che potrebbe essere uno zio o un fratello più grande e ha fiducia. Così, riesce a raccontare molto di più di quello che il terapeuta si aspettava».
Infatti, nonostante il background sociale e anagrafico delle persone assistite nei tre centri sia diversificato, tutti coloro che vi accedono sono stati esposti a traumi complessi (intesi come eventi ripetuti, prolungati nel tempo e di natura interpersonale).
Analizzando un campione di 120 persone, ad esempio, Medu ha rilevato che, mediamente, ciascun individuo è sopravvissuto a sette eventi traumatici pre-migratori, migratori e post-migratori. Nei primi due casi si trattava di tortura, detenzione e gravi abusi fisici. Nell’ultimo invece rientrano le carenti condizioni dei centri di accoglienza, la precarietà dello status legale, lo scarso supporto psicosociale e le barriere linguistiche.
Ricomporre i «frammenti» della mente e del corpo dei sopravvissuti è quindi necessario per curare le ferite fisiche, ma soprattutto quelle psicologiche di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Farlo, parlando la loro lingua e interpretando le loro parole e i loro gesti, è fondamentale per garantire a tutti la possibilità di ricostruire il proprio futuro.
Aurora Guainazzi
Argentina. Scattare la giustizia
I voli della morte, durante la dittatura in Argentina, hanno ucciso, facendole sparire, migliaia di persone. Con il suo progetto fotografico, Giancarlo Ceraudo, ne ha riparlato aiutando la giustizia a fare il suo corso.
Intervisto Giancarlo Ceraudo mentre si trova in Argentina, a casa di Miriam Lewin, giornalista e scrittrice sopravvissuta durante la dittatura nel suo paese ai centri di detenzione illegale dell’Esma1 (Escuela de mecánica de la armada, la scuola ufficiali della marina argentina di Buenos Aires).
La loro amicizia dura dal 2007, anno in cui i due hanno iniziato a collaborare. Già dal 2001, però, Giancarlo aveva deciso di lavorare sull’Argentina: una scelta cruciale, che lo avrebbe portato a sviluppare uno dei progetti più importanti per la sua carriera, Destino final, una lunga ricerca fotografica sui «voli della morte» che in Argentina hanno ucciso migliaia di oppositori politici durante la cosiddetta Guerra sporca fra il 1976 e il 19832.
Viaggio e pigrizia
La fotografia, per Giancarlo, non è un fuoco sacro, né un sogno da inseguire a tutti i costi, bensì una scelta compiuta per poter coltivare, come dice lui stesso, il viaggio e la pigrizia.
Fin da ragazzo, infatti, Giancarlo si domanda se ci sia il modo per guadagnarsi da vivere senza doversi chiudere fra quattro mura e stare a regole imposte da altri.
Attratto dal «dolce far niente», ogni tanto chiede al padre come fare per vivere senza lavorare. La risposta è sempre la stessa: «Non siamo abbastanza ricchi».
Studiare gli piace e, divenuto adulto, intraprende dapprima la facoltà di giurisprudenza, poi quella di antropologia. Ma proprio non accetta l’idea di avere un orario fisso, di essere costretto in qualche modo a rimanere fermo in un posto.
Straordinarietà
La fotografia come strumento per lavorare divertendosi arriva nella sua vita negli anni ‘90, quando ha già superato i vent’anni. Durante un viaggio in Perù con un amico appassionato di fotografia, prende in mano per la prima volta una fotocamera.
Dotato di un forte senso estetico, decide di applicarlo alle immagini, e il risultato è da subito straordinario.
Intuito il proprio potenziale e non potendo permettersi le poche scuole di fotografia esistenti, capisce che non può concedersi la mediocrità: «Sono sempre stato severo con me stesso: o sono bravo, bravo davvero, o devo lasciar perdere. Non posso permettermi la modestia. Un risultato modesto significa non poter fare questo lavoro».
Dal Maxxi al Sud America
Giancarlo Ceraudo è il fotografo più giovane a entrare a far parte della prima collezione di fotografia contemporanea del Maxxi di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con «Atlante italiano» del 2003.
Il suo lavoro è stato segnalato al Maxxi dall’architetto Pippo Ciorra che ne ha intuito il potenziale.
Chiamato dal museo a corredare le sue fotografie con una frase, Giancarlo scrive: «Spesso penso che la fotografia sia un capolavoro della pigrizia: con talento e molta fortuna, regala infatti la possibilità di raccontare un mondo in una frazione di secondo e per me, che sono un inguaribile pigro, la fotografia diventa una possibile redenzione». Un punto di vista lontano dai colleghi che si descrivono appassionati, innamorati, forse anche ossessionati dalla fotografia.
Da questo momento inizia per Giancarlo un periodo di grande lavoro e decide di concentrarsi sull’America Latina, un’area geografica poco coperta dai fotogiornalisti ma piena di storie da raccontare.
Va in Cile, Paraguay, Brasile, dando vita a reportage autoriali.
«Destino final»
Intanto Giancarlo si è già trovato nel 2001 a seguire in Argentina la crisi economica che stava colpendo il paese. Ed è a Buenos Aires che inizia una storia che il fotografo seguirà per quindici anni dando vita al progetto «Destino final». Un progetto che definirà il «meno professionale della mia carriera», perché quando si segue una realtà per così tanto tempo diventa parte della propria vita. Partendo dalla sua passione per la storia che lo ha portato ad approfondire i temi delle dittature e degli stermini di massa, presto si accorge che quelle realtà studiate sui libri di scuola, in Argentina sono ferite ancora sanguinanti.
Vivere in Argentina, infatti, significa fare i conti con la realtà passata ma ancora bruciante della dittatura. E quando inizia a documentarsi, la visione del film «Garage Olimpo» di Marco Bechis, lo segna profondamente.
Parla con i testimoni, incontra i sopravvissuti, sente che c’è una storia da raccontare. Ma come farlo tramite la fotografia quando di quella storia rimangono solo ricordi e racconti? La fotografia di reportage, infatti, ha bisogno di situazioni vive che accadono davanti all’obiettivo.
La storia negli oggetti
Forse per via delle sue origini – è romano, innamorato della sua città e della storia che in essa si incontra -, comprende che l’unico modo di fotografare il passato è attraverso gli oggetti.
Si ricorda di quando, da bambino, suo padre lo portava all’aeroporto da un amico pilota e, insieme, sorvolavano la città. Immaginava le vite passate fra quelle pietre e monumenti.
Si domanda: possono i luoghi conservare i ricordi e le pietre qualcosa di ciò che è stato?
È così che il fotografo si chiede dove siano finiti gli aerei utilizzati per i famigerati «voli della morte», pratica di sterminio di massa attuata fra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca.
La questione legata ai voli della morte è particolarmente spinosa, e ha risonanza non solo in
Argentina ma anche a livello internazionale, anche perché resta ancora sospesa da un punto di vista giudiziario.
Si sono cercate le vittime, i sopravvissuti, ma non gli aerei. Eppure essi sono stati gli strumenti di quel processo terribile e doloroso. Giancarlo immagina che trovare gli aerei possa voler dire trovare anche le persone coinvolte in quel massacro sistematico. Sente, però, di aver bisogno di aiuto perché, pur sapendo gestire storie complesse e avendo familiarità con le inchieste, questa va oltre le sue possibilità e da solo non può farcela.
L’aereo della morte
È a questo punto che entra in scena Miriam Lewin, giornalista e scrittrice, vittima della dittatura, sequestrata e reclusa all’Esma, la scuola militare della Marina.
È lei a condurre Giancarlo in un viaggio della memoria. Gli racconta gli orrori dei campi di detenzione e lo conduce in alcuni dei luoghi centrali per la storia di «Destino final».
Insieme trovano le tracce di cinque degli aerei utilizzati per i voli della morte. Due risultano caduti, altri due venduti al Lussemburgo e non rintracciabili, ma uno è ancora utilizzato per il trasporto della posta e si trova a Fort
Lauderdale, in Florida, negli Usa.
È in questo aereo che Miriam e Giancarlo trovano i documenti dell’atto di acquisto sui quali sono riportati date e nomi di chi, prima di arrivare a Fort Lauderdale, l’ha pilotato.
Ma non sono documenti qualsiasi. Riportano date ben precise e le liste dei voli effettuati fra il 1976 e il 1979. Fra questi, c’è anche quello del 14 dicembre 1977.
Gettati nel mare
La traccia da cui Giancarlo e Miriam partono per trovare quei voli è una fotografia: ritrae una suora vittima di una retata del dicembre 1977 nella Chiesa di Santa Cruz, luogo nel quale gli attivisti contro il regime e le madri di Plaza de Mayo3 si ritrovavano per organizzare la lotta.
In quella retata erano state arrestate due suore. Una di loro sarebbe stata fotografata con il giornale «La Nación», datato 14 dicembre 1977, in mano.
Gli agenti dell’Esma in quel modo avrebbero sostenuto che al momento della foto le suore erano vive, e che sarebbero poi state rapite dai guerriglieri di estrema sinistra, i «montoneros», perdendone le tracce. Entrambe le suore, invece, sarebbero state uccise quella notte stessa, lanciate, nude e semistordite, insieme ad altri attivisti, dai portelloni dell’aereo in volo.
Il corpo di una di loro sarebbe stato ritrovato a riva qualche giorno dopo, spinto dalla «sudestada», insieme ad altri.
I nomi delle persone lanciate dai voli della morte erano fedelmente registrati nei documenti ritrovati da Giancarlo e Miriam sull’aereo di Fort Lauderdale.
Foto per la giustizia
A seguito del ritrovamento dell’aereo e dei documenti in esso contenuti, vengono arrestati tre piloti: un militare ormai in pensione e due comandanti di voli di linea ancora in attività.
Con uno di essi, divenuto, dopo la fine della dittatura, pilota di linea, Giancarlo ha anche volato da Roma a Buenos Aires.
Arrestati nell’aprile del 2011, saranno condannati all’ergastolo nel novembre del 2017.
E sarà poco prima di quel pronunciamento che il lavoro fotografico di Giancarlo si fermerà.
Al momento dell’arresto dei piloti, nel 2011, il fotografo fa parte della nota agenzia fotografica Noor. I suoi colleghi gli dicono che dovrà essere la foto del processo e della condanna a chiudere il suo lavoro, ma lui decide di non farlo. Vuole chiudere il libro prima. C’è un momento in cui bisogna fermarsi.
Sì, perché scattare quell’ultima foto al banco degli imputati sarebbe troppo: lì, in fondo, ce li ha portati lui, ha influito sul destino di quegli uomini fotografando l’aereo, cercando prove e documenti; ma lui è solo un testimone, non è come Miriam e altri sopravvissuti che ora possono permettersi gioia, e anche un certo senso di giustizia ristabilita.
Parte per Cuba prima della fine del processo. Lì, per l’assenza di internet, è quasi impossibile seguire quello che succede in Argentina. Lo raggiunge comunque la notizia dell’ergastolo. Giancarlo è felice per Miriam e per tutti quelli che hanno avuto giustizia, ma sente di aver fatto solo il proprio dovere.
Se si hanno dubbi sull’importanza del fotogiornalismo oggi, il lavoro di Giancarlo Ceraudo ci aiuta a fugarli e a farci comprendere, ancora una volta, la potenza di una storia sapientemente raccontata.
Valentina Tamborra
Note:
1- I voli della morte furono una pratica attuata tra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca in Argentina nell’ambito del cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale. Migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, furono gettati in mare sotto l’effetto di droghe da aerei o elicotteri militari.
2- Durante la dittatura l’Esma divenne il più grande e attivo centro di detenzione illegale ove le persone scomode al regime della giunta militare venivano segregate e torturate. Delle circa 30mila persone assassinate, più di 5mila passarono da questi centri, solo 500 circa sono i sopravvissuti.
3- Le Madri di Plaza de Mayo è un’associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti o presunti tali scomparsi durante la dittatura militare.
Giancarlo Ceraudo
Nato a Roma nel 1969. Fotografo documentarista, ha lavorato in America Latina, Medio Oriente e in Europa sui diritti umani e su questioni sociali e culturali.
Suoi lavori sono stati pubblicati su media italiani e internazionali come L’Espresso, Internazionale, El País, Geo, Sunday Times Magazine, New Yorker, Libération, National Geographic, Vrij Nederland, Polka Magazine, 6 Mois. Le sue fotografie fanno parte della collezione del Maxxi di Roma e sono state oggetto di mostre in Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti.
Sono passati due anni dal sorgere della pandemia e dalle rivolte nelle carceri, seguite da una violenta limitazione dei diritti delle persone detenute. I fatti di Santa Maria Capua Vetere ne sono un brutale indicatore. Anche il Covid-19 ci dice che è tempo di ripensare la pena e le sue forme.
La pandemia ha raggiunto l’Italia come un treno in corsa. Il 21 febbraio 2020 è scoppiata la notizia di un focolaio nel nostro paese, il primo in Europa. In pochi giorni le autorità hanno dovuto prendere misure mai sperimentate prima nel mondo occidentale. Le carceri ne sono state investite.
L’8 marzo un decreto del presidente del Consiglio ha stabilito che i detenuti non potessero più avere colloqui con i loro parenti. Una misura a termine. Ma il termine non poteva essere fissato in anticipo. E non solo dei parenti si trattava, ma dell’ingresso negli istituti di tutti coloro che ne riempiono la vita interna: insegnanti, volontari, chi tiene laboratori, attività sportive e molto altro. All’improvviso, un isolamento immobile e totale dal mondo.
Chi ha spiegato e chi no
In alcune carceri queste misure sono state spiegate alle persone detenute. Il direttore o altri operatori sono andati nei reparti detentivi, hanno organizzato momenti di confronto, assemblee, hanno raccontato i rischi del virus e le misure che era necessario prendere per provare a contenerlo, hanno spiegato il carattere temporaneo delle restrizioni, hanno ragionato insieme su possibili strade da percorrere.
In questi istituti, le misure sono state accettate con spirito di collaborazione e maturità.
Altrove è accaduto che il decreto sia piovuto addosso alla vita del carcere come un macigno, senza che i diretti interessati potessero comprendere quanto stava accadendo.
«Hanno pure la TV»
«Hanno pure la televisione», si sente dire spesso a proposito dei detenuti. «Hanno solo la Tv», sarebbe più corretto affermare. In carcere, infatti, il principale strumento d’informazione è proprio quello. I giornali entrano poco, internet per niente. E tutti ricordiamo cosa diceva la Tv in quei primi giorni di emergenza sanitaria: della nuova malattia non si sapeva nulla, qualcuno sosteneva che fosse come un’influenza e qualcun altro che fosse pericolosissima, tutti concordavano sul distanziamento, la mascherina, lavarsi spesso le mani. Ma in carcere la distanza è una chimera, le mascherine non c’erano, e il sapone scarseggia.
Chi era dentro non riusciva ad avere notizie sui propri cari fuori dal carcere. Chi era fuori immaginava scenari apocalittici che potevano verificarsi dentro.
Scoppiano Le rivolte
È in questo contesto che, tra l’8 e il 9 marzo 2020, sono scoppiate rivolte in ben 49 istituti di pena italiani. Sono morti 13 detenuti. Da subito è stato detto che le persone carcerate avevano assaltato l’infermeria e che avevano ingerito metadone.
Ci auguriamo che le inchieste della magistratura possano fare il proprio corso e far piena luce su quanto accaduto.
Nei giorni successivi, Antigone (associazione per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario) ha ricevuto dalle carceri varie segnalazioni di ritorsioni violente che sarebbero avvenute sui detenuti dopo la fine delle rivolte.
I nostri avvocati hanno presentato quattro esposti per tortura relativi a quattro carceri diverse. Non sono coinvolti nelle denunce solo poliziotti penitenziari, ma anche alcuni medici che avrebbero prodotto referti falsi.
Anche su questi procedimenti ci auguriamo di avere presto una pronuncia ufficiale.
Santa Maria Capua Vetere
A circa un mese di distanza, il 6 aprile, una protesta è scoppiata nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere: i detenuti battevano le barre dei cancelli. Si era, infatti, diffusa la notizia che un detenuto avesse il Covid ed era scoppiato il panico.
Nei giorni successivi Antigone ha ricevuto segnalazioni che parlavano di un pestaggio di massa che sarebbe avvenuto nelle ore successive la fine della protesta.
Anche in questo caso, dopo aver verificato che i vari racconti erano credibili e tra loro coerenti, gli avvocati di Antigone hanno presentato un esposto in procura dandone contestualmente notizia ai vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), dai quali non hanno ricevuto risposta.
Stato di diritto sospeso
Si è dovuto attendere settembre 2020 perché le indagini partissero con decisione, quando il quotidiano Domani ha pubblicato un’inchiesta su quegli eventi, annunciando anche la presenza di un video. Nei mesi successivi il video è stato reso pubblico, e tutta Europa ha assistito a una grande sospensione dello stato di diritto che ha riguardato centinaia di persone.
Nel settembre del 2021 è stato depositato l’atto di chiusura delle indagini: è lungo 176 pagine, conta 177 vittime tra le persone detenute e 120 indagati tra poliziotti e funzionari. I capi di accusa sono 85. L’associazione Antigone è citata tra le persone offese, cosa che accade quando i fatti sono tanto gravi da riguardare la società intera.
Ma senza quel video probabilmente nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Le videocamere nelle carceri spesso non ci sono e, quando ci sono, sovente sono rotte. Quando ci sono e non sono rotte, mantengono la registrazione per poche ore. Forse altre violenze avvenute nelle carceri sarebbero potute emergere se l’istituzione avesse impartito le adeguate direttive.
Carcere extrema ratio
Uno degli effetti dell’arrivo della pandemia sulle carceri è stato quello di farne diminuire la popolazione, come è avvenuto in molti altri paesi del mondo.
In Italia, fin dal febbraio 2020, Antigone, insieme ad altre organizzazioni e con il consenso di tutti coloro che sono esperti in questioni penitenziarie, ha sottolineato la necessità di creare spazio all’interno degli edifici carcerari. Per il distanziamento sociale, i reparti per le quarantene, i reparti Covid, c’era bisogno di locali ben diversi da quelli sovraffollati e igienicamente a rischio cui siamo abituati.
Con altri soggetti, Antigone ha presentato un elenco di proposte per far uscire dal carcere le persone detenute che presentavano una scarsa pericolosità sociale o problemi di salute.
Il decreto cosiddetto Cura Italia del 17 marzo 2020, seppur con un’eccessiva timidezza, si è mosso in quella direzione.
Se all’inizio di marzo nelle carceri italiane c’erano più di 61mila detenuti (per una capienza ufficiale di 51mila posti, che scendeva a 47mila considerando le sezioni chiuse per ristrutturazione), due mesi e mezzo dopo, ce n’erano 8.500 in meno.
Questo accadeva grazie a quattro ragioni: la diminuzione dei reati dovuta al fatto che l’intera popolazione italiana era in lockdown, le norme introdotte dal decreto che consentivano un maggiore accesso alla detenzione domiciliare, un utilizzo più ponderato da parte della magistratura della custodia cautelare in carcere e un’applicazione più rapida e ampia delle norme ordinarie sulle alternative al carcere da parte della magistratura di sorveglianza. Tutte misure che hanno dimostrato come la risposta carceraria, che dovrebbe rappresentare una extrema ratio, sia utilizzata di solito ben al di là di quanto sarebbe necessario.
Allentata la tensione dovuta all’ondata di Covid, i numeri hanno lentamente ripreso a salire. Se nel maggio 2020 c’erano meno di 53.400 persone detenute nelle carceri italiane, al 30 novembre erano già oltre 54.350. Un anno dopo, quasi 54.600.
Uno degli insegnamenti che si potevano apprendere dall’esperienza della pandemia per le carceri italiane è rimasto purtroppo per molti versi inascoltato.
L’occasione tecnologia
Speriamo invece che un altro insegnamento possa avere effetti duraturi: quello sull’uso delle nuove tecnologie negli istituti di pena. Esse non solo non sono pericolose per la sicurezza, ma hanno enormi potenzialità.
In molti paesi del mondo la pandemia ha costituito l’occasione per l’ingresso di molte innovazioni tecnologiche in carcere.
Le carceri italiane sono, da questo punto di vista, ferme a molti decenni fa. Il mondo è cambiato, ma il sistema penitenziario è stato incapace di andargli dietro.
Con la chiusura dei colloqui dovuta al Covid, e sotto la pressione di Antigone che, insieme ad altri soggetti, ha portato avanti una forte azione di advocacy, alla fine del marzo 2020 il ministero ha annunciato l’acquisto di 1.600 smartphone da distribuire nelle carceri al fine di far effettuare videochiamate tra detenuti e famigliari.
Chi non conosce il mondo carcerario da vicino non può comprendere pienamente di quale grande rivoluzione si sia trattato.
Al termine della prima ondata di Covid, l’utilizzo delle videochiamate come strumento di comunicazione non è venuto meno. Anzi, si è esteso ad altri ambiti, come, ad esempio – seppur con grandi differenze da un carcere all’altro -, la didattica a distanza.
Ci auguriamo che sempre più si possa utilizzare l’accesso al web e le nuove tecnologie per tutte le attività – quali ad esempio l’informazione – che potrebbero avvicinare la vita in carcere a quella del mondo esterno.
Vita dentro e vita fuori
Tra i massimi insegnamenti del Consiglio d’Europa ce n’è uno che invita a fare diventare la vita interna alle carceri il più possibile simile a quella nel mondo libero. Questo per avvicinare le persone detenute al contesto nel quale torneranno una volta terminato il tempo di detenzione.
Che senso può avere, infatti, recidere i contatti e gli stili di vita che la persona aveva fuori dal carcere? Quando li dovrà riannodare al termine della pena, sarà tutto più tortuoso e faticoso.
La reintegrazione sociale, che dovrebbe essere il fine costituzionale della pena, non sarebbe raggiunta con maggiore facilità e pienezza se la vita carceraria fosse improntata a questi criteri?
Eppure, in molti ambiti della vita penitenziaria si può osservare un grande scollamento dalla vita ordinaria. Il carcere non riesce a proporre alle persone detenute quelle opportunità che possono indirizzare la loro vita verso un duraturo percorso non deviante. Se guardiamo, ad esempio, all’ambito lavorativo, notiamo che al 31 dicembre 2020 i detenuti impegnati in qualche mestiere erano solo 17.937, ovvero il 33,6% del totale. Di questi, la stragrande maggioranza (15.746 persone) lavorava alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, spesso (14.023 persone) per la manutenzione, la pulizia e altre piccole necessità relative alla vita d’istituto.
Si tratta di lavori poco qualificati, che difficilmente riescono a porre le basi per la futura vita esterna della persona. Inoltre, sono spesso lavori di poche ore settimanali, con salari del tutto inadeguati a qualsiasi percorso di emancipazione.
Se guardiamo ai corsi di formazione professionale, nel secondo semestre del 2020, solo 1.279 detenuti – di cui 507 stranieri – in tutta Italia hanno avuto la possibilità di iscrivervisi. I corsi attivati in maggior numero hanno riguardato la cucina e la ristorazione (35), seguiti dai corsi di giardinaggio e agricoltura (18).
Il grosso delle attività di sostegno o delle attività culturali, ricreative e sportive è affidato al volontariato e non all’istituzione. Al 31 dicembre 2020 erano quasi 10mila i volontari autorizzati a fare ingresso negli istituti di pena italiani. Di questi, oltre 4mila si occupavano del supporto alla persona o alle famiglie, con colloqui di sostegno, consegna di pacchi ai meno abbienti, contatti con i parenti. Circa 1.500 erano impegnati in attività religiose. Se infatti il cappellano cattolico è una figura istituzionale in ogni carcere, previsto nell’organico e stipendiato dal ministero della Giustizia, i ministri di culto delle altre religioni sono più o meno equiparati agli altri volontari.
Riformare il sistema
La pandemia, con tutto quello che ha comportato, ha spinto le istituzioni di molti paesi del mondo a una riflessione sul modello di detenzione e sul suo rinnovamento. Anche in Italia si è aperto un percorso riformatore che vede, da un lato, la delega del parlamento al governo per riformare il processo penale e, dall’altro, i lavori della Commissione ministeriale guidata dal professor Marco Ruotolo per ripensare la vita carceraria interna.
Sul fronte processuale, le modifiche normative che il governo è chiamato a fare avranno una ricaduta anche sulle carceri. La delega parlamentare prevede, infatti, che si introduca una serie di sanzioni sostitutive alla pena detentiva, che il giudice di merito potrà comminare in sentenza al posto della pena carceraria fino a quattro anni. È sicuramente un primo passo verso il disconoscimento di quella centralità assoluta del carcere che ha dominato il sistema penale italiano fin dalla nascita della Repubblica.
Se i padri costituenti hanno scritto, all’articolo 27 della Costituzione, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, declinando al plurale il sostantivo «pena», significa che avevano in mente una pluralità di possibilità sanzionatorie. Sicuramente il carcere, se guardiamo agli altissimi livelli di recidiva, non si è rivelato la più efficace.
Sul fronte amministrativo, la Commissione potrà suggerire una serie di direttive cui improntare la vita interna alle carceri che saranno capaci di renderla, da un lato, più rispettosa della dignità e dei diritti delle persone detenute e, dall’altro, più responsabilizzante nei confronti di queste ultime e utile in vista del loro futuro rientro in società.
Sicuramente tutto ciò che riguarda l’utilizzo delle nuove tecnologie avrà un’importanza fondamentale. Non è pensabile tendere alla reintegrazione sociale delle persone lasciandole nell’analfabetismo informatico.
Le tecnologie potranno aiutare anche nel tentativo di non sradicare la persona detenuta dal suo contesto lavorativo, contemplando la possibilità di smart working come accade ormai in gran parte del mondo esterno.
Inoltre, i contatti tra i detenuti e le persone care, che sono la cosa più importante per chi vive in carcere, potranno essere potenziati senza che vi sia alcuna motivazione contraria sensata.
Una battaglia decisiva
Spesso nella storia le emergenze di vario tipo hanno costituito le cause iniziali per una compressione dei diritti che poi ha visto nel tempo successivo una stabilizzazione ingiustificata. Questo è un rischio concreto che si è corso nel sistema penitenziario con l’emergenza Covid-19. Un rischio che si è corso e che non è ancora del tutto scongiurato, se non per una esplicita volontà di mantenerlo, almeno per un’inerzia del sistema.
Come ogni emergenza che comporta dei rischi, la pandemia però può anche essere colta come un’occasione di allargamento dei diritti e di avanzamento del modello detentivo.
Se sapremo farlo, avremo vinto una battaglia decisiva.
Claudio Paterniti Martello
(membro dell’Osservatorio Nazionale carceri di Antigone)