Italia. Missione come ponte tra mondi


Il Festival della missione 2025 si terrà a Torino. Preceduto da eventi pre festival durante il 2025, si svolgerà tra il 9 e il 12 ottobre nelle piazze della città.
In un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali, il tema della kermesse sarà «Il volto prossimo».
Non sarà una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza nel quale ascoltare il racconto di molte esperienze di pace, resistenza e trasformazione.

Sarà Torino la città ospite del prossimo «Festival della Missione», occasione di riflessione e, soprattutto, di incontro con molti protagonisti della «Chiesa in uscita» nelle periferie del mondo.

Un evento che, come spiegano i promotori, non sarà solo una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza e un invito a tutti ad aprirsi al mondo.

Dal 9 al 12 ottobre 2025, la terza edizione della kermesse promossa da Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani) e Fondazione Missio Italia, avrà come location l’area tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto. Si interfaccerà con il programma del Festival dell’Accoglienza, evento diffuso promosso dalla Pastorale migranti dell’arcidiocesi di Torino tra settembre e ottobre, e avrà come tema di fondo «Il volto prossimo», collegandosi alla riflessione sul «Vivere per-dono» iniziata nella scorsa edizione del 2022 a Milano. Si inserirà, inoltre, nel contesto del Giubileo del 2025 promosso dal Papa con il tema «Pellegrini di speranza».

Festival della Missione 2022 a Milano. L’incontro «Missione tra vecchie e nuove vie». Da sinistra: p. Carlos Reynoso Tostado, saveriano; Elisabetta Grimoldi, laica saveriana; suor Dorina Tadiello, comboniana della comunità di Modica; il giornalista Paolo Affatato; i coniugi Marangoni della comunità di famiglie Bethesda di Padova; Fabio Agostoni, laico a Ginevra. @foto di Luca Lorusso

L’interrogativo sul volto del prossimo, e sul rendere prossimo il nostro volto all’altro, ha una sua urgenza particolare oggi, in un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali.

Alla conferenza stampa di presentazione del Festival, tenutasi martedì 19 novembre presso l’Arcivescovado di Torino, sono intervenuti monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Agostino Rigon, direttore generale del Festival (insieme a Isabella Prati), e Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica dell’evento (insieme al regista e documentarista Alessandro Galassi).

Per loro, Torino, città con una forte vocazione missionaria che ha visto nascere le missioni salesiane di don Bosco e l’Istituto Missioni Consolata di san Giuseppe Allamano, canonizzato lo scorso 20 ottobre, diventerà il cuore pulsante di una riflessione universale.

Il legame tra il Festival della Missione e il Festival dell’Accoglienza, come sottolineato da monsignor Repole, sarà un’occasione per allargare gli orizzonti, connettendo l’attenzione ai più fragili (del secondo) con la prospettiva internazionale (del primo).

Agostino Rigon ha definito il Festival «una risposta al movimento dello Spirito e della storia», sottolineando l’urgenza di camminare insieme come Chiesa e società.

In un momento in cui le forze del mondo missionario sembrano ridursi, l’obiettivo dell’iniziativa non è solo quello di unire risorse, ma di costruire alleanze e ponti con realtà civili e religiose.

Tra piazza Castello e piazza San Carlo, ha aggiunto il direttore generale del Festival, si allestiranno «tavoli di ascolto» dedicati alla ricerca delle tracce del divino nella realtà contemporanea.

Il centro di tutto, ha spiegato Lucia Capuzzi, sarà la narrazione. Non la speculazione teologica sulla missione, ma il racconto dei protagonisti della missione.

Le storie saranno il fulcro del programma, coinvolgendo missionari e comunità di tutto il mondo per raccontare esperienze di annuncio, di pace, giustizia e trasformazione.

Tra i progetti più significativi che faranno parte degli eventi «pre festival», quelli che verranno organizzati in città nelle settimane che precederanno il Festival, vi sarà un focus su Haiti, paese «invisibilizzato» dai media internazionali e attualmente sconvolto da violenza e povertà, e un altro su una periferia come Brancaccio, a Palermo, dove la memoria di don Pino Puglisi continua a ispirare progetti di rinascita.

Il Festival proporrà durante l’anno scolastico anche un programma educativo sulla pace, elaborato in collaborazione con il Centro studi Sereno Regis, che mira a mostrare i meccanismi della violenza e a promuovere la nonviolenza e giustizia riparativa. L’11 ottobre, in Piazza Castello, si terrà un grande evento dedicato alla pace.

Durante la conferenza stampa, per dare un assaggio di cosa sarà il Festival, sono intervenuti anche tre missionari per dare la loro testimonianza: suor Angela Msola Nemilaki, superiora generale delle Madri Bianche, le suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, ha acceso i riflettori sul dramma della tratta di esseri umani. La religiosa ha raccontato la storia di Lulu, una giovane vittima di tratta e tortura. La missione, per suor Angela, è ridare dignità a chi se n’è visto privato, attraverso piccoli gesti di presenza e gentilezza, nella consapevolezza che, come affermato da papa Francesco, «solo aprendo il cuore agli altri scopriamo la nostra umanità».

Padre Dario Bossi, missionario comboniano in Brasile, ha parlato delle sfide globali legate al cambiamento climatico e del «razzismo ambientale», per cui capita sovente che le prime e principali vittime dei cambiamenti climatici siano i più poveri. «La missione oggi è costruire alleanze dal basso», ha detto, invitando a riflettere sul debito di giustizia che il Nord del mondo ha nei confronti del Sud.

Infine, Cristian Daniel Camargo, giovane missionario laico della Consolata e artista argentino, ha presentato il suo progetto «Murales por la Paz», una proposta artistica e teologica che invita comunità di tutto il mondo a dipingere insieme, costruendo pace e dialogo attraverso l’arte.

Dal 2018, il suo progetto «teo artistico» ha realizzato oltre 60 murales in luoghi come Colombia, Guatemala, Italia, Salvador e Argentina, e Camargo spera di proseguirlo in Kenya e Uganda, e poi di tornare in Italia nell’ottobre prossimo per partecipare al Festival della Missione.

«Se la Chiesa sparisse, è come se non ci fosse più cielo sulla terra», ha concluso monsignor Repole, citando il sociologo Hans Joas. Il Festival della Missione 2025 promette di essere uno «squarcio di cielo» su Torino, un’occasione per riflettere sulla dimensione umana e trascendente della missione, intrecciando storie di fragilità e speranza, per fare del mondo una sola famiglia.

Luca Lorusso

Il Festival della Missione 2022 a Milano si è tenuto prevalentemente all’aperto. La gran parte degli incontri sono stati alle Colonne di San Lorenzo. Anche il Festival 2025 a Torino si terrà negli spazi di piazza Castello e piazza Carlo Alberto in centro città. @foto di Luca Lorusso




Giuseppe Allamano è santo

 

Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.

Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.

Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.

Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.

Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.

Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

testo di Marco Bello
foto di Jaime Patias

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Torino. Missione Barriera


Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.

I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.

La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone.

Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.

Stile accogliente

Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.

Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.

Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.

Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.

Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.

Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.

Il quartiere più straniero

La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.

La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.

Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.

Parrocchia colorata

Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.

Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».

Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità Imc che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, p. Nicholas, p. Samuel Kabiru, keniano, e p. Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».

Laicato e annuncio

Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».

Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».

In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».

La droga, il disagio

Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.

Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.

Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.

Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.

Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.

Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».

Storie individuali

L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.

Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.

Stupri e violenze

Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.

Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».

Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.

Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».

Spostare i problemi

Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».

Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.

«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.

Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».

«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».

Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».

L’ad gentes in Europa

Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».

Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».

Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma Imc in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come Imc, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».

Luca Lorusso

 Archivio MC




Torino. Il progetto Migrantour. «Oggi vi accompagniamo noi»


A Torino, migranti di diversi paesi sono diventati «accompagnatori interculturali» nella città che li ha accolti. Gli obiettivi sono importanti: promuovere la coesione sociale e la convivenza, valorizzare il pluralismo culturale e il dialogo interreligioso. Il successo del progetto è stato tale che oggi viene proposto in altre città italiane ed europee.

«L’altro giorno stavo andando a fare la spesa a Porta Palazzo, quando all’angolo tra piazza della Repubblica e via Milano mi sono imbattuto in una comitiva di turisti. Francesi? No. Tedeschi? Nemmeno. Americani? Neanche. Giapponesi? Neppure. Si trattava di turisti ancora più esotici. Italiani.  Lì per lì, a dire il vero, mi è sembrato quasi normale, anche se appena una decina di anni fa la cosa sarebbe stata inimmaginabile. Così ho tirato dritto. Poi però, con la coda dell’occhio, ho intravisto qualcosa che mi ha fatto dapprima rallentare e infine fermare. Mi sono voltato. Ho guardato meglio. Sì, non c’erano dubbi. La guida che stava illustrando le meraviglie di Porta Palazzo alla comitiva di connazionali era una ragazza nordafricana con tanto di chador, che tra l’altro si esprimeva usando un italiano perfetto».

La «Tettoia dell’orologio», a Torino, passeggiata interculturale di Migrantour «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

Itinerari urbani: Torino e le altre

Quello che avete appena letto è un estratto di un articolo dello scrittore torinese Giuseppe Culicchia che, forse inconsapevolmente, qualche anno fa poté osservare l’esito di un lungo lavoro iniziato a Torino nel 2009.

Gli itinerari urbani ideati dagli «accompagnatori interculturali» della rete Migrantour sono oggi una realtà quotidiana, non solo nel capoluogo piemontese, ma anche in moltissime altre città italiane ed europee, nonché da un paio d’anni in alcuni piccoli borghi e località rurali e montane.

Si tratta di passeggiate di un paio d’ore, in cui persone che hanno vissuto a livello personale o familiare l’esperienza della migrazione accompagnano concittadini, studenti e turisti alla scoperta dei quartieri mostrando come le migrazioni abbiano trasformato la città nel corso del tempo, arricchendone il patrimonio culturale tangibile e intangibile. Si cammina insieme per vie e piazze, si attraversano mercati, si entra in luoghi di culto, si osserva il tessuto urbanistico e architettonico da prospettive inusuali.

Al centro di tutto vi è la dimensione dell’incontro, del dialogo, del confronto capace di lasciare la traccia di un’esperienza significativa nei ricordi di chi partecipa alle passeggiate Migrantour.

Nascita ed espansione della rete

Il progetto Migrantour è stato ideato e sperimentato inizialmente dalla cooperativa Viaggi solidali, tour operator attivo nel campo del turismo responsabile e socio fondatore dell’«Associazione italiana turismo responsabile» (Aitr) che, nel 2009-2010, a Torino, realizzò il primo corso per «accompagnatori interculturali», rivolto a venti migranti di prima e seconda generazione residenti in città.

A partire da quel progetto pilota, Fondazione Acra e Oxfam Italia diedero poi il loro fondamentale contributo ottenendo, nel 2013-2015, il primo finanziamento dalla Commissione europea per consolidare l’iniziativa in Italia ed estenderla ad altri paesi (Francia, Spagna e Portogallo).

Nacque così un network costituito da nove città che includeva, oltre a Torino, anche Milano, Genova, Firenze, Roma, Marsiglia, Parigi e Valencia, con partner locali incaricati di realizzare le attività in ogni città. Una seconda, importante fase di sviluppo dell’iniziativa si ebbe poi nel 2018-2019, grazie a due nuove progettualità: l’Asylum migration and integration fund (Amif) della Commissione europea e l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) permisero in quegli anni l’ingresso nella rete di altre città italiane (Bologna, Napoli, Catania, Cagliari e Pavia) ed europee (Bruxelles in Belgio e Lubiana in Slovenia) e soprattutto di organizzare delle specifiche attività per coinvolgere nell’iniziativa richiedenti asilo e rifugiati.

Nel corso degli anni successivi, la rete Migrantour ha continuato ad ampliarsi (aggregando le città di Parma e Bergamo).  Anche nel terribile 2020, segnato dalla pandemia, la rete ha dato vita a due programmi di scambio «Erasmus+» che le hanno permesso di estendere il progetto ad altre città (Barcellona in Spagna, Copenaghen in Danimarca, Utrecht nei Paesi Bassi) e, per la prima volta, in una serie di aree non urbane: Borgata Paraloup in Piemonte, Camini in Calabria, e altre località rurali in Slovenia, Grecia e Bulgaria. Oggi Migrantour è, dunque, una rete molto ampia, coordinata da Fondazione Acra e Viaggi solidali, ma sempre aperta ad accogliere nuovi partner e avviare nuove collaborazioni.

Mirela (Romania), accompagnatrice interculturale, la «Tettoia dei contadini», passeggiata «Il giro del mondo in una piazza: Porta Palazzo». Foto Viaggi solidali.

La formazione

Come funziona concretamente l’ideazione degli itinerari interculturali di Migrantour? Tutto comincia con un percorso formativo partecipato, offerto – sempre gratuitamente – a un gruppo di cittadini con background migratorio in seguito all’apertura di una call pubblica.

Il gruppo in formazione si impegna, dunque, per alcuni mesi in un lavoro fatto di momenti di approfondimenti sulla storia delle migrazioni, sul patrimonio culturale, sul turismo responsabile. Soprattutto cerca di sviluppare, attraverso lo scambio e la condivisione delle conoscenze tra i partecipanti (cui i formatori forniscono strumenti utili per l’identificazione e la restituzione dei contenuti delle passeggiate): le tecniche di narrazione autobiografica e di storytelling, la realizzazione di brevi ricerche di campo di tipo etnografico, attraverso la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e la produzione di documentazione visuale, la produzione di mappe mentali ed emozionali del territorio urbano.

Le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali divengono così, giorno dopo giorno, una «comunità di pratiche», che si fa gradualmente anche «comunità patrimoniale», nella misura in cui si impegna nel salvaguardare e trasmettere un patrimonio interculturale ritenuto rilevante per promuovere la coesione sociale, la valorizzazione del pluralismo culturale e del dialogo interreligioso.

I risultati

Considerata l’ormai lunga durata di questa iniziativa e l’ampiezza della rete delle città coinvolte, può essere interessante domandarsi quali siano i risultati tangibili ottenuti finora dal progetto.

A tal proposito, negli anni 2018-2019, l’International research centre on global citizenship education dell’Università di Bologna ha realizzato uno studio per valutare l’impatto del progetto Migrantour prendendo a campione le città di Torino, Bologna, Napoli e Cagliari.

Dal report finale emergono due cambiamenti rilevanti: i partecipanti alle passeggiate interculturali Migrantour cambiano le proprie percezioni sul fenomeno migratorio in termini di sicurezza e di contributo allo sviluppo della società rivalutando i quartieri in cui si svolgono le passeggiate; le accompagnatrici e accompagnatori interculturali migliorano la percezione del sé, rafforzandosi e affrancandosi attraverso il lavoro e trovando una modalità di realizzazione personale.

Nel report si legge ancora: «Da un’iniziale motivazione personale, legata alla possibilità di trovare un impiego, di mettere in pratica alcuni temi studiati all’università, o di migliorare l’italiano, per molti partecipare a Migrantour diventa qualcosa di più importante di un semplice lavoro o dello studio. Può favorire una più effettiva integrazione e contribuire alla preparazione di una nuova generazione alla convivenza multiculturale».

In effetti l’impatto più significativo, ancora oggi nel 2023, riguarda – a nostro avviso – proprio le accompagnatrici e accompagnatori interculturali. Lasciamo, dunque, la parola alle protagoniste e ai protagonisti di Migrantour.

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo, San Salvario (Torino), passeggiata interculturale «United colors of San Salvario». Foto Ornella Orlandini.

Cosa dicono

«L’impatto su di me – spiega Romina – è assolutamente positivo perché ho modo di confrontarmi, conoscere, capire, sentire altre storie di migrazioni. Lavorare a fianco di altri migranti mi dà un senso di appartenenza, mi sento capita, senza dovermi giustificare o spiegare, ma semplicemente raccontandomi in maniera naturale e spontanea direi».

Adriana: «Per me fare l’accompagnatrice interculturale è un privilegio perché è uno spazio in cui puoi autoraccontarti, autodefinirti, al di là di quello che le altre persone possono pensare di te semplicemente sapendo che sei nata in Colombia oppure che vivi a Barriera di Milano, come nel mio caso. Ti permette di raccontare come vedi e come vivi la città in uno spazio protetto e in generale di non giudizio».

Migrantour appare, dunque, come uno spazio in cui potersi confrontare liberamente e senza barriere. Un luogo in cui le storie personali o familiari di migrazione s’intrecciano e le narrazioni trovano spunti di riflessioni e linguaggi comuni. È significativa la consapevolezza del potere di rappresentazione tanto più in un contesto dove prevale nella comunicazione pubblica un punto di vista esterno (giornalisti, esperti, ricercatori, politici). Gli itinerari interculturali, al contrario, si fondano su uno sguardo interno, quello di chi ha vissuto personalmente l’esperienza della migrazione e sceglie di voler connettere la propria storia individuale con quella collettiva di altri migranti e della città.

Come abbiamo visto introducendo le modalità del percorso formativo, Migrantour è un luogo di scambio reciproco in cui costruire una comunità di pratiche. La costruzione degli itinerari è il risultato di un percorso partecipativo. Esso prevede uno scambio di competenze: si condivide, si insegna, si impara e si trasmette non solo quanto si sa personalmente ma anche i saperi degli altri partecipanti per costruire un dialogo autenticamente interculturale, capace di restituire la complessità degli scambi tra culture che, quotidianamente, avvengono nei quartieri dove si svolgono le passeggiate.

Come ricorda Mirela: «Essere accompagnatrice interculturale vuol dire anche essere parte di una grande famiglia dove ognuno di noi ha l’occasione sia di imparare sia di insegnare qualcosa agli altri. Questo senso di appartenenza fa bene a tutti, ci fa stare bene, ci fa voler portare avanti questo progetto».

Il sentirsi parte di una comunità rappresenta anche un’opportunità di emancipazione e di partecipazione alla società civile, nel rivendicare il proprio contributo nei processi di trasformazione della società.

«Diventare – spiega Monica –  un’accompagnatrice interculturale ha significato una grande svolta per la mia vita: quella dell’emancipazione come persona e come cittadina perché sono uscita da quella emarginazione nella quale mi ero lasciata collocare come immigrata. Avevo assunto su di me i pregiudizi sull’immigrazione e, soprattutto, i pregiudizi sulla mia comunità di appartenenza, quella rumena, vergognandomene purtroppo. Grazie a Migrantour ho capito e visto la ricchezza culturale che mi porto dentro e che posso condividere con gli altri. Ho cambiato prospettiva nel guardare me stessa, la mia comunità e le migrazioni in generale. Ora sono diventata consapevole delle mie molteplici identità, della bellezza del mondo che emigra e sento la necessità di ripagare Torino, questa bellissima città che mi ha accolta, diventando una cittadina attiva che si prende cura del proprio luogo del cuore».

Noi e la città

Un elemento che accomuna le accompagnatrici e gli accompagnatori interculturali è il rapporto che, man mano, si costruisce e rafforza con la città. Una città fatta di persone e storie con cui entrare in contatto, in cui si ha un ruolo per fare qualcosa per gli altri (Mirela), in cui sentirsi cittadine attive e sempre più torinesi (Adriana, Monica e Romina), in cui sentirsi a casa (Hassan).

Si sviluppa un senso di responsabilità, che sprona a formarsi di continuo, per inserire le proprie narrazioni nel quadro più ampio di una città in continua trasformazione grazie all’incontro tra culture e per restituire un discorso non stereotipato sulle migrazioni. In altre parole, un senso di responsabilità per aprire luoghi, relazioni, significati, possibilità, per rigenerare e costruire comunità.

Rosina (Italia-Perù), coordinatrice e accompagnatrice interculturale, passeggiata interculturale «Borgo San Paolo sin fronteras» per il progetto Detour, promosso da Fondazione Merz. Foto Matteo Montenegro.

«Città chiusa» versus «città aperta»

È proprio su questo impegno che, in conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione: aprire la città. Potremmo riassumere così, in estrema sintesi, l’orizzonte ideale del progetto Migrantour.

Come ha giustamente indicato il sociologo americano Richard Sennett, una delle più cruciali sfide politiche della nostra contemporaneità è quella tra i fautori della «città chiusa», segregata, segmentata e sottoposta a un regime di controllo antidemocratico, e coloro che, invece, sostengono la possibilità di una «città aperta», che presuppone un diverso modo di pensare e abitare lo spazio urbano.

Una città «storta e sbilenca», scrive Sennett nel suo libro Costruire e abitare. Etica per la città (2018), una città diversa e molteplice, che riconosce di contenere al suo interno «ineguaglianze accecanti».

Per «aprire la città» e renderla maggiormente «accessibile», ciascun cittadino è chiamato dunque a «praticare un certo tipo di modestia: vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso», e in cui a contare è «la ricchezza di significati anziché la chiarezza di significato».

Rosina I. Chiurazzi Morales
e Francesco Vietti


Gli autori

  • Rosina Irene Chiurazzi Morales, torinese per nascita ma con origini peruviane. Ha sempre mantenuto un forte legame con la terra d’origine, anche in campo professionale partecipando a progetti di ricerche archeologiche in Perù. Dal 2014 al 2019 ha coordinato le attività sul campo della «Missione Etnologica» in Ecuador del Cesmap di Pinerolo e dell’Università di Torino. Dal 2009 collabora con Viaggi solidali al progetto Migrantour, come accompagnatrice interculturale e come coordinatrice per Torino e per la rete europea.
  • Francesco Vietti, antropologo, insegna all’Università di Torino. Ha svolto ricerche sul nesso tra mobilità e patrimonio culturale nell’Europa Orientale e nel Mediterraneo. In Italia, collabora da molti anni con istituzioni e soggetti del terzo settore in progetti per la coesione sociale e il dialogo interculturale. Dal 2009 collabora al coordinamento scientifico della rete europea Migrantour. Pubblicazioni: Il paese delle badanti (Meltemi 2010), Hotel Albania. Viaggi, migrazioni, turismo (Carocci 2012), Etnografia delle migrazioni (con C. Capello e P. Cingolani, Carocci 2014).

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Il ponte più lungo

testo di Giorgio Marengo |


Il 13 novembre scorso, nella sala Congregazioni del comune di Torino, è stato rinnovato il «Patto di collaborazione» tra la capitale subalpina e Kharkhorin, cittadina della Mongolia che sorge sul sito di quella che, nel XIII secolo, fu la capitale del più esteso impero (di terra) della storia.

Fu lo stesso Gengis Khan, nel 1220, a dare disposizioni perché a Kharkhorin si stabilisse il cuore dell’impero, anche se la capitale prese forma solo nel 1235 con suo figlio Ögodei Khan e rimase tale fino a quando Kubilai Khan (noto in Occidente soprattutto per il rapporto con Marco Polo) nel 1264 la spostò più a Est, fondando l’odierna città di Pechino.

Torino Palazzo Civico, Sala della Convenzioni, rinnovo del patto di collaborazione tra la città di Torino e la Mongolia (© AfMC/Gigi Anataloni)

I come e i perché

Il «Patto di collaborazione» tra Torino e Kharkhorin, siglato nel 2016 e rinnovato nella sede del comune di Torino il 13 novembre scorso, è un atto formale che consente alle due parti, nei rispettivi paesi, di intraprendere e consolidare percorsi di collaborazione nei settori della cultura, della ricerca scientifica, del turismo e del commercio.

Questo accordo è stato possibile perché noi missionari e missionarie della Consolata abbiamo fatto da ponte affinché queste due realtà si potessero incontrare, nell’interesse delle cittadinanze che esse rappresentano. Furono le autorità locali della regione mongola di Uvurkhangai – all’interno della quale sorge la nostra missione di Arvaiheer – a chiederci, ormai sei anni fa, se fossimo disposti a favorire un’intesa ad ampio raggio con una realtà europea, in vista di una collaborazione internazionale sempre più necessaria per ottimizzare i servizi ai cittadini e anche per promuovere una maggiore apertura ai temi della interculturalità e della pace.

Pensare a Torino fu spontaneo, sia per il legame con le nostre origini di Istituti missionari sia per le curiose similitudini che cominciammo a scoprire; a partire dai nomi stessi delle due regioni. Se il nome «Piemonte» richiama immediatamente la conformazione geofisica del territorio, situato appunto ai piedi dell’arco alpino occidentale, «Uvurkhangai» significa letteralmente «a sud dei monti Khangai». I Khangai sono un’importante catena montuosa che attraversa tutta la Mongolia. Inoltre, se Kharkhorin fu la capitale dell’impero mongolo, Torino lo fu per il Regno d’Italia.

Insomma, ci sembrava che le due realtà, seppur diverse sotto alcuni profili, potessero considerarsi accomunate da interessanti analogie storiche e territoriali.

Torino Palazzo Civico, Sala della Convenzioni, rinnovo del patto di collaborazione tra la città di Torino e la Mongolia. Padre Giorgio Marengo traduttore ufficiale. – Con la sindaca Appendino. (© AfMC/Gigi Anataloni)

Torino e Kharkhorin

Così iniziammo a sondare il terreno delle relazioni internazionali e grazie all’impegno di entrambe le parti e alla collaborazione di molte persone fummo in grado di favorire questo incontro, finora rivelatosi molto positivo. Da tre anni ormai il museo storico di Kharkhorin ospita le attività formative del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino. Il Mao (Museo d’arte orientale) di Torino ha ospitato due mostre fotografiche dedicate al patrimonio culturale e religioso dell’antica capitale. In più, anche altri specialisti e istituzioni sono stati coinvolti nelle iniziative di ricerca, incluso il «Museo della ceramica» di Mondovì che ha accolto una mostra multimediale su Kharkhorin. In questi anni si è inoltre firmato un protocollo d’intesa tra il Centro scavi di Torino, il Museo di Kharkhorin e l’Università di Ulaanbaatar, sempre volto a favorire la ricerca scientifica su questo sito di grandissimo interesse storico e culturale.

Mebri del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino a Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)


La «Casa dell’Amicizia»

Come missionari e missionarie della Consolata già agli inizi della nostra missione in Mongolia ci era sembrato che una presenza a Kharkhorin sarebbe stata molto importante.

Casa dell”Amicizia – Friendship house nei pressi dell’area archeologica di Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

La cittadella che nel XIII secolo accoglieva al suo interno edifici di culto di Buddhismo, Islam e Cristianesimo nestoriano rappresenta un unicum nella storia antica, un modello da conoscere e ripresentare in chiave contemporanea; fu proprio a Kharkhorin che personaggi come fra Giovanni di Pian del Carpine e fra Guglielmo di Rubruk misero piede intorno al 1240, primi ambasciatori occidentali a entrare in relazione con gli imperatori mongoli. Inoltre, Kharkhorin ospita il più antico complesso monastico buddista del paese, dunque è considerata la patria del Buddhismo mongolo. Quale migliore collocazione per un centro dedicato al dialogo interreligioso e alla ricerca culturale?

Il progetto sta prendendo forma e ora siamo felici di avere a Kharkhorin la «Casa dell’Amicizia» come punto d’incontro, scambio e ricerca, ambiti imprescindibili per la missione in Mongolia.

L’interesse che aveva mosso papa Innocenzo IV a stringere relazioni con i dominatori dell’Eurasia di quel tempo è diventato oggi coesistenza pacifica e attiva collaborazione, sotto la nostra grande ger (la tradizionale tenda mongola) di Kharkhorin.

La Chiesa Cattolica non è estranea alla storia di questo grande paese dell’Asia centro orientale e da quando vi è stata nuovamente accolta nel 1992 è diventata un partner consolidato per promuovere una cultura di rispetto, dialogo e fratellanza universale. Siamo felici che il «Patto di collaborazione» tra le due città sia stato rinnovato e ci auguriamo possa continuare ad offrire valide occasioni di scambio e cooperazione.

Giorgio Marengo

10 luglio 2018 inaugurazione delal Casa dell’Amicizia a Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

800 anni di storia

È iniziato con i migliori auspici l’anno celebrativo dell’ottocentesimo anniversario della fondazione della capitale dell’impero mongolo, Karakhorum (1220-1260, letteralmente Montagne nere, oggi Kharkhorin). Com’è giusto e prevedibile per un paese che dà sempre molta importanza alle ricorrenze storiche, è stato pianificato un ricco programma ufficiale di iniziative, patrocinato dal presidente Khaltmaagiin Battulga, nel quale è prevista anche la partecipazione dell’Unesco (che nella riunione plenaria del novembre 2019 ha dato particolare rilievo a tale anniversario).

Lo stato che per primo ha dimostrato interesse e concreta volontà di collaborazione è stato il Vaticano. A inizio gennaio l’ambasciatore mongolo presso la Santa Sede e rappresentante permanente presso l’Onu, L. Purevsuren, ha incontrato in Vaticano il segretario per i rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher. I due alti funzionari hanno parlato degli 800 anni di Karakhorum, dove uno dei primi diplomatici a recarsi per incontrare il Khan fu proprio un ambasciatore del papa, il frate Giovanni di Pian del Carpine, che raggiunse la «capitale delle steppe» nel lontano 1246.

Con il suo diario di viaggio il frate umbro contribuì in maniera decisiva a far conoscere in Occidente questo popolo, fino ad allora soltanto temuto per le sue incursioni bellicose in Europa orientale.

A lui fece seguito pochi anni dopo un altro francescano, Guglielmo di Rubruk, questa volta inviato dal re di Francia.

Il Vaticano ospiterà a maggio una mostra fotografica e una conferenza scientifica sugli ottocento anni dell’antica capitale mongola.
In vista di tale evento, il diplomatico mongolo ha anche incontrato mons. Indunil Kodithuwakku, segretario del «Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso» e il prof. Laurent Basanese dell’Università Gregoriana di Roma.

È una storia lunga quella che lega la Chiesa Cattolica al popolo mongolo, anche se non è abbastanza conosciuta.

Proprio per valorizzare questi antichi rapporti – grazie ai quali si ebbe notizia della cristianità nestoriana (oggi si direbbe siriaca) esistente nei territori mongoli già dal X secolo – e attualizzarli, i missionari e le missionarie della Consolata hanno stabilito a Kharkhorin (così si chiama oggi il comune che sorge presso le rovine dell’antica capitale) un piccolo centro per la ricerca culturale e il dialogo interreligioso.

Ed è precisamente alla convivenza pacifica e allo scambio fruttuoso tra diverse tradizioni religiose che è legato il nome dell’antica capitale: i due frati medievali e molti altri testimoni dell’epoca hanno descritto la cittadella come cosmopolita e multi religiosa, con luoghi di culto buddhisti, islamici, cristiani e taoisti. Un esempio straordinario che vale la pena riscoprire e di cui fare tesoro per l’oggi.

La città di Torino è legata a Kharkhorin per il Patto di collaborazione tra le due «capitali» (di cui abbiamo scritto in queste pagine), che ha già prodotto molti scambi culturali e significative iniziative di ricerca scientifica e divulgazione. Oltre alle due mostre fotografiche ospitate dal Mao di
Torino e alla mostra laboratorio allestita nel 2018 al Museo della Ceramica di Mondovì, vanno ricordati i laboratori
didattici offerti in questi anni dagli archeologi del Centro
ricerche archeologiche e scavi di Torino (Crast) al Museo storico archeologico di Kharkhorin.

Gio. Ma.

Casa dell”Amicizia – Friendship house nei pressi dell’area archeologica di Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

 




Torino riscopre la Consolata

A trecento anni dalla proclamazione «ufficiale» dell’alleanza tra la Consolata e Torino, riscopriamo il millenario legame tra questa città e la «sua» Madonna. Consolatrice e Consolata, una «Madonna del Popolo» che, da Torino, come aiuto dei cristiani e Consolatrice degli afflitti, ha raggiunto gli estremi confini del mondo.

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Tag: Consolata, Torino, santuario

Giampietro Casiraghi