Penisola Arabica:

(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?

«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?

«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?

«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?

«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times
, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:

Vicario:
 mons. Camillo Ballin

? Arabia Saudita:

monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.

? Kuwait:

è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata. 

? Bahrein:

il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.

? Qatar:

monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:

Vicario:
mons. Paul Hinder

? Emirati Arabi:

è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

? Oman:

con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

? Yemen:

il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.




I Perdenti 28:

Sarajevo: Admira e Bosko

Admira Ismic e Bosko Brkic entrarono per caso nella cronaca di quella sporca guerra che sconvolse l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso per divenire i «Giulietta e Romeo di Sarajevo». Essi furono uccisi, mano nella mano, dai cecchini serbi nella «terra di nessuno» che separava la zona musulmana da quella serba nella capitale bosniaca. Era il 19 maggio 1993, la violenza durava già da un anno. Admira era musulmana, Bosko cristiano ortodosso. Entrambi venticinquenni, erano legati da un amore intenso e sincero da quando ne avevano diciassette, nonostante l’odio etnico e confessionale presente in città.

Dopo aver resistito diverso tempo, alla fine Admira e Bosko, che abitavano nella zona musulmana insieme ai genitori di lei, avevano deciso di fuggire trasferendosi provvisoriamente nel sobborgo serbo di Grbavica, per salutare i genitori di Bosko e con l’intento di abbandonare poi la Bosnia.

I loro corpi abbracciati nei pressi del ponte di Vrbanja che unisce le sponde del torrente Miljacka, abbandonati al sole per otto giorni, perché non si riusciva a ottenere l’assenso dei belligeranti a un cessate il fuoco che ne consentisse il recupero, divennero il simbolo della tragedia bosniaca.

Una volta recuperati dai serbi, i loro corpi furono seppelliti sbrigativamente sulle colline. Soltanto tre anni dopo trovarono riposo fianco a fianco nel cimitero di Sarajevo.

Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del camposanto, c’è il caffè dove i due si erano incontrati e avevano trascorso ore sognando un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

La loro storia continua a ricordarci come l’amore sia più forte della morte.

Bosko, come mai, mentre tutti scappavano, tu hai deciso di andare a vivere nella parte musulmana di quella città dilaniata dall’odio?

Bosko: lo decisi per stare accanto a lei, la ragazza che amavo più della mia vita. Se me ne fossi andato anche io, non so se l’avrei ritrovata al mio ritorno, e chissà quando sarebbe avvenuto un ritorno.

Tu serbo-bosniaco, tu bosniaca. Tu cristiano ortodosso, tu musulmana. Come vi siete conosciuti?

Bosko e Admira: nella maniera più semplice, comune a tanti giovani del mondo, ovvero incontrandoci in un bar della nostra città. Tra una bibita e una chiacchierata avevano cominciato una relazione d’amore molto bella benché impossibile in un paese che cominciava ad essere percorso dall’odio etnico.

E pensare che Sarajevo, comunità cosmopolita da secoli, era famosa per la sua capacità di integrare le varie componenti etniche creando le condizioni per una tolleranza che era d’esempio a molte altre città…

Bosko e Admira: fino all’inizio dei conflitti che hanno messo una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’ex Jugoslavia, le diverse comunità etniche erano abituate da tempo a vivere una acconto all’altra. Forse la forte personalità, anche in campo internazionale, del maresciallo Tito aveva contribuito a fare da collante in un paese sorto dalle ceneri della guerra, assemblando popoli di lingua, religione e cultura diverse.

Difatti i guai cominciarono dopo la sua morte…

Bosko e Admira: proprio così, la nostra società incubava da tempo i germi del nazionalismo e del razzismo, basati su una presunta superiorità culturale di una sola componente etnica a scapito delle altre. In un paese attraversato da una crisi economica che si trascinava da tempo, con la morte del maresciallo Tito, venuto meno l’uomo che con mano ferma aveva guidato la lotta di resistenza al nazifascismo e garantito il distacco dall’Unione Sovietica, questi germi attecchirono fra la gente, specialmente negli strati più emarginati della popolazione.

E così da modello di convivenza fra popoli diversi, la vostra terra divenne un campo di battaglia.

Bosko e Admira: la cosa che più fece impressione, fu che dall’oggi al domani nessuno più si fidava dell’altro, meno che meno se apparteneva a un gruppo etnico-religioso diverso dal proprio, cominciò a serpeggiare fra la gente una specie di ostilità verso coloro che non appartenevano al proprio «clan», e ben presto gli eserciti dei vari stati cominciarono a spararsi contro per delimitare i «propri» confini e proibire così ad altri di entrare.

Per voi una cosa del genere era inaccettabile, vero?

Bosko: sì, e per uscire da quella situazione avevo preparato tutte le carte necessarie a partire. Insieme ad Admira avevamo deciso di lasciare Sarajevo.

Vivevamo nella casa dei genitori di Admira, nel settore musulmano. Il progetto era di andare dai miei, nel quartiere serbo, stare un po’ con loro e poi finalmente partire. Ma bisognava passare il torrente Miljackail, che divide la città, passando sul ponte Vrbanja, una vera strozzatura e passaggio obbligatorio. Decidemmo di tentare il tutto per tutto, il 18 maggio 1993. Ma un cecchino mi colpì con una pallottola alla testa, ponendo fine alla mia vita. Anche Admira fu colpita, ma non morì subito. Con le ultime forze, Admira si trascinò fino a me e mi abbracciò. Restammo otto lunghi giorni in quel tragico abbraccio d’amore.

Un abbraccio pieno d’amore scambiato sulla soglia dell’eternità…

Bosko e Admira: colpiti dalla violenza cieca dei nostri compatrioti, ce ne andammo da questo mondo pieno di odio e, abbracciati come due semplici innamorati, entrammo insieme nel Regno della Pace.

Ci piace immaginare che gli Angeli e i Santi vi abbiano accolto in Paradiso con le parole conclusive del Cantico dei Cantici, dove l’amata dice all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore».

Bosko e Admira: proprio così, il Dio della tenerezza e dell’amore ci accolse fra le sue braccia e ci coprì con il mantello della sua misericordia.

 I corpi esanimi dei due moderni Giulietta e Romeo rimasero sotto il sole di maggio per otto lunghi giorni prima che una tregua concordata tra le parti belligeranti ne potesse consentire il recupero e dare loro una degna sepoltura. Alla cerimonia funebre di tre anni dopo erano presenti i membri delle due comunità, musulmani e serbo-bosniaci uniti dalla testimonianza d’amore dei loro figli.

«Se avessero avuto una visione fanatica della religione, non si sarebbero mai messi insieme», disse in quell’occasione il padre di Admira. Il loro resta un prezioso messaggio della religione dell’amore che quando è vissuta coerentemente fino in fondo sconfigge l’odio e fa trionfare sempre la pace. L’immagine dei due corpi abbracciati a terra fece il giro del mondo, e ancora oggi rappresenta un’icona dell’amore che va oltre alle differenze di razza e di religione. Un insegnamento per tutte le nazioni del mondo sempre più vittime di nazionalismi emergenti ed egoismi locali, che poi sono le stesse ragioni che hanno disintegrato lo stato jugoslavo.

La guerra è terminata da tempo e l’autodeterminazione dei popoli balcanici ha favorito la nascita di ben sei nuovi stati sovrani sul territorio della ex Jugoslavia. L’insegnamento e la testimonianza dei due giovani innamorati di Sarajevo appare oggi più significativa ed attuale che mai.

Don Mario Bandera




Kurdistan: Orgoglio Kurdo


È uno stato

Introduzione

a) La carta d’identità

FAMIGLIA LINGUISTICA – Ramo iranico delle lingue indoeuropea, con rilevanti affinità con il persiano parlato in Iran. La lingua kurda si divide a sua volta in due varianti, Sorani e Kurmanji, con notevoli varietà dialettali.

DOVE SONO – Nord dell’Iraq, al confine con Siria, Turchia e Iran, zone anch’esse abitate dai Kurdi. I territori indicati dalla Costituzione irachena del 2005 come Regione autonoma del Kurdistan sono inferiori rispetto all’area occupata dai Kurdi, oggi contesa fra Baghdad ed Erbil (il capoluogo della regione).

CAPOLUOGO – La città di Erbil.

POPOLAZIONE – 5-8 milioni, a seconda delle stime.

RIFUGIATI E SFOLLATI – Si trovano oggi in Kurdistan circa 2 milioni di rifugiati e sfollati, la larga parte dei quali giunti negli ultimi tre anni in seguito all’avanzata dello Stato islamico (Isis-Daesh).

ORGANIZZAZIONE POLITICA – I Kurdi in Iraq vivono, con un’ampia autonomia politica ed economica, all’interno della Regione autonoma del Kurdistan, sancita, dopo la caduta di Saddam, dalla costituzione irachena del 2005. I territori in essa inclusi sono però di molto inferiori rispetto a quelli effettivamente controllati dai Kurdi, il che provoca frequenti diatribe con Baghdad.

RELIGIONE – Circa il 94% degli abitanti del Kurdistan iracheno sono musulmani sunniti.

MINORANZE – Siriaci, armeni, turkmeni e arabi. Da un punto di vista religioso, si trovano inoltre musulmani sciiti, cristiani, zoroastriani, yazidi, ebrei, shabaki, kakai, mandei e bahai.

MONETA – Dinaro iracheno.

BANDIERA – Un tricolore a bande orizzontali rossa bianca e verde, con un sole al centro. La bandiera fu per la prima volta introdotta dai leader Kurdi presenti alla conferenza di pace di Parigi del 1919-20, quando la nascita di uno stato chiamato Kurdistan sembrava imminente. Oggi questa bandiera è bandita in Turchia, in quanto ritenuta simbolo delle aspirazioni kurde all’indipendenza, mentre è assai diffusa nel Kurdistan iracheno.

PETROLIO – Con una riserva stimata attorno ai 45 miliardi di barili, il petrolio rappresenta una voce fondamentale dell’economia del Kurdistan, oltre che un elemento di attrito continuo con Baghdad.

b) Le date principali

  • 1918: con la sconfitta dell’Impero ottomano nel primo conflitto mondiale, il territorio dell’attuale Kurdistan iracheno diventa parte del dominio della corona britannica.
  • 1919: creazione ex novo dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico.
  • 1920: il trattato di pace di Sèvres, firmato dall’Impero ottomano, prevede la nascita di uno stato kurdo, cui avrebbero potuto unirsi – tramite referendum – anche i Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul.
  • 1922: Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la loro aviazione e schiacciando la rivolta.
  • 1923: il trattato di Losanna dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.
  • 1943: Mustafa Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida una rivolta che riesce a strappare per breve tempo al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan.
  • 1946: nasce un’effimera, ma importante, Repubblica di Mahabad, entità statale kurda nel Nord Ovest dell’Iran che durerà meno di un anno.
  • 1980-88: la guerra Iran-Iraq causa migliaia di morti, persecuzioni e divisioni politiche all’interno del Kurdistan iracheno.
  • 1986-89: campagna di al-Anfal compiuta da Saddam Hussein contro i Kurdi, che porterà alla morte di migliaia di persone.
  • 1988: attacco chimico di Halabja compiuto dalle forze irachene contro i Kurdi.
  • 1991: i Kurdi riescono finalmente, dopo una sollevazione, a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia, quella della regione del Kurdistan, resa effettiva anche grazie alla no flight zone americana.
  • 2005: la nuova costituzione irachena, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq, riconosce l’autonomia kurda nel Nord del paese.
  • 2014: l’Isis avanza in Iraq, compiendo un genocidio contro gli Yazidi e costringendo i Kurdi siriani e iracheni a una strenua resistenza. La regione diviene approdo, in breve tempo, di centinaia di migliaia di profughi e sfollati.

Simone Zoppellaro


Kurdistan: uno, tanti, nessuno

Storia della regione kurda dell’Iraq

Nel mondo si stimano esistere tra i 20 e i 40 milioni di Kurdi. Costituiscono la più grande nazione senza uno stato (riconosciuto dalla comunità internazionale). Il nostro collaboratore è andato a vedere cosa succede nel Kurdistan iracheno, che un tempo era la mitica Mesopotamia, mentre oggi è l’unica entità territoriale kurda vicina alle caratteristiche di un vero e proprio stato indipendente.  

Quello del Kurdistan è un nome divenuto ormai noto a tutti in questi ultimi anni, seppure si riferisca a una realtà per molti aspetti sfuggente, dai tratti incerti e in parte persino misteriosi. Non sarà un caso: costretta a cavallo dei confini di diversi stati – Turchia, Siria, Iran, Iraq e Armenia, con una notevole presenza diasporica in Europa – quella dei Kurdi rappresenta oggi la più grande nazione al mondo senza uno stato. Una frattura difficile da sanare causa di numerose altre ferite: non solo le persecuzioni e le discriminazioni subite periodicamente nei diversi contesti, ma anche le divisioni politiche, talora fratricide, che hanno segnato il destino di questa gente pur legata da una cultura salda e antica. Il risultato è che oggi non esiste un solo Kurdistan, ne esistono diversi o, almeno da un punto di vista del riconoscimento internazionale, non ne esiste ancora nessuno. Eppure, situato com’è nel cuore del Medio Oriente, forte di una popolazione complessiva stimata (ma i dati sono assai dibattuti) fra i 20 e i 40 milioni di persone, il Kurdistan è uno dei luoghi del mondo tra i più caldi e cruciali dal punto di vista geopolitico, strategico e delle risorse. E questo non certo da oggi.

Un tempo era la Mesopotamia

Troppe volte in passato questa splendida terra, fertile e dai paesaggi rigogliosi, è stata contesa da potenze straniere e dai loro eserciti. Limitandosi al solo Kurdistan iracheno – che tratteremo in modo esclusivo in questo nostro lavoro – si parla di una regione che ha radici antichissime, che arrivano fino agli albori stessi della civiltà. In questo spazio si trovava infatti parte della Mesopotamia propriamente detta. Nella piana di Ninive, gli storici ritengono sia avvenuto lo scontro decisivo fra Alessandro Magno e i persiani. Ci riferiamo alla battaglia di Gaugamela, snodo fondamentale per la storia antica nel determinare le fortune del Macedone e il tramonto, almeno temporaneo, dell’impero di Persia.

In epoca più recente, quello che oggi chiamiamo Kurdistan iracheno è stato soggetto alla dominazione ottomana. Proprio sotto questa dominazione, fra battaglie e rivolte represse nel sangue, va forgiandosi e definendosi l’identità kurda di questa popolazione di origine iranica. Nel 1918, con la sconfitta della Sublime Porta nel primo conflitto mondiale, questo territorio passa a essere dominio della Corona britannica. Dell’anno successivo è invece la creazione dello stato iracheno, che finisce sotto mandato britannico. Un’entità statale, come diverse altre in Africa e in Asia, che è in ultima analisi solo una creazione realizzata a tavolino dalle potenze coloniali, senza alcun riscontro storico preciso. È così che una porzione di Kurdistan diviene parte di uno stato che un secolo dopo, a dispetto dei tanti mutamenti, esiste ancora. Il risultato di tale disegno, concepito su esclusivo interesse di capitali lontane anziché sui bisogni delle popolazioni locali, è sotto gli occhi della comunità internazionale ancora nel 2017. Una delle caratteristiche dell’esperienza coloniale è che essa è durata ben oltre la fine del colonialismo stesso.

La svolta: il trattato di Sèvres

La mancata nascita di uno stato kurdo viene vissuta da questa minoranza, nel frattempo galvanizzata da aspirazioni nazionaliste e irredentiste, come un tradimento. Il trattato di pace di Sèvres del 1920, firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero Ottomano, prevede infatti di dare voce ai Kurdi dell’ex governatorato ottomano di Mosul sul loro destino. Questi dovrebbero poter decidere, tramite un referendum, se unirsi a un nascente stato kurdo previsto più a Nord, che dovrebbe includere città dell’attuale Kurdistan turco quali Diyarbakir. Ma né l’una né l’altra ipotesi diventano realtà, e i territori a maggioranza kurda – complice anche la nascita della Turchia kemalista – vengono spartiti senza che i loro abitanti possano esprimersi in alcun modo sul loro futuro. Da questo passaggio storico fondamentale avranno origine una serie di rivolte espressione delle rivendicazioni nazionaliste dei Kurdi.

Barzani e i Peshmerga

Nel 1922 Mahmud Barzinji, sheikh di un’importante confraternita sufi, si autoproclama sovrano del Kurdistan in un’area che include la città di Sulaymaniyah e il territorio a essa adiacente. Gli inglesi rispondono dispiegando la Royal Air Force, l’aviazione. Una serie di bombardamenti aerei colpiscono Barzinji e i suoi uomini per circa un anno fra il 1923 e il 1924, fino alla resa finale. Il primo tentativo di realizzare uno stato kurdo finisce quindi in un bagno di sangue.

Barzinji, che è stato protagonista di una rivolta già in precedenza, nel 1919, si ritirerà in seguito sui monti, dove tenterà inutilmente di fare esplodere di nuovo la scintilla dell’irredentismo kurdo. Valente guerriero, il suo ricordo si imprimerà nella memoria delle successive generazioni di Kurdi, quale simbolo di libertà e rivalsa nei confronti del giogo coloniale. Nel frattempo il trattato di Losanna, firmato nel 1923, dà il colpo di grazia alle aspirazioni nazionalistiche dei Kurdi.

Nel 1932 un’ulteriore rivolta segna l’inclusione dell’Iraq nella Lega delle Nazioni, evento che ha luogo ignorando ancora una volta le ambizioni e le richieste politiche dei Kurdi. Proprio il Kurdistan iracheno dà i natali a quello che è probabilmente il maggior leader kurdo del secolo scorso, Mustafa Barzani (1903-1979). Proveniente anche lui, come Barzinji, da una famiglia di importante tradizione sufica, Barzani sarà per mezzo secolo una spina nel fianco di Baghdad, nonché simbolo vivente della lotta per l’indipendenza dei Kurdi. Barzani, padre dell’attuale presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, guida nel 1943 un’ennesima rivolta che riesce a strappare al governo centrale i territori adiacenti ad Erbil e a Badinan. Nel 1946 si afferma come comandante della Repubblica di Mahabad, nel Nord Ovest dell’Iran. A Barzani si deve infine anche la fondazione del «Partito democratico del Kurdistan» (riquadro pagina seguente), che rimane fino ad oggi il maggior partito politico kurdo dell’Iraq.

Dopo la fine dell’esperienza di Mahabad nel 1947 (riquadro in alto), Barzani si rifugia nell’Azerbaigian sovietico, dove rimane fino alla rivoluzione irachena del 1958. Dopo il ritorno e un fallito accordo con il governo di Baghdad, nel 1960 si rifugia in montagna, da dove guida per oltre un decennio i suoi uomini, i Peshmerga, alla resistenza contro le forze irachene. Muore in esilio negli Stati Uniti nel 1979, dopo essere stato infine sconfitto militarmente dal regime di Saddam Hussein, con la complicità dello scià iraniano. E proprio gli anni di governo del dittatore si dimostreranno i più duri per i Kurdi iracheni.

Sotto Saddam Hussein

La repressione inizia in sordina negli anni Settanta con una campagna di arabizzazione della regione, che mira a sopprimere l’identità kurda insieme a quella delle altre minoranze etniche e religiose.

Le cose precipitano in seguito con la guerra fra Iran e Iraq, combattuta fra il 1980 e il 1988. I due maggiori partiti politici kurdi si dividono, e quello di Barzani appoggia apertamente l’Iran, voltando le spalle a Baghdad. Una volta che inizierà a profilarsi la fine del conflitto, arriverà puntuale la vendetta di Saddam con la campagna di al-Anfal. Secondo i Kurdi (e non solo), un genocidio che costerà la vita a decine di migliaia di persone, con centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire. Altre migliaia di vittime costerà l’attacco chimico nella città di Halabjah, nei pressi del confine iraniano. Crimini poco noti al grande pubblico, ma fra i più efferati commessi negli ultimi decenni nell’intero Medio Oriente.

Nel 1991, dopo una sollevazione, i Kurdi riescono finalmente a liberarsi dal giogo del regime di Saddam Hussein. Una autonomia resa possibile anche grazie alla no-flight zone americana dello stesso anno, che permette ai Kurdi di tirare il fiato dopo anni terribili in cui i baathisti al potere a Baghdad avevano commesso contro di loro i crimini più atroci.

Il Kurdistan oggi

Questa regione dalla storia travagliata è stata negli ultimi trent’anni teatro di massacri e genocidi. Nonostante ciò, il Kurdistan iracheno è riuscito a conoscere uno sviluppo economico e urbanistico senza precedenti che, seppure non scevro da gravi contraddizioni quali speculazione, corruzione e disuguaglianze, ha permesso ai Kurdi di raggiungere una notevole autonomia politica ed economica, e di sognare l’indipendenza. Un passo avanti di portata storica per questa gente che, a dispetto delle reiterate promesse di un riconoscimento statuale da parte delle ex potenze coloniali, non aveva mai fino ad ora potuto godere di una così ampia libertà di determinare il proprio destino.

Oggi molti Kurdi dei paesi vicini guardano a questa regione autonoma dell’Iraq con grande attenzione e partecipazione. Ricordo come un ragazzo, uno studente kurdo iraniano conosciuto a Teheran, mi raccontasse trasognato la sua scelta di studiare a Sulaymaniyah, città del Kurdistan iracheno. Il semplice fatto di poter studiare e parlare nella propria lingua madre, il kurdo, rappresentava per quel giovane – come per molti altri Kurdi dei paesi confinanti – un vero sogno, la realizzazione di oltre un secolo di aspirazioni, lotte e persecuzioni.

Benché già in essere dal 1991, l’autonomia kurda diviene una realtà con la nuova Costituzione irachena del 2005, promulgata in seguito all’occupazione americana dell’Iraq. Da qui, come detto, ha inizio una stagione di grande sviluppo che entrerà in crisi solo negli ultimissimi anni con l’avanzata dell’Isis. E così ai crimini già ricordati si aggiungerà anche il genocidio della minoranza yazida iniziato nel 2014 e tuttora in corso (si veda MC marzo 2017). La presenza di centinaia di migliaia di profughi e sfollati è un altro prodotto importante di questa nuova crisi, che è divenuta anche economica.

Tra Erbil e Baghdad

In questa situazione complessa e delicata, sono ancora una volta i contorni stessi del Kurdistan a essere in questione. Se sono solo quattro in totale i governatorati riconosciuti ufficialmente parte di questa regione (Duhok, Erbil, Sulaymaniyah e Halabja), assai più ampia è però l’area controllata dai Peshmerga kurdi, che rivendicano un territorio ancora più vasto. Emblematico a tal proposito il casodi Kirkuk, città contesa da Baghdad e Erbil. In questo caso come in altri, non si tratta di un caso di facile soluzione: come capita spesso in Medio Oriente e nel Caucaso, si tratta di territori tutt’altro che omogenei da un punto di vista etnico e religioso, cosa che dà adito a infinite manovre e giochi di potere che, inevitabilmente, finiscono per essere pagati dalle fasce più deboli della popolazione e, in primis, dalle minoranze. Difficile anche stabilire con esattezza il numero di abitanti della regione autonoma del Kurdistan. Se le autorità di Erbil parlano di oltre cinque milioni di abitanti, secondo Baghdad si tratterebbe invece di un milione di meno.

Kurdistan turco e Kurdistan siriano

Numeri e politica a parte, l’importanza del Kurdistan iracheno è enorme anche solo da un punto di vista umano e culturale. Mentre la morsa del presidente turco Erdogan si fa sempre più stretta sui Kurdi di Turchia, e perdura la guerra nel Kurdistan siriano (noto come Rojava), costata infinite sofferenze, la relativa stabilità del Kurdistan iracheno è un approdo sempre più insostituibile per i Kurdi della regione. Un ruolo prominente attribuitogli anche dalla collocazione geografica, oltre che dall’evoluzione storica recente: situata com’è al centro della regione, la porzione irachena mette in comunicazione le altre parti del mondo kurdo separate nelle diverse nazioni. Un dato positivo, senza dubbio, che finisce però per produrre numerosi contraccolpi, scaricando su questa regione tutte le tensioni che investono i Kurdi nei paesi limitrofi.

Simone Zoppellaro


I Kurdi e il dna linguistico

Lingua, cultura, identità

Essendo distribuite su vari paesi (Iraq, Turchia,?Siria, Iran), le popolazioni kurde possono avere caratteri culturali molto diversi. Ma sono unificate da un unico idioma (che è una lingua indoeuropea), pur con tutte le sue varianti.

Il Kurdistan iracheno è un territorio ricco di storia e cultura, cosa che si evince anche dalla grande diversità linguistica, religiosa e culturale che vi si incontra. I Kurdi stessi che lo abitano, ben lungi dall’essere un monolite, hanno partiti politici, usi, costumi e idee molto diversi dai loro omologhi turchi e siriani, e proprio qui in Iraq hanno sviluppato un tassello fondamentale – per quanto tuttora incompiuto – nella loro lunga marcia verso l’autonomia e l’indipendenza. Ma non sono solo il passato e la tradizione a colpire il viaggiatore. Città come Erbil e Dohuk appaiono moderne e completamente rinnovate negli ultimissimi anni, per quanto nel loro tessuto sia facile scorgere edifici costruiti a metà, basi militari e campi profughi, cicatrici dovute a quello spartiacque che è stato l’ascesa dello Stato islamico ai confini di questa regione.

In questo articolo cercheremo di fornire al lettore di Missioni Consolata un quadro il più possibile aggiornato della società kurdo-irachena di oggi, muovendoci dalla lingua alla cultura, dall’economia alla politica, facendo anche tesoro di un viaggio appena concluso in questa regione.

Una lingua indoeuropea

Scrive il linguista e politologo Noam Chomsky: «Una lingua non è fatta solo di parola. È una cultura, una tradizione, il collante di una comunità, una storia intera che determina ciò che una comunità rappresenta. E tutto ciò è incarnato in una lingua». E proprio questo aspetto, quello linguistico, è il principale che determina ieri come oggi l’identità dei Kurdi, in contrapposizione ai vicini sia arabi che turchi, entrambi in maggioranza di fede musulmana, ma che usano idiomi molto lontani, riconducibili a famiglie linguistiche assai diverse. Il kurdo, invece, nelle sue diverse varianti appartiene alle lingue iraniche, come il persiano, parte della comune famiglia indoeuropea. E proprio con la lingua parlata in Iran si scoprono punti di contatto sorprendenti. Per limitarci a un solo esempio, che ho rilevato di persona parlando io persiano, prendiamo il caso dei numeri. Una cosa, questa, che mi ha permesso facilmente di dire molte cose in kurdo, senza aver fatto neppure una lezione o aperto una grammatica. Non mi era mai capitato di imbattermi in due lingue che avessero le medesime parole, perlopiù con variazioni minime di alcune vocali, per indicare tutti i numeri. Eppure, è esattamente quello che succede fra persiano e kurdo, lingue che hanno un legame profondo e antico.

Una lingua, tanti alfabeti

Tornando al kurdo, è giusto ricordare che non si tratta di una lingua unificata: esistono almeno due tipologie linguistiche del kurdo, chiamate Kurmanji e Sorani, presenti entrambe in Iraq. Queste sopravvivono senza che una sia riuscita a prendere il sopravvento sull’altra, tanto nella lingua parlata che in quella scritta e nella letteratura. Non ancora standardizzato è anche il modo in cui si trascrive questa lingua. Accanto al kurdo in caratteri arabi – egemone e preponderante in Iraq, dai cartelli stradali, ai libri e alle scuole – sopravvive ancora l’uso di trascrivere la lingua in caratteri latini. Non si deve dimenticare, infine, come il kurdo sia stato usato, anche da un punto di vista letterario, in un terzo alfabeto: quello cirillico, usato soprattutto quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Per un breve periodo, infine, negli anni venti, fu usato anche nell’alfabeto armeno, sempre nell’Urss. Una grande varietà che è, certo, conseguenza della storica mancanza di uno stato, di un centro di riferimento che sia in grado di imporre un canone, ma anche segno di una commistione culturale e linguistica che ha prodotto notevoli frutti.

Erbil e le università italiane

Se gli albori letterari della lingua kurda risalgono alla prima fioritura poetica del XVI secolo, le radici di questo popolo e di questa terra, come detto, sono però assai più antiche. A testimonianza di ciò è la cittadella di Erbil, patrimonio dell’Unesco, la cui vista che domina e sovrasta il centro della capitale della Regione autonoma del Kurdistan. Una presenza tanto più importante, in quanto sia la furia iconoclasta dell’Isis che il boom edilizio degli ultimi decenni hanno cancellato molte delle tracce storiche di questa terra in rapida evoluzione. E proprio la cittadella è al centro di un progetto di studio e valorizzazione promosso dalle autorità kurde insieme con la «Missione archeologica italiana nel Kurdistan iracheno» (Maiki: www.maiki.it), portata avanti da ormai molti anni dall’Università la Sapienza di Roma.

L’eccezionalità di questa altura artificiale, simile a quella che domina il centro di Aleppo in Siria, sta nella sua capacità di raccontare come un libro aperto migliaia di anni di storia racchiusi nei vari strati di sedimentazione di cui è composta. I reperti più antichi trovati in essa risalgono, infatti, addirittura al Paleolitico. Su questa altura sorgeva un tempo di Ishtar, ed oggi, racchiusa fra la possente cinta muraria, si trovano case storiche d’epoca ottomana, oltre che una moschea. Un altro importante lavoro archeologico, sempre italiano, è quello dell’Università di Udine, impegnata a investigare e valorizzare la piana di Ninive. Un progetto, questo, che ha individuato oltre centocinquanta insediamenti che coprono un arco cronologico che parte dalla preistoria per giungere fino all’epoca ottomana. Grande attenzione è poi riservata alla cultura assira, un altro importante tassello della storia di questa regione. Infine, come detto, proprio qui potrebbe aver avuto luogo una delle battaglie più importanti della storia antica. Come si legge in un articolo apparso di recente sul bimestrale Archeologia Viva:

«Le indagini degli archeologi udinesi hanno confermato che la storica battaglia di Gaugamela, vinta da Alessandro Magno contro il persiano Dario III nel 331 a.C., si svolse probabilmente nella grande piana di Navkur, al cui centro si trova il sito di Tell Gomel. Grazie a una precisa ricognizione delle fonti testuali, unita a un’esplorazione topografica, è stato accertato che la zona ha le caratteristiche presenti nelle antiche descrizioni».

Uno sviluppo convulso

Meno suggestivo è invece il lato moderno, del tutto preponderante, delle città kurde irachene di oggi, che è però anch’esso parte integrante della vita di questa regione, nient’affatto statica o persa in un suo lontano passato. Certo è che le maggiori città, quali Erbil e Dohuk, appaiono edificate in fretta e furia negli ultimi decenni, lasciando forse poco spazio sia alla memoria che all’immaginazione. Uno sviluppo convulso e, soprattutto nella capitale, per molti aspetti fuori controllo, ma che, esattamente come nell’Italia del dopoguerra, ha rappresentato per i Kurdi il simbolo liberatorio di una rivalsa nei confronti di un passato di repressione e sofferenze. Un panorama urbano, quello contemporaneo, dove a dominare sono anonimi quartieri sorti dal nulla e centri commerciali, e dove la disuguaglianza segna purtroppo in modo netto la differenza fra un’élite assai esigua e la larga maggioranza della popolazione molto lontana dagli standard dei primi.

A rendere ancora più stridente questo contrasto è la massiccia presenza, percepibile non appena si esce fuori dalle città, dei campi di profughi e sfollati. Si stima infatti che siano più di due milioni i rifugiati e sfollati interni presenti nel Kurdistan iracheno. Secondo il governo regionale del Kurdistan, questi rappresenterebbero oggi il 28% della popolazione totale della regione. Cifre importanti, che dovrebbero far riflettere chi oggi parla con troppa leggerezza di un’invasione in Italia o in Europa. Campi, quelli che ho visitato, dove manca di tutto: dall’elettricità alle cure mediche, alle terapie di recupero per i molti profughi che hanno subito violenze indescrivibili da parte dell’Isis e non solo.

Indipendenza da Baghdad?

Il tema politico più importante dibattuto in questi mesi dai Kurdi iracheni è quello di un possibile referendum sull’indipendenza da Baghdad, più volte annunciato, e sempre con maggior insistenza, ma finora non ancora messo in atto. Secondo gli interpreti più smaliziati, si tratterebbe solo di un escamotage per strappare ulteriori concessioni all’Iraq. Ma è pur vero che non va sottovalutata la portata simbolica dell’evento, il cui richiamo andrebbe a travalicare i confini della regione. Per i Kurdi, dopo un secolo di lotte, una simile opportunità rappresenterebbe un’occasione storica forse irripetibile. Certo è che a Erbil, a Dohuk e in altre città è assai raro vedere una bandiera irachena, mentre il tricolore kurdo, con il sole al centro, sventola con orgoglio ad ogni angolo e in ogni occasione.

Legata a doppio filo alla politica è l’economia del Kurdistan iracheno, marcata da diseguaglianze feroci, anche se, almeno per gli standard mediorientali, la povertà non è a livelli fuori controllo.

Una triste realtà di questa regione è poi la corruzione, come mi racconta un’antropologa sociale che ho intervistato a Dohuk, e che mi ha chiesto di rimanere anonima. Un argomento tabù, difficile e pericoloso da trattare per i media locali, che pure hanno conosciuto negli ultimi anni (si pensi al caso della televisione satellitare Rudaw, vedi foto a lato) un successo internazionale senza precedenti. Oltre al settore delle costruzioni, e al notevole sostegno finanziario ricevuto dai creditori internazionali, a fare la differenza nell’economia locale è la presenza del petrolio. Causa di frizione fra i Kurdi e Baghdad, una parte dei proventi di questa importante risorsa ha sostenuto lo sviluppo economico della regione, attirando l’attenzione di due potenze regionali come la Turchia, dove giunge la pipeline Kirkuk-Ceyhan da cui passa il petrolio kurdo, e l’Iran, che punta a sviluppare nuovi progetti.

Piccole e grandi frontiere

Se non mancano le basi storiche, economiche e sociali per un futuro prospero e democratico che superi le tante problematiche del presente, vi è però un ostacolo fondamentale da superare: la guerra, che insanguina da tanti, troppi decenni il Kurdistan iracheno. Se il germe del radicalismo non ha attecchito in una società in buona parte laica come questa, il contesto geopolitico incandescente ha lasciato però poca scelta alla società kurda, che vive in uno stato di perenne militarizzazione. Ed ecco allora che una delle presenze più evidenti, che scandiscono continuamente i panorami mozzafiato di questa regione, è quello dei check point militari. Piccole frontiere che moltiplicano le grandi frontiere e le rafforzano, lacerazioni del passato e del presente di questa terra.

Simone Zoppellaro


Dalla tolleranza ai drammi del presente

I cristiani e le altre minoranze religiose

Per cristiani dell’Iraq – passati da 1,4 milioni a soltanto 250 mila persone – il presente è drammatico. E tuttavia almeno nel Kurdistan la tolleranza religiosa resiste.

Circa il 94% dei kurdi iracheni sono musulmani, con una netta prevalenza di sunniti e una minoranza sciita nella zona di Khanaqin, nei pressi del confine con l’Iran. Il sufismo ha una ruolo importante nella regione, come si evince dal fatto che i maggiori leader kurdi siano affiliati a questa corrente.

Dall’avvento dell’islam in avanti, e ancora fino a un’epoca assai recente, il Medio Oriente non ha mai smesso di essere patria di una pluralità religiosa sorprendente, inimmaginabile nell’Europa preilluministica. Una realtà storica diametralmente opposta a quella prevalente nell’immaginario comune e nei media, che tendono a rappresentare la religione islamica come unicamente fanatica, intollerante e spietata nei confronti delle altre fedi. In realtà, ebrei, cristiani e zoroastriani – fra gli altri – hanno goduto per secoli sotto la mezzaluna di una libertà inconcepibile in Occidente, giungendo in moltissimi casi ai massimi vertici della vita politica, culturale ed economica dei territori dell’ecumene musulmana. Un patrimonio religioso, sempre declinato al plurale, che neppure la cieca violenza del fondamentalismo islamista è riuscita a sradicare del tutto.

Una tolleranza che affonda peraltro le sue radici nel dettato coranico stesso, che riconosce e tutela – accanto alla nuova fede di Muhammad – le altre religioni monoteistiche preesistenti, garantendo loro buoni margini di autogoverno per molti aspetti della vita privata e religiosa delle comunità minoritarie. Alle «genti del Libro», come le definisce il Corano alludendo alla Bibbia, come alla Torà e all’Avesta, va così garantita protezione da parte della maggioranza musulmana, a patto di un versamento di un’imposta personale chiamata jizya. A testimonianza ulteriore di una relativa apertura, come dimostrano gli studi più recenti in questo campo, anche l’estrema lentezza con cui la conversione all’islam si affermò nei territori via via conquistati nell’impero nato con la nuova fede del profeta Muhammad.

Caso esemplare a tal proposito è quello dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, quando la presenza di cristiani ed ebrei nelle corti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale divenne così forte da minacciare la stessa egemonia culturale e religiosa dei musulmani. Questo grazie alla presenza di numerosi cristiani fra le fila dei mongoli stessi, fra cui generali di primo piano e persino alcune regine.

Il Kurdistan, esempio di pluralità di fedi

In tutto questo, i territori facenti oggi parte del Kurdistan iracheno – con la loro storia millenaria – rappresentano un caso positivo esemplare, che si distingue in modo netto dalla persecuzione che afflige le minoranze nelle zone fuori della regione. Anche il viaggiatore più distratto non potrà fare a meno di notare la sorprendente presenza di una pluralità di fedi, una accanto all’altra, i cui segni sono assai diffusamente presenti, nonostante le brutali persecuzioni degli ultimi anni. Nel territorio della Piana di Ninive, ad esempio, affiorano spesso nel paesaggio urbano e nelle campagne i profili di chiese e croci, oppure i bianchi tempietti della minoranza yazida con il loro caratteristico profilo conico. Oltre a ciò, armeni e siriaci – nonostante la drammatica crisi del cristianesimo iracheno dopo l’invasione americana del 2003 – continuano a trasmettere di generazione in generazione non solo la loro fede e il loro patrimonio culturale e liturgico, ma anche le loro lingue, diverse da quelle della maggioranza kurda e araba. In queste lingue si canta, si prega e si tengono le funzioni religiose nelle chiese, spesso estremamente suggestive. In diverse scuole e nelle parrocchie si studiano e si coltivano così il neo-aramaico, un’evoluzione moderna della lingua parlata da Gesù, e l’armeno, ognuna con i rispettivi alfabeti usati spesso anche nelle insegne e nei negozi. Lettere che si fanno simbolo di un’identità rivendicata con orgoglio nello spazio pubblico, di un’appartenenza che sfida apertamente l’insorgere del fondamentalismo in tutto il Medio Oriente, da cui per fortuna – oggi come ieri – il Kurdistan è ancora in larga parte immune.

Ma non solo i luoghi di culto e le insegne a marcare la presenza delle minoranze religiose nel territorio. Nel villaggio cristiano di Alqosh, ad esempio, sventola con orgoglio su molte case la bandiera siriaca, mentre nel villaggio di Havresk, allo stesso modo, non manca appeso alle finestre il tricolore armeno. Piccoli segni che però non possono lasciare indifferenti, dato il contesto in cui si trovano: quest’ultimo villaggio, ad esempio, è ad appena a una trentina di chilometri dalla diga di Mosul, città ancora contesa fra lo Stato islamico e Baghdad. E proprio in molti di questi villaggi e insediamenti cristiani e yazidi si incontrano di continuo sfollati interni sfuggiti dalla furia omicida dell’Isis. Un gruppo, quest’ultimo, che con la assurda pretesa di richiamarsi ai fondamenti del credo islamico rinnega invece oltre un millennio di storia che, pur fra eccezioni e contraddizioni a volte violente, va ascritto sotto il segno benevolo della tolleranza religiosa. Un’eredità portata avanti invece dai kurdi, una società dai tratti in larga parte secolare, almeno per gli standard vigenti oggi nel Medio Oriente.

La paura

Oggi, purtroppo, la paura è il sentimento dominante fra le minoranze, che non possono dimenticare i genocidi, le stragi, la resa in schiavitù e i continui soprusi che ancora avvengono nei loro confronti a poche decini dei chilometri da qui. Questa gente non parla d’alto, e non potrebbe essere altrimenti. Un timore tanto più grande, ripetono i cristiani di qui, proprio perché non limitato ad alcuni gruppi terroristici, ma anche alle zone grigie, alle complicità e ai fiancheggiamenti dimostrati da tanta gente comune, soprattutto nei centri a maggioranza araba e sunnita. La paura la fa da padrona, dicevamo, ma insieme dominano anche l’amarezza e la solitudine. La domanda che ricorre forse più di frequente nelle persone che ho intervistato – a volte esplicitata, altre semplicemente implicita, ma sempre presente – è perché l’Europa e l’Occidente si ostinino a voltarsi dall’altra parte di fronte al perpetuarsi delle orribili violenze dell’Isis, e non solo, nei confronti delle minoranze. Una frustrazione che si alterna però di continuo al sogno (perché di ciò soltanto si tratta) di una salvezza che giungerà presto da Occidente, dando finalmente sicurezza e autonomia alle minoranze dell’Iraq. Difficile dire se ci credano davvero, in un Medio Oriente dominato in modo sempre più esclusivo dai semplici interessi economici e dallo sfruttamento. Certo è che la speranza, anche in questi luoghi che traboccano di sofferenze, trova sempre la sua via nella mente e nei cuori degli uomini. Non sarà un caso: troppo il bagaglio di orrore che questa gente porta sulle spalle ogni giorno da anni.

La sparizione dei cristiani

Per quel che riguarda i cristiani in Iraq, la situazione è particolarmente drammatica. Si è passati da 1,4 milione di cristiani, prima del 2003, a meno di 250.000 persone. Il rischio concreto, come denuncia il recente rapporto «No Way Home: Iraq’s Minorities on the Verge of Disappearance», da cui riprendiamo questi dati, è quello di una definitiva scomparsa di questa e delle altre minoranze dal paese. Siamo dunque sull’orlo di un baratro, dopo oltre un millennio di convivenza. «Tredici anni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti di lungo termine per la società irachena», ha dichiarato Mark Lattimer, direttore esecutivo di Minority Rights Group International. «L’impatto sulle minoranze è stato catastrofico. Saddam era terribile, ma la situazione da allora è peggiorata. Decine di migliaia di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose sono state uccise e in milioni sono fuggiti per avere salva la vita».

Forse ancora più drammatica, rispetto ai cristiani, è la situazione dell’altra minoranza religiosa più importante del Kurdistan iracheno, quella yazida (cui abbiamo dedicato un dossier su Missioni Consolata di marzo 2017). Il tutto è avveuto con la complicità di molti arabi sunniti, i quali, vedendosi spodestati dal loro ruolo egemone con la caduta di Saddam, e sentendosi discriminati a loro volta dai governi succedutisi negli ultimi anni a Baghdad, hanno almeno in parte appoggiato l’ascesa dell’Isis sperando in una rivalsa sociale ed economica.

Piccoli segni di speranza

In questa situazione tragica non mancano però alcuni segni positivi che ho riscontrato nel mio viaggio. Ora più che mai, è giusto dare voce anche ai casi positivi, se non altro per non dare adito al messaggio nichilista – spesso del tutto egemone, ma falso – che la violenza sia una situazione invariabile e immutabile nel mondo musulmano. Non lo è oggi, come non lo è mai stata. Gli uomini sono liberi di scegliere il loro destino, come non lo siamo di scegliere se voltarci dall’altra parte o se invece di impegnarci per scongiurare guerre e catastrofi. Nella città di Dohuk, ad esempio, il sacerdote armeno locale mi ha raccontato come la chiesa, da poco costruita e il centro culturale Ararat ad essa adiacente – usato per matrimoni e feste – siano state costruite con il sostegno pubblico della regione kurda. O ancora, ho avuto occasione di intervistare Hussein Hasun, yazida, consigliere speciale del primo ministro del Kurdistan per i procedimenti legali legati ai genocidi. Una parola che usa al plurale: le autorità kurde, infatti, nonostante la scarsa collaborazione di Baghdad, stanno raccogliendo testimonianze ed ogni genere di prove per dimostrare che le violenze subite dalle minoranze religiose in questi anni siano casi di genocidio. No

n mancano infine contatti e incontri fra le diverse comunità religiose, e il rispetto reciproco è ancora alla base della convivenza fra i cittadini di diverse fedi, nonostante le ferite del presente.

Da segnalare infine come sia stato da poco inaugurato un tempio zoroastriano a Sulaymaniyah, oltre al progetto di edificare una sinagoga ad Ebril, dove lo scorso anno si è tenuta per la prima volta una commemorazione dell’Olocausto ebraico insieme alla piccola comunità ebraica locale. Piccoli segni, forse, ma che testimoniano che è una sfida che si può e si deve vincere, quella per la sopravvivenza dei cristiani e delle minoranze tutte, almeno qui in Kurdistan iracheno. Una sfida tanto più importante, proprio perché unica, preziosa e antica è l’eredità religiosa di cui è depositaria questa terra. E mentre Baghdad e la Siria sono allo sbando, potrebbe essere proprio da qui – dai kurdi, essi stessi vittime di tante persecuzioni nell’ultimo secolo – che la convivenza potrà rinascere appieno, scongiurando il rischio che il cristianesimo e lo yazidismo in Medio Oriente divengano solo un ricordo, cancellati per sempre, come in una tabula rasa.

Simone Zoppellaro

Schede


Lotte interne e strane alleanze

La scena politica e militare del Kurdistan iracheno di oggi appare dominata in modo pressoché esclusivo da due partiti storici, conosciuti con due acronimi, il Pdk e l’Upk. Il primo, il «Partito democratico del Kurdistan», affonda le sue radici nella Repubblica di Mahabad, dove è nato, e nella figura carismatica del suo leader combattente, Mustafa Barzani. Una storia importante, raccolta non a caso dal figlio di questi, Masud Barzani, l’attuale presidente della regione kurda. Più recente è invece il Upk, l’«Unione patriottica del Kurdistan», partito fondato a metà degli anni settanta e guidato oggi dall’ex presidente iracheno Jalal Talabani. Anche il suo successore alla guida del paese, Fuad Masum, è fra i fondatori del partito, nato da una costola del Pdk, critica nei confronti della leadership dopo la sconfitta dei Kurdi nella rivolta del 1974-1975. I due partiti, in seguito, sono arrivati più volte a scontrarsi, fino a giungere a una vera e propria guerra civile negli anni Novanta.

Il presidente dell’Iraq Jalal Talabani (AP Photo/Hadi Mizban, File)

Se comune a entrambi è una storia di lotte per la causa kurda, e l’ambizione dell’indipendenza da Baghdad, a distinguere oggi i due partiti è anche un diverso orientamento geopolitico: se il Pdk di Barzani è particolarmente vicino alla Turchia, prima sostenitrice del Kurdistan iracheno, l’Udk guarda invece più a Oriente, all’Iran. Due potenze regionali che hanno un’influenza enorme sulla vita politica ed economica del Kurdistan iracheno. E così, per un amaro paradosso, Erbil finisce per essere legata a doppio filo ad Ankara, ovvero con il nemico più acerrimo dei kurdi turchi e siriani. Un legame, questo, che produce una grave frattura all’interno del mondo kurdo. A tal proposito, non va trascurata infine la presenza politica e militare del Pkk, il «Partito kurdo dei lavoratori» di Ocalan, per quanto i suoi supporter vengano tenuti ai margini dai vertici politici ed economici di Erbil. Una presenza che ha prodotto, anche di recente, frizioni e persino scontri aperti con gli altri partiti kurdi.

Si. Zo.


Terra?adorata

Ricordiamo una poesia del poeta kurdo Hemin Mukriyani (1921-1986), uno degli eroi della breve esperienza della Repubblica di Mahabad, stroncata nel sangue:

«Terra adorata, mia terra,
amore che ho perduto
se tu fossi remota
in un cielo inaccessibile
o su una vetta ai limiti del mondo
saprei correre da te
anche con scarpe di ferro.
Ma ti separa da me un tratto sottile.
L’invasore lo chiama confine».

Dal volume «Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo», a cura di Laura Schrader (Newton, 1993).



I domenicani Garzoni e Campanile

I primissimi studi europei sulla lingua e la cultura dei kurdi sono opera di due missionari italiani, veri e propri pionieri in questo campo: i padri domenicani Maurizio Garzoni (1734-1804) e Giuseppe Campanile (1762-1835). Il primo raggiunge Mosul nel 1762, per poi stabilirsi nella vicina Amadiya, città ieri come oggi a maggioranza kurda. Qui studia e raccoglie materiali per la sua opera, la «Grammatica e vocabolario della lingua kurda», la prima in assoluto nel suo genere, pubblicata a Roma nel 1787. Pochi decenni più tardi toccherà invece al suo successore, Giuseppe Campanile, eletto nel 1800 Prefetto apostolico nella Mesopotamia e il Kurdistan, un altro primato: quello di aver pubblicato, con la sua «Storia della Regione del Kurdistan» pubblicata a Napoli nel 1818, il primo resoconto organico su questa parte del mondo. Un lavoro ulteriormente arricchito dalle esperienze personali dell’autore. Entrambe le opere, al di là del primato temporale, rappresentano ancora oggi fonti preziose ed uniche nel ricostruire la storia, la lingua e la cultura dei kurdi nel loro tempo. A un missionario di Basilea, Gottlieb Christian Hörnle (1804-82), spetterà invece la prima versione biblica in questa lingua, con la traduzione del Vangelo di Giovanni nel dialetto kurdo di Mokri.

Si.Zo.


Rabban Ormisda

«Stavo riflettendo da tempo su una iniziativa simbolica per educare la gente alla pace e al dialogo». Con queste parole il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphael I Sako, ha lanciato ad aprile la Marcia Interreligiosa della Pace, che ha coinvolto nella settimana santa pellegrini di varie nazionalità, oltre a molti abitanti della Piana di Ninive appartenenti alle diverse religioni. Punto di arrivo di questa marcia, luogo per nulla casuale, quello che è forse il luogo più suggestivo dell’intero Kurdistan iracheno: il monastero di Rabban Ormisda, situato nei pressi del villaggio cristiano di Alqosh.

Fondato nel VII secolo, porta il nome del monaco che lo fondò: Rabban Ormisda. Si tratta di un capolavoro nell’interazione fra architettura e paesaggio. Scavato nella roccia sulla parete di un monte affacciata sulla Piana di Ninive, il monastero è un angolo di tranquillità e pace in una terra che continua ad essere segnata dalla guerra. Da qui si può vedere l’orizzonte per chilometri, in un paesaggio mozzafiato, il tutto con una doppia funzione: difensiva ed estetica. Per alcuni secoli, fu sede dei patriarchi nestoriani, a testimonianza dell’importanza rivestita. Più volte distrutto e ricostruito, l’ultima volta a metà ottocento con il supporto del Vaticano, questo monastero e il vicino villaggio rappresentano un simbolo di pace e convivenza, dato che per secoli furono sede di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per ebrei e musulmani.

Si.Zo.


Infodossier

Autore e curatore di questo dossier:

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016), Armenia (ottobre 2016) e il dossier sugli Yazidi (marzo 2017).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Ghana: La democrazia prima di tutto


È il 1957 quando il paese di Kwame Nkrumah diventa indipendente. Tra i primi stati africani. Ma la vera indipendenza è difficile, occorre farcela con le proprie risorse. Il popolo del Ghana è rimasto unito, seppur ricco di diversità, e risolve i problemi con il dialogo. L’alternanza politica è la regola. Un esempio importante per il continente.

Democrazia, stabilità, alternanza e libertà di religione. Su questi elementi si gioca l’immagine positiva di un paese orgoglioso di rappresentare un esempio per tutto il continente. Certo, dietro la facciata si nascondono criticità e disagi sociali ed economici rilevanti, ma il Ghana continua a essere la prova che i paesi africani possono crescere, migliorare e affrontare i problemi senza arrivare a crisi estreme o, peggio, all’uso della forza.

È un paese fiero dei suoi sessant’anni di democrazia appena compiuti. Quell’ex Costa d’Oro che il 6 marzo del 1957 proclamò l’indipendenza dall’impero coloniale britannico, diventando da quel momento ispirazione e fiducia per tutti gli altri che a seguire avrebbero conquistato il diritto di essere indipendenti e sovrani. Da allora è come se il Ghana si fosse assunto una sorta di responsabilità morale nei confronti delle nazioni sorelle che stavano formandosi. Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, era anche uno dei padri del panafricanismo, cosa che aiutò a guardare la storia anche nella prospettiva del futuro.

Acrobati durante le celebrazioni del 60° di indipendenza il 6/03/2017 a Accra. / AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA

Un po’ di storia

Anche il Ghana ha vissuto la sua dose di governi militari – fase conclusasi definitivamente nel ‘93, dopo Rawlings e l’apertura della cosiddetta quarta Repubblica. Né va dimenticato che lo stesso Nkrumah fu vittima di un colpo di stato in cui oltre ai «soliti» poteri occidentali pare fosse implicato il governo canadese di allora. Era un’indipendenza «troppo indipendente» quella vagheggiata dal primo presidente ghanese e il suo sguardo socialista e panafricano non piaceva agli ex colonialisti e alle altre potenze straniere.

La «vera» indipendenza

Il Presidente del Ghana Nana Akufo-Addo. 07/01/2017. Stringer / Anadolu Agency

Nel giorno del sessantesimo anniversario dell’indipendenza (6 marzo 2017), la figlia di Nkrumah, Samia, ha ricordato quello che si sognava fosse la vera indipendenza: emancipazione economica, uso delle proprie risorse e ricchezze, unione panafricana tra tutte le nazioni del continente.

La realtà di questi decenni è stata un po’ diversa: l’opportunismo politico, la voglia di potere, la «svendita» delle terre e delle risorse, il desiderio di arricchirsi alle spalle della popolazione hanno creato i punti deboli della struttura della governance del Ghana. Quello che ancora rimane però – dopo sessant’anni – è appunto la capacità di restare uniti, di risolvere le questioni attraverso il dialogo, di superare ogni tipo di contrasto che possa essere legato alle diverse appartenenze. E il Ghana da questo punto di vista è ricco di diversità.

Oltre venticinque milioni di abitanti appartenenti a nove gruppi etnici principali, tredici lingue e fedi religiose che vanno dal Cristianesimo all’Islam alle diffuse pratiche tradizionali. Con gruppi numerosi anche di buddisti. La differenza vera nel paese non è data da questi aspetti. Quello che conta sono la posizione sociale, l’educazione, il conto in banca. In Ghana, il cui 65% del territorio è agricolo, si sta allargando il gap tra zone rurali e le grandi città e conseguentemente l’accesso ai servizi e così pure al miglioramento delle condizioni economiche. Va detto che dei buoni risultati sono difficili da raggiungere con un gettito fiscale pari solo al 19.9% del Pil. Su questo aspetto manca ancora una soddisfacente politica di gestione e controllo.

L’urbanizzazione è un fenomeno esteso non solo ad Accra, la capitale che arriva a «ospitare» fino a due milioni di pendolari che si vanno ad aggiungere ai circa 4 milioni di abitanti, ma anche a Kumasi, capitale della regione Ashanti, una delle più ricche del paese, e Takoradi, centro in crescita costante dalla fine degli anni 2000 quando furono scoperti i giacimenti di petrolio off shore. A «svuotarsi» sono soprattutto la regione del Volta, che comprende la fascia costiera verso il confine con il Togo e la zona interna salendo lungo il fiume, e il Nord del paese al confine con il Burkina Faso. Zone povere, dall’economia limitata, dove la scarsità di pesce e la siccità costante non offrono alternative. Né grandi opportunità sono state proposte dai governi che si sono finora succeduti. Inoltre, urbanizzazione vuol dire anche sovraffollamento, come dimostrano i numerosi slum che si trovano soprattutto nella capitale Accra.

La grande discarica

La vergogna più grande è Agbogbloshie, meglio nota come Sodoma e Gomorra, la più grande discarica di e-tech (e non solo) di tutta l’Africa Occidentale, probabilmente dell’intero continente. È occupata soprattutto da persone provenienti dal Nord in cerca di fortuna che si sono ritrovate in uno sporco e rischioso «lavoro» di riciclo di materiali elettrici e plastica, computer, frigoriferi, stampanti, etc. I fumi dei roghi che bruciano copertoni, plastica e fili elettrici si alzano ogni giorno dall’area che è un tutt’uno con mercati, strade e abitazioni. Un’emergenza ambientale che si va ad aggiungere a quella sanitaria.

Economia in affanno

Tornando alla situazione economica, che qualcosa sia andato non proprio per il verso giusto in questi anni, lo dimostra il dato dell’inflazione, oggi attestata intorno al 13%, in certi momenti è arrivata anche al 18%. Il Pil pro capite è pari a poco meno di 1.800 dollari annui e una serie di prestiti rinnovati negli anni dal Fondo monetario internazionale ammonta a un totale di 918 milioni di dollari. Eppure gli investitori continuano ad arrivare, la speranza dei cittadini sembra sempre più forte delle critiche mentre le previsioni delle agenzie internazionali sono estremamente ottimiste. Il segreto? Sempre uno: democrazia.

L’alternanza reale

Da decenni vince più che un partito, un concetto, un «patto» non scritto, quello dell’alternanza. Alle ultime elezioni – dicembre 2016 – è stata la volta dell’Npp (New Patriotic Party) con il suo leader Nana Akufo Addo.

Il neo presidente ha centrato la sua campagna elettorale sulle performance negative del governo precedente guidato da John Mahama (Ndc, National Democratic Congress) che pure ha avuto un importante ruolo nel riconoscere la sconfitta e impedire l’accendersi di polemiche o scontri. Ma da subito analisti e cittadini hanno cominciato a essere scettici sulle magnifiche promesse di Akufo Addo per migliorare l’economia del paese, prima fra tutte quella del motto: One discrict, one factory – una industria per ogni distretto. La carenza di industrie, sicuramente al di sotto delle potenzialità del paese, rimane una nota dolente. Solo il 14.4% della popolazione attiva è impegnata in questo settore, mentre il settore dei servizi, spesso informali, occupa il 41%. Come a dire che l’arte di arrangiarsi funziona meglio delle opportunità offerte sia dalle compagnie private sia dallo stato. L’agricoltura occupa invece il 45% della popolazione ed è anche in questo settore che il neo presidente ha promesso di intervenire in modo massiccio, auspicando una produzione che duri tutto il corso dell’anno grazie alla fornitura dell’acqua, soprattutto nelle due regioni del Nord.

Altro elemento problematico riguarda il settore pubblico che, secondo recenti stime, influirebbe addirittura per il 74% sulle spese fisse dello stato. Si tratta di 500.000 persone, solo il 2% della popolazione, a cui però spesso viene attribuita mancanza di esperienza e competenze e assunzioni derivate da legami con l’entourage governativo e giri di mazzette. È quella parte del potere che ai ghanesi non piace e che la stampa libera non manca di denunciare. Una situazione che fa rabbia, soprattutto ai giovani che rientrano in quel 48% di senza lavoro stimati dalla Banca mondiale. Eppure sono proprio i giovani a dimostrare l’energia e la vitalità di questo paese. Giovani che navigano in rete con smartphone di ultima generazione e che hanno capito che il futuro è legato allo studio e alla conoscenza. E non parliamo dei figli dell’establishment che vanno a studiare all’estero, ma di quelli che affollano le Università ghanesi, molte frequentate da studenti che arrivano da altri paesi africani e anche europei, per progetti di scambio. Citiamo ad esempio: la Knust, la Kwame Nkrumah University of Science and Technology, che ogni anno mette sul mercato i migliori talenti nel settore scientifico e della tecnologia, l’Università di Legon e Ashesi University, università privata fondata da un ghanese della diaspora che dopo anni negli Usa al servizio della Microsoft ha deciso di tornare nel suo paese e investire in quella che sarà la futura classe dirigente.

I giovani, motore del Ghana

È proprio parlando con i giovani che si percepisce che il Ghana è in fase di cambiamento, ma nello stesso tempo rischia lo stallo se continua a perpetuare difetti e debolezze che sono diventati intrinseci. «Studio Fashion Design all’Università di Kumasi ma preferisco di gran lunga la vita cittadina di Accra», ci racconta Vera, 22 anni. «La mentalità qui è ancora molto ristretta, avrei voluto fare la modella, ma vuol dire scendere a brutti compromessi ancor prima di cominciare». Vera elenca i pregi e difetti del suo paese: «Amo il fatto che non facciamo guerre, che c’è la pace e sei libero di fare quello che vuoi, però va anche detto che le donne non hanno grande possibilità di esprimersi. Sposarsi e far figli è la loro strada, ma io e molte ragazze della mia età la pensiamo diversamente». «Quello che non sopportiamo più – dice invece Kofi, studente alla Central University – è la corruzione, il sistema delle mazzette. Se cerchi un lavoro, soprattutto nel settore pubblico, devi essere pronto a pagare qualcuno. Questo non è il Ghana che ci hanno promesso». «Il meglio del mio paese è la pace e la stabilità che ci accompagna da circa trent’anni, ma la cosa peggiore è la corruzione, specie nel servizio pubblico», dice Alhassan, trentenne laureato in Business e management, che ha fondato una Charity per sostenere i bambini che vivono nello slum di Agbogbloshie. E la diffidenza nei confronti della politica si manifesta nelle parole di Yaw, ventottenne laureato in cerca di occupazione. «Io sono tra quelli che sono andati a votare e il 6 marzo ho partecipato alle celebrazioni del nostro sessantesimo anniversario dell’indipendenza. Sono orgoglioso di essere ghanese e che siamo stati il primo paese sub sahariano a “liberarci”. Ma i nostri politici non sembrano fare i nostri interessi. Vanno al potere, incolpano il governo precedente di aver fatto male, ma poi loro stessi pensano a come arricchirsi prima di passare l’amministrazione dello stato al prossimo presidente».

Ma allora perché il Ghana continua a rappresentare un esempio? La risposta ce la dà Ama, giovane ragazza di 25 anni che sogna di lavorare nel settore del turismo. «Noi siamo liberi, possiamo dire quello che pensiamo, criticare chi ci governa e votare un nuovo presidente se il precedente non ha fatto quanto ci aspettavamo. Questa è la nostra ricchezza, non ci piace il conflitto. Preferiamo il dialogo. E continuare a sperare nel futuro».

Antonella Sinopoli

AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA


Le religioni in Ghana

L’importante è credere

In Ghana il fatto di appartenere a una chiesa è quasi un obbligo. Le cerimonie sono lunghe e il clima mistico. E c’è un grande proliferare di chiese evangeliche. La tolleranza religiosa è più che una tradizione. Anche cristiani e musulmani lavorano insieme e si scambiano visite alle feste comandate.

In Ghana la domenica mattina non è possibile prendere appuntamento con gli amici o programmare nessun genere di incontro. Tutti ti diranno che sono in chiesa. Cerimonie lunghissime che durano anche cinque o sei ore e che hanno poco a che vedere con le liturgie occidentali. Più orientate a una sorta di furore mistico che si manifesta nella ripetizione delle parole della Bibbia o dei Vangeli, nell’ispirazione del pastore e nella partecipazione, urlata e danzata, dei fedeli.

Secondo il World Christian Database in Ghana si contano 700 denominazioni cristiane e almeno 71.000 congregazioni individuali (chiese create da una persona). Il paese ha una grande varietà di appartenenze e soprattutto una lunga tradizione di tolleranza religiosa. La non discriminazione a causa della fede e la totale libertà di professare il proprio credo sono stabiliti dalla Costituzione ghanese, e non sono principi teorici ma radicati fortemente nella popolazione.

Secondo gli ultimi dati, in Ghana il 71,2% si dichiara cristiano. La prevalenza va alla chiesa pentecostale-carismatica con il 28,3%, seguono altre chiese protestanti con il 18,4% e la cattolica con un 13,1%. La religione musulmana è professata dal 17,6% della popolazione, la tradizionale dal 5,2%. Poi ci sono anche altre fedi professate nel paese, come quella buddista.

Persone che vivono insieme, lavorano, vanno a scuola e a volte partecipano alle cerimonie religiose degli altri. A scuola, per esempio, oppure nei grandi eventi pubblici, quando un capo di stato può prendere parte a un’importante celebrazione in moschea anche se è cristiano, o viceversa. A volte capitano dei «disagi». Per esempio recentemente si è investito l’apparato giudiziario per decidere se fosse giusto che nelle scuole gli studenti musulmani dovessero partecipare alle preghiere cristiane di inizio giornata, e non viceversa. Letture e interpretazioni che però non tolgono la capacità di stare insieme e di rispettarsi a vicenda in una contaminazione costante di vite. Il muezzin che chiama alla preghiera è il suono di sottofondo quotidiano, lo sono le preghiere nei mercati all’aperto e così pure i canti che arrivano alti dalle numerosissime chiese sparse in città e nei più remoti villaggi. «La tolleranza religiosa e il rispetto per le altre fedi ci è stato passato come un tesoro da chi ha fondato questo paese e noi lo onoriamo – dice il reverendo Alfred Ahiahornu della Calvary Baptist Curch in un quartiere di Accra -. Non ci facciamo la guerra per motivi religiosi e anche nelle questioni politiche musulmani e cristiani siedono allo stesso tavolo e decidono insieme». Forse qualche parte del mondo potrebbe guardare al Ghana come esempio, in questo senso. Il solo elemento a sfavore di questa libertà proclamata e applicata è la poca capacità di inserire in questa tolleranza una figura come l’ateo. Resta per i ghanesi difficile comprendere che qualcuno possa dichiararsi tale. Qualunque chiesa o moschea va bene, l’importante è appartenere a qualcosa che professi l’esistenza di un dio, possibilmente salvifico, e dell’aldilà.

Antonella Sinopoli




Tanzania: Kabula e i suoi nipoti


Nonna Kabula quando morì contava 113 anni. Forse anche di più, o forse meno, nessuno conosceva la data precisa della sua nascita. Era una nonna speciale, tanto da stupire gli stessi figli, nipoti e pronipoti fino alla sua morte nel 1995. Per non parlare del suo funerale. Infatti, dentro il lenzuolo che avvolgeva il suo corpo, volle che mettessero pure un sacchetto di «farmaci tradizionali africani», un tasbihi islamico, nonché un rosario cattolico.

Kabula nacque nell’isola di Ukerewe, nel cuore del maestoso Lago Vittoria, Tanzania. Apparteneva alla tribù dei Wasukuma.

Da ragazza, era pagana o seguace della «religione tradizionale». Sposandosi con un arabo di Mombasa (Kenya), si convertì all’islam. I due vissero sereni e generarono quattro figli. Improvvisamente lui morì e lei si trovò vedova, ancora giovane e bella.

Un giorno, a Mombasa, Kabula incontrò un modesto commerciante del Tanzania, della tribù dei Wahehe. I due convolarono presto a nozze a Tosamaganga (Iringa), mentre i quattro figli di Kabula rimasero a Mombasa con i parenti del padre defunto. Poi, siccome il nuovo marito era cattolico, la musulmana Kabula non esitò a farsi battezzare.

La donna era entusiasta della nuova fede: andare a messa la domenica vestita a festa, nella magnifica chiesa di Tosamaganga, ascoltare la parola di Dio, pregare cantando e ballando con uomini e donne, giovani e bambini… Ma che bello! E fu pure bello mettere al mondo altri due figli, ovviamente cattolici.

Però un giorno Kabula scoprì che il marito giocava a carte, buttando via tanti scellini, e beveva, beveva, quasi da impazzire.

La moglie non ce la fece a vivere con un uomo scialacquone, beone e folle. Affidò i due figli alla famiglia del marito e ritornò nell’Isola di Ukerewe a respirare la dolce brezza del Lago Vittoria.

Qui fece una scoperta. Kabula avvertì che Dio onnipotente l’aveva arricchita di un dono straordinario. Sì, quella donna era una «guaritrice», che conosceva i segreti arcani di tante erbe e piante terapeutiche. Donne sterili, uomini sessualmente impotenti, «indemoniati» che avevano perso il bene dell’intelletto, persino i lebbrosi… accorrevano da quella dottoressa, guarivano, e riprendevano a sorridere mormorando «asante sana» (grazie).

A 33 anni, Kabula si sposò per la terza volta. Gli abitanti di Ukerewe affermano che non si videro mai nozze come quelle di Kabula, vestita di bianco con l’abito del battesimo di Tosamaganga e il capo incoronato da un velo sontuoso. Il tutto in barba alla cultura dei Wasukuma, che vietano tanta pompa magna ad una donna al terzo matrimonio. Ma Kabula era speciale.

Due nipoti pure speciali

Con il trascorrere delle stagioni, Kabula diventò nonna e bisnonna di uno stuolo di nipoti e pronipoti che accorrevano a lei per un consiglio. Alcuni erano musulmani, altri cristiani e altri pagani.

Pietro è uno dei nipoti cattolici, nato a Tosamaganga. Da ragazzo aveva studiato in seminario per diventare prete. Un giorno domandò a Kabula:

– Nonna, qual è la tua religione?

– La religione di un solo vero Dio, creatore di tutti.

– Nonna, noi crediamo che solo il Cristianesimo sia la religione giusta.

– Lo so, Pietro, perché anch’io sono cristiana, ma sono pure musulmana.

E aggiunse: «C’è un problema spinoso, dovuto al fatto che sia i cristiani sia i musulmani ritengono che solo la loro religione sia vera. Nipote mio, ricorda: i fedeli di ogni religione sono tutti, allo stesso modo, figli amati dello stesso Dio creatore».

Pietro, divenuto sacerdote, poco dopo abbandonò la Chiesa Cattolica. Ne fondò un’altra con il nome di «Chiesa del Cristianesimo vivo» che si opponeva alla Chiesa di Roma, cui rinfacciava di essere schiava del Diritto Canonico e di altri precetti occidentali, mentre dimenticava quelli ben più significativi del Vangelo.

Un altro nipote di Kabula si chiama Amani, musulmano, ma sposato con una donna cattolica. Vivono in piena armonia a Mwanza, ognuno secondo i dettami della propria fede.

Quando Amani informò la famiglia che intendeva sposare una cattolica, sua madre lo apostrofò con furore: «Guai a te! Saresti la nostra vergogna! Avresti il coraggio di unirti ad una selvaggia infedele?».

Il nipote di Kabula non solo sposò «una selvaggia infedele», bensì commise pure un altro reato: tradusse il Corano in swahili, voltando le spalle all’arabo glorioso del profeta Muhammad. Eresse anche una moschea per «i musulmani tolleranti».

Un venerdì Amani predicò: «Il vero musulmano, timorato di Dio, non è colui che prega rivolto verso la Mecca, bensì colui che dona i suoi averi ai bisognosi, agli orfani, ai rifugiati…».

I nemici di Amani aumentarono. Fra questi, persino il fratello minore.

Una notte, senza luna e senza stelle, in casa di Amani esplose un ordigno che incenerì tutto, lui compreso, con moglie e i figli. Subito da un altoparlante si udì: «Allah akbar! Questa è la vendetta sacra dei combattenti di Allah contro i nemici dell’islam vero del profeta Muhammad!».

La bomba era stata posta dal fratello minore di Amani.

C’è una religione giusta?

La storia di «Kabula e i suoi nipoti» è tratta dal romanzo «I timorati di Dio di nonna Kilihona» di Gabriel Ruhumbika1. Nel suo testo Ruhumbika affronta argomenti impegnativi, quali: l’indagine sulla cultura tradizionale africana, il confronto fra le religioni, la riforma della religione e il suo valore intrinseco. Temi cruciali. Per questo l’autore merita apprezzamento.

Nel romanzo un genitore dichiara al proprio figlio: «Vedi, ragazzo mio, senza religione, io non saprei lavorare. E, da quando è morta tua madre, non saprei neppure vivere, oppure diventerei matto».

Il libro termina così: «La religione nasce nel cuore della persona e si manifesta nelle sue opere buone. In chiesa o in moschea non c’è fede, e neppure nei sacrifici agli spiriti della cultura africana. I timorati di Dio di ogni religione sono tutti figli diletti di Dio creatore. Alcuni generano divisioni nella società, allorché dichiarano che solo la loro religione è giusta».

Forse per questo Kabula fu, a pari merito, musulmana, cristiana e seguace della religione tradizionale africana.

E cristiano e pagano

«La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni da coercizione da parte di singoli individui, gruppi e qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito ad agire in conformità ad essa». È una dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II2.

Nel riconoscere il diritto alla libertà religiosa, hai pure la facoltà di essere, nello stesso tempo, pagano, musulmano e cristiano? Sì, ce l’hai.

Tuttavia, in Africa, la scelta di «varie fedi religiose» è motivata da altri criteri, senza scomodare il diritto alla libertà religiosa.

Il terrore degli spiriti maligni, la paura dell’altro, l’incertezza sulla salute, l’ansia nel trovare lavoro… fanno sì che l’africano «affianchi» alla fede cristiana o islamica quella della tradizione degli antichi.

Si tratta di una «duplice appartenenza religiosa». Un fenomeno che i vescovi del continente africano, nel loro II Sinodo del 2009, giudicano come un problema, una sfida3.

La «duplice appartenenza religiosa» è giudicata una mancanza di fiducia nel proprio credo.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, commenta: «Dobbiamo maturare nella nostra fede, perché molti cristiani, specialmente durante la malattia, mettono da parte il Dio di Gesù Cristo per affidarsi al guaritore tradizionale e, persino, allo stregone»4.

In altre parole, al mattino si va in chiesa e nel pomeriggio si bussa alla porta dello stregone.

«Solo cristiano» si può

È possibile scegliere e praticare «una sola religione»? È possibile, anche in Africa. Uno splendido esempio ci proviene dall’Uganda con San Mattia Malumba, uno dei 22 martiri locali.

Mattia, prima di scegliere di essere cattolico, rifletté a lungo sull’islam. Si confrontò pure con la Chiesa protestante pentecostale. Infine, a 50 anni, dopo aver meditato sul comportamento dei missionari cattolici, decise di abbracciare per sempre la loro religione. Morì martire nel 1886 tra atroci sofferenze.

Il suo sangue, come quello dei suoi 21 eroici compagni, fu un seme che generò altri cristiani.

Francesco Bernardi*

* Già direttore di MC; in Tanzania è direttore della rivista «Enendeni» (Andate).

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Note:

1) Titolo originale del romanzo di Gabriel Ruhumbika, Wacha Mungu wa Bibi Kilihona, E & D Vision Publishing, Dar Es Salaam 2014. Scritto in swahili, non esiste traduzione in altre lingue.
2) Dignitatis Humanae, 1045.
3) Cfr. Africarne Munus, 93 (Esortazione apostolica di Benedetto XVI, Roma 2009).
4) Enendeni, Januari/Februari 2012. Enendeni è la rivista dei Missionari della Consolata, Tanzania.