Etiopia. Calma armata

 

Le montagne del Tigray sono alte, aspre, piene di gole e anfratti. Un luogo ideale per nascondersi e nascondere. Per organizzare una guerriglia che duri nel tempo e logori l’avversario. Così devono averla pensata i tigrini. Terminata la guerra contro il potere centrale di Addis Abeba, non avrebbero smobilitato completamente il loro arsenale, ma lo avrebbero conservato in tanti piccoli arsenali sulle montagne in attesa di tempi migliori in cui riprendere la lotta.

Così la pensa il capo di stato maggiore della difesa dell’Etiopia, Berhanu Jula, che, in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi a Lulawi, un media informatico filo-governativo etiope con sede negli Stati Uniti, ha detto che il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray) possiederebbe ancora armi leggere e pesanti anche se, al momento, non sarebbe più in grado di organizzare un’offensiva contro il governo centrale.
Quella dei tigrini è una strategia antica. Dopo aver condotto il lungo conflitto che ha portato negli anni Novanta alla caduta del dittatore Menghistu Hailè Mariam, i leader del Tigray hanno conservato il loro arsenale ben nascosto sulle montagne. Per anni le hanno custodite, finché nel 2020 sono rispuntate fuori quando le tensioni tra il governo di Abiy Ahmed e il Tplf si sono intensificate dopo il rinvio delle elezioni. Il governo etiope ha lanciato un’operazione militare con il supporto delle truppe eritree e delle forze locali della regione di Amhara. La risposta tigrina è stata durissima. Nonostante le vittorie iniziali del governo, il conflitto si è prolungato e ha avuto un impatto devastante sulla popolazione civile. Sono pervenute numerose denunce di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi di massa, stupri e saccheggi. Inoltre, la regione del Tigray ha subito una grave crisi umanitaria, con milioni di persone sfollate e a rischio di carestia. Le restrizioni all’accesso umanitario e i blocchi agli aiuti internazionali hanno aggravato la situazione.

Nel 2022, dopo diversi tentativi falliti di mediazione internazionale, le parti in guerra hanno concordato un cessate il fuoco, consentendo agli aiuti umanitari di entrare in alcune aree colpite. Nell’intesa raggiunta tra le parti a Pretoria (Sudafrica) c’era anche una clausola che prevedeva la consegna da parte dei tigrini dell’armamento pesante e leggero a loro disposizione. A due anni da quell’accordo, però, pare che parte delle armi sia stato nascosto e sottratto alla consegna.
Il fatto che il movimento tigrino sia ancora armato, secondo Berhanu Jula, «è un problema» ma, ha aggiunto, il governo federale si sta consultando con il governo ad interim della regione del Tigray affinché la situazione non vada fuori controllo. Ha sottolineato che, se il gruppo armato dovesse fare movimenti minacciosi, «la Difesa prenderà misure».

Perché il Tplf non è stato disarmato? L’alto ufficiale etiope ha risposto che il problema del disarmo, della smobilitazione e della reintegrazione è legata alla mancanza di finanziamenti. Ha però dichiarato che sono in corso lavori per disarmare 75mila combattenti del Tplf, anche se non ha specificato i tempi. Secondo il governo federale, «il Tplf non è più in grado di rovesciare il governo con la forza».
Che il Tplf non abbia però intenzione di disarmare completamente è confermato anche da un’altra notizia apparsa sul quotidiano Addis Maleda. «Sebbene alcune scuole abbiano ripreso le attività, molte non funzionano ancora correttamente a causa della presenza militare», ha dichiarato Ato Redai G. Ezger, vicedirettore dell’Ufficio regionale per l’istruzione del Tigray, sottolineando che più di 550 scuole vengono ancora utilizzate come campi militari.
Le tensioni tra i tigrini e il governo centrale sono destinate a riaccendersi? Difficile dirlo ora. Certo l’Etiopia sta vivendo una serie di spaccature etniche interne che ne stanno minando la compattezza e l’unità. In questo scenario, il Tigray potrebbe nuovamente rivendicare la sua autonomia. E le armi potrebbero essere tirate fuori dagli arsenali sulle montagne.

Enrico Casale




Guerra in Tigray. Le braci restano accese


La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.

Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?

Le radici

Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.

Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.

Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).

Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.

(Photo by Michele Spatari / AFP)

Fine del conflitto

Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.

Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.

Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».

Contadino che ara , sui 3000 mt.

L’internazionale

La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.

Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».

Alba di luna sulle case tra eucalipti

La testimonianza

«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.

La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».

Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.

I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».

Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».

Enrico Casale


Scuola Tecnica: Studenti che fanno pratica, p. A. Vismara osserva. Anni settanta.

La storia di un missionario formatore in Etiopia

Una vita in seminario

Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.

Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.

Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.

«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.

Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».

Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.

Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».

Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.

«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.

Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.

È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.

In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.

Marco Bello

Viaggio a Weragu per la consacrazione della nuova Chiesa : con il Vescovo Abraha Destà e P. Antonio Vismara ( sup. reg. ) . Il Ponte sul Fiume Shinchillè , che collega Derolle . P. A. Vismara e il Vescovo Abraha Destà e uno dei meccanici .

 




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.