L’amicizia che rende santi
Nell’Algeria del decennio nero (1991-2002) della guerra civile, 19 religiose e religiosi vengono uccisi. Avevano deciso di rimanere al fianco degli amici algerini, per condividere con loro quel momento buio e animare la chiesa locale. Una presenza discreta ma efficace, nel quotidiano. Abbiamo chiesto al postulatore della causa di beatificazione l’attualità del messaggio dei martiri.
Nel decennio degli anni ‘90 in Algeria divampa la guerra civile. Gruppi islamisti, tra i quali il più feroce è il Gia (Gruppo islamico armato), compiono assalti e attentati a civili inermi, in un paese nel quale l’esercito ha preso il potere. Il conflitto causa 150mila morti. Tra loro vi sono 19 tra religiose, religiosi, monaci e un vescovo, uccisi tra il ’94 e il ‘96. I più noti sono i sette monaci trappisti di Tibhirine, rapiti e poi uccisi in circostanze non ancora totalmente chiarite.
Tutti i 19, uomini e donne, pur sapendo di rischiare la vita, invece di andarsene, preferiscono rimanere a fianco degli amici algerini, nel momento più buio della loro storia. Una scelta dunque, di donare la propria vita, già nel quotidiano, di non essere padroni della propria morte, come ricorda Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione, nel libro scritto con il giornalista Christophe Henning, e pubblicato per la Emi, «La nostra morte non ci appartiene. La storia dei 19 martiri d’Algeria». La causa di beatificazione, iniziata nel 2007, ha avuto un’accelerazione quando papa Francesco, il 26 gennaio 2018, ha indicato che sarebbero stati beatificati entro l’anno. E così l’8 dicembre scorso nel Santuario Notre-Dame de Santa Cruz di Oran sono stati proclamati beati. Incontriamo padre Thomas Georgeon, monaco trappista, durante la sua tournée in Italia, per parlare dei martiri.
Una storia che interessa
«Sto trovando molto interesse su questa vicenda nel vostro paese. La gente viene ad ascoltare. E poi ci sono tante domande in giro che si fanno sull’islam. È importante poter provare a spiegare qual era, e qual è, lo spirito della chiesa algerina. Nel libro parliamo di 19 martiri, però tanti altri membri della chiesa algerina hanno attraversato questo periodo drammatico che è stato il decennio nero in Algeria. Non sono stati uccisi, ma hanno vissuto la stessa esperienza interiore, con la scelta di rimanere quando molti spingevano affinché lasciassero il paese, compresa la Santa Sede. A un certo punto è infatti stato chiaro che la chiesa era nel mirino dei fanatici».
Padre Georgeon, come spiega questo interesse?
«Uno dei motivi dell’interesse è il film “Uomini di Dio” (del regista Xavier Beauvois, sui monaci di
Tibhrine, ndr), che è stato un successo. Devo ammettere che sia il nostro ordine, sia le famiglie dei monaci, non abbiamo voluto aiutare quest’opera, perché ci siamo detti: “Cosa uscirà da un film?”. La loro vita non era un romanzo. Il regista non è una persona di fede. Alla fine, però, al contrario, come ha detto il regista, anche gli attori sono stati toccati dalla grazia per realizzare questa pellicola, che ha permesso una diffusione importante del messaggio e della vita dei martiri. Qui in Italia si conoscono soprattutto i monaci di Tibhirine. Abbiamo scritto il libro per ricordare che la beatificazione riguarda 19 persone, tra cui ci sono suore sconosciute che hanno fatto un lavoro splendido di convivenza e amicizia con il popolo algerino».
I giovani tendono ad allontanarsi dalla chiesa e dalla fede in generale, mentre si è appena svolto il sinodo per loro. Secondo lei quale può essere il messaggio dei martiri?
«I messaggi sono due. Il primo è il dono dell’alterità. In un mondo in cui l’individualismo sfrenato ci penetra da tutte le parti, i martiri hanno vissuto l’opposto, rimanendo sempre aperti sulla differenza dell’altro. Cerchiamo di arricchirci della differenza. Spesso la differenza ci fa paura. L’altro la pensa diversamente da me, questo a volte ci fa costruire delle barriere tra di noi. Mentre i martiri ci spingono a uscire dai nostri circoli. È facile rimanere in amicizia con chi mi assomiglia. Più difficile fare amicizia con chi vive una diversità di vita, di fede. Loro ci sono riusciti, hanno vissuto un legame di amicizia profonda con credenti di un’altra religione.
Un secondo insegnamento è il dono della la propria vita. Non tutti siamo chiamati a essere missionari, religiosi o cose del genere, però tutti siamo chiamati alla santità. E dobbiamo porci la domanda: vogliamo diventare santi? E non si tratta di una santità da eroi o grandi personaggi, con fenomeni mistici, o da gente che ha scritto cose importanti. È una santità ordinaria, come dice l’esortazione apostolica di papa Francesco sulla santità (Gaudete et Exsultate). Questi martiri ci mostrano la santità della porta accanto alla nostra, molto vicina, nella mitezza, in una vita semplice, umile. E penso che per i giovani il messaggio possa essere: “Come vivere la propria vita come un dono”. Per vivere il mio dono, qualunque sia, devo andare fino in fondo. Nel mondo di oggi i valori cristiani non sono molto di moda e ci vuole una bella perseveranza, una fedeltà molto forte in un contesto in cui tutto va in un’altra direzione.
Il messaggio è quindi di rimanere forti nella fede e non essere ignoranti dell’altro quando egli è diverso. C’è una grande ignoranza tra cristiani e musulmani: non conosciamo bene la loro fede e loro non ci conoscono. In un’epoca in cui siamo tutti in comunicazione con i social, non basta.
Prendo l’esempio di Facebook: scelgo i miei amici e posso buttare via chi non mi piace più. Ma nella vita non è così. Se vivessi così, mi mancherebbe qualcosa. Rimango in un piccolo giro, con persone che mi assomigliano, ma è un cammino di crescita? Piuttosto l’alterità è un cammino di crescita. Guardiamo l’atteggiamento di Gesù nei Vangeli, penso a quello di Giovanni, il modo in cui Gesù va incontro alle persone, non è un messaggio che s’impone, ma c’è, innanzi tutto una relazione che bisogna tessere piano piano, nel quotidiano. Una cosa abbastanza semplice».
I messaggi che si stanno veicolando in Europa e in Usa sono piuttosto quelli della xenofobia, della costruzione di muri per paura dell’altro, dello straniero. Come ci possono aiutare le storie dei 19 martiri?
«Essendo ignoranti di quello che l’altro è, cadiamo facilmente nella paura, quindi ci fermiamo e ci rinchiudiamo e vogliamo costruire delle mura per essere circondati e protetti.
Nella storia dell’umanità, quando i paesi hanno provato a vivere così, a un certo momento sono crollati. L’altro, nella sua diversità, mi aiuta a capire qual è la mia identità, chi sono io, e mi aiuta anche a crescere nella mia fede, a radicarmi. Quando s’incontra qualcuno che ha una fede diversa non si tratta di diventare un altro, si tratta di vedere nell’altro ciò che mi può arricchire nella mia identità e nella mia fede cristiana. È una chiamata a conoscere bene e integrare bene cos’è la fede cristiana, e qual è il messaggio che Gesù ci ha lasciato. Questo è un cammino che ci porta a non costruire barriere tra di noi perché Gesù ci ha chiamati ad amarci gli uni gli altri e ci ha chiesto di amare i nostri nemici. Oggi viviamo in un mondo in cui i politici provano a chiudere le frontiere. Anche nella realtà cattolica avviene questo: alcuni credenti preferiscono rimanere tra di loro. Al contrario, cosa ci chiede il papa dall’inizio del suo pontificato? Di uscire dalle nostre chiese e andare incontro agli altri, andare nelle periferie. Questi martiri hanno vissuto il pontificato di papa Francesco con 20 anni di anticipo».
Guardando all’Africa, vediamo alcuni paesi a maggioranza islamica nei quali la chiesa sta soffrendo. Penso a Niger, Mali, Burkina Faso. Che paragone si può fare con l’Algeria di quegli anni?
«In Algeria era una guerra civile. La chiesa non è mai stata perseguitata, ha sempre fatto parte della società algerina. C’è stato un cambiamento notevole dopo la guerra d’indipendenza (1954-1962, ndr), perché molti cristiani andarono via, lasciando chiese, centri diocesani, opere di carità.
Poi, sotto l’impulso del cardinale Léon-Etienne Duval, la chiesa cattolica decise di diventare una chiesa algerina. L’intuizione del cardinale Duval è stata quella di dire: «Dobbiamo diventare una chiesa dell’amicizia, dell’incontro». I cattolici erano presenti in ambiti che andavano incontro ai bisogni degli algerini, come quello educativo, sociale, sanitario. Anche negli anni ’90 la posizione della chiesa è stata bella, perché durante quel periodo tragico sarebbe stato più facile andarsene, ma molti hanno fatto la scelta di restare, facendo questo cammino interiore, un discernimento per decidere di rimanere fedeli a Cristo, al Vangelo, ma anche all’amato popolo algerino. La chiesa in tanti paesi oggi è una presenza ospite, non più trionfale: una realtà piccola, umile, però sempre aperta. Ma per dialogare bisogna essere in due: o ci troviamo di fronte a persone che hanno il desiderio della condivisione e della costruzione di una fraternità universale, come diceva il padre Charles de Foucauld, oppure ci troviamo di fronte a persone che non vogliono vederci, sentirci, amarci, e che fanno di tutto per farci andare via».
Qual è oggi il senso di vivere come cristiani in terra islamica?
«Può essere diverso a seconda dei paesi. È diverso in Iraq, Siria, dove c’è una persecuzione. C’è gente che vuole azzerare le differenze e tutto deve sparire. Lo abbiamo visto con le statue giganti e le chiese distrutte. Un azzeramento delle diversità.
Inoltre è difficile parlare di un islam, in quanto ci sono tante correnti diverse. Ci sono correnti che non vogliono sentire parlare di violenza e provano a vivere un legame di amicizia con chi è diverso. E ci sono anche i fanatici.
Ammazzano in nome di Dio, ma che Dio portano dentro? Lo fanno davvero in nome della religione o ci sono altri motivi? Nell’islam spesso c’è un misto tra potere temporale e spirituale. In Europa adesso questa commistione non c’è più, ma in passato non è stato così, come ai tempi dei crociati.
Ha un senso essere missionari in questi paesi e portare le presenza di Gesù Cristo in mezzo a popoli diversi, per essere portatori di speranza, in un mondo che non vive nella speranza, ma fa fatica a vedere una via d’uscita. Poi c’è il senso dell’accoglienza che fa parte della fede cristiana, entrare nel volto dell’altro che è un pezzo del volto di Cristo; il prendersi cura delle persone. Tanti missionari hanno dato la loro vita fino in fondo, per rimanere fedeli al popolo a cui erano stati inviati».
Il processo di beatificazione dei 19 martiri è stato piuttosto rapido.
«La rapidità della procedura è significativa. Da parte della Santa Sede c’era il desiderio di mandare avanti la cosa, perché queste storie ci portano su una via diversa da quello che è il dialogo interreligioso. Piuttosto una condivisione di vita, non grandi discorsi teologici. Esperienze semplici e legami di amicizia che si possono tessere nel quotidiano. La causa di beatificazione è stata voluta anche da papa Francesco, ma fin dall’inizio i papi hanno contribuito non poco a diffondere il messaggio. In prima linea c’è stato papa Giovanni Paolo II, che ne ha parlato a lungo durante il suo pontificato e ha fatto rappresentare il priore dei monaci, padre Christian De Chergé su un mosaico nella cappella Redemptoris Mater che è quella del papa in Vaticano. Lo ha fatto fare nel 2000, meno di quattro anni dalla loro morte. Poteva essere rischioso, essere intesa come provocazione. Lui ha deciso di rappresentare questa presenza della chiesa nel mondo musulmano».
Padre Thomas Georgeon è monaco trappista dal 1994. Ha fatto parte del gruppo di trappisti che nel 1998 è tornato in Algeria a quattro anni dal martirio dei sette confratelli, per verificare se c’erano le condizioni per riprendere la vita monastica nel paese. Ma i tempi non erano ancora maturi e l’esperienza si è chiusa nel 2000.
Intanto padre Georgeon ha avuto altri incarichi per il suo ordine, compresa una permanenza di otto anni in Italia. Nel 2013 è diventato postulatore per la causa di beatificazione dei 19 martiri. «Quando mi è stato chiesto dall’arcivescovo di Algeri di essere postulatore mi sono ricordato le parole dell’abate che aveva seguito il tentativo di reinserimento in Algeria. Al mio ritiro, per vari motivi, mi aveva detto: “Vedrai che il tuo dono per l’Algeria e la chiesa algerina un giorno prenderà un’altra forma, che oggi non conosci”».
Marco Bello