Mondo. La geometria variabile dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.

«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.

Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?

In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.

Il complimento dell’ayatollah Kamenei, guida suprema della teocrazia iraniana, agli studenti statunitensi.

Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).

Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.

«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».

John Lee, ex poliziotto, è il «chief executive» che Pechino ha messo alla guida di Hong Kong. (Foto GovHK)

Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.

A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.

Paolo Moiola




I due Dalai Lama


La successione del capo spirituale del buddhismo tibetano prevede la ricerca della sua reincarnazione. L’attuale Dalai Lama fu indicato nel 1937. Sul prossimo leader Pechino vuole dire la sua, ma le autorità religiose (in esilio) non ci stanno. I possibili i risvolti geopolitici.

Regione di Amdo, parte Nord orientale del Tibet. È il 1937, il piccolo Lhamo Dondrub ha all’incirca due anni. Un gruppo di monaci guidato dal lama Kewatsang Rinpoce chiede ospitalità nella casa della sua famiglia. Poco dopo, l’annuncio: Lhamo è la reincarnazione del Dalai Lama. I monaci pagano un ricco riscatto a Ma Lin, governatore della regione per conto del Kuomintang di Chiang Kai-shek, e portano il bambino nella capitale tibetana di Lhasa. Due anni dopo, Lhamo viene ufficialmente «incoronato» XIV Dalai Lama. Da lì in poi, sarà conosciuto col nome di Tenzin Gyatso, letteralmente «oceano di saggezza».

Verso il XV Dalai Lama

Sono passati quasi 90 anni dal viaggio di quei monaci. Ne sono passati 74 da quando, nel 1950, le truppe della Repubblica popolare cinese di Mao Zedong sono arrivate in Tibet dopo aver sconfitto il Kuomintang nella guerra civile. Ancora: sono trascorsi 65 anni da quel marzo del 1959 in cui Tenzin Gyatso ha lasciato per sempre il Tibet fuggendo in India dopo la repressione della rivolta di Lhasa.

Presto, potrebbe arrivare il momento in cui verrà individuato un nuovo bambino o una nuova bambina come XV Dalai Lama. Anzi, con ogni probabilità tutto questo potrebbe avvenire due volte. Da una parte un gruppo di monaci, o Tenzin Gyatso stesso, dall’altra il Partito comunista cinese: i bambini o bambine la cui vita cambierà per sempre sembrano destinati a essere due. Uno nominato dalle autorità spirituali o politiche tibetane in esilio, uno da quelle di Pechino. Risultato: due Dalai Lama.

Pagoda Shwedagon, a Yangoon, Myanmar (foto Piergiorgio Pescali)

La successione

Lo scenario è prossimo, a meno di accordi che al momento appaiono improbabili. Storicamente, quando un Dalai Lama muore, si forma un consiglio di alti lama per cercare la sua reincarnazione. Nel processo di selezione, noto col nome di «urna d’oro», il consiglio consulta vari segni e oracoli, nonché gli scritti e gli insegnamenti del Dalai Lama stesso, per farsi guidare nella ricerca che si conclude solitamente con l’individuazione di un bambino nato intorno al periodo della morte del predecessore.

Una volta identificata una potenziale reincarnazione, al bambino viene presentata una serie di oggetti appartenuti al precedente Dalai Lama e gli viene chiesto di identificare quali gli appartengono. In caso superi il test, serve poi la conferma definitiva di un’autorità politica.

E qui nasce il problema. Pechino sostiene di dover certificare la scelta del prossimo Dalai Lama, come fatto in passato. Un retaggio ereditato dai tempi dell’epoca imperiale e fino all’inizio del secolo scorso, quando il Tibet era governato dalla dinastia Qing. Un retaggio che Tenzin Gyatso non pare intenzionato a riconoscere.

Anche in quest’ottica sarebbe stata effettuata la separazione dell’autorità spirituale da quella politica, quando nel 2011 il Dalai Lama si è dimesso da capo del governo tibetano in favore di un successore eletto dal Parlamento in esilio. Potrebbe, dunque, essere questa entità, non riconosciuta da Pechino che la ritiene «illegale», a certificare la scelta del prossimo Dalai Lama. Quantomeno quello indicato dalle autorità tibetane esuli. Il Partito comunista potrebbe rispondere con un altro nome.

Il «vice Dalai Lama»

Le avvisaglie di quanto potrebbe accadere ci sono già dal 1995, quando un bambino di 6 anni, Gedhun Choekyi Nyima, fu scelto come nuovo Panchen Lama, la seconda figura più importante del buddhismo tibetano. Tre giorni dopo venne preso in custodia dalle autorità cinesi e sostituito con un altro candidato, Gyaincain Norbu. Sino da allora, la sorte del piccolo Gedhun è rimasta incerta. Nel 2022, in occasione del 33° anniversario della nascita, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha reiterato la richiesta a Pechino di «rendere conto del luogo e del benessere» di Gedhun.

Ennesimo chiarimento, qualora ce ne fosse stato bisogno, che gli Usa si schiereranno al fianco delle autorità tibetane in esilio nel momento cruciale della scelta del prossimo Dalai Lama.

Nello stesso comunicato del 2022, il dipartimento di Stato ha messo nero su bianco che Washington sostiene «la libertà religiosa dei tibetani e la loro unica identità religiosa, culturale e linguistica, compreso il diritto dei tibetani di scegliere, educare e venerare i propri leader, come il Dalai Lama e il Panchen Lama, secondo le proprie convinzioni e senza interferenze governative». Senza contare che, nel 2020, l’allora capo del governo tibetano in esilio era stato invitato per la prima volta a Washington dall’amministrazione Trump. Un riconoscimento politico, oltre che spirituale, che aveva fatto infuriare Pechino e fatto intravedere all’orizzonte nuove turbolenze sul dossier tibetano.

Giovane monaco in Myanmar (foto Piergiorgio Pescali)

Dalla Mongolia la terza carica

Un’altra anticipazione di quanto potrà accadere nel prossimo futuro è arrivata nel marzo 2023, quando è emersa la nomina del decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddhismo tibetano. Si tratta di un bambino di otto anni, originario della Mongolia. La notizia è stata accolta con sentimenti contrastanti in Mongolia: gioia per la scelta di un proprio connazionale, timore per la reazione della Cina. Nel 2016, il governo mongolo aveva ricevuto forti lamentele da Pechino per la visita del Dalai Lama, rimasta, non a caso, l’ultima nel Paese. Il nuovo Khalkha Jetsun Dhampa, erede della famiglia Altannar (una delle più influenti della Mongolia) è peraltro nato negli Stati Uniti. C’è chi potrebbe leggervi un sottile messaggio (geo)politico. Nel frattempo, Tenzin Gyatso ha già lasciato intuire più volte che la sua reincarnazione potrebbe emergere al di fuori del Tibet per evitare le interferenze di Pechino sul processo di selezione. Il successore potrebbe essere originario di uno dei territori in cui si pratica il buddhismo tibetano, in particolare Nepal, Bhutan o, appunto, Mongolia. Il Partito comunista cinese ha finora nicchiato, ma non ha nessuna intenzione di rinunciare a quello che considera il proprio diritto di nomina. Qualche mese fa, l’attuale leader del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering, ha dichiarato durante un viaggio in Australia che, se Pechino manterrà l’intenzione di nominare un suo Dalai Lama, ce ne saranno presto due.

Monastero buddhista in Tibet (AfMC)

Tibet: doppio binario

La vicenda ha diverse sfaccettature, sia spirituali che politiche, sia regionali che internazionali.

La prima questione che dovrebbe affrontare Pechino è la gestione del post doppia nomina sul proprio territorio. In particolare nella regione autonoma del Tibet, dove qualcuno potrebbe essere tentato di seguire le indicazioni in arrivo dalle autorità in esilio piuttosto di quelle del Partito comunista. Tutto ciò rischierebbe di riaprire un dossier che i funzionari cinesi sono convinti di aver archiviato dopo la repressione delle proteste del 2008, nei mesi precedenti ai Giochi Olimpici di Pechino.

Forse anche per questo negli ultimi anni è stata intensificata la politica a doppio binario con cui si è rafforzata l’integrazione del Tibet. Il primo binario è quello economico. Nel giro di poco più di 70 anni sono stati investiti nella regione circa 255 miliardi di dollari tra infrastrutture e altri progetti. Nel XIV piano quinquennale (2021-2025) sono stati allocati altri 30 miliardi, soprattutto per progetti legati al settore dei trasporti. Si lavora al cosiddetto «progetto del secolo», una nuova ferrovia che, quando completata (si prevede nel 2030), connetterà Lhasa (in Tibet) al capoluogo del Sichuan, Chengdu, in solo 12 ore: un terzo del tempo attualmente necessario viaggiando per strada. Il secondo binario è quello culturale. A fianco degli investimenti, Pechino ha promosso l’insediamento di cinesi di etnia han nella regione e il turismo interno verso il Tibet, che tra il 2016 e il 2020 ha portato nella regione oltre 160 milioni di turisti da altre province cinesi. Numeri clamorosi se si pensa che nel 2005 il Tibet riceveva meno di due milioni di visite all’anno.

Portare benessere e sinizzare, una duplice manovra che mira a «stabilizzare» in modo definitivo i pezzi di territorio cinesi potenzialmente più critici.

Oltre al Tibet, anche lo Xinjiang (provincia a maggioranza musulmana) e, in misura minore, la Mongolia interna. In questa strategia è importante anche la comunicazione. Non è un caso che dal 2022 in avanti le autorità e i media cinesi usino sempre più spesso il nome in mandarino del Tibet, Xizang (spesso tradotto in «tesoro dell’Ovest» dal suo posizionamento sulla mappa della Repubblica popolare). Soprattutto, non è un caso che lo facciano nei comunicati o contenuti in lingua inglese. Il messaggio all’esterno è chiaro: «La questione tibetana è puramente cinese», per la quale dunque Pechino si aspetta il rispetto del suo celeberrimo principio diplomatico della «non interferenza negli affari interni degli altri Paesi».

monastero Thangu Tashi Choling, Simalchaur Syampati, Nepal (Raimond Klavins Unsplash)

L’India non sta a guardare

In realtà, nella questione è coinvolta, già da tempo, anche l’India, che ospita le autorità tibetane in esilio sul suo territorio. A Nuova Delhi si dà ampio spazio alle manovre del Dalai Lama, soprattutto quando si reca nei pressi dello sterminato confine conteso tra India e Cina. Nell’estate del 2022, si è «schierato», con l’assistenza del governo indiano, sul Ladakh, nei pressi dei territori contesi, dove ha tenuto un discorso critico sul governo cinese. Proprio la disputa territoriale si innesta su quella della successione di Tenzin Gyatso. Il leader buddhista vive infatti in esilio a non molta distanza da una frontiera che resta calda. Nel giugno del 2020 ci sono state diverse vittime causate da scontri tra i militari delle due parti. Diversi altri episodi sono stati registrati anche negli anni successivi. Una situazione che resta volatile dopo che diversi round di colloqui non hanno prodotto accordi significativi. Pechino e Nuova Delhi continuano a reiterare le rispettive pretese di sovranità su un’area altamente strategica anche per le sue risorse idriche, altro elemento che in futuro diventerà sempre più cruciale. Lo scorso settembre, alla vigilia del summit del G20 di Nuova Delhi al quale il presidente cinese Xi Jinping non si è recato, il governo di Pechino ha presentato una nuova mappa dei confini della Repubblica popolare in cui erano stati inclusi i vari territori contesi con l’India. Diverse località di quello che la Cina chiama «Tibet meridionale» e oggi parte dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, erano ribattezzate con nomi in mandarino. Il premier indiano Narendra Modi l’ha vissuto come uno sgarbo, giunto proprio mentre ospitava l’evento che aveva presentato come fiore all’occhiello del proprio secondo mandato. Durante la campagna elettorale per il voto iniziato ad aprile, Modi si è recato non lontano da alcune aree di confine dove continuano a essere inaugurate strade e vengono dislocate nuove truppe.

Sullo sfondo, ma neanche troppo, gli Stati Uniti che, dopo la guerra in Ucraina, stanno provando a rafforzare i legami militari con l’India, fornendo anche tecnologia satellitare e difensiva potenzialmente utile in uno scenario di confronto alla frontiera con la Cina. Washington sarà con ogni probabilità in prima fila ad appoggiare il Dalai Lama che Pechino riterrà «illegale», facendo tornare prepotentemente il Tibet (o Xizang) in cima all’agenda dei dossier più delicati delle relazioni tra le due potenze.

Lorenzo Lamperti

Monaco buddhista della pagoda di Hpa An Kyaukkanlatt-in Myanmar




Tibet rischio di non sentirsi nessuno


Dall’occupazione cinese del 1950, il Tibet sta subendo un modello di sviluppo degradante e impoverente. L’industria estrattiva, energetica, delle comunicazioni e, ultimamente, quella turistica, procurano danni gravi. Non solo ambientali, ma anche culturali, religiosi, sociali ed etnici. Al punto che gli abitanti della regione a volte non si sentono né cinesi, né tibetani.

«Martedì 20 novembre 2012 un ragazzo tibetano […] ha preso un sentirnero su per la collina fino all’ingresso della miniera d’oro a Gyagar Thang, si è versato kerosene su tutto il corpo e si è dato fuoco». Secondo il Tibetan Centre for Human Rights, il venticinquenne ha voluto denunciare il disagio delle comunità locali colpite dalle operazioni minerarie delle aziende cinesi nella zona.

«Il numero di tibetani che si sono autornimmolati negli ultimi anni sta aumentando a un ritmo allarmante», afferma un articolo firmato nel 2013 dal Tavolo ambiente e sviluppo del Goveo tibetano in esilio a Dharamsala, in India, e prosegue: «Oltre ai fattori politici, sociali, religiosi ed economici, una delle cause principali di tale disperazione sono le attività di estrazione e di inquinamento in Tibet». Il dolore causato dal deterioramento degli equilibri ecologici locali e dei modi di vita tradizionali porta alcuni ad atti estremi di dissenso. L’occupazione cinese del Tibet nel 1950 ha aperto la porta allo sfruttamento sistematico dei minerali di cui è ricco (rame, oro, cromite, alluminio, ferro, boro, piombo, zinco, litio), ma anche del petrolio greggio, del potassio, amianto, gas naturale e carbone. L’inquinamento dell’acqua e l’impatto delle centrali idroelettriche per fornire energia alle miniere e, non ultimo, l’aumento del turismo cinese, facilitato dall’apertura di ferrovie e strade, aggravano le condizioni di vita delle popolazioni locali. In più, per facilitare l’estrazione delle risorse naturali, le autorità costringono i nomadi a stabilirsi in villaggi costruiti ad hoc dove perdono le loro pratiche tradizionali e quindi i loro riferimenti culturali.

A Dharamsala abbiamo parlato di questi problemi con Tempa Gyaltsen Zamlha, ricercatore del Tavolo dell’Ambiente del Tibet Policy Institute (presso il governo tibetano in esilio).

Ci può spiegare il suo lavoro al Tavolo ambiente e sviluppo e i suoi principali obiettivi?

«Il Tavolo è stato istituito nell’ambito del Policy Institute tibetano a Dharamsala: da qui monitoriamo la situazione ambientale in Tibet. Cerchiamo anche di informare la comunità internazionale sull’importanza ecologica dell’altipiano del Tibet a livello mondiale. Ci rivolgiamo particolarmente al governo e alla popolazione cinese. Il nostro obiettivo è quello di proteggere l’altipiano più alto e più esteso del mondo, che ospita la più grande concentrazione di ghiacciai dopo i due poli, e anche la sorgente dei fiumi più importanti dell’Asia. Lavoriamo anche perché la civiltà tibetana, che ha prosperato per migliaia di anni, possa continuare a vivere una vita sana e felice, e anche perché le nazioni a valle continuino a godere dei fiumi da cui le loro civiltà dipendono.

Per i tibetani, la missione ambientale è uno dei compiti più urgenti. Sua Santità (il Dalai Lama) ha detto una volta che la questione politica può attendere, ma non l’ambiente».

Quali sono le principali sfide ambientali di oggi per il Tibet?

«Le principali minacce sono i cambiamenti climatici, ma anche l’impatto umano, in particolare l’eccessiva attività mineraria.

Come tibetani, abbiamo un rapporto molto intimo con la natura, perché crediamo che Dio sia presente in tutto, nelle montagne come nei fiumi.

Le cose sono radicalmente cambiate dall’occupazione cinese del Tibet nel 1950. Ad esempio sono state costruite strade e linee ferroviarie che rendono l’estrazione molto più facile, economica e redditizia. Inoltre, la Cina ha costruito molte centrali idroelettriche, indispensabili per l’industria».

«I tibetani non sono contro l’estrazione di per sé, ma contro l’estrazione nei pressi di villaggi, di corpi idrici, di montagne sacre o di praterie usate dai nomadi. Per le attività minerarie nella vasta pianura del Nord dove c’è meno popolazione, non c’è quasi nessuna protesta.

Le montagne sacre hanno un forte legame storico, culturale, politico e spirituale con la vita del popolo tibetano. Non lontano da Lhasa (capitale del Tibet cinese), ad esempio, si trova il Monte Yarlha Shampo. Esso era la residenza di un dio della religione tradizionale Bon. Il primo dei sette ministri nobili nella storia del Tibet che nel 7° secolo d.C. hanno contribuito alla ricostituzione del regno, era considerato figlio di Yarlha Shampo. Ci sono molte montagne sacre simili in Tibet, che sono rispettate e protette dalla gente».

Che legame c’è fra la sacralità di un monte e la resistenza ambientale delle comunità?

«La credenza nella sacralità di un luogo svolge un ruolo importante nella sua conservazione e protezione. La biodiversità in queste aree è infatti più elevata: la gente cerca di non tagliare alberi o cacciare animali. Non tutte le montagne sono considerate sacre, ma se studiamo la posizione dei siti sacri saremo sorpresi di notare che corrispondono alle zone più importanti dell’ecosistema locale, alla montagna con più ghiacciai, al lago che è fonte di molti fiumi, a una zona umida che sostiene la vegetazione nella regione. La credenza nella sacralità di una montagna è un fenomeno antico e anche molto intelligente: è grazie a questo che i tibetani hanno preservato gli ecosistemi per migliaia di anni, nonostante le dure condizioni climatiche, a una quota tanto estrema».

Ma ora le cose stanno cambiando. E rapidamente.

«Le compagnie minerarie cinesi stanno entrando in questi territori. I nomadi tibetani sono stati sfollati e reinsediati altrove dal governo cinese. Ogni volta che le comunità locali resistono, vengono prima di tutto invitate ad andarsene, poi le aziende cercano di convincerle dell’importanza del progetto per il loro sviluppo. Se l’opposizione persiste, cercano di dividere i membri della comunità offrendo denaro o altro, infine passano al dispiego delle forze di polizia.

È molto importante per noi rendere note queste informazioni al mondo esterno e al governo cinese. Il mondo ha la responsabilità di reagire.

Negli ultimi anni ci sono stati molti progetti di estrazione su larga scala, ma solo pochi tibetani vi lavorano. La maggior parte dei lavoratori vengono dalle province cinesi. Sono i governi locali, oltre alle società, che beneficiano dell’estrazione mineraria in aree tibetane, non la comunità».

Miniere e costruzione di grandi infrastrutture sono la causa di un gran disagio sociale in tutto il mondo, anche a causa degli sfollamenti su larga scala. È questo il caso anche del Tibet?

«Sì, lo spostamento di intere comunità avviene regolarmente in Tibet. I nomadi, che normalmente si trasferiscono in un sito di pascolo diverso ogni tre mesi, al fine di non esaurire le risorse, si ritrovano costantemente a confrontarsi con le compagnie che invadono la loro terra con l’appoggio del governo. Per accelerare questo processo, la Cina ha introdotto politiche di reinsediamento in villaggi construiti appositamente, con case addossate le une alle altre e servizi mal funzionanti, e con specifiche restrizioni sull’uso della terra. Si tratta di uno sfollamento non solo da un luogo, ma da uno stile di vita.

Il governo cinese sostiene poi che i nomadi devono essere modeizzati, i bambini educati, e che ciò è più facile quando la popolazione vive concentrata in un villaggio. Ma abbiamo le prove che la vita in questi villaggi si è deteriorata. Le persone diventano dipendenti dai sussidi del governo e perdono le loro fonti di indipendenza economica (bestiame, praterie, ecc.), cosa che fa aumentare l’alcolismo e la prostituzione.

Quello che il governo cinese ha fatto è spingere i nomadi nella povertà assoluta».

Ha citato anche il turismo come problema ambientale urgente. Da dove vengono questi turisti e cosa cercano?

«Il problema del turismo in Tibet sta nella sua concentrazione in alcune zone e nella brevissima stagione estiva, con dei numeri enormi di visitatori. Recentemente la Cina ha attivato percorsi per visitare laghi sacri e altri importanti siti ambientali, cosa che ha avuto un impatto grave per le persone e la terra.

Il turismo crea poca ricchezza e lavoro per i tibetani locali. La maggior parte dei turisti in Tibet sono cinesi che viaggiano con pacchetti giornalieri prenotati attraverso agenzie di viaggio cinesi che prenotano alberghi cinesi, autisti cinesi e guide cinesi e mangiano in ristoranti cinesi. Così la maggior parte del denaro speso dai turisti cinesi che viaggiano in Tibet torna in Cina».

Il suo lavoro nel documentare resistenze socio ambientali in Tibet è abbastanza unico. Ci racconta un caso?

«Il più noto è probabilmente quello della miniera Gyama Copper Gold Polymetallic Mine in una zona ricca di rame, zinco, piombo, litio, vicino a Lhasa, la capitale. Il governo l’ha dichiarata miniera modello nonostante le vicine comunità abbiano protestato per più di cinque anni denunciando i disagi creati alla vita nomade e l’inquinamento delle acque del vicino fiume. Nel 2013 un’enorme frana ha ucciso più di 80 lavoratori nei pressi della miniera. Anche se il governo sostiene che la frana sia stata causata da fattori naturali, noi abbiamo le prove che la causa primaria è stata una cattiva gestione della miniera».

Esiste una rete di persone che si batte per l’ambiente in Tibet? Le Ong ambientaliste in Cina e in Tibet possono allearsi per la giustizia ambientale e sociale?

«Ci sono buone Ong ambientali in Tibet, ma la maggior parte di esse sono state costrette a chiudere dopo le proteste del 2008. Ci sono anche alcune buone Ong ambientali cinesi che lavorano in Tibet. Il problema è che quando una Ong sta facendo un grande lavoro sociale e ambientale, il governo locale cerca in diversi modi di farla chiudere etichettandola come separatista. Qualsiasi collaborazione sarà quindi abbastanza problematica».

In Europa e altrove si dibatte su decrescita o visioni alternative di sviluppo. Qual è il tuo pensiero in merito?

«Questo è qualcosa su cui qui discutiamo molto. Ci chiediamo “qual è lo sviluppo per tutti? Non è semplicemente essere felici? Cosa succede quando a qualcuno non va bene il tuo modo di intendere lo sviluppo, come ad esempio ai nomadi?”. Sviluppo, per me, dovrebbe essere il livello di soddisfazione di te come persona. Per i tibetani, i nomadi sono persone felici perché hanno le loro risorse e la libertà. Diciamo anche che non dovremmo cercare di imporre un’unica definizione di felicità su tutti. Lasciate che ognuno trovi la sua strada, e rispettate la vita. Naturalmente, non tutto ciò che è antico è buono di per sé, ma cerchiamo la parte buona di questo passato e preserviamola. A volte i tibetani non si sentono abbastanza cinesi per fare le cose cinesi, e non abbastanza tibetani per vivere come vivevano i loro antenati. Tra i due, il rischio è di non sentirsi più nessuno.

Daniela Del Bene
Co-editrice di Ejatlas


Per approfondire

Environmental and Development Desk, http://tibet-edd.blogspot.com.es/.
Documentario Shielding the Mountains, regia di Kunga Lama. Prodotto da Emily Yeh.
Tibet Centre for Human Rights and Democracy, Imposing Modeity with Chinese Characteristics, Dharamsala 2011.
Jampel Dell’Angelo, The sedentarization of Tibetan nomads: conservation or coercion?, p. 309-332 in H. Healy et al, Ecological Economics from the Ground Up, Routledge, London, 2012.
We are here to stay, documentario prodotto dal progetto Lamca-Ejolt.

Archivio MC:

Interviste con il Dalai Lama, ott.-nov. 2001 e giu. 2013;
Lhasa, nella morsa di Pechino, mar. 2010;
Contro Pechino a costo della vita, dic. 2012.

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo è il quarto articolo di una collaborazione fra la rivista Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas). Nei prossimi numeri verranno pubblicate altre storie e analisi regionali di alcuni dei conflitti ambientali che compaiono nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.


Sotto il giogo cinese

Il Tibet è una regione dell’Asia centrale, grande quattro volte e mezzo l’Italia, con un’elevazione media di 4.500 metri sul livello del mare, appartenente per la gran parte alla Cina, in piccola parte all’India. La parte cinese, che nel 2005 contava 2.740.000 abitanti, chiamata ufficialmente Xizang, fu occupata dalla Repubblica Popolare Cinese nell’ottobre 1950 e dichiarata regione autonoma nel 1965. La sua capitale Lhasa (3.650 metri sul livello del mare) conta circa 200mila abitanti.

Dal 1951 è iniziata l’immigrazione dalle altre regioni cinesi. Tanto che oggi i non autoctoni, prevalentemente militari e coloni agricoli e tecnici delle attività industriali, costituiscono circa il 20% della popolazione. All’aumento dell’immigrazione corrisponde una notevole emigrazione di tibetani verso altri paesi: sono circa 2 milioni i tibetani che vivono fuori dal Tibet.

Tra la popolazione autoctona sono ancora presenti gruppi di nomadi che vivono di pastorizia. Prima dell’annessione alla Cina nel 1951, la classe monacale buddista, che contava circa un ottavo della popolazione complessiva, era molto potente, tanto da conferire allo stato tibetano un carattere teocratico, con a capo il massimo esponente spirituale, il Dalai Lama. Dall’anno dell’annessione, la Cina, ignorando le istanze indipendentiste dei tibetani, iniziò un programma di sviluppo che venne osteggiato dalla popolazione locale fino alla rivolta di Lhasa del 1959 che venne repressa dal regime cinese costringendo alla fuga il 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, in India, a Dharamsala, dove costituì il governo tibetano in esilio.

Nei decenni successivi la Cina ha continuato a intensificare l’attività di sviluppo e integrazione del Tibet allo scopo di omologare sempre più (anche sul piano culturale ed etnico) la regione al resto della Repubblica popolare. Un ultimo tentativo di rivolta nella regione è stato quello del 2008, represso con la violenza dal governo comunista.

L’attuale posizione del Dalai Lama, che nel 2011 ha rinunciato al potere politico, affidando la guida del governo in esilio a Lobsang Sangay, riguardo alla questione tibetana è quella da lui stesso denominata «la via di mezzo», per un Tibet con un alto grado di autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese: «Sono finiti i giorni in cui si assisteva alla vittoria di una parte e alla totale sconfitta dell’altra – ha ribadito il 13 settembre scorso in una conferenza a Parigi -. È necessaria una riconciliazione, altrimenti la nostra lotta non avrà successo».

La religione prevalente del Tibet è il buddismo tibetano, introdotto nella regione nell’8° secolo d.C. Accanto al lamaismo sono presenti la religione autoctona, il Bon, ed elementi di sciamanismo.

Luca Lorusso