I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

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Versione italiana dello stesso documentario.

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«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




Cristiani, non «cretini»


Tra nostri amici d’Oltralpe, un tempo, c’erano molti montanari che soffrivano di ipotiroidismo nelle valli dell’Alta Savoia. Erano persone che restavano piccole, deformi, con il gozzo, e talmente semplici nel modo di pensare che a molti sembravano vivere fuori da questo mondo. La loro sofferenza e la loro semplicità faceva tenerezza a tutti, per questo venivano chiamati «poveri cristi», in franco provenzale crétin (o créstin [dal francese chrétien e latino christianus]). Era allora un’espressione senza malizia, anzi piena di affetto e compassione, che paragonava le loro sofferenze a quelle di Cristo. Ma, togli la compassione, ecco che crétin diventa sinonimo di «stupido, imbecille e simili, per lo più come titolo d’ingiuria», come scrive la Treccani; un epiteto che viene poi applicato soprattutto ai cristiani che, poveri loro, abituati ad avere la testa nelle cose del cielo (cioè «stupidi e insensati quali sono, sembrano quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti», come scriveva il linguista Ottorino Pianigiani nel 1907, citato da Piergiorgio Odifreddi in un suo libro di cent’anni dopo), non erano in grado di capire le cose di questa terra, rifiutando l’illuminazione della scienza. Oggi pochi conoscono le origini e le trasformazioni storiche di questa parola e dando del «cretino» a qualcuno in genere non si intende offenderlo perché cristiano…

Eppure, ancora oggi, troppi cristiani vengono trattati da «cretini». Non solo, ci sono anche molti che vorrebbero che i cristiani si limitassero ad essere dei «cretini» che si occupano solo delle cose del cielo lasciando quelle della terra a chi sa come va il mondo (meglio una Chiesa cretina che cristiana!).

Il dato triste è che ci sono cristiani, ecclesiastici – anche di alto rango – e laici scrupolosamente cattolici, che condividono questo modo di pensare (ovviamente non espresso nei termini rozzi che sto usando io) e quindi se la prendono con papa Francesco che invece sulle cose di questo mondo ha molte cose da dire, e con ragione, toccando temi come il modo in cui si gestisce il dramma dei migranti, l’ambiente, l’assurdità della guerra e la sconcia «madre di tutte le bombe», il traffico delle persone, la litigiosità irresponsabile dei politici… Un papa che è troppo impegnato a scrutare gli uomini e i loro problemi, e che si dimentica di guardare in alto, verso il cielo, al sacro, al «trono di Dio».

La realtà, invece, è che essere cristiani è tutt’altro da essere cretini. È vero, il cristiano è chiamato ad «alzare gli occhi e levare il capo» (cfr. Lc 21,28), a essere nel mondo senza essere del mondo (cfr. Gv 15,18), a cercare le cose di lassù (cfr. Col 3,1), a «farsi un tesoro nei cieli» (cfr. Lc 12,33), a «cercare il regno dei cieli e la sua giustizia» (cfr. Mt. 6,33), ecc., ma anche ad abitare il mondo con responsabilità e audacia. Anzi. È proprio il guardare al «cielo» che rende il cristiano capace di vedere da una prospettiva diversa e di riconoscere tutto quello che è falsamente umano, che è contro l’uomo, che lo manipola, lo sfrutta, lo usa …

Proprio da chi gli dà il nome, Gesù il Cristo, il cristiano impara a vedere la persona, tutta la persona in quanto tale, senza pregiudizi su nazionalità, sesso, religione. Anche se, in effetti, guarda l’umanità con un «difetto di vista»: ha un occhio privilegiato per gli «scarti», i poveri, gli sfruttati, i trafficati, gli stranieri, i migranti, i disprezzati, quelli che non contano e sono solo percentuali anonime nelle statistiche. Per il cristiano la persona non è un numero in un database, ma un volto, un nome e una storia, una vita amata da Dio.

Tutto questo spinge il cristiano a essere attore della storia, non spettatore, un attore che partecipa alla costruzione di un mondo migliore, che non è sua proprietà, ma gli è stato affidato in custodia. Per questo, tra le altre cose, è geloso della libertà di coscienza, sua e degli altri.

I paesi in cui lui vive potranno decidere che l’aborto è legale, l’eutanasia possibile, il divorzio una cosa normale, la guerra un mezzo legittimo, la prostituzione un lavoro come un altro, il matrimonio…, ma il cristiano, nel rispetto delle scelte altrui, continuerà a rifiutare aborto ed eutanasia, a credere che il matrimonio è l’unione per tutta la vita di un uomo e una donna e che i figli hanno il diritto a un padre e una madre, che la prostituzione è sfruttamento, che la guerra non porta la pace, e via dicendo. E rimarrà convinto che il riposo domenicale non solo è necessario per lo spirito, ma serve al bene essere di tutta la persona; e che ciascuno vale per quello che è e non per quello che ha; che l’ambiente, il mondo e le sue risorse sono bene comune; che la scienza non è contro la fede, ma una compagna che aiuta a scoprire la profondità della sapienza di Dio nell’uomo e nel creato.

È vero, non sempre i cristiani sono coerenti con quello che predicano. Non essendo cretini, sanno bene di essere deboli e fragili come tutti gli umani, ma non per questo rinunciano a testimoniare quello in cui credono, per il quale molti (troppi) ancora oggi pagano con la loro stessa vita.




Bolzano: Beatificato

Josef Mayr-Nusser


Beatificato Josef Mayr-Nusser,
il giovane altornatesino dell’Azione Cattolica
che si rifiutò di giurare a Hitler.

Nella luminosa mattinata di sabato 18 marzo nel duomo di Bolzano con una intensa e suggestiva celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione Vaticana per le cause dei Santi e con la presenza dell’Ordinario della diocesi di Bolzano – Bressanone, Mons. Ivo Muser e di numerosi vescovi sia italiani che austriaci, è stato beatificato Josef Mayr-Nusser, il giovane altornatesino membro dell’Azione Cattolica che durante la Seconda Guerra Mondiale si rifiutò di giurare a Hitler.

Josef Mayr-Nusser era nato nel 1910 a Bolzano in una famiglia di contadini profondamente credenti. Iscritto fin dall’adolescenza all’Azione Cattolica di lingua tedesca della diocesi di Trento ne divenne ben presto un dirigente qualificato e preparato. In occasione della scelta decisionale riservata agli abitanti dell’Alto Adige del 1939 si schierò con i “Dableiber”, ovvero i “no optanti” coloro che, contrari all’emigrazione verso il Terzo Reich, vollero rimanere in Italia e aderì segretamente al movimento antinazista “Andreas Hofer Bund”. Dopo l’annessione dell’Alto Adige al Reich tedesco, fu arruolato forzosamente nelle SS. Al momento di prestare il giuramento, nonostante i consigli contrari di camerati e superiori, si rifiutò di pronunciarlo, per motivi di coscienza. Agli allibiti ufficiali e sottoufficiali delle SS presenti disse: “Io non posso giurare a Hitler, sono cristiano, la mia fede e la mia coscienza non me lo consentono”. Con queste parole Josef Mayr-Nusser, decretò la propria condanna a morte. Il suo no, venne infatti pronunciato davanti all’ufficiale superiore del centro reclute delle SS di Konitz, in Prussia. E per lui la corte marziale emanò una sentenza inappellabile: condanna a morte, per fucilazione, da eseguirsi nel lager di Dachau. Ma sul patibolo Josef non arrivò mai: morì per le botte, i maltrattamenti, la fame, la sete e le sofferenze fisiche subiti sul vagone piombato durante il viaggio di trasferimento al campo di sterminio. Davanti a migliaia di fedeli nel Duomo di Bolzano, il cardinale Amato ha esaltato le virtù del primo beato contemporaneo della diocesi di Bolzano e Bressanone, che grazie alla sua fede adamantina divenne una “fiaccola di luce, seguendo fino alla fine la propria coscienza”. Mayr-Nusser, aveva ben chiaro il primato della coscienza, nell’omologazione generale dei suoi tempi, diede ascolto alla sua coscienza. Non solo: giorno dopo giorno ha lavorato alla formazione della sua coscienza, confrontandosi continuamente con il Vangelo in modo da essere capace, di fronte a una scelta, anche la più dura, da che parte stare.

Il vescovo Ivo Muser ha evidenziato la gioia della diocesi di Bolzano e Bressanone per la beatificazione di un laico, padre di famiglia, esempio cristallino per l’impegno socio-politico dei cristiani, questo martire scomodo, per troppo tempo dimenticato, ci stimola al coraggio civile e a fare i conti con le pagine più oscure della nostra storia. Mons. Muser, ha poi aggiunto: “Rimarrà scomodo anche da Beato”. Ci abbiamo messo tanto, come società e come Chiesa, a guardarlo in faccia. Il suo tempo è stato un tempo di scelte coraggiose e chi scelse in modo sbagliato, di fronte a lui non può che rimanere in rispettoso silenzio. Alla fine Mons. Muser ha ricordato che ancora oggi c’è chi non accetta fino in fondo il suo messaggio, ma grazie a lui possiamo dire: “no alle scelte facili, sì invece alla convivenza tra i nostri gruppi etnici, tra tedeschi, ladini e italiani”. L’iter burocratico legato alla figura di Mayr-Nusser è rimasto inspiegabilmente bloccato per anni. Una buona spinta la data Papa Francesco, il cui ruolo è stato fondamentale per far camminare un altro processo di beatificazione che rischiava di insabbiarsi, quello di monsignor Romero.

Josef Mayr-Nusser proclamato Beato nel duomo di Bolzano dall’inviato papale, cardinale Angelo Amato, in una radiosa giornata primaverile altornatesina offre un messaggio attualissimo alla comunità dei cattolici non solo italiani: la sua testimonianza contro l’idolatria del potere – ieri come oggi – ha un valore civile e politico enorme. La Chiesa lo ha riconosciuto ufficialmente, ora l’impegno per tutti è che la sua figura non venga ridotta ad un innocuo “santino”, da tenere nel cassetto o nel portafoglio, ma grazie alla coerenza evangelica della sua vita sia additato alla comunità civile ed ecclesiale come un testimone coraggioso di non violenza e di pace.

Mario Bandera
20 marzo 2017

Leggi anche “Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser” di Mario Bandeta per “4 Chiacchiere con”.




Bestemmie


Appena arrivato in Kenya, i miei confratelli mi hanno raccontato una storia assai popolare tra loro. Era quella di un giovanotto che, avendo lavorato con operai italiani alla costruzione di una strada, si vantava di sapere la nostra lingua. Sfidato a provare il suo talento, aveva snocciolato una bella sfilza di colorite bestemmie. Buffo e penoso, pensai allora, benché, da bresciano quale sono, fossi abituato fin da bambino a sentirne, soprattutto dai muratori, bestemmiatori seriali, e, diventato poi prete, nelle confessioni di Natale o Pasqua, quando sentivo «mi è scappata qualche bestemmia», riuscissi a immaginare la sfilza di perle italiche sparate in automatico.

Non è certo di quelle bestemmie che voglio scrivere ora, anche se mi hanno sempre messo a disagio per la loro gratuita stupidità. Altre sono le bestemmie che oggi trovo davvero repellenti e inaccettabili, perché feriscono e degradano l’immagine di Dio che è l’uomo.

Una è quell’«Allah akbar» gridato con orgoglio dagli assassini dell’Isis e loro aggregati. Ma come si può urlare che «Dio è il più grande» quando si violenta l’immagine stessa di Dio uccidendo persone innocenti, colpendo di proposito i più deboli e indifesi, stuprando e vendendo donne come se fossero oggetti, o trasformando bambini innocenti in portatori di morte? Quale sarebbe la grandezza di questo dio? Un dio che terrorizza e distrugge l’opera stessa delle sue mani non è dio, non certo il Dio dell’Islam, ma il frutto del più ottuso e superbo, anche se inconsapevole, ateismo. È un idolo di morte fatto a immagine e somiglianza degli uomini che lo usano nel loro delirio di onnipotenza. Di fatto sostituendosi a Dio: non gli uomini strumento di Dio, ma Dio strumento degli uomini.

Il Dio di Gesù Cristo è ben altro. È il Dio della vita e dell’amore, un amore gratuito e totale. È il Dio che – citando Osea 11 – «attira con legami di bontà e con vincoli di amore», che, come un padre, solleva il suo «bimbo alla guancia» e, come una madre, «si china su di lui per dargli da mangiare», mentre il suo «cuore si commuove e l’intimo freme di compassione» (cfr. Lc 15). È il Dio che manda i suoi «angeli» (Lc 9,52) a «guarire gli infermi, risuscitare i morti, purificare i lebbrosi, scacciare i demoni», senza «oro né argento, né denaro, né sacca da viaggio, né vestiti di ricambio, né sandali di scorta e neppure il bastone» (forse anche per evitare di usarlo come arma), e a portare come dono la pace, senza imporre niente a nessuno, ma offrendo solo la gratuità dell’amore (cfr. Mt 10). Questo è stato Gesù, l’unico cha ha davvero visto Dio (il Padre) ed è stato capace di mostrarcelo attraverso la sua vita, le sue parole, le sue azioni di misericordia e il dono finale di sé (cfr. Gv 12,44; 14,5ss).

È il Dio amato da santa Maria Goretti che abbiamo ricordato il 6 luglio nella settimana in cui la liturgia ci ha offerto i brani di Matteo e di Osea sopra citati, mentre i media ci narravano degli orrori del mercato delle schiave yazide, in Sud Sudan riprendeva con rinnovata violenza la terribile guerra civile di cui parliamo nelle pagine intee, i corpi delle vittime di Dacca venivano restituiti alle loro famiglie, Emmanuel, giovane marito innamorato, veniva pestato a morte a Fermo, e a Dallas avveniva l’ennesima tragedia a sfondo razzista.

Che c’entra Maria Goretti, uccisa da chi diceva di amarla e voleva solo il suo corpo? C’entra, perché aveva capito che il Dio vero è quello delle vittime, non dei carnefici. E poi perché la sua figura smaschera un’altra bestemmia dei nostri tempi, sempre contro l’immagine di Dio che è l’uomo: il fare del corpo un oggetto di desiderio, che porta, tra l’altro, adolescenti in branco a violentare le loro stesse compagne, giovanissime a concedersi o a esibirsi per non essere escluse dal gruppo, adulti a far fiorire il traffico di bambini e donne per il ricchissimo mercato della prostituzione, pedofilia e turismo sessuale, gruppi mafiosi a controllare e promuovere la pornografia online.

E la lista delle bestemmie non finisce qui. È una violenza all’immagine di Dio, cioè all’uomo, anche il gioco d’azzardo che vende illusioni, rovina famiglie, crea povertà e confonde la scala dei valori nella vita delle persone. Non basta la legalizzazione e il controllo da parte dello stato, che ottiene così miliardi di euro imbrattati di lacrime e sangue, per renderlo accettabile o perfino un diritto. Su un livello più alto è violenza all’uomo anche il grande gioco d’azzardo dei mercati azionari, dove, come abbiamo visto in questo ultimo mese, si bruciano, a dispetto degli affannosi interventi delle istituzioni, miliardi su miliardi ipotecando il futuro di intere nazioni e aumentando a dismisura il peso del debito pubblico sulle spalle di ogni persona, il tutto nel nome della libertà di mercato, ma in realtà a solo vantaggio di pochissimi ricchi in delirio di onnipotenza che hanno perso il senso dell’umanità.

Gesù ha detto: «Che vedano le vostre opere di giustizia e rendano gloria al Padre» (Mt 5,16). Contro il moltiplicarsi delle bestemmie ci vogliono opere di bene, fatti di giustizia a opera di «martiri» e «angeli» che con la loro vita rivelino il vero volto di Dio, che è amore.




Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser

 


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FRANZ JÄGERSTÄTTER nacque nel 1907 a Sankt Radegund, in Austria, e come semplice contadino visse le vicende della sua patria fino a che Hitler nel 1938 con l’Anschluss (ovvero l’annessione) inglobò l’Austria, facendola diventare parte integrante della Germania nazista. Come tutti i giovani del suo tempo, doveva obbligatoriamente prestare servizio militare e giurare fedeltà alla dottrina del nazional-socialismo e al Führer tedesco, cosa che egli si rifiutò di fare per la sua tenace convinzione che il nazismo fosse incompatibile con il Cristianesimo e che non potesse assolutamente mettere in secondo piano i principi evangelici per assumere quelli della dottrina nazional-socialista.  
JOSEF MAYR-NUSSER nacque nel 1910 a Bolzano da una famiglia di viticoltori. Benché cittadino italiano, sia pur di lingua tedesca, venne forzatamente arruolato nelle truppe delle SS naziste e inviato in Germania per essere addestrato e indottrinato al verbo nazional-socialista prima del giuramento al Führer. Unico tra tutte le reclute presenti, egli, con nobile gesto, si rifiutò di adempiere tale formalità. Entrambi questi giovani praticarono e vissero la fede cattolica in forma adamantina. Furono tra i pochi obiettori di coscienza al nazismo e si ribellarono a una visione della vita fondata sul dogma della superiorità della razza ariana, che il dittatore nazista voleva imporre con la forza nei paesi invasi, sconfitti e sottomessi dall’esercito tedesco. I due giovani hanno pagato cara la loro coerenza evangelica e la fedeltà alla loro coscienza modellata sul messaggio di Gesù di Nazareth. Furono condannati a morte e la loro esistenza fu stroncata in maniera tragica e feroce. Franz Jägerstätter è stato dichiarato beato nel 2007 da Papa Benedetto XVI (un Pontefice tedesco!), mentre per Josef Mayr-Nusser la diocesi di Bolzano ha avviato il processo di canonizzazione.
Franz e Josef, voi avete saputo offrire in tempi difficilissimi una testimonianza forte del Cristianesimo ascoltando la vostra coscienza. Avete dimostrato che è meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, una posizione che in tutta la storia del Cristianesimo altre figure di Santi hanno assunto fino alle conseguenze estreme, ovvero il martirio. Disubbidire alle leggi umane per essere fedeli a Dio, non è cosa da poco, è una scelta sublime!
Franz: Io partecipavo alla vita pubblica del mio paese e, in occasione del plebiscito organizzato dai nazisti per incorporare l’Austria alla Germania, fui l’unico a votare «no» nel mio comune. E una volta che l’annessione fu realizzata, mi rifiutai categoricamente di continuare a partecipare alla vita amministrativa del mio paese, in quanto trovavo la dottrina di Hitler incompatibile con la fede cristiana.   Josef: Noi sudtirolesi, per via della lingua, eravamo considerati gli alleati naturali degli austriaci e dei tedeschi. Io provenivo dalle fila dell’Azione Cattolica (che il fascismo aveva tentato di ostacolare in ogni modo) e trovavo sempre più difficile identificarmi con i progetti propugnati dalla stretta unione d’intenti tra l’Italia fascista e la Germania nazista. Inoltre mi risultava difficile aderire ai programmi che venivano imposti e che rendevano sempre più filonazista la politica italiana.
Al di là di queste considerazioni personali, varrebbe la pena che presentiate un quadro della vostra situazione, di modo che diventi per noi più facile capire il contesto in cui vi muovevate e comprendere nella sua valenza profetica il gesto che avete fatto.
Franz: Io fui allevato da mia nonna perché mia mamma mi generò da una relazione extraconiugale. Quando la mia mamma, dopo qualche anno dalla morte del mio papà naturale, sposò Heinrich Jägerstätter, questi mi adottò e ne assunsi il cognome. Nel 1933 morì senza figli propri e così ne ereditai le proprietà. Nel 1936 sposai Franziska Schwaninger e dal matrimonio nacquero tre figlie: Rosalia, Maria e Aloisia. Qualche anno prima avevo riconosciuto la pateità di una bambina nata da una relazione sentimentale con un’altra ragazza, Theresia Auer. Per dirla tutta, non ero «uno stinco di Santo» e anche la mia famiglia aveva qualche problema con la morale ufficiale della Chiesa.   Josef: Nella ditta in cui lavoravo a Bolzano, ebbi la fortuna di conoscere Hildegard Straub, una ragazza che era impiegata nello stesso posto e che proveniva anche lei dal gruppo dei giovani dell’Azione Cattolica altornatesina. Dopo un breve fidanzamento, nel maggio del 1942 ci sposammo e l’anno successivo nacque nostro figlio, cui demmo il nome di Albert.
Le vostre mogli - mi sembra di capire - avevano gli stessi sentimenti vostri, quindi da parte loro avete avuto un sostegno notevole nel dire di «no» a Hitler.
Franz: Con Franziska andai in viaggio di nozze a Roma; il matrimonio e quel viaggio segnarono una svolta nella nostra vita. La preghiera e la lettura della Bibbia divennero, per scelta comune, una consuetudine quotidiana. Ci sostenevamo reciprocamente nel nostro cammino di fede non tanto vivendo gli atti devozionali della comunità, quanto nel renderci consapevoli che la fede cristiana non poteva essere messa sullo stesso piano della dottrina nazional-socialista. Josef: Per far capire quanto intensa fosse la nostra scelta comune di vivere fino in fondo la fede cristiana e di non piegarci al nazismo, riporto qui quanto scrissi alla mia carissima Hildegard appena arrivato al centro d’indottrinamento delle SS di Konitz: «Ciò che affligge il mio cuore è che la mia testimonianza nel momento decisivo possa causare a te, fedelissima compagna, disgrazia temporale. Prega per me affinché nell’ora della prova io agisca senza timore ed esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza».
Quindi eravate decisi non solo a rifiutare di imbracciare le armi per servire il vostro paese, ma anche di opporvi al cuore stesso del potere nazional-socialista rifiutando di giurare fedeltà a Hitler.
Franz: Nel 1940 fui arruolato dalla Wehrmacht, ma tornai a casa dopo un anno per la mia situazione familiare. L’esperienza negativa nell’esercito e il programma sull’eutanasia che il partito nazional-socialista portava avanti a vasto raggio rafforzarono la mia decisione di non tornare più alla vita militare. In quegli anni feci la scelta di diventare terziario francescano e questo irrobustì la mia idea di non mettermi al servizio delle smanie di potere del nazional-socialismo, quindi di non giurare a Hitler. Josef: Giurare è un verbo insopportabile, giurare a chi, a che cosa, per quali motivi, giurare a un uomo, a un dittatore, a un Führer, giurare per odiare, per conquistare e sottomettere altre persone, per incendiare la storia e impolverare la creazione di Dio, giurare per versare sangue innocente sulla terra? Giurare a Hitler era compiere un culto demoniaco, il culto del capo innalzato a idolo di una religione sterminatrice. Volete sapere com’era la formula del giuramento nazista? Era così: «Giuro a Te, Adolf Hilter, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a Te e ai superiori designati da Te obbedienza fino alla morte, che Dio mi assista».
Certo che quel finale «che Dio mi assista» è più a una bestemmia che una preghiera.
Franz: Per nulla al mondo avrei pronunciato quelle parole. Dopo aver manifestato l’intenzione di non giurare a Hitler fui trasferito nella prigione militare di Linz, dove incontrai altre persone che opponevano resistenza al nazional-socialismo e si rifiutavano di fare il giuramento nazista. Josef: Può un cristiano pronunciare simili parole? Può egli mettere Dio al servizio del potere, della guerra, della furia distruttiva, della violenza fine a se stessa? Dio che è al di sopra di ogni legge, di ogni nome, di ogni spazio, di ogni luogo, come può farsi paladino di un dominatore senza scrupoli? Chi può manipolare ciò che di più sacro e intangibile appartiene alla fede? Più che mai ero convinto che non avrei pronunciato quel giuramento.
Nessuno cercò di dissuadervi da questa vostra decisione?
Franz: Oh sì! Molti cercarono di farlo. Chi mettendoci di fronte alle responsabilità verso la patria tedesca, chi ci diceva di giurare per evitare che la nostra famiglia subisse spiacevoli conseguenze. Persino il Vescovo della diocesi di Linz, Josephus Calasanz Fließer, mi consigliò di desistere dall’obiezione di coscienza. Solo la mia Franziska, benché conscia delle conseguenze, mi sostenne in questa decisione. Josef: Anche con me ci furono tentativi di farmi cambiare idea, ma devo dire che l’assistente dell’Azione Cattolica di Bolzano, don Josef Ferrari, invece mi sostenne nella decisione che avevo preso. L’unica che vibrò fino in fondo per il medesimo ideale restandomi accanto fino all’ultimo istante fu la mia amatissima Hildegard.
FRANZ JÄGERSTÄTTER fu condannato a morte e ghigliottinato il 9 agosto 1943 nel carcere di Brandeburgo. Dopo la fine della guerra, l’ua con le sue ceneri fu portata a Sankt Radegund, dove fu tumula il 9 agosto 1946. La sua figura di obiettore cristiano si delineò con chiarezza alcuni decenni dopo, grazie allo storico Gordon Charles Zahn, il quale ne scoprì l’epistolario conservato dalla famiglia da cui emerge con cristallina coerenza la sua fede e le sue profonde motivazioni per il rifiuto dell’ideologia totalitaria del nazional-socialismo e di ogni tipo di guerra. JOSEF MAYR-NUSSER, rinchiuso nel carcere di Danzica con l’accusa di tradimento, subì ogni sorta di torture e maltrattamenti. Condannato quindi a morte, fu destinato al famigerato campo di sterminio di Dachau. Un bombardamento alleato alla linea ferroviaria bloccò il treno alla stazione di Erlangen. Gravemente provato per via delle forti e continue privazioni cui era stato sottoposto durante la prigionia, morì nel vagone bestiame del treno il 24 febbraio 1945.
 
Don Mario Bandera - Direttore Missio Novara




I GRANDI MISSIONARI: Il vangelo gridato con la vita


Annalena Tonelli Missionaria laica, per 33 anni a servizio dei più poveri e disprezzati tra le popolazioni somale, Annalena Tonelli ha testimoniato l’amore di Dio con radicalità evangelica fino alle estreme conseguenze.  È salita alla ribalta solo dopo la sua morte, assassinata nel suo ospedale, a 60 anni.

Piccola ed esile come una canna, viso magro circondato dal velo, occhi azzurri di bambina, sorriso disarmante e volontà di ferro: il ritratto di Annalena Tonelli è presto fatto. Ha speso oltre metà della vita tra le popolazioni somale musulmane, con un solo scopo: amare Cristo nei più poveri dei poveri, fino alla morte, 5 ottobre 2003, assassinata alla fine del servizio ordinario ai suoi malati.
Ha sempre aborrito riflettori e pubblicità. In rare occasioni ha parlato di sé e del suo lavoro, per poi rammaricarsi. Nel dicembre 2001, in un convegno per la Pastorale della salute tenuto in Vaticano, costretta dagli amici, accettò di mettere in pubblico la sua storia straordinaria: è il suo «testamento missionario».


IL PRIMO AMORE
«Sono nata a Forlì, il 2 aprile del 1943. Scelsi di essere per gli altri che ero ancora bambina» cominciava così le sue testimonianze.
Mentre frequentava l’Università di Bologna, ferquentò movimenti giovanili «terzomondisti»: si appassionò alla vita di Albert Schweitzer e all’opera dei missionari.
Laureata in giurisprudenza, per sei anni prestò servizio ai poveri della città natale, ai bambini e bambine orfani e disabili.
«Credevo di non potermi donare totalmente rimanendo nel mio paese: i confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici». Sognava l’India; scelse l’Africa, nonostante i familiari la sconsigliassero. «Partii decisa a gridare il vangelo con la vita, sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui».
All’inizio del 1969 era a Chinga, in Kenya, insegnante nella scuola secondaria della missione di Karima; l’anno seguente in quella governativa di Wajir, dove un altro romagnolo, Salvatore Baldazzi, missionario della Consolata, aveva avviato una Girl’s Town, per bambine orfane di guerre e carestie. Lo stesso anno fu raggiunta da Maria Teresa e insieme iniziarono una comunità.
Gli inizi non furono facili in quella regione desertica del nord-est del Kenya, tra popolazioni somale poverissime, rigidamente musulmane. Quando si seppe dell’arrivo di una maestrina bianca, gli studenti, quasi suoi coetanei o di poco più giovani, giurarono al preside che le avrebbero impedito di entrare in classe: vi insegnò fino al 1974 e fu pure preside della scuola secondaria di Mandera. Oggi molti di essi occupano posizioni importanti nella vita politica ed economica del Kenya e si vantano di averla avuta come insegnante.
«Quasi subito m’innamorai di un bimbo ammalato di sickle cell (anemia falciforme) e fame – racconta Annalena -. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altrettanto. Uno di loro lo donò e dopo di lui tanti altri, vincendo così la resistenza dei pregiudizi. Fu la mia prima esperienza in cui, in un contesto islamico, l’amore generò amore».
Nel frattempo aprì un Centro di riabilitazione per bambini poliomielitici, ciechi, sordi, epilettici. Altre amiche romagnole si unirono a loro, diventando mamme a tempo pieno dei disabili.
«Eravamo una comunità di sette donne, tutte, in maniera e misura diverse, assetate di Dio. Quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio: là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro».
Mentre le compagne portavano avanti il Centro, Annalena frequentava il reparto dei tubercolosi dell’ospedale di Wajir. «M’innamorai di loro e fu amore per la vita. Erano in un reparto da disperati: li servivo sulle ginocchia; stavo loro accanto quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a studiare e osservare, poi a supervisionare la cura dei pazienti dopo la dimissione dall’ospedale».

UN PROGETTO PILOTA
La scoperta di una nuova medicina rendeva possibile curare la Tbc in 6 mesi, anziché i 12-18 richiesti fino allora, purché la cura fosse continua e regolare: condizioni impossibili per i nomadi che, al primo segno di miglioramento, ritornavano alla vita randagia.
Nel 1976 il governo del Kenya le affidò la direzione di un progetto pilota per il controllo e cura della tubercolosi a Wajir. Annalena inventò un sistema per garantire le terapie giornaliere per i sei mesi necessari, senza cambiare le abitudini dei pazienti: organizzò centri di cura a cielo aperto, chiamati T.B. Manyatta (villaggio). I nomadi arrivavano con le loro capanne legate sulla groppa dei cammelli, le smontavano e ricostruivano la loro abitazione. Fatte le diagnosi con l’esame dello sputo al microscopio, per sei mesi le foiture dei farmaci erano assolutamente regolari e l’ingestione rigorosamente supervisionata. Quando il malato era guarito, veniva sparsa la voce e la famiglia del paziente appariva magicamente in una settimana o poco più per riportarlo nel deserto.
«La T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di Dio» confessa Annalena. Nel 1978, a Nairobi, tale esperienza fu presentata al Congresso mondiale sulla tubercolosi: il metodo venne subito adottato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e, col nome Dots (acronimo inglese per «breve terapia sotto diretta osservazione»), è ora applicato in tutto il mondo.

GENOCIDIO SCONGIURATO

Nel febbraio del 1984, alcuni camion di militari irruppero in alcuni quartieri di Wajir, incendiando case e arrestando i somali del gruppo degodia, accusati di essere shifta (predoni) o legati alla guerriglia: 5-6 mila uomini furono presi e rinchiusi nell’aeroporto Wagalla; per quattro giorni vennero sottoposti a torture e angherie. Cosparsi di benzina e incendiati, la maggior parte riuscirono a salvarsi togliendosi i vestiti. I sopravvissuti furono caricati sui camion e abbandonati nel deserto.
Quando si sparse la notizia della liberazione, la gente corse alla ricerca dei loro uomini, portando cibo e acqua. Annalena fece altrettanto. Così testimonia Barbara Lefkow, moglie di un diplomatico americano, fisioterapista che spesso si recava al Centro di riabilitazione: «Dipinse una croce rossa sulla Toyota, portò acqua ai sopravvissuti, li raccolse e li curò nel suo Centro; riuscì a salvae molti. Compilò e mi consegnò una lista di morti, perché la portassi a Nairobi di nascosto».
Sorpresa dai miliziani a seppellire i morti, Annalena fu picchiata. La difese un vecchio capo musulmano, confessando che lui non aveva fatto nulla per salvare la sua gente, mentre quella «straniera» aveva rischiato la vita; e gridò forte, perché tutti lo sentissero: «Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in paradiso».
Gioali e Bbc parlarono a lungo dell’intervento di Annalena; la lista dei morti e poi le fotografie arrivarono nelle ambasciate di vari paesi occidentali: il governo kenyano dovette porre fine al genocidio. «Avrebbero dovuto sterminare 50 mila persone. Ne uccisero mille» racconta Annalena.
Sfuggita miracolosamente a due imboscate, la missionaria fu arrestata e, portata davanti alla corte marziale, fu bandita dal Kenya nel 1985.

L’AMORE FA MIRACOLI

Dopo qualche mese in Italia, Annalena andò in Spagna per seguire un corso di specializzazione sulla lebbra, poi in Inghilterra, dove conseguì il diploma in medicina tropicale. Nel 1987 partì per la Somalia e prestò servizio volontario a Belet Weyne, in una struttura medica che faceva capo al ministero degli Affari esteri italiano e diventò responsabile del controllo della tubercolosi della regione del nord-est.
Intanto nel paese dilagava la guerriglia: nell’agosto del 1990, insieme al suo team di medici e infermieri, fu aggredita, derubata e sequestrata da un gruppo di ribelli. Le truppe governative riuscirono a liberarli. Per la seconda volta Annalena era miracolosamente viva, ma strappata ai suoi poveri e malati. Da Mogadiscio continuò a spedire loro aiuti e medicinali.
Costretta a lasciare temporaneamente la Somalia, Annalena vi fece ritorno nel marzo del 1991, a Merca, 50 km a sud di Mogadiscio. Vi regnavano anarchia totale e fame nera, come nel resto del paese, privo di tutto: ospedali, dispensari, scuole.
Con grinta da manager e il coinvolgimento della Caritas italiana, prima in denaro e poi con l’invio di volontari, Annalena fece fronte alle varie emergenze: carestia, rifugiati, bambini soli e affamati, bisognosi d’ogni genere e costruì un complesso sanitario e scolastico che ha del miracoloso.
«Cercò di creare speranza, incoraggiando la gente a muoversi, a ricostruire, specialmente se stessi – scriveva in una lettera del 1993 -. Siamo 8 europei, con 131 collaboratori somali: prepariamo 5 mila pasti al giorno; curiamo l’ospedale per Tbc con 148 pazienti, il day hospital con 250 bambini, più di 400 pazienti in terapia antitubercolare, piccoli gruppi di lebbrosi ed epilettici». Organizzò classi elementari e artigianato per i bambini, scuole coraniche per piccoli e grandi, di alfabetizzazione per adulti.
Al tempo stesso Annalena doveva lottare contro l’ambiente culturale. «La tubercolosi – racconta nel suo testamento – è stigma e maledizione: segno di una punizione di Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto; per cui si incontra gente che si rifiuta di essere diagnosticata, curata e guarita, per non ammettere di essee affetta».
Furono anni drammatici, che la missionaria sintetizza così: «Sono stata tra guerre e conflitti, testimone di devastanti carestie, violazioni di diritti umani e genocidio: credevo che in vita mia non avrei mai più sorriso, se fossi sopravvissuta a quelle catastrofi».
Tenerissima con i poveri e malati, Annalena era rocciosa e inflessibile con i potenti e prepotenti. Negli ultimi due anni dovette affrontare estenuanti beghe, ricatti, ripetute minacce, un’aggressione e qualche percossa da parte di predoni, capi clan, signori della guerra, fondamentalisti islamici: tutti attirati dall’odore dei dollari che arrivavano per le opere di Merca. Finché passò il testimone a una dottoressa inviata dalla Caritas italiana, Graziella Fumagalli, assassinata tre mesi dopo, con tre colpi d’arma da fuoco alla testa, mentre stava curando un ammalato: era la domenica del 22 ottobre 1995, giornata missionaria mondiale.

«PRINCIPESSA DI BORAMA»
L’Oms le affidò l’ospedale di Borama, cittadina di 100 mila abitanti nel Somaliland, regione relativamente tranquilla nel nord-ovest del paese. Vi arrivò nel 1996. L’accoglienza non fu cordiale: i bambini tiravano i sassi contro la sua casa, gridando: «Allah, tieni lontano quel diavolo bianco!». Ma poi, col passare del tempo, governatore, sindaco, anziani, capi clan e tutto il villaggio era con lei, fino a darle il nome di «Sara Borama» (principessa di Borama). Gli adulti la chiamavano mamma, i bambini nonna.
Cominciò da zero. Con l’aiuto di organismi mondiali (Oms, Unhcr, Undp) e nazionali (Caritas, Comitato contro la fame nel mondo di Forlì) l’ospedale passò da 30 a 250 posti letto, più un centinaio di capanne; uno staff di oltre 50 persone tra medici, infermieri e tecnici di laboratorio; 118 pazienti curati il primo anno; 1.300 il secondo.
Due volte all’anno organizzava campagne per i ciechi: in quattro giorni, un gruppo di amici specialisti operavano di cataratta oltre 330 pazienti: più di 3.700 persone hanno riacquistato la vista.
Al tempo stesso fu avviata la scuola per i figli dei tubercolosi e disabili (la prima in tutta la Somalia e Djibuti), poi ampliata per accogliere i «normali», diventando una fucina di integrazione, tra alunni «normali» e bambini poliomielitici, mutilati di guerra, ciechi, sordi, rifiuti della società (figli di fabbri, conciatori, barbieri, etnie disprezzate). Per vivere e giocare con i sordomuti, i «normali» hanno imparato l’alfabeto muto.
«È una delle esperienze più consolanti e incoraggianti, più capaci di dare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola» racconta Annalena.
Nell’aprile 2003 l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), le assegnò il Nansen Refugee Award, il più importante premio assegnato a chi si occupa di profughi. Oltre a riconoscere la sua opera e i valori a cui si ispira, disse l’alto commissario Ruud Lubbers, il premio voleva «dimostrare che con mezzi limitati, ma con passione ed energia senza limiti, molte vite possono essere salvate e riaccendere la speranza in molti disperati».
Schiva da ogni visibilità, Annalena avrebbe voluto rinunciare; ma gli amici la convinsero a ritirare il premio (una medaglia e 100 mila dollari), anche perché quella era un’occasione per attirare l’attenzione sulla sua «amata Somalia».

«SONO NESSUNO»
A chi le domandava come facesse a gestire una struttura ospedaliera per mille malati, spendendo appena 1.000 dollari al mese, rispondeva: «Nessun segreto: non ho due basi a Nairobi e in Europa o in America; non ho da pagare stipendi da capogiro al personale espatriato; non compro nulla all’estero».
Essa stessa viveva nella più dignitosa e radicale povertà: due tuniche, due scialli e qualche libro era tutto il suo corredo. «Io sono “nobody”, nessuno – diceva di se stessa -. Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza stipendio, senza versamento di contributi per la vecchiaia. Sono una cristiana, con una fede incrollabile, rocciosa, che non conosce crisi dai tempi della giovinezza… che mi manda avanti in condizioni di grande difficoltà».
Ed era felice. «Io impazzisco, perdo la testa per i brandelli di umanità ferita – si legge nel suo testamento -; più sono feriti, maltrattati, disprezzati, senza voce e di nessun conto agli occhi del mondo, più li amo. Non è merito, ma un’esigenza della mia natura. Rido di chi pensa che la mia sia una vita di rinuncia e sacrifici. La mia è pura felicità; chi altro al mondo ha una vita così bella?».
Unica «sofferenza indicibile» era la povertà spirituale: non aveva nessuno che condividesse la sua fede rocciosa e con cui condividere ciò che provava e sentiva dentro, eccetto il vescovo di Djibuti che, due volte l’anno, attorno a natale e pasqua, andava a Borama per celebrare la messa solo per lei e con lei.
A Borama, come era capitato a Wajir, la gente pregava per la sua «salvezza», cioè, perché diventasse musulmana. Gliene parlavano spesso, con discrezione. Ma, dopo che un imam aveva predicato che in tutta la sua vita non aveva mai visto fare quello che faceva quella «infedele» e che anch’essa sarebbe andata in paradiso, la lasciarono in pace.
Integrata profondamente nella vita della gente, Annalena poteva dire: «Ai somali molto ho dato. Dai somali molto ho ricevuto». Tre doni soprattutto: il valore della famiglia allargata, in cui tutto è condiviso, almeno all’interno del clan; l’esempio di preghiera, cinque volte al giorno, con l’interruzione di qualsiasi cosa per dare tempo e spazio a Dio; l’esempio di fede rocciosa, specie dei nomadi del deserto, l’abbandono incondizionato e la resa a Dio.
E continua: «Poi la vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile… che l’eucaristia racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo, fatto pane, perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini”».

L’ULTIMA BEATITUDINE
Ma agli occhi dei musulmani più fanatici Annalena aveva tre vizi capitali: era bianca, per cui considerata di razza inferiore a quella somala; era donna, per ciò di nessun peso in una società maschilista; era cristiana, quindi temuta, disprezzata, rifiutata; non era sposata, un assurdo in un mondo in cui il celibato non esiste ed è un non valore.
Inoltre, tubercolosi, Aids, disabilità, epilessia, malattie mentali… per gli integralisti sono sinonimi di castigo di Dio: Annalena aveva fatto di Borama un paese maledetto, screditato in varie parti del mondo dove era giunta la fama della sua opera.
Negli ultimi due anni, poi, Annalena aveva lottato contro certe aberrazioni culturali: con due infermiere ostetriche e due capi locali, portava avanti una grossa campagna per eradicare l’infibulazione e altre mutilazioni femminili. A qualcuno non andava a genio che una donna, bianca, infedele, cercasse di cambiare la loro cultura.
Un imam predicò che quella «infedele» se ne doveva andare: un gruppo di persone presero a sassate il centro ospedaliero, che dovette essere chiuso per tre mesi. Seguirono altre intimidazioni, finché la sera di domenica 5 ottobre 2003, appena rincasata dal solito giro in ospedale, Annalena fu assassinata con due colpi di pistola alla testa.
Si è parlato di un pazzo, di banditi, di vendetta, di fondamentalisti… Serve a poco scoprire il colpevole. Rimane la verità e la logica di tutta la sua esistenza: Annalena ha predicato il vangelo con la vita, vivendolo fino all’ultima beatitudine: «Vi perseguiteranno per causa mia; mentendo, diranno ogni male contro di voi; vi metteranno a morte, credendo di dare gloria a Dio».

Benedetto Bellesi