Terzo settore e media, un rapporto in costruzione


La relazione fra mezzi di comunicazione e non profit è stata un argomento della presentazione del rapporto dell’«OsservatorioTerzjus», avvenuta lo scorso 21 settembre a Roma. Ne è emersa l’immagine di un notevole potenziale che, per il momento, appare sfruttato solo in parte.

Il Terzo settore fa audience o no? È questa la domanda che Sara Vinciguerra, responsabile comunicazione dell’Osservatorio giuridico del Terzo settore «Terzjus», ha rivolto ai partecipanti della tavola rotonda di cui era moderatrice, durante l’evento di presentazione del secondo rapporto sul tema che l’Osservatorio ha organizzato a Roma lo scorso 21 settembre@.

Indifferenza?

Stefano Arduini, direttore di Vita, mensile dedicato al mondo no profit, ha risposto sì con convinzione@: facciamo questo da trent’anni, ha spiegato, e ora Vita è anche un’impresa sociale che non starebbe sul mercato se non avesse pubblico. Tuttavia, ha detto Arduini, l’audience da sola non basta, almeno non per provocare effetti concreti nella realtà. La pandemia ha generato picchi inediti di attenzione per il Terzo settore e per il suo operato nell’assistere le persone più in difficoltà a causa delle restrizioni; ora quell’attenzione è diminuita, ma è tutto sommato rimasta alta, eppure i media generalisti non sembrano aver raccolto questo spunto per tradurlo in una maggiore e più stabile copertura delle notizie nell’ambito sociale.

Il Terzo settore, ha commentato Arduini, «ha il vento in poppa, ma naviga contro corrente»: vale il 5% del Pil, ha 900mila occupati diretti e altri 400mila indiretti, eppure sia la politica che l’opinione pubblica sembrano rimanere nel complesso indifferenti rispetto a eventi e pratiche che rischiano di danneggiare le organizzazioni attive nel sociale.

Fra questi eventi e pratiche, Arduino ne cita tre:

  • la tentata riforma del servizio civile proposta lo scorso marzo dalla allora ministra per le politiche giovanili del governo Draghi, Fabiana Dadone, in un disegno di legge poi accantonato, ma inizialmente elaborato senza coinvolgere i diretti interessati, cioè gli enti e i giovani@;
  • il persistere dei bandi al massimo ribasso per la fornitura di servizi socia-assistenziali@ ai quali il mondo della cooperazione sociale si oppone con decisione;
  • il rientro di alcuni enti del Terzo settore (Ets) nel campo di applicazione dell’Iva in seguito alla procedura di infrazione n. 2008/2010, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per garantire il rispetto delle normative sulla concorrenza e che prevede per gli Ets non più l’esclusione dall’imposta sul valore aggiunto ma solo l’esenzione@.

Effetti concreti e produzione di senso

In parziale dissenso da Arduini si è espressa Maria Carla De Cesari, caporedattrice del Sole 24ore per la sezione «Norme e tributi»@. Proprio sulla questione Iva, ha detto De Cesari, i media sono stati capaci di rappresentare le esigenze e le posizioni del Terzo settore e, anche grazie a questa visibilità, «nel giro di poco tempo il legislatore ha preso una pausa», cioè ha inserito nella legge di bilancio 2021 un emendamento che rinvia al 2024 l’entrata in vigore della norma che riporta gli Ets nell’alveo Iva.

Il Sole24 Ore, ha concluso De Cesari, ha creduto nel racconto delle norme perché è il racconto di un mondo che cambia, ma anche nel valore economico di questo racconti. Il Terzo settore «movimenta professionisti che nel cambiamento devono accompagnare gli enti: creare conoscenza e competenza fa parte della mission del Sole, e di Norme e Tributi in particolare».

Di opinione molto diversa è invece Marco Girardo, responsabile dell’inserto di Avvenire «Economia Civile»@, che alla domanda della moderatrice ha risposto con un secco no: «Il Terzo settore non fa audience nell’attuale panorama dell’informazione, perché il “software” di questo panorama è la polarizzazione, che da un lato cerca di assecondare i consumatori per renderli sempre più soddisfatti e dall’altro sobilla cittadini sempre più arrabbiati».

Il Terzo settore sta in mezzo fra questi due poli e i suoi punti di forza sono l’autenticità e la capacità di creare relazioni. Su cento lettori generici di Avvenire, riferisce Girardo, quelli attivi – cioè i lettori che cercano un’interazione, fanno domande e creano una comunità di lettura – sono fra i venti e i trenta. Per il Terzo settore questo numero sale a sessantacinque o settanta su cento, segnando una richiesta di interazione molto più alta, da soddisfare poi attraverso i media più adatti: nel caso di Avvenire, la radio InBlu e i social network.

Nella sua rappresentazione da parte di un media, il Terzo settore in questo momento chiede «un orizzonte di approfondimento culturale forte»: un tempo di cambiamento e di difficoltà come quello attuale genera una forte domanda di senso e, conclude Girardo, «dove c’è una produzione forte di contenuti di senso c’è una riposta» in termini di audience.

Il rapporto con il servizio pubblico

Roberto Natale è intervenuto alla tavola rotonda@ a nome della neonata direzione Rai per la sostenibilità – Esg (= Environment, Social, Governance, ndr), che ha raccolto l’eredità di Rai per il sociale. Il Terzo settore, ha spiegato Natale, fa coesione sociale e questo già sarebbe sufficiente per giustificare l’attenzione da parte del servizio pubblico. A seconda di come viene trattato, poi, può anche fare audience, ma il racconto del Terzo settore è, a prescindere, un tratto costituivo dell’impegno di Rai per la sostenibilità. Quello che manca, constata Natale, è piuttosto il riconoscimento del ruolo politico del soggetto sociale.

Un esempio di questa mancanza è stato la copertura Rai delle consultazioni per la formazione del governo di Mario Draghi nel febbraio 2021, quando per la prima volta un presidente incaricato ha incontrato non solo le forze politiche ma anche i soggetti sociali. La Rai, ricorda Natale, ha seguito con varie dirette le consultazioni con i partiti, ma non quelle con sindacati, rappresentanze ambientaliste e forze sociali. Quella decisione su chi includere e chi escludere dalle dirette è stata indicativa di una sensibilità e la Rai ha bisogno che il Terzo settore la «aiuti a maturare questa sensibilità».

A questo proposito, il Forum del Terzo settore e il ministero del Lavoro, d’intesa con la direzione Rai, stanno cercando di costituire un tavolo di confronto proprio su servizio pubblico e Terzo settore. «Nell’attuale contratto di servizio – il testo che regola gli impegni Rai nei confronti dello Stato e in base al quale la Rai percepisce il canone – è rimasto solo il tema della disabilità e dell’accessibilità, un tema certamente importante ma che non può esaurire il significato del termine “sociale”».

Andare oltre l’immagine di «buoni»

Elisabetta Soglio, responsabile dell’inserto Buone Notizie in edicola il martedì con il Corriere della Sera, è più in linea con Stefano Arduini: se il Terzo settore non facesse audience, se al martedì non avessimo un aumento di copie vendute, ha detto la giornalista, Corriere Buone Notizie non esisterebbe. Si tratta anche di un’audience significativa, come ha dimostrato la presentazione, lo scorso 12 settembre, del libro di Claudia Fiaschi a conclusione del suo mandato come portavoce del Forum Terzo Settore@: nello stesso giorno del dibattito su Corriere TV fra la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il segretario del Pd Enrico Letta, nei giorni della grande attenzione verso il Regno Unito per la morte di Elisabetta II, a seguire lo streaming sul libro di Fiaschi sono state 398mila persone. «Questo vuol dire che se proponi bene il prodotto, se lo spieghi e lo motivi, le persone ti seguono».

Corriere Buone Notizie, ha ricordato Soglio, è nato nel 2017 anche per andare oltre l’idea che il Terzo settore è quello dei «buoni a cui tirare la giacchetta quando c’è bisogno. Non parliamo solo di buone pratiche, ma proponiamo anche temi: questi temi arrivano poi anche sul quotidiano e prima non c’erano».

Cosa fa notizia e come comunicare

Sara Vinciguerra ha poi chiesto ai partecipanti quali aspetti del rapporto Terzjus si prestano a diventare notizie da pubblicare sulle varie testate.

De Cesari e Arduino hanno citato la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020, che rappresenta una rivoluzione nel rapporto fra Ets e amministrazioni pubbliche. In quella sentenza, infatti, la Corte dà piena applicazione al principio di sussidiarietà contenuto nell’articolo 118 della Costituzione, affermando che gli enti riconosciuti come Ets hanno titolo a coprogrammare e coprogettare insieme alle amministrazioni pubbliche, cioè a partecipare alla definizione e realizzazione delle politiche pubbliche e non solo a fornire servizi in cambio di un corrispettivo, come era previsto dal Codice degli appalti@.

Girardo di Avvenire ha invece sottolineato che una notizia rilevante è emersa proprio durante la presentazione del rapporto, quando il presidente di Terzjus, Luigi Bobba, ha letto il messaggio del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, che annunciava l’avvio «dell’interlocuzione con la Commissione europea finalizzata all’invio della notifica delle norme fiscali soggette ad autorizzazione» da parte dell’Ue, autorizzazione necessaria per completare la disciplina fiscale introdotta dalla riforma@.

Roberto Natale della Rai ha individuato come elemento più interessante il valore economico del Terzo settore e il suo ruolo di pilastro dell’economia italiana. Ha poi sottolineato il bisogno di formazione dei giornalisti su temi del sociale: «Vi sento parlare con grande sicurezza, che ammiro, della coppia concettuale coprogrammazione e coprogettazione», ha scherzato: «Ma fermate due giornalisti, uno sono io, e chiedete loro che vi spieghino la differenza». Natale ha fatto presente che da alcuni anni i giornalisti hanno l’obbligo di seguire dei corsi che permettano loro di ottenere crediti formativi: anche per questo, ha sostenuto Natale, se il Terzo settore propone occasioni di formazione i giornalisti le coglieranno.

Elisabetta Soglio di Corriere Buone Notizie ha invece indicato l’impresa sociale come tema «più notiziabile», ma ha anche ricordato il commento, nella tavola rotonda precedente, di Chiara Tommasini della rete CsvNet, che unisce i centri di servizio per il volontariato in Italia. Tommasini ha insistito sull’importanza di dare attenzione agli enti più piccoli e alle difficoltà che si trovano ad affrontare a causa della riforma e anche alla necessità di chiedersi che cosa significhi davvero «piccolo», dal momento che ci sono organizzazioni di dimensioni molto ridotte che hanno però un ruolo fondamentale nel loro territorio.

Comunicare meglio

In chiusura, la moderatrice ha riferito che molti enti si chiedono come fare per comunicare meglio e ha girato la domanda ai partecipanti al dibattito. Fra le risposte, quella di Natale ha sottolineato l’importanza di una comunicazione unitaria da parte degli Ets e ha aggiunto che in questi mesi si definisce il nuovo contratto di servizio Rai, perciò è opportuno che gli «enti si facciano sentire in modo da poter contare negli assetti del servizio pubblico».

Arduini di Vita ha invece ricordato che le oltre 360mila organizzazione del Terzo settore possono aprire profili social a costo zero e ha esortato tutti a immaginare che potenza comunicativa emergerebbe se anche solo un decimo di queste organizzazioni agisse in modo coordinato su un tema al mese.

Chiara Giovetti

 




Terzo a chi?

La riforma di un settore cruciale


Il terzo settore è entrato oggi in una nuova fase, quella dell’attuazione della riforma, per la quale si sta costruendo il «Registro unico nazionale», che permetterà, fra l’altro, ai cittadini di accedere alle informazioni sugli enti. Molti strumenti introdotti dalla riforma – come il bilancio sociale – fanno già parte del quotidiano delle organizzazioni coinvolte. Cerchiamo di orientarci fra gli acronimi e di capire che cosa manca ancora.

Lo scorso 21 febbraio si è conclusa la cosiddetta «fase 1» della creazione del «Registro unico nazionale del Terzo settore», o Runts, la piattaforma digitale che raccoglierà le sette categorie che ne fanno parte (vedi box a pag. 65).

La fase 1 è consistita, in sostanza, nella trasmigrazione dei dati delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale dai Registri regionali e delle province autonome al registro unico; dal 22 febbraio ed entro il 20 agosto di quest’anno, poi, gli uffici del Runts verificheranno i dati ricevuti e richiederanno, se necessario, le integrazioni agli interessati@.

Quanto alle Onlus, per l’iscrizione al registro, devono presentare domanda, ma, spiega il portale di divulgazione sulla normativa «Cantiere terzo settore», a oggi manca il provvedimento con cui l’Agenzia delle entrate comunica al registro i dati degli enti iscritti all’Anagrafe unica delle Onlus. Finché non ci sarà questo provvedimento, le Onlus non potranno fare domanda@.

«Tra alcuni mesi», si legge tuttavia sul sito del ministero del Lavoro a cui fa capo il Registro, «tutti i cittadini potranno consultare gli statuti, i bilanci, le informazioni previste dalla legge relativamente agli enti iscritti, che dovranno assicurarne periodicamente l’aggiornamento attraverso il sistema»@.

Dalla riforma ci si aspetta maggiore uniformità e trasparenza per un settore che, stando ai dati del censimento permanente Istat delle istituzioni no profit, conta quasi 363mila organizzazioni e poco meno di 862mila dipendenti@.

Quanto è grande il terzo settore

Quanti sono 862mila dipendenti e 363mila organizzazioni? Ovvero, quanto è davvero grande il settore? Per farsi un’idea – molto grezza – dei volumi, si può fare un confronto con i dati Istat sulle imprese italiane e i loro dipendenti suddivise per comparto economico, tenendo però in mente che, all’interno di ciascun comparto, sono incluse anche le cooperative sociali e le imprese sociali, che sono a loro volta enti del terzo settore e che quindi ci sono «pezzi» di terzo settore dentro a molte di queste categorie. Guardando solo alla dimensione complessiva dei comparti economici, si può dire che il numero di Ets è vicino a quello delle imprese attive nel settore manifatturiero, che con 372mila aziende occupa la quarta posizione dopo commercio, attività professionali, scientifiche e tecniche, e le costruzioni@.

Quanti e dove

Quanto ai volumi del lavoro, i dipendenti del Terzo settore sono un numero non lontano da quello dei dipendenti del settore delle costruzioni; considerando, inoltre, che il totale dei lavoratori dipendenti in Italia nel quarto trimestre del 2021 era di circa 17,9 milioni, cinque ogni cento lavorano nel Terzo settore@.

La scheda sui numeri proposta dal portale Cantiere terzo settore a partire dai dati Istat, riporta che l’85%, cioè 308mila, degli Ets sono associazioni e danno lavoro a un dipendente su venti nel settore. Inversa è la proporzione per le cooperative sociali, che sono solo 15mila (poco più di quattro su cento) ma impiegano oltre la metà dei lavoratori del Terzo settore, 456mila su 862mila, una media di 31 dipendenti a cooperativa. «Si contano poi quasi 8mila fondazioni con oltre 102mila addetti retribuiti», conclude il sito Cantiere terzo settore, e «le quasi 40mila altre forme giuridiche che danno lavoro a oltre 138mila persone».

Circa la metà delle Ets ha sede nel Nord Italia e impiega il 58% dei dipendenti del Terzo settore; il Nord Ovest, in particolare, ha 183 lavoratori del settore ogni diecimila abitanti, seguito dal Nordest con 178. Prendendo le singole regioni, è la provincia autonoma di Trento ad avere il rapporto più alto con 253 dipendenti di Ets ogni 10mila abitanti, mentre il Lazio, con i suoi 191, supera il Piemonte, il Veneto, l’Emilia Romagna e si colloca poco sotto la Lombardia@.

Ragioni e ambiti

Il motivo per cui il terzo settore si chiama così è definito dal Cantiere in modo molto chiaro: è un «sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi per l’interesse delle comunità». Ha elementi del primo settore, lo stato, così come del secondo, il mercato: «Come il mercato, è composto da enti privati, come le istituzioni pubbliche, svolge attività di interesse generale. Questi aspetti si rimescolano, dando vita ad un nuovo originale soggetto».

Agire senza scopo di lucro, chiarisce ancora il portale, non significa non avere profitti: significa essere obbligati a reinvestirli per finanziare le proprie attività invece di redistribuire gli utili fra i membri o i dipendenti. Per questo, la definizione no profit, spesso usata come sinonimo di terzo settore, in realtà non esaurisce gli Ets e, anzi, riguarda solo una parte delle organizzazioni del settore.

Guardando agli ambiti di attività in cui queste ultime operano, sono le attività sportive le più rappresentate (120mila enti), seguite da quelle culturali e artistiche (61mila), da quelle ricreative e di socializzazione (49mila). Al quarto posto l’assistenza sociale e la protezione civile (34mila), che però è l’ambito che impiega più persone, 324mila, mentre la Sanità è il secondo ambito per numero di dipendenti. La cooperazione e solidarietà internazionale conta 4.550 enti che occupano 3.900 persone.

Fra il 2011 e il 2019, gli enti sono passati da 301mila agli attuali 362mila, con un aumento intorno al 20%, mentre i dipendenti dieci anni fa erano 680mila e sono dunque aumentati del 27%.

Punti chiave

La riforma ha iniziato a prendere corpo nel 2014, ma l’approvazione della legge delega n. 196 è arrivata due anni dopo, il 6 giugno 2016 e, a partire dal 2017, hanno iniziato a essere approvati i decreti attuativi. L’intento dell’intervento legislativo è stato quello di procedere a un riordino della normativa come risposta alla richiesta «di regole precise e del superamento della frammentazione legislativa che ha caratterizzato per decenni le tante organizzazioni impegnate nel sociale».

Prima della riforma, infatti, organizzazioni diverse erano iscritte a registri territoriali diversi e facevano riferimento a norme specifiche: la legge quadro 266/1991 regolava il volontariato, la legge 383/2007 disciplinava le associazioni di promozione sociale, le Onlus erano soggette al decreto legislativo 460/1997 mentre per le imprese sociali la norma di riferimento era il decreto legislativo 155/2006. La riforma abroga del tutto o in parte queste norme, raggruppa in un solo testo – il Codice del terzo settore – gli enti interessati, e rende l’iscrizione al Registro unico obbligatoria per essere riconosciuti come Ets.

Apre, inoltre, a tutti gli enti iscritti al registro la possibilità di partecipare all’assegnazione del 5 per mille, introduce diversi obblighi «su democrazia interna, trasparenza, rapporti di lavoro, assicurazione dei volontari, destinazione di eventuali utili» e definisce le attività di interesse generale – determinanti per il riconoscimento come Ets – attraverso un elenco che comprende 26 aree@.

Punti critici

Ad oggi, a fronte di indubbi vantaggi di semplificazione, restano ancora diversi aspetti critici. Ne citiamo solo alcuni a esempio. Il primo riguarda gli aspetti fiscali: come scriveva lo scorso 19 febbraio su Vita.it il commercialista e consulente Marco D’Isanto, il Titolo X del Codice del terzo settore che comprende molte delle disposizioni fiscali «è sospeso perché la sua applicazione decorre dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta che il governo non ha ancora formulato»@.

L’entrata in vigore del Titolo X, fra l’altro, comporterà l’abrogazione definitiva della legge sulle Onlus e l’applicazione, appunto, delle norme fiscali contenute nel Codice. Per ora, tuttavia, se una Onlus decidesse di cancellarsi dall’anagrafe unica delle Onlus e iscriversi al Runts, a Titolo X ancora sospeso, perderebbe le agevolazioni fiscali previste dal decreto legislativo 460/1997 senza poter ancora beneficiare di quelle introdotte dal Codice@.

Altra questione è quella della frammentazione legislativa, che non è del tutto superata: le imprese sociali, le cooperative sociali e le società di mutuo soccorso, «seguono leggi proprie, diverse fra loro e dal codice». La cooperazione allo sviluppo, inoltre, ha una legislazione parallela a quella del Codice imperniata sulla legge 125/2014 e un’autorità di vigilanza specifica, l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics)@.

Infine, a preoccupare sono anche le difficoltà legate agli aspetti burocratici: in un dibattito in streaming sul canale YouTube di Terzjus, portale specializzato negli aspetti giuridici del Terzo settore@, la responsabile del servizio per le politiche per l’integrazione e il terzo settore della regione Emilia Romagna, Monica Raciti, riportava che, durante la presentazione di un rapporto sull’impatto della pandemia sul terzo settore, alla domanda su quale fosse l’elemento che destava in loro più preoccupazione rispetto al futuro, le associazioni emiliano-romagnole, presenti all’evento, non hanno indicato le difficoltà economiche o la diminuzione dei volontari, ma proprio «la riforma del terzo settore e tutto quello che porta con sé». Ciò che mette in difficoltà le organizzazioni, specialmente quelle piccole e piccolissime, è soprattutto la mole di lavoro necessaria a far fronte agli adempimenti amministrativi e la complessità di alcune procedure.

Effetti su Mco

Mco è una Fondazione, una Onlus e un’organizzazione della società civile (Osc) presente nell’elenco dell’Aics delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Alla data di chiusura di questo articolo, dunque, la sua situazione è la stessa delle altre Onlus in attesa di poter fare domanda per l’iscrizione al Runts, che dipende dalla comunicazione fra Agenzia delle entrate e Runts e dallo «sblocco» del Titolo X del Codice che subentrerà al decreto legislativo 460/1997 nel regolare gli aspetti fiscali.

A livello operativo, per la nostra organizzazione, la principale novità introdotta dalla riforma è stata per ora quella della elaborazione e pubblicazione del Bilancio sociale, seguita da una riorganizzazione del sito che permette di accedere con più agilità ai documenti come, appunto, i bilanci, i rendiconti del 5 per mille e l’elenco dei fondi pubblici ricevuti.

Chiara Giovetti


Quali enti sono Ets, quali no

L’articolo 4 del Codice del terzo settore stabilisce che sono Enti del terzo settore [Ets]:

  • ❶ le organizzazioni di volontariato (Odv);
  • ❷ le associazioni di promozione sociale (Aps);
  • ❸ gli enti filantropici;
  • ❹ le imprese sociali, incluse le cooperative sociali;
  • ❺ le reti associative;
  • ❻ le società di mutuo soccorso (Soms);
  • ❼ le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato, diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice, in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi. Tutti questi si trovano a volte indicati per brevità come «altri enti».

Per essere Ets, questi sette tipi di ente devono anche essere iscritti al Registro unico nazionale del Terzo settore [Runts].

Gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono essere considerati Ets limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice.

Non sono Ets le amministrazioni pubbliche, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dagli enti appena elencati (con alcune eccezioni).

Rielaborazione delle definizioni presenti sul sito del ministero del Lavoro
 e delle Politiche sociali@  a cura di Mco


Farsi un’idea sulla riforma in pochi minuti

Il portale Cantiere Terzo settore mette a disposizione diverse schede sul settore, sulla riforma e i suoi aspetti chiave e aggiorna man mano le proprie pagine dando conto delle scadenze e dei progressi. Segnaliamo in particolare:

 

 




Cooperazione:

speranze e contraddizioni


Da un’analisi della situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia a un anno e mezzo dalla nascita dell’Aics (l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), al punto sulla riforma del Terzo settore. Da uno sguardo sull’Europa e sulle sue strategie per lo sviluppo a uno sull’effetto Trump nell’aiuto allo sviluppo statunitense.

«La battaglia è stata vinta». Così la direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, Laura Frigenti, scriveva alla fine del 2016 nella relazione annuale, dodici mesi dopo la creazione dell’ente che dirige. L’Agenzia è una delle principali novità introdotte dalla legge 125/14, nota come «riforma della cooperazione allo sviluppo». Obiettivo di questo ente è quello di gestire in maniera più snella, efficace e trasparente interventi e fondi della cooperazione sul modello di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Regno Unito che un’agenzia dedicata alla cooperazione l’hanno già da tempo.

La battaglia cui la direttrice Frigenti si riferisce è quella per il raggiungimento degli obiettivi che l’Agenzia si era data per il suo primo anno di vita. Fra questi: raccogliere l’eredità della struttura che l’aveva preceduta – la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, o Dgcs, del ministero degli Esteri – a cominciare dagli oltre mille progetti in corso, riscrivere le procedure, gestire il passaggio fra due sistemi di contabilità differenti, attivare le sedi estere, erogare almeno la metà dei fondi messi a disposizione della cooperazione che ammontavano a poco meno di mezzo miliardo di euro.

In effetti, molti obiettivi sono stati raggiunti e in alcuni casi superati – sempre secondo la relazione annuale, i fondi erogati, ad esempio, sono stati più della metà, e cioè oltre il 60 per cento – ma su altri resta molto da fare.

Segnali contraddittori

La sensazione complessiva è che, pur rappresentando l’Agenzia – così come tutta la riforma della cooperazione – un passo in avanti significativo ed epocale, il sistema Italia digerisca solo molto lentamente il nuovo e maggiore peso che, sulla carta, si è deciso di dedicare alla cooperazione allo sviluppo. Gli esempi di queste opposte spinte sarebbero numerosi ma alcuni, forse, rendono l’idea più concretamente di altri.

Il primo riguarda il personale dell’Agenzia, che ha un’importanza fondamentale per raggiungere la piena operatività. E questo personale a marzo 2017 non era ancora al completo. Dei duecento funzionari previsti per le sedi in Italia (Roma e Firenze), sessanta non erano ancora stati reclutati. Solo a novembre 2016 un emendamento alla legge di bilancio ha aumentato il Fondo per il pubblico impiego in modo da permettere all’Agenzia di bandire il concorso per l’assunzione dei sessanta tecnici. Di questi, spiegava il responsabile delle relazioni istituzionali, internazionali e della comunicazione dell’Agenzia Emilio Ciarlo su Vita.it la scorsa estate, «20 dovrebbero provenire dall’amministrazione pubblica e i 40 restanti dal di fuori, con una formazione universitaria nel settore della cooperazione allo sviluppo e con quattro o cinque anni di esperienza professionale in un’Ong o un organismo internazionale». Un’iniezione di giovani competenti e motivati, insomma, che dovrebbe dare una spinta decisiva all’Agenzia.

Ma, un anno dopo la sua nascita – il 4 gennaio 2016 – l’Agenzia mancava pure di buona parte dei suoi dirigenti. Lo ha ricordato su Onuitalia.com il consigliere politico della rete di Ong Link 2007, Nino Sergi: oltre ai sessanta funzionari di cui sopra, mancavano all’appello ancora buona parte dei livelli dirigenziali. I dirigenti, infatti, dovrebbero essere diciotto mentre a febbraio 2017 erano solo otto. «Si tratta, in fondo, di poche persone», sottolinea Sergi, «ma indispensabili al funzionamento dell’Agenzia che, così limitata, continua a vivere in un comatoso limbo che solo le buone volontà stanno tenendo in vita».

Il secondo elemento è lo «scomparso» illustre dell’organigramma della cooperazione, come sottolinea ancora Sergi: il Cics (Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo), organo di cui fanno parte il presidente del Consiglio e la stragrande maggioranza dei ministri. Si è riunito una volta sola, nel 2015 e, secondo un tweet di Mario Giro, viceministro degli esteri, anche una seconda volta il 23 marzo 2017: «Approvato il doc. triennale: +attori +azione comune». Due volte in venti mesi non sono molte per un organo cui la legge 125/2014 attribuisce un compito fondamentale, quello di coordinare tutte le attività di cooperazione allo sviluppo e assicurare che le politiche nazionali siano coerenti con i suoi fini.

Perché il Cics è importante? Per dirla in maniera estremamente semplificata: perché, se funzionasse come dovrebbe, impedirebbe alle politiche pubbliche di disfare quello che la cooperazione fa.

La cooperazione italiana viene da lunghi anni di subalternità e di risorse limitate; un coordinamento costante con gli altri centri decisionali del governo e un organico dell’Agenzia completo nei livelli dirigenziali, giovane e preparato nei comparti tecnici, sono elementi indispensabili perché gli interventi siano efficaci. Per questo ogni rallentamento su questi aspetti rischia di svuotare nei fatti la legge e il tipo di cooperazione che essa intende realizzare.

Il colpo di mano dell’8×1000

Sempre in tema di segnali contrastanti, è del marzo scorso la notizia dell’approvazione del cosiddetto emendamento Realacci in Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. L’emendamento stabilisce che per i prossimi dieci anni la quota di otto per mille che i contribuenti assegneranno allo Stato andrà tutta per il recupero dei beni culturali danneggiati dal terremoto in centro Italia.

«Finisce con questo colpo di mano», commenta un post sul blog info-cooperazione, «la possibilità di impiegare una parte del fondo 8×1000 alla “fame nel mondo”, una quota che a singhiozzo negli anni aveva co-finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo delle Ong italiane soprattutto in Africa. L’ultima approvazione di progetti risale al 2014, anno in cui con circa 6 milioni di euro furono cofinanziati 40 progetti. Non è chiaro se il decreto appena approvato andrà a intaccare anche la quota dell’otto per mille assegnata all’Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo. A decorrere dall’anno 2015 infatti, una quota pari al 20% del fondo 8×1000 a gestione statale è stata destinata a finanziare le attività dell’Aics».

La riforma del Terzo Settore

Un anno fa la riforma del Terzo Settore (o settore di chi si impegna nel sociale senza scopi di lucro – no profit) è diventata legge, la 106/2016, e il primo dei provvedimenti attuativi è stato approvato a febbraio scorso: si tratta del decreto legislativo che istituisce il servizio civile universale, ora aperto a cittadini italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Nelle parole del direttore di Vita.it, Riccardo Bonacina, nel giugno 2016, la riforma poteva essere più coraggiosa nell’innovare, ma è «la miglior legge possibile» date le circostanze e permette quantomeno di realizzare tre sogni: in primis quello di un «pavimento civilistico» che oltre a definire che cosa sia il Terzo Settore «rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali, provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza».

La riforma comunque ha ricevuto anche diverse critiche. A cominciare da quelle mosse alla Fondazione Italia Sociale, organismo che la legge 106 istituisce «con lo scopo di sostenere […] la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati».

Presidente della Fondazione è Vincenzo Manes, imprenditore, finanziere, filantropo e consigliere dell’ex premier Matteo Renzi. Manes stesso l’aveva definita «Iri del sociale», rievocando la spinta modernizzatrice che l’Istituto per la ricostruzione industriale ebbe negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento; ma c’è chi vede la Fondazione come un ente di cui si poteva fare a meno e chi lo liquida come un favore a un amico dell’ex primo ministro.

Ma Italia Sociale non è il solo aspetto a suscitare perplessità. Il Comitato piemontese Volontariato 4.0 in un documento del febbraio scorso attribuiva alla legge 106 lo stravolgimento dei Centri di Servizio per il Volontariato che, avendo a disposizione le stesse risorse del passato, dovranno ora assistere molti più fruitori, cioè «tutti i soggetti del no profit, associazioni di promozione sociale, cooperative, holding della solidarietà». Il Comitato punta il dito anche contro lo sdoganamento di un «volontariato liquido e ibrido, senza identità, senza appartenenza, senza forza rappresentativa, temporaneo ed occasionale» che arriva a «istituzionalizzare lo status di volontario singolo», non legato cioè a una realtà associativa.

Gli altri decreti attuativi, dopo quello sul servizio civile, dovrebbero essere inviati alle Camere entro il 15 di questo mese, almeno stando a quanto dichiarato a marzo da Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro. Seguiranno poi i commenti delle commissioni parlamentari e la possibilità di fare decreti correttivi entro un anno.

L’Europa fra cooperazione e migrazioni

Di altro tipo di volontariato parla invece Silvia Costa, eurodeputata del Pd, presidente della Commissione cultura e istruzione al Parlamento europeo e firmataria di una risoluzione sul Servizio volontario europeo (Sve), il programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione europea e rivolto a giovani fra i 17 e i 30 anni. A questi ragazzi lo Sve offre l’occasione di prestare servizio in progetti in ambito umanitario, educativo, sociosanitario, culturale, sportivo per un periodo che va dalle tre settimane ai dodici mesi. In vent’anni ha visto la partecipazione di centomila giovani: dei cinquemila ragazzi che partono ogni anno, uno su cinque è italiano.

«Chiediamo alla Commissione europea», ha detto Costa dopo l’approvazione della risoluzione, «di definire finalmente un quadro giuridico europeo che definisca le attività e lo status di volontario per agevolare la mobilità europea e internazionale, nonché il riconoscimento delle competenze, sia nello Youth passaport che nell’Europass (strumenti per armonizzare la descrizione delle competenze dei cittadini all’interno dell’Unione, ndr)».

Quanto alle strategie per lo sviluppo, ne «Lo stato dell’Unione 2016» la commissione ha annunciato un nuovo il Piano europeo per gli investimenti esterni (Pie). «Lo strumento», si leggeva nel comunicato stampa del settembre scorso, «consentirà di stimolare gli investimenti in Africa e nei paesi del vicinato dell’Ue, in particolare per sostenere le infrastrutture economiche e sociali e le Pmi (Piccole e medie imprese, ndr), mediante la rimozione degli ostacoli agli investimenti privati». Il contributo previsto è di 3,35 miliardi di euro, che andranno a sostenere «le garanzie innovative e strumenti analoghi a copertura degli investimenti privati». Secondo la Commissione, questi 3,35 miliardi dovrebbero riuscire a mobilitare fino a 44 miliardi di euro d’investimenti e l’importo potrebbe raddoppiare se gli stati membri e gli altri partner contribuiranno con un finanziamento equivalente.

L’iniziativa è certamente in linea con la Comunicazione 263 del 2014, in cui la commissione ricordava che il settore privato fornisce il novanta per cento dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e che questo lo rende un partner essenziale nella lotta alla povertà. Altrimenti detto: se non si coinvolge il settore profit nello sviluppo non si va da nessuna parte.

Concord, la rete europea delle ong, ha tuttavia avanzato alcuni dubbi circa il Pie: «Il piano – si legge fra le raccomandazioni inviate alla Commissione – deve essere sganciato dalle politiche di controllo delle migrazioni e dagli obiettivi di breve termine della politica estera europea e non può dare per scontato che la crescita economica – in termini di punti di Pil – implichi automaticamente la creazione di posti di lavoro, e meno ancora di lavoro dignitoso e sostenibile».

L’effetto Trump sullo sviluppo

Con i loro 31 miliardi di dollari all’anno (nel 2016), gli Stati Uniti sono il secondo donatore al mondo dopo l’Unione europea per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo, il primo se si considerano gli Stati europei singolarmente. Ovvio che la proposta di budget dell’amministrazione guidata da Donald Trump fosse attesa con una certa apprensione nel mondo della cooperazione. E lo scorso 16 marzo le proposte presidenziali sono state rese pubbliche: Trump ha proposto per il Dipartimento di Stato e l’agenzia Usaid, gli enti governativi che gestiscono il grosso dell’aiuto, un budget di 25,6 miliardi di dollari, con un taglio pari al 28 per cento.

Altri tagli proposti sono al contributo alle Nazioni Unite – attualmente gli Usa ne sono il principale donatore, coprendo oltre un quinto dei 5,4 miliardi di dollari del budget Onu e quasi un terzo dei 7,9 miliardi per le operazioni di peacekeeping – e agli enti finanziari multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale.

Il presidente statunitense ha inoltre intenzione di staccare la spina a tutto ciò che riguarda la lotta al cambiamento climatico – eliminando la U.S. Global Climate Change Initiative e bloccando i pagamenti ai programmi delle Nazioni Unite in questo ambito – e di riorganizzare Dipartimento di Stato e Usaid, forse accorpando la seconda al primo, ipotizza qualcuno. Sopravvive invece la dotazione di risorse per il Fondo presidenziale di emergenza per la lotta all’Aids (Pepfar) e per il Fondo globale per la lotta a HIV/Aids, tubercolosi e malaria.

Rimane da vedere quante di queste proposte il Congresso effettivamente accoglierà; ma l’opinione pubblica mondiale ha già potuto farsi un’idea di come si traduce lo slogan «America first» in termini di fondi per lo sviluppo.

Chiara Giovetti