Sono passati dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq, attirando l’attenzione di tutto il mondo. Era il 10 giugno del 2014 quando il gruppo terroristico dichiarava l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica nei territori occupati.
I cristiani furono costretti a scegliere: lasciare la città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà.
Qualche giorno dopo le porte delle case dei cristiani vennero segnate con la lettera «n» in arabo, «marchiati» perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Fu la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone dalla Piana di Ninive in direzione del più sicuro Kurdistan, dove si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil.
Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con loro soltanto quanto avevano indosso.
A distanza di dieci anni, solo una minoranza di loro è tornata, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021 (vedi Luca Lorusso, Papa Francesco in Iraq. Sui fiumi di Babilonia, MC aprile 2021).
Sembra un secolo fa. Oggi il mondo è alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico tra Iraq e Siria, continua a esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, troppo spesso lontane dai riflettori, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.
Non solo: il recente attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, costato la vita a oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis.
I jihadisti hanno minacciato anche gli Europei di calcio che si giocano in questi giorni in Germania. Un arresto di un presunto fiancheggiatore dell’Isis è stato eseguito dalla polizia federale tedesca qualche settimana prima dell’inizio del campionato.
Le immagini delle tante stragi che si sono consumate negli anni scorsi anche nelle grandi città europee, potrebbero quindi non essere solo un ricordo del passato.
Cellule dormienti, dunque, ma non troppo. È recente la creazione di un notiziario nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dal Daesh governato dall’intelligenza artificiale. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta», ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group. «Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».
L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il «target» privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che sotto attacco sono state, e sono tuttora, anche le altre minoranze religiose come quella degli yazidi. Nei loro confronti è stato perpetrato un vero e proprio «genocidio», l’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Quasi tremila donne e ragazze sono state rapite, hanno subito stupri e altre forme di violenza sessuale e molte sono ancora disperse. I ragazzi sono stati separati dalle loro famiglie e reclutati con la forza nell’Isis. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto di Save the children due anni fa.
Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. Ogni volta si è presentato lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.
Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq. Ma è l’Africa la nuova centrale delle cellule terroristiche che, pur portando altri nomi, sono affiliate, o comunque si ispirano, al Daesh. Le sigle sono diverse ma i metodi sono gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate, dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla Papa Francesco.
Manuela Tulli
Pakistan. Sotto scacco dei militari
Venerdì 5 gennaio, alla periferia di Islamabad, in pieno giorno, una motocicletta con due uomini dal volto coperto si avvicina a un’auto. Uno degli uomini spara una raffica di proiettili contro la vettura. L’ attacco uccide il passeggero e ferisce gravemente l’autista.
L’uomo deceduto si chiamava Masoodur Rehman Usmani, leader e portavoce del movimento Sunni ulema council (Suc), organizzazione sunnita molto attiva nella politica pachistana. Leader carismatico per i religiosi del suo Paese, terrorista per gli Stati confinanti, Usmani era stato più volte accusato di fomentare l’odio verso l’India. Rivalità, quella tra Pakistan e India, che sembra ben lontana da una soluzione.
Dopo questo ennesimo attentato, e in vista delle elezioni dell’8 febbraio, la tensione in Pakistan cresce giorno dopo giorno. Continui sono gli arresti. Il 13 gennaio, a Peshawar sono stati fermati due sospetti terroristi, mentre pianificavano un attacco suicida contro una scuola sciita. L’opinione comune, largamente condivisa, è che le elezioni non si potranno tenere a febbraio, ma verranno posticipate a data da destinarsi.
Adam (nome di fantasia) è un imam della moscheadi una piccola comunità alle porte di Islamabad. Mi spiega il perché: «Se ci fossero davvero le elezioni, le strade sarebbero piene di manifesti elettorali e volantini. Ci sarebbero comizi e camion con bandiere ovunque. Non hai idea di quanto chiasso e fermento c’è nel Paese durante questi eventi. Non vedi nulla perché, anche se si dovesse votare, nessuno ha speranza che le cose possano cambiare. Chiunque andrà al potere, sarà sempre sotto il controllo militare, sono loro che comandano. Lo vedi quello che accade: omicidi, rapimenti, attacchi terroristici. Il Paese ha tante risorse, ma vengono tutte controllate dai militari. L’inflazione è altissima e la gente è arrivata al limite della sopportazione».
I principali candidati alle elezioni di febbraio saranno (o dovrebbero essere): Bilawal Bhutto Zardari, esponente del Partito popolare di centrosinistra (Ppp), e Nawaz Sharif, leader del Partito conservatore islamico (Pml-n). Nawas Sharif è stato già primo ministro, per tre volte. Si è ricandidato in Pakistan dopo quattro anni di autoesilio all’estero.
Nessun candidato, però, ha rimpiazzato nel cuore dei pachistani l’ex primo ministro Imran Khan. Il carismatico leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Movimento per la giustizia in Pakistan) dal 2023 si trova in carcere. Kahn è accusato di oltre 150 reati, tra cui quello di corruzione. Crimini da lui sempre negati.
A Lahore, incontriamo un giovane ricercatore universitario. Sostenitore di Kahn, mi racconta: «Non crediamo che possano esserci elezioni regolari. I militari, in diverse forme, sono ovunque: intelligence, polizia, esercito. Non può esserci una democrazia così. Ufficialmente possiamo anche avere un presidente, un primo ministro, un parlamento. Ma sono trent’anni che chi governa davvero il Paese è lo Stato maggiore militare. Controllando le forze armate e la sorveglianza, questi possono fare tutto quello che vogliono e nessuno ha il coraggio di andargli contro. Chi ci prova fa una brutta fine: guarda cosa è successo a Imran Kahn o a chi ha supportato la causa dell’indipendenza del Balocistan: la gente sparisce, senza lasciare traccia».
Il 2023, per il Pakistan, è stato l’anno record dei morti legati a terrorismo e conflitti interni. Un report del The Hindu, testata che monitora la geopolitica in Asia, riporta oltre 1.500 morti e 789 attacchi terroristici negli ultimi 12 mesi.
Nel frattempo, in questi giorni, un’enorme marcia è arrivata a Islamabad da Quetta. Migliaia di persone hanno camminato dal Balocistan, per protestare contro il governo per le violenze e le sparizioni, avvenute nella regione ai confini con l’Afghanistan. Oltre a quest’ultimo caso, lo Stato dovrà affrontare il problema di migliaia di profughi afghani che arrivano qui ogni giorno, il malcontento generale per l’economia in crisi e la presenza del terrorismo. Con questi presupposti, pochissimi credono nella possibilità di elezioni regolari e in sicurezza.
A Islamabad, sono lunghissime le file di persone fuori dalle ambasciate straniere. L’obiettivo di tantissimi, e unica soluzione per il loro futuro, sembra soltanto quella di cercare asilo in un altro Paese.
Angelo Calianno da Islamabad
Cisgiordania, vita e morte nei campi profughi
Tulkarem (Cisgiordania) – Sabato scorso, 25 novembre, nel campo profughi adiacente la città di Tulkarem, sono stati giustiziati due uomini palestinesi. L’accusa era quella di aver collaborato con l’Idf (Israeli defence force).
Il campo di Tulkarem è nato nella periferia dell’omonima città nel 1950. Esso è stato allestito dalle Nazioni Unite subito dopo la «Nakba» (la catastrofe, in arabo) del 1948, quando l’occupazione israeliana costrinse all’esodo circa 750mila arabi palestinesi.
Oggi qui vivono diecimila persone. Da sempre, ma soprattutto dall’arrivo delle colonie nel 1967, i campi profughi sono i più attaccati dalle forze israeliane. I movimenti di resistenza all’occupazione e le brigate armate nascono quasi sempre in questo contesto.
Quello di Tulkarem in particolare è stato uno dei più colpiti di tutta la Cisgiordania tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023. Un gruppo di giovani, a volte giovanissimi, si è armato formando una propria squadra di combattenti che, con il passare dei mesi, è diventato sempre più grande: la brigata Tulkarem.
A differenza di quello che accade in altri campi, per esempio a Jenin, dove i «fighters» sono braccia armate di partiti politici (come le brigate Aqsa per il partito di Al-Fatah), la brigata Tulkarem è indipendente e non segue alcuna ideologia. In questo caso, essa è nata esclusivamente a difesa della città e del campo e per questo non sposta mai il suo raggio d’azione.
Qui, soprattutto a partire da marzo 2023, la resistenza ha pian piano respinto le truppe israeliane che hanno smesso di entrare nel centro abitato, limitandosi ad attacchi con droni e artiglieria. Questo almeno fino a settembre, quando, i soldati dell’Idf sono tornati a fare irruzione con più regolarità. I raid, in città, così come in tutta la Cisgiordania, sono poi diventati operazioni quasi giornaliere dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre.
Almeno secondo le prime notizie trapelate, i due uomini giustiziati sono stati accusati di aver facilitato queste nuove ondate di raid, fornendo ai servizi segreti israeliani preziose informazioni logistiche. Sono stati ritenuti responsabili di tradimento e accusati di aver causato la morte di tredici palestinesi all’interno del campo.
I network locali si sono divisi sul metodo di esecuzione. I media israeliani hanno parlato di morte tramite impiccagione eseguita da Hamas. Secondo un’altra versione, i due uomini sarebbero stati uccisi e in seguito appesi alle porte della città come monito. Nella mattinata successiva sono arrivate notizie più precise: Hamas non è stato mai coinvolto in questa operazione. Al momento, non ci sono prove e video che mostrano i corpi esposti. L’unica cosa certa è che i due uomini accusati di tradimento sono stati fucilati e, in seguito, portati in giro per la città per mostrarne il volto. Le autorità palestinesi non si sono espresse sull’accaduto.
Con il passare del tempo, i gruppi armati stanno proliferando e reclutando sempre più giovani nelle proprie file. Per molti, vista la totale assenza delle autorità governative, questi gruppi sono l’unica forza di resistenza riconosciuta. Terroristi per Israele, liberatori per il popolo palestinese, i combattenti spesso ingaggiano battaglie anche contro la stessa Autorità nazionale palestinese (Anp), accusata di collaborare più con Israele invece che essere dalla parte del proprio popolo.
Angelo Calianno, da Ramallah
Israele-Palestina. «Dov’è l’uomo?»
Nella città vecchia di Gerusalemme, di norma, a dare la sveglia è, intorno alle 5 di mattina, la preghiera del muezzin; poco dopo suonano le campane delle chiese cristiane.
Sabato 7 ottobre, una data che purtroppo rimarrà nei libri di storia, a squarciare il silenzio dell’alba è stato il suono delle sirene. Nitido quanto inatteso.
Un suono sinistro che preannunciava i rumori della guerra. E la Terra Santa, che fino alla sera prima era animata dalla grande festa ebraica di Sukkot, dalle file dei pellegrini cristiani nei luoghi santi, dalla preghiera in tutte le moschee, si è trovata a fare i conti con i morti, le distruzioni, la paura, la solitudine.
Tutto cambiato improvvisamente, con un salto indietro di decenni, ma soprattutto soffocando i semi di speranza per questa terra che negli anni sono stati gettati da tante persone di buona volontà.
La guerra è in queste ore in pieno svolgimento.
Israele ha negli occhi un eccidio, quello dei terroristi di Hamas nei kibbutz al confine con Gaza e al pacifico rave che i giovani stavano tenendo nel deserto del Negev. Qualcosa che non si verificava, per la crudeltà e le proporzioni, «dai tempi della Shoah», come sottolineato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.
Dall’altra parte è cominciato un assedio su Gaza che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile, rimasta senza cibo, acqua, energia, medicine e costretta a un esodo al Sud della Striscia verso un confine che resta però sigillato.
«È una tragedia immane, non capisco il disegno di Dio per questa terra, la sua terra», è uno dei messaggi che arriva sul mio whatsapp da quella terra martoriata.
La stessa domanda corre in un incontro online con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che solo la settimana prima dell’attacco di Hamas era stato creato cardinale dal Papa in Vaticano. «La domanda non è “dov’è Dio”, ma “dov’è l’uomo”», risponde il francescano.
Uno degli effetti «collaterali» della guerra è la cappa di solitudine scesa su questo paese: l’allegria e la vita che normalmente si riversano per gran parte della giornata in strada, che è un po’ la cifra di questo angolo del pianeta, si sono trasformate in deserto. Le botteghe della città vecchia di Gerusalemme hanno tirato giù le serrande come ai tempi del covid. La guesthouse dei Melchiti, a pochi passi dalla Porta di Jaffa, gira la chiave nel portone, non sapendo quando riaprirà i battenti.
Così è anche a Betlemme, in Cisgiordania: «La gente è molto preoccupata, sanno che perderanno il lavoro e che sarà difficile andare avanti; qui si vive principalmente di turismo religioso», racconta Giulia, una giovane volontaria italiana di Pro Terra Sancta.
Da Betlemme arriva anche la preoccupazione di chi assiste i bambini orfani e malati nella struttura Hogar Niño Dios, gestita dai sacerdoti e dalle suore del Verbo Incarnato. «Il nostro contatto con loro – riferiscono dall’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) che da quindici anni aiuta i religiosi con i propri volontari – è giornaliero, e nelle loro parole si sente il dolore e la preoccupazione per la situazione che stanno vivendo. A noi il compito di pregare».
La preghiera dunque. Per questo, nonostante l’eco delle sirene e il rombo degli aerei, i luoghi santi continuano a rimanere aperti.
Come a Ein Karem, dove si trova la chiesa che ricorda la Visitazione di Maria a Elisabetta: «Il luogo dove tutti vengono a pregare per la pace», dice padre Rafael Sube, francescano messicano della Custodia di Terrasanta.
Il Magnificat qui è declinato in oltre quaranta lingue, scritto su grandi piastrelle di ceramica che decorano le mura del cortile. «Questo vuol dire che i popoli possono stare vicini, possono vivere insieme, non sono loro a volere le guerre. Qui preghiamo per la pace in tutto il mondo perché la guerra non c’è solo in Ucraina, dobbiamo guardare a tutti i paesi che soffrono».
Era il 6 ottobre quando padre Rafael pronunciava profeticamente queste parole. Forse pensava proprio alla Terra Santa in cui vive da 31 anni.
Dal giorno dopo, con i missili arrivati da Gaza anche nei cieli della città vecchia, la preghiera per la pace guarda, infatti, soprattutto a questo angolo del pianeta, Gerusalemme, Urusalim, che si traduce: «Città della pace».
Manuela Tulli
Siria: Terroristi passati e futuri
Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.
Raqqa (Rojava). Sono passati cinque anni da quando la resistenza curda cacciava i terroristi dell’Isis fuori dalle città principali del Rojava, nel Nord Est della Siria. I combattenti dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e dell’Ypj (Unità di protezione delle donne) riconquistavano le città di Raqqa, Kobane, Deir ez-Zor e Qamishle. Riprendevano possesso di territori diventati, nei quattro anni di occupazione dei militanti dello Stato islamico (Isis, o Daesh, acronimo arabo di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante»), teatro di esecuzioni di massa, torture e distruzione.
Sono passati cinque anni e, oggi, la domanda è: i terroristi dell’Isis sono stati davvero sconfitti o si stanno solo nascondendo in attesa di riorganizzarsi? Qui in Rojava, gli attentati sono diminuiti, ma non sono mai cessati del tutto. Un ulteriore intensificazione del terrorismo sta avvenendo proprio in questi mesi, complici una nuova serie di bombardamenti da parte della Turchia e le conseguenze del devastante terremoto di febbraio. Questi eventi hanno favorito la fuga di diversi detenuti, riunitisi, in seguito, alle cellule terroristiche nascoste.
Per comprendere meglio lo stato delle cose, ho chiesto alle autorità curde di poter intervistare uno dei detenuti.
Dopo diverse settimane di controlli delle mie credenziali, colloqui e incontri con le autorità, riesco ad avere il permesso di parlare con un prigioniero, un uomo che aveva militato nelle file dell’Isis fino al suo arresto, avvenuto nel 2017, e che, prima della sua radicalizzazione, aveva anche vissuto e studiato in Italia.
L’ex terrorista sta scontando la sua pena nel carcere di al-Hasakah, il più grande del Rojava. Qui si trovano 3.500 detenuti di cui 700 minori, ragazzi soprannominati «i cuccioli del califfato».
Le misure di sicurezza sono tantissime. Proprio qui, il 20 gennaio 2021, un gruppo armato attaccò il carcere causando un’evasione di massa. L’attacco si trasformò in una battaglia, durata nove giorni, che vide la morte di 140 persone, tra guardie del carcere e forze dell’ordine.
Per questo costante stato di pericolo, vengo perquisito a fondo e scortato da alcuni militari.
Dentro il carcere
Ad accogliermi c’è Omar (nome di fantasia), uno dei responsabili della sicurezza. A lui, chiedo di parlarmi della situazione attuale: «In Rojava deteniamo la maggior parte dei terroristi del Daesh, arrestati durante le operazioni di questi anni, operazioni che ancora continuano in tutto il territorio. Ci sono sempre tentativi di fuga. Qui, ce ne sono stati almeno venti negli ultimi due anni.
Come hai potuto vedere, i bombardamenti da parte della Turchia non favoriscono il nostro lavoro. Erdogan, e i capi dello Stato maggiore turco, per anni si sono scontrati con noi ma, capendo che il popolo curdo resiste e combatte, stanno tentando questa nuova tecnica: debilitare la sicurezza attorno alle strutture di detenzione, favorendo la fuga di potenziali terroristi che possono attaccarci dall’interno, mentre la Turchia prova a invaderci».
Gli chiedo: anche le famiglie dei detenuti, quelle rinchiuse nei campi profughi, sono considerate alla stregua di terroristi?»
«Le misure di sicurezza nei campi sono più leggere. All’interno di un territorio delimitato, quelle persone possono muoversi come vogliono, ricevono cibo e assistenza medica. Cerchiamo di trattare anche le famiglie dei terroristi con umanità ma, personalmente, credo che la maggior parte di loro siano terroristi. A parte la mia opinione, in questi campi troviamo continuamente, durante le perquisizioni, armi nascoste tra le tende. Purtroppo, la maggior parte delle radicalizzazioni oggi, avvengono proprio nelle prigioni e nei campi di detenzione, è un processo difficile da evitare. Possiamo dividere i criminali in base al grado di pericolosità, attuare misure di isolamento, ma parliamo di migliaia di persone, è un’impresa impossibile da raggiungere con le nostre risorse. Ora incontrerai uno dei prigionieri, io sarò dietro di te, armato, pronto a intervenire in qualsiasi caso. Potrai chiedergli quello che vuoi, tranne informazioni sulla prigione, domande a proposito dei suoi compagni o qualsiasi cosa possa rivelare la logistica del carcere. Inoltre, non potrai dire nulla su quello che accade al di fuori di qui, niente notizie sulla situazione politica o particolari sulle nostre misure di sicurezza».
Incontro con Adnan, carcerato ed ex terrorista
Due soldati accompagnano un uomo, incatenato mani e piedi, verso la stanza messa a disposizione per l’intervista.
L’ex terrorista ha la testa coperta da un cappuccio nero, è visibilmente molto magro. Tolto il cappuccio, ci presentiamo. Pronuncia le sue prime frasi in un italiano quasi perfetto, ma preferisce continuare l’intervista in arabo. L’uomo dice di chiamarsi Adnan Bu Zedi, ha 39 anni ed è di nazionalità tunisina. Si trova in carcere dal 2017. Adnan è laureato in matematica. Dopo l’università, grazie a un programma interculturale, si è specializzato studiando a Roma e a Siena. Adnan ha vissuto in Italia quattro anni, dove ha anche lavorato, come commesso, per una famosa catena di negozi di abbigliamento.
«Sono stati molto belli i miei anni in Italia. Quando sono arrivato ero sì, musulmano, ma non molto praticante. Nemmeno la mia famiglia è stata mai molto religiosa», mi racconta.
La storia della radicalizzazione di Adnan comincia dal suo ritorno in Tunisia, nel 2011, durante le proteste della Primavera araba. «Sono tornato in Tunisia perché dovevamo fare qualcosa contro la corruzione e la povertà. La religione non aveva nulla a che fare con le mie azioni. Io volevo solo avere una vita normale, ma la situazione di quegli anni non ci permetteva di pensare al futuro, per questo erano cominciati gli scontri e le proteste. In quei giorni però, ho conosciuto dei ragazzi che mi hanno introdotto alla moschea e ai movimenti più radicali.
È stato facile avvicinarmi alla religione. Stavo vivendo un momento personale molto brutto. La mia fidanzata mi aveva lasciato, ero senza lavoro, avevo litigato con la mia famiglia e, di conseguenza, ero sprofondato in una brutta depressione. Questo è stato il motivo per cui mi sono avvicinato alla moschea, ad Allah e ai miei compagni. Ho trovato conforto e una nuova famiglia: mi sentivo parte di qualcosa.
Qualche tempo dopo, uno dei miei nuovi amici alla moschea, mi ha parlato della Siria. La guerra stava devastando il paese, c’era bisogno di riportare la parola di Allah in quelle terre e così, siamo partiti. Il nostro viaggio è stato interamente pagato da un benefattore (15mila dollari), leader del nostro movimento. Sono arrivato a Istanbul con regolare visto turistico. In seguito, illegalmente, con i miei compagni abbiamo passato il confine per arrivare in Siria. Lì è cominciata la nostra opera. Tutto questo è avvenuto prima dell’arrivo del Daesh. Il nostro gruppo non era violento, quello che facevamo era semplicemente predicare per strada, nelle moschee, e avvicinare i ragazzi più giovani all’Islam “giusto”. Quello è stato un bel periodo per me, economicamente stavo molto bene, tanto che mi sono riappacificato con la mia famiglia, alcuni di loro mi hanno anche raggiunto in Siria. Il movimento si sciolse dopo circa un anno, il nostro leader si era ammalato gravemente. Quindi, ho trovato un lavoro presso un distributore di benzina. Subito dopo, ho sposato una ragazza siriana.
Alla fine del 2013, alcuni miei amici mi hanno chiamato dicendomi che si stava formando una nuova organizzazione, un gruppo che avrebbe riportato ordine e la parola di Allah in Siria: era nato il Daesh. Mi sono trasferito a Raqqa e mi sono unito ai miei nuovi compagni. Io ho l’asma e, per l’Islam, chi è infermo non può combattere. Mi occupavo della logistica, soprattutto della ricerca di alloggi e infrastrutture per i combattenti».
In quei giorni, il Daesh si macchiava di orrendi crimini. Venivano uccise centinaia di persone senza motivo. Chiedo ad Adnan: vedendo questo, non hai mai avuto ripensamenti? Lo trovavi giusto? «Ho più volte avuto dei ripensamenti e considerato di poter tornare in Tunisia. I miei compagni, però, erano molto bravi a farmi cambiare idea. Devo dire che il fattore economico aveva un grosso peso: fino a quando eravamo affiliati, non avevamo mai problemi di soldi. Ci tengo a dire che, per me, le uccisioni erano sbagliate, perché nel Corano è scritto che non bisogna uccidere. Certo, ci sono alcuni casi in cui la violenza è necessaria: se, ad esempio, una donna tradisce, merita di morire; se un uomo ruba, è giusto che gli venga tagliata una mano».
Nel 2017, quando l’Isis cominciava a indebolirsi, Adnan, sua moglie e due figli, denunciati da un ex compagno «pentito», sono stati arrestati mentre cercavano di scappare verso la Tunisia.
Quando gli chiedo come si sente oggi e cosa farebbe se mai dovesse uscire dal carcere, mi risponde: «In galera ho capito il senso della vita. Se mai dovessi uscire, la mia priorità sarebbe quella di tenermi fuori dai guai, lontano dai problemi. Vorrei avere una vita tranquilla. La prima cosa che farei sarebbe quella di mangiare del miele, mangerei un po’ di miele ogni giorno, mi manca il suo sapore, non l’ho più assaggiato da quando sono qui».
Reem, la signora della pace
Lasciato il carcere di al-Hasakah, torno a Raqqa, quella che è stata la roccaforte dell’Isis per quattro anni. Qui sono state migliaia le persone, considerate «infedeli», giustiziate dal Daesh.
Cosa è successo a tutti quelli che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai giorni di occupazione dei terroristi? Come vivono oggi? Quali sono le loro speranze per il futuro?
Una delle persone più adatte a rispondere a queste domande è Reem, una donna che ha fondato una piccola Ong che si prende cura delle vittime del terrorismo: persone che hanno avuto danni psicologici e fisici, gente che ha perso lavoro e famiglia. Grazie a un team di 37 volontari tra medici, psicologi e insegnanti, Reem cerca di guarire la ferita profonda lasciata dalla guerra. Per il suo impegno, molti poeti siriani le hanno dedicato delle odi, soprannominandola «Lady Peace» (signora della pace).
Mi racconta: «Pochi si rendono conto dei danni psicologici che il Daesh ha provocato e continua a provocare. Sono tantissime le persone che fanno fatica a uscire di casa, a causa dei traumi subiti durante i giorni di occupazione. Io sono una di loro. Vengo da una famiglia cristiana, mi sono convertita per sposare mio marito. A casa avevo una statua della Madonna e, per questo, un giorno degli uomini hanno fatto irruzione e distrutto tutto a colpi di mitragliatrice: tutti i miei ricordi.
Mentre provavo a lasciare Raqqa, una pattuglia del Daesh ci ha bloccato per strada prendendo a bastonate il taxi che ci trasportava: il motivo era che mia figlia, di 15 anni, non indossava un burqa integrale. Sono stati giorni tremendi, non ci si poteva fidare di nessuno, molti erano pronti a denunciarti anche solo per ottenere un pasto caldo. Un giorno, nel mio quartiere, hanno radunato tutti gli uomini non musulmani e quelli sciiti e, davanti ai nostri occhi, li hanno decapitati. Dopo aver assistito alla scena, la moglie di uno di quegli uomini è morta sul colpo, stroncata da un infarto.
Io, per l’ansia, da allora esco raramente e ho cominciato a fumare moltissimo. Ho ancora paura che quacuno mi possa fermare per strada e uccidere. Per la mia attività, per quello che ho deciso di fare aiutando le vittime del Daesh, sono in cima alle loro liste delle persone da eliminare. Per questo preferisco che non mi si veda in volto».
Torture e indottrinamento
Camminando per Raqqa, sono tantissimi i luoghi che portano le cicatrici della guerra contro il terrorismo. Centinaia sono i palazzi distrutti per essersi trovati in mezzo alla linea di fuoco nei combattimenti tra i terroristi e la coalizione internazionale. Malgrado le case siano ad alto pericolo di crollo, sono comunque occupate abusivamente. Molte di queste abitazioni hanno subito ulteriori crolli dovuti al terremoto del 6 febbraio, evento che ha ucciso migliaia di persone in Siria, molte nemmeno registrate come cittadini. Le uniche alternative, per chi ha perso tutto, sono l’occupazione abusiva o la vita in una tenda di un campo profughi.
Uno dei luoghi più noti per la detenzione, e le esecuzioni dell’Isis, è stato lo stadio di calcio di Raqqa. Un guardiano mi apre il cancello, mi mostra le stanze dove i terroristi tenevano gli «infedeli». Persone catturate perché non avevano osservato la sharia, o semplicemente perché di un’altra religione.
Qui incontro Majid, sunnita, uno dei ragazzi che, in queste celle, ha passato mesi. «Nel 2014 – racconta – il Daesh aveva distrutto la chiesa dei Santi Martiri, qui a Raqqa. Allora io, insieme a tanti musulmani, sciiti e sunniti, e a cristiani di varie confessioni, sono andato lì per rimettere su la croce, in segno di protesta contro l’occupazione. Sono stato arrestato in quell’occasione. Non mi sono mai tirato indietro contro le ingiustizie, ho sempre cercato di far sentire la mia voce con proteste pacifiche. Ovviamente, questo dava molto fastidio e così mi hanno arrestato e torturato. Le torture si alternavano a tentativi di indottrinamento. I primi giorni mi trattavano bene, mi davano molto da mangiare e, in seguito, mi parlavano a lungo del motivo per cui mi sarei dovuto unire al Daesh. Quando mi sono rifiutato, una delle prime volte, mi hanno legato, incappucciato e lasciato nel centro del corridoio, proprio qui all’ingresso degli spogliatoi dello stadio. Tutti quelli che passavano mi picchiavano, mi tiravano calci in testa, nelle costole, sulla schiena. Sono rimasto in quello stato per diversi giorni.
Poi, ancora nuovi tentativi di conversione e nuove torture. Una delle peggiori che ricordo è chiamata al-Shabh («il fantasma», in arabo), una tortura che consiste nell’essere appeso con le braccia in tensione dietro la schiena. Sono stato lasciato così quasi un giorno. Sono stato accusato di essere sciita, perché nella mia famiglia ci sono diverse persone che si chiamano “Alì”. In seguito, mi hanno accusato di essere comunista, ateo e di aver combattuto con i partigiani curdi».
«Durante quel periodo, mi sono gravemente ammalato di dissenteria. I miei carcerieri mi davano solo un minuto per poter andare in bagno, puoi immaginare le condizioni igieniche. Sulla porta della mia cella, con delle pietre, avevo disegnato un ideale passaggio rappresentato da un arco con dei fiori. Quell’immagine mi ha dato speranza. Sono rimasto imprigionato per 5 mesi e 20 giorni. Sono stato liberato perché la mia famiglia ha pagato un riscatto. Ancora oggi però, soffro di attacchi di ansia. Dormo pochissimo e ho continuamente incubi. Ci sono dei suoni che mi scatenano ancora terrore: il tintinnio delle chiavi, il rumore di un cancello che si apre, dei passi lungo il corridoio. Chi è sopravvissuto fisicamente all’Isis, dentro ha ancora delle ferite inguaribili».
Oggi Majid lavora in diversi campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente. Si occupa di portare avanti progetti d’arte e pittura con i bambini che hanno perso casa e famiglia. Come prima immagine, quando si presenta ai ragazzi, mostra quell’arco con i fiori che gli ha dato speranza durante la prigionia.
Chi sostiene l’Isis
Oltre ai bombardamenti ordinati da Erdogan, a favorire l’Isis ci sarebbe anche Assad con il suo regime. Il presidente della Siria, secondo diversi comunicati dell’intelligence curda e Usa, decidendo di non intervenire in alcun modo per contrastare i terroristi dello Stato islamico, ne favorirebbe la circolazione e la sopravvivenza. Un recente dossier del Washington Institute (un centro studi statunitense sul Medio Oriente, ndr), parla anche di veri e propri finanziamenti in denaro e fornitura di armi.
Così come Erdogan, anche Assad auspica il crollo della democrazia del Rojava, cosa che gli darebbe la possibilità di occupare i territori del Nord Est, molto ricchi di petrolio.
Malgrado non ci sia più una vera occupazione da parte del Daesh, e la maggior parte delle cellule terroristiche si sia rifugiata nelle zone rurali e sulle montagne, il pericolo del terrorismo è ancora reale. Proprio nella struttura governativa curda, che mi ha ospitato a Raqqa, il 26 dicembre 2022 i terroristi dell’Isis hanno fatto irruzione, uccidendo sei persone.
A seguito di questo attacco, una nuova operazione antiterrorismo, effettuata dall’Sdf (Syrian democratic force), chiamata «Per i martiri di Raqqa», ha portato all’arresto di 32 terroristi e di decine di complici che ne favorivano la latitanza.
A oggi, sono 55 i villaggi sospettati di ospitare e sostenere gli uomini dello Stato islamico. Negli ultimi tre anni, grazie agli interventi dell’Sdf, sono stati sequestrati centinaia di milioni di dollari in contanti, nascosti da alcuni «facilitatori» che si occupavano degli aspetti finanziari del terrorismo islamista.
Malgrado la comprovata efficienza delle operazioni militari, moltissimo c’è ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto umanitario che coinvolge profughi e detenuti. Campi di detenzione e carceri rischiano di essere, secondo il parere dei vertici dello Stato maggiore curdo, degli incubatori per i terroristi di domani.
Angelo Calianno (seconda parte – fine)
Dopo i 45mila morti del terremoto
La tragedia e il cinismo di Erdogan e Assad
I l devastante terremoto che, il 6 febbraio 2023, ha colpito il Sud Est della Turchia e il Nord Ovest della Siria, rischia di influire pesantemente anche sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.
Per quanto riguarda la Turchia, la zona colpita, una delle più povere del paese, è abitata per la maggior parte da curdi. Città come Salinurfa e Gaziantep, sono da sempre i centri principali dei movimenti di opposizione a Erdogan. Con le elezioni alle porte, previste prima per giugno 2023 ma, molto probabilmente, anticipate al 14 maggio, il presidente turco potrebbe usare il controllo degli aiuti come mezzo di propaganda. Erdogan si gioca molta della sua credibilità nella gestione di questa emergenza. In Turchia, la consapevolezza del rischio di un terremoto di questa entità esisteva da anni. Il governo parla di 4,2 miliardi di euro, spesi negli ultimi 20 anni, per la messa in sicurezza di case e infrastrutture. I partiti di opposizione rispondono che, visto quello che il sisma ha causato, quei soldi sono stati spesi in alcune zone piuttosto che in altre, svantaggiando i curdi, i nemici di sempre di Erdogan.
Le elezioni anticipate potrebbero giocare molto a sfavore dell’attuale presidente, ma anche per l’opposizione, che non ha ancora un leader abbastanza carismatico da contrapporre a Erdogan.
In Turchia sono arrivati volontari da tutto il mondo. La macchina degli aiuti si è mossa velocemente. Nonostante questo, al momento (6 marzo), sono oltre 40mila le vittime di questo terremoto.
Ancora più complicata è la situazione in Siria. Il terremoto, oltre alle migliaia di vittime dovute allo stato precarissimo delle costruzioni, ha causato l’ennesima evasione di terroristi dello Stato islamico da alcuni dei centri di detenzione. Inoltre, la Siria è ancora uno stato sottoposto a sanzioni, quindi, l’ingresso di aiuti umanitari e invio di denaro è molto complicato.
Il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeymo, ha dichiarato sospese, almeno temporaneamente, alcune delle penalizzazioni nei confronti del paese, per permettere l’ingresso alle organizzazioni umanitarie.
Tuttavia, i soccorsi sono arrivati e stanno arrivando molto in ritardo. Le Nazioni Unite ne hanno posticipato l’invio per il timore che Assad possa usare il coordinamento degli aiuti come ulteriore arma per rafforzare il proprio regime, e controllare quelle aree ancora a lui ostili. In questo momento, le Ong stanno cercando un modo per inviare denaro, e supporto, direttamente alle organizzazioni umanitarie già presenti in Siria (come, ad esempio, i volontari White Helmets), evitando così che tutto debba passare al vaglio di Damasco. A questo, si sono opposti Iran e Russia, alleati del presidente Assad.
A oggi, sono quasi seimila le vittime in Siria, numero destinato drammaticamente a salire, poiché sono davvero poche le aree raggiunte dai soccorsi.
Un ulteriore problema, che la Siria dovrà affrontare, sarà l’ondata di persone che tenteranno di fuggire dal paese, il terremoto ha distrutto quel poco che rimaneva di molte aree già provate da più di un decennio di guerra.
An.Ca.
I cristiani del Rojava
Fuga senza fine
Nel 2011, erano 400 le famiglie di cristiani residenti a Raqqa. Una comunità, molto praticante, partecipava a tutte le funzioni domenicali e delle festività, soprattutto quella natalizia. L’occupazione dell’Isis, l’impossibilità di praticare la propria religione e le persecuzioni, hanno causato la fuga della maggior parte dei fedeli. Oggi, a Raqqa sono rimasti meno di 60 cristiani, quasi tutti uomini. Malgrado alcune chiese siano state ricostruite (come quella armena in foto), non si celebrano più messe per la mancanza di parrocchiani. Dei 150mila cristiani che si stimano presenti nel Rojava, una gran parte sta a al-Qamishle e dintorni. In tanti si sono trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove la comunità cristiana è relativamente benestante.
An.Ca.
Siria: Accerchiati e bombardati
I curdi del Nord Est della Siria sono stati fondamentali per fermare gli estremisti dello Stato islamico (Isis-Daesh). Dimenticato il loro contributo, oggi sono in balia dei vicini, la Siria di Assad e l’ambigua Turchia di Erdogan.
Semalka (confine Kurdistan iracheno-Siria), 10 novembre 2022. Entrare in Rojava non è semplice per uno straniero. Riesco a varcare il confine, con il visto giornalistico, dopo circa due mesi di iter burocratico. L’unico accesso al Nord Est della Siria è via terra, dal Kurdistan iracheno attraverso Semalka, valico aperto tre giorni a settimana. I controlli di sicurezza durano ore, sei nel mio caso. Attraverso la frontiera insieme ad altre poche decine di persone. Alcuni tornano a casa dopo essere stati, per motivi di salute, a Erbil, città curda con ospedali più moderni ed equipaggiati. Sono migliaia invece le persone in uscita, chi ne ha la possibilità prova a fuggire per cercare un futuro migliore.
Sono diretto a Qamishle (anche Qamishlo, ndr) una delle città principali del Nord Est della Siria e, per la sua posizione, un ottimo luogo come base logistica. A parte questo, le città del Rojava non hanno molto da offrire, quasi tutto sembra in uno stato di semi abbandono: case distrutte e mai ricostruite, cantieri di palazzi iniziati e mai terminati. Molte delle strade, fatta eccezione per alcune costruite con l’aiuto di Ong straniere, somigliano a sentieri sterrati. Piove molto al mio arrivo. Il maltempo ha tenuto alla larga per qualche giorno i droni della Turchia, ma ha riversato terra e fango sulle strade, rendendo ancora più difficile ogni spostamento. Tutte le città sono divise in quartieri, alcuni dei quali ancora sotto il controllo del regime di Assad.
Il medico «terrorista»
Per poter comprendere meglio quello che accade, visito il centro di riabilitazione della Mezzaluna rossa di Qamishle. Nella struttura vengono curati centinaia di pazienti feriti dai bombardamenti, dagli attentati e dalle decine di mine antiuomo lasciate dall’Isis, prima della sua ritirata.
È qui che incontro il dottor
Adnan Malla Ali, direttore del centro e medico degli sfollati interni (Internally displaced persons, Idp) che, in più di 300mila, dovettero fuggire da Afrin durante l’invasione turca del gennaio 2018.
«Non potrò mai dimenticare – racconta il medico – il giorno dell’attacco. Erano le 4 di pomeriggio, stavo curando dei bambini. Sentii il rumore dei razzi. All’inizio pensai fossero solo delle esplosioni isolate, la Turchia ha sempre attaccato le nostre città, come a “ricordarci” della sua presenza. Ma quel giorno è stato diverso. Gli aerei turchi hanno sganciato ben 72 bombe».
Perché la Turchia ha invaso proprio Afrin?, gli chiedo. «I fattori sono diversi: la vicinanza con il loro confine prima di tutto. Afrin poi, è anche la zona più verde di tutta questa regione, famosa anche per la qualità del suo olio d’oliva, forse il migliore di tutto il Medio Oriente. Ma a parte questo, è un’affermazione di potere. Erdogan ha manie di espansione e considera tutti i curdi dei terroristi. Io stesso sono annoverato nelle “liste nere” come terrorista, semplicemente perché, da medico, ho curato dei combattenti delle milizie curde».
Oltre a quanto affermato dal medico, molto dell’interesse nel Rojava deriva dalle sue risorse. Qui, infatti, si trova l’80% del petrolio di tutta la Siria. Il Rojava, però, non possiede raffinerie, infrastrutture che si trovano tutte nel territorio sotto il regime di Assad.
Nonostante le sue risorse e il suo ruolo chiave nella lotta al terrorismo, il Rojava oggi versa in uno stato di estrema povertà. Materie prime, forniture ospedaliere, medicine e qualsiasi prodotto inviato dall’estero non possono arrivare direttamente qui (almeno legalmente), tutto deve passare da Damasco. La logistica è sempre complicata, perché il regime di Assad non ha mai riconosciuto ufficialmente l’indipendenza di questo stato. L’unico canale di accesso è il Kurdistan iracheno, via però tutt’altro che semplice a causa di una grande mancanza di strade e un grave problema di sicurezza.
Inoltre, le città del Nord Est della Siria hanno pagato e pagano ancora un prezzo altissimo per la guerra contro l’Isis. Interi quartieri nelle città di Kobane e Raqqa sono in rovina, distrutti dai bombardamenti americani alcuni, e fatti saltare in aria dagli uomini di Daesh altri.
Il campo di Al-Hol
E poi c’è l’onnipresente Turchia. L’operazione «Claw-Sword» (riquadro a pag.14) non è terminata con gli eventi del 19 novembre 2022. La sera del 23 novembre, infatti, alle 19.30, un nuovo attacco di droni ha colpito il campo di rifugiati di Al-Hol, uccidendo otto militari che lo sorvegliavano.
Vi arrivo qualche giorno dopo il bombardamento. Al-Hol è un campo di detenzione dove si trovano famiglie dei membri più radicali dell’Isis. Le persone al suo interno, ufficialmente, non sono accusate di nulla, ma per le forze di sicurezza curde sono potenziali terroristi. All’interno è impossibile vedere il volto di una donna adulta senza il burqa, molte hanno anche gli occhi coperti da un velo.
Lo spazio, dove sorge questa enorme tendopoli, è circondato da pali e reti metalliche. Ci sono diversi check point, guardie e veicoli blindati a presenziare ogni accesso. Ad accogliermi c’è Gihan, una giovane donna curda che si occupa della gestione del campo: «Qui vivono circa 53mila persone, l’80% sono donne, bambini e bambine fino ad un massimo di 12 anni. Il resto sono anziani e alcuni uomini adulti “Idp” (sfollati interni), che hanno perso la casa durante i vari conflitti. Il campo è diviso in diverse zone, quello dove ci sono gli Idp appunto, poi un’ulteriore divisione viene fatta per nazioni: c’è un settore dove si trovano solo iracheni e siriani. Un altro ancora raccoglie gli stranieri che arrivano da oltre 50 nazioni diverse, la maggior parte da Egitto, Tunisia e Kuwait».
Chiedo a Gihan se può spiegarmi cosa è accaduto la sera del 23 novembre, quando la Turchia ha lanciato l’attacco. Qual era il loro scopo? Perché attaccare voi? La donna racconta: «Erano le 19.30 quando abbiamo sentito due forti esplosioni. Abbiamo in seguito capito che erano state delle bombe sganciate da droni. Ci sono state diverse ore di panico ma l’attacco è stato ben mirato: ha colpito e ucciso otto delle nostre guardie. Le bombe non sono cadute nel campo ma bensì fuori dalle reti di protezione per colpire noi, le forze di sicurezza curde. Lo scopo, che la Turchia cerca di raggiungere da tempo, è quello di creare caos e destabilizzare il governo di Rojava. Uno dei metodi più usati è quello di colpire luoghi come il nostro in modo che potenziali terroristi possano scappare e riunirsi alle cellule di Daesh operanti così da organizzare nuovi attentati. Qui, fortunatamente, siamo riusciti a riprendere chi cercava di fuggire. In un altro campo invece, nella città di Al-Hassakah, dopo i bombardamenti ci sono state diverse evasioni. Se usiamo le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e riprendere chi scappa, saremo più deboli nel momento in cui la Turchia dovesse invaderci. Questo sembra essere il loro piano».
Chiedo: «Pensa che, all’interno dei campi come questo, ci siano davvero molti potenziali terroristi?». «Assolutamente sì – risponde sicura -. Lo sappiamo noi, lo sa la Turchia, lo sanno le forze di coalizione. Posso fare molti esempi a riguardo. Qualche giorno fa, nel settore degli egiziani, sono state trovate due ragazzine morte, due sorelle assassinate. Abbiamo allora fatto una perquisizione e, nelle tende, abbiamo trovato centinaia di armi, soprattutto Kalashnikov e Rpg (entrambi di produzione russa, ndr). C’era un arsenale sufficiente a cominciare una nuova guerra. All’interno del campo abbiamo scuole e anche 20 ambulatori. In uno di questi uno dei nostri dottori ha curato la gamba di un ragazzino, per mesi. Il bambino di sette anni era stato colpito da alcune schegge di granata. Alla fine della cura, il bambino ha detto al medico: “Quando sarò grande, uscirò da qui e ti ucciderò. Lo farò velocemente, tagliandoti la testa per non farti soffrire perché, mi hai curato, ma sei pur sempre un infedele”. Noi operatori, molto spesso, abbiamo paura perché il campo è enorme e gli eventi sono imprevedibili. Il prossimo passo per la sicurezza sarà un’ulteriore divisione dei settori, in modo da poter avere più controllo. Benché la maggior parte dei residenti siano donne e bambine, ogni anno nel campo ci sono circa sessanta nuove nascite».
«Allah Akbar»
Lasciato l’ufficio di Gihan, comincio a camminare per le stradine fangose della tendopoli, mi rendo subito conto dei problemi di sicurezza di cui mi parlava la manager. All’ingresso del settore egiziano e tunisino, io e il mio interprete siamo bersagli di una sassaiola. Il lancio di pietre comincia prima da alcuni ragazzini a cui, man mano, se ne aggiungono altri e in seguito anche donne. Molti urlano: «Allah Akbar» (Dio è grande), esclamazione spesso usata prima degli attentati. Siamo costretti a lasciare questo primo settore.
Entrando nella zona a maggioranza irachena e siriana, l’accoglienza è molto diversa. Vengo accerchiato da tantissime donne, non vogliono darmi il proprio nome ma vogliono descrivermi le condizioni in cui vivono. Una signora, nella parte del campo destinata al mercato, mi racconta: «I nostri mariti sono in galera ma noi non abbiamo fatto nulla. Siamo rinchiuse qui a crescere i nostri figli, senza soldi né risorse. È vero, il cibo è gratis ma è poco, non basta praticamente mai. Manca tutto, sono tre giorni che siamo senza corrente e per quattro siamo stati senz’acqua. Non c’è il diesel per il riscaldamento e nelle tende si muore dal freddo. Veniamo trattate come criminali. Alcuni militari mi hanno anche rubato i soldi».
I racconti di chi gestisce il campo, e di chi ci vive, sono tra loro estremamente contrastanti. In questo clima, è molto difficile capire chi, tra le persone rinchiuse qui, sia innocente e chi un potenziale pericolo.
Incertezze e pericoli
I bombardamenti degli ultimi mesi sono solo l’ultimo capitolo di una regione che non trova pace. Nella conferenza stampa del 30 novembre, il generale Abid Mazloum, comandante dell’Sdf (Syrian democratic force) ha dichiarato: «In caso di invasione da parte della Turchia saremo pronti a combattere e combatteremo. Quello che però gli stati occidentali devono capire è che, se saremo impegnati in una guerra contro la Turchia, non potremo usare le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e mantenere quello stato di sicurezza garantito fino ad ora. Una nuova guerra, inoltre, significherà migliaia di nuovi profughi che scapperanno dai luoghi in conflitto e quindi, una nuova emergenza umanitaria. Una guerra in Rojava non riguarderà solo il Rojava, ma sarà un problema anche per tutti quegli stati che hanno interessi in Medioriente».
Nel 2018, dopo le molte battaglie vinte contro l’Isis, i media occidentali osannavano le milizie curde. Si guardava al Rojava come un grande esempio di democrazia e convivenza tra religioni. Il Nord Est della Siria oggi è circondato dai suoi nemici: da una parte le forze ostili del regime di Assad, dall’altra le numerose cellule dell’Isis ancora attive. A tutto questo, si aggiunge la Turchia con i suoi raid aerei e una lotta senza sosta contro l’etnia curda. Erdogan continua a mantenere le proprie truppe vicine al confine, pronte per un’invasione via terra. Nonostante Onu e Usa abbiano condannato gli attacchi contro il Rojava, nessun passo concreto è stato fatto per scongiurare quello che potrebbe essere un nuovo, sanguinoso conflitto in quest’angolo di Medio Oriente.
Angelo Calianno (1- continua)
Il Rojava e i curdi
La lotta per uno stato indipendente
Il Rojava è uno stato, autoproclamatosi indipendente, che comprende i territori del Nord Est della Siria. In lingua curda, la parola Rojava sta a identificare il luogo dove tramonta il sole: l’Ovest. Non essendo ufficialmente riconosciuto da nessuna nazione, a parte il Kurdistan iracheno, nei documenti ufficiali ci si riferisce a quest’area geografica come: Siria del Nord Est o Kurdistan dell’Ovest.
Gli storici fanno risalire la lotta curda per una propria patria al 1916 con l’accordo Sykes-Picot, conosciuto anche come accordo sull’Asia minore.
Questa trattativa stipulava un’intesa segreta fra l’Inghilterra, rappresentata da Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da Georges Picot, con l’assenso della Russia zarista. L’accordo ridefiniva confini e controllo dei territori dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Il piano Sykes-Picot lasciava i curdi senza una propria nazione, divisi in un territorio frammentato tra Turchia, Siria, Iraq e Iran.
La prima forma di governo in Rojava arriva nel 2012 quando le milizie curde prendono il controllo di alcune delle principali città istituendo il Dfns (Democratic federation of north-eastern Syria). La nascita ufficiale dello stato e la sua dichiarazione di indipendenza avviene nel 2016.
Oggi il Rojava è amministrato dall’Aanes (Autonomous administration of North and East Syria), una coalizione politica formata da: Sdc (Syrian democratic council), e dall’Sdf (Syrian democratic forces). Quest’ultimo gruppo racchiude, in un unico corpo militare, milizie curde e ribelli di diverse etnie e credi religiosi.
L’esperimento democratico in Rojava è stato oggetto di studio di centinaia di attivisti e ricercatori di tutto il mondo. La sua «Carta del contratto sociale» (una sorta di Costituzione provvisoria) prende ispirazione dall’ideologia del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), e dalla filosofia del suo leader Abdullah Ocalan che, nel 1978, fondò il partito di stampo marxista leninista. L’idea di base del Pkk e di Ocalan è quella di un decentramento del potere denominato: «Confederalismo democratico». I punti fondamentali sono: uguaglianza e pari rappresentanza per ognuna delle religioni ed etnie presenti nello stato; istruzione gratuita e accessibile per tutti; assoluta parità nei ruoli tra uomini e donne. Detto questo, Ankara considera il Pkk, e chiunque gli sia collegato, come un gruppo terroristico. Da 22 anni, Ocalan è incarcerato nell’isola prigione di İmralı a Bursa, in Turchia, dove sta scontando l’ergastolo.
Le continue migrazioni, lo spostamento dei confini e le migliaia di profughi interni, rendono difficile una stima del numero degli abitanti in Rojava. L’ultima statistica risale al 2021 e contava 4 milioni e 500 mila abitanti. Il 60% della popolazione è di etnia curda anche se, dopo l’annessione delle città di Manjin, Deir ez Zor e Raqqa, riconquistate dopo essere state sotto il controllo dell’Isis, la proporzione della popolazione araba ha quasi eguagliato quella curda.
Le altre minoranze sono rappresentate da: Yazidi, Turkmeni, e Cristiani (divisi tra Siriaci, Assiri, Armeni, Greco ortodossi). Prima della guerra contro l’Isis, i cristiani erano 150mila, ora una stima approssimativa ne conta 55mila.
Gli abitanti del Rojava si considerano in guerra con la Turchia, anche se nessuna comunità internazionale riconosce questo conflitto. Un’inchiesta della Bbc, effettuata tra il 2016 e oggi, ha contato più di duecento «incidenti di confine», azioni in cui la Turchia, con diversi pretesti, ha attaccato e provato a invadere il Nord Est della Siria.
Angelo Calianno
I giochi politici della Turchia
La guerra di Erdogan ai Curdi
Il 19 novembre 2022 la Turchia ha lanciato l’operazione Claw-Sword (spada-artiglio), una serie di bombardamenti aerei che hanno attaccato il Nord Est della Siria, la regione a maggioranza curda conosciuta come Rojava (*).
L’offensiva ha colpito diversi obiettivi nelle città di Kobane, Raqqa, Al-Hassakah, Al- Malikiyah e Darbasiya. I portavoce dello Stato maggiore turco hanno dichiarato di aver centrato solo bersagli militari e potenziali terroristi. In realtà, ci sono state anche diverse vittime civili, tra cui Issam Abdullah, giornalista siriano ucciso durante un raid aereo mentre intervistava dei contadini nelle zone rurali di Al-Malikiyah. L’operazione Claw-Sword è nata come risposta all’attentato di Istanbul del 13 novembre 2022 quando, su Istiklal street, una delle principali vie dello shopping della capitale, una forte esplosione ha ucciso 6 persone e ferito altre 81. Il giorno dopo veniva arrestata una donna di origine siriana, Ahlam Albashir, accusata di essere l’esecutrice materiale dell’attentato. I primi comunicati stampa da parte del governo turco hanno affermato che la donna è stata addestrata dalle milizie curde dell’Ypg (unità di protezione popolare curda), e che l’attentato sarebbe stato ordinato dal Pkk (Partito dei lavoratori).
Il ministro dell’interno turco Suleyman Soylu, a seguito del messaggio di cordoglio da parte degli Stati Uniti, ha dichiarato: «Rifiutiamo le condoglianze da parte degli Usa. Sono nostri alleati ma, nello stesso momento, finanziano organizzazioni terroristiche curde che minacciano la nostra libertà».
Cosa accade ora in Rojava dopo l’offensiva turca? Ci sono davvero le milizie curde dietro l’attentato a Istanbul? Ad oggi non si hanno più notizie di cosa sia accaduto alla sospettata, Ahlam Albashir. Nessuna novità riguardante le sue dichiarazioni o quelle degli altri 46 arrestati. Sia il Pkk che l’Ypg negano con forza qualsiasi coinvolgimento, accusando Erdogan di aver strumentalizzato la tragedia, usandola come ennesima scusa per attaccare e invadere il Rojava. Non è la prima volta, infatti, che la Turchia lancia offensive verso questa parte della Siria. Anzi, queste sono state una costante sin dalla nascita di questo stato. Uno degli attacchi più cruenti, poi seguiti da un’invasione e occupazione da parte dei Turchi, è avvenuto nel 2018 per l’importante città di Afrin. Durante quell’anno, le milizie curde dell’Ypg si rendevano protagoniste nella guerra contro l’Isis, sconfiggendo decine di cellule terroristiche e costringendo gli uomini dello Stato islamico a fuggire dai principali centri abitati. Subito dopo queste vittorie, la Turchia attaccava e invadeva Afrin, considerato luogo di nascita e attuale centro dei movimenti politici curdi. Questa operazione, denominata Olive Branch (Ramoscello d’ulivo), fu eseguita anche con il supporto economico dell’amministrazione Trump.
Gli Stati Uniti hanno un ruolo molto ambiguo nel Nord Est della Siria, essendo da una parte al fianco dei curdi nella coalizione anti Isis, dall’altra alleati strategici della Turchia.
An.Ca.
(*) La regione è stata interessata dal devastante terremoto dello scorso 5-6 febbraio (mentre questa rivista andava in stampa). In particolare, è stata colpito il centro di Afrin, oggi in mano turca.
Giovani, costruite il vostro destino
testo di Marco Bello |
È stato innanzitutto un amico d’infanzia di Sankara. Ci racconta il paese reale, la sfida del terrorismo e i conti ancora aperti con un passato su cui fare giustizia. E ci ricorda l’attualità e l’universalità del messaggio del presidente visionario.
Fidél Toé, classe 1949, è stato ministro del Lavoro, Sicurezza sociale e Funzione pubblica di Thomas Sankara (1983-87). Era amico d’infanzia del presidente visionario del Burkina Faso. Avevano, in fatti, frequentato insieme il liceo Ouezzin Coulibaly di Bobo Diulasso.
«Ho conosciuto Sankara nel 1962», ci racconta. «Abbiamo avuto relazioni sane, abbiamo discusso, a volte non eravamo d’accordo».
L’ex minstro è oggi in pensione, dopo una vita nella funzione pubblica, un mandato da deputato (2002-2007), e anni di impegno nella lotta all’Hiv nel suo paese, come coordinatore della Cellula ministeriale di lotta al Hiv/Aids del ministero del Lavoro e della sicurezza sociale.
Toé ha conosciuto l’esilio, dopo l’assassinio di Sankara, avvenuto il 15 ottobre 1987. Ha passato sette anni tra il Ghana e il Congo Brazzaville (1987-94).
È un signore cordiale e accogliente, e quando parla è subito chiaro che porta dentro di sé una grande fetta di storia del Burkina Faso. «Scriverò una memoria – ci confida -, ho tante cose da raccontare».
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, nella sua casa di Ouagadougou. Gli facciamo alcune domande sulla difficile situazione che attraversa oggi il paese saheliano.
Terrorismo islamista
Onorevole, come legge gli ultimi, sanguinosi, attacchi dei terroristi in Burkina Faso?
«Gli attacchi sono iniziati nel 2015, nel Nord del paese. Hanno sorpreso molti, mentre altri se li aspettavano. Con l’insediamento del primo governo del presidente Roch Marc Christian
Kaboré sono arrivati attacchi precisi agli hotel per stranieri, e poi allo stato maggiore dell’esercito. Il presidente ha rivelato che alcune persone sospette avevano reclamato, informalmente, al governo, alcuni veicoli promessi dal precedente presidente, Blaise Compaoré. Secondo me c’è la complicità del vecchio regime. Sono state intercettate telefonate nelle quali si diceva che occorreva destabilizzare il paese.
Oggi, pur non conoscendo la faccia di chi attacca, sappiamo che ci sono tra loro dei giovani burkinabè, reclutati dagli jihadisti. Devo ammettere che in qualche modo anche noi siamo complici, per il fatto di non denunciare i nostri figli. Se un ragazzo che non possiede nulla e non lavora, torna al villaggio pieno di soldi, certo non li ha vinti alla lotteria. Li ha ottenuti tramite le armi, la droga o la frode.
Sono questi elementi endogeni che permettono al terrorismo di attaccare, installarsi e sfruttare. Come nell’ultimo attacco a Solhan (vedi box), un villaggio nei pressi del quale si estrae oro in maniera tradizionale. Le autorità dovrebbero capire che se abbiamo l’oro non dobbiamo metterlo a disposizione di chiunque. La ricerca artigianale di questo metallo è oggi fonte di insicurezza, perché nei pressi dei siti si installano persone giunte da ogni dove, anche dall’estero, e non si ha più il controllo di chi è presente sul territorio. Inoltre, le nostre frontiere sono molto permeabili. In fondo penso ci sia una mancanza dei servizi d’informazione oltre che una debolezza organizzativa.
Durante la rivoluzione (sankarista, 1983-87, ndr), chiunque arrivasse in un villaggio doveva presentarsi alle autorità e al Cdr locale (Comitato di difesa della rivoluzione), per essere registrato. Inoltre, un altro problema è che non abbiamo insegnato alla popolazione a difendersi, così la gente scappa di fronte al nemico».
Ma non dovrebbero essere l’esercito e la polizia a garantire la sicurezza dei cittadini?
«È vero, ma in queste situazioni. quando il problema è troppo grande per l’esercito, penso che la popolazione debba sapersi difendere. Si tratta di autodifesa per supplire alle mancanze delle forze di sicurezza. In diversi casi di attacchi, l’esercito era a decine di chilometri, ed è potuto intervenire solo in un secondo tempo. Le nostre frontiere sono difficili da controllare con l’esercito che abbiamo. Ci sono pure soldati che si rifiutano di andare in zone remote. Forse c’è un problema a livello delle gerarchie militari.
Poi c’è la questione dei siti auriferi. Se c’è una popolazione che si organizza per sfruttare l’oro, deve anche essere disponibile a impiegare dei soldi per la sicurezza, per proteggere il minerale estratto. In altri paesi succede così».
Più in generale, come valuta la lotta al terrorismo da parte di questo governo?
«Devo dire che non ci sono stati risultati, quindi c’è un fallimento da questo punto di vista. I servizi non funzionano, non si sa quando arriva il nemico. Dicono che si è fatto un negoziato, ma in verità non è cambiato nulla. Non si è ancora trovata la soluzione».
Inoltre il terrorismo a livello internazionale sembra una scusa per una presenza straniera nel paese.
«Il ricorso a forze straniere dimostra l’impotenza della nostra nazione di affrontare il nemico. Penso che non si sia spiegata in modo adeguato l’importanza di questa lotta ai nostri giovani, perché vediamo dei burkinabè che criticano l’intervento straniero, ma essi stessi non fanno nulla. Non c’è in noi la coscienza che dobbiamo batterci e che, chi può, deve andare al fronte. Ci sono tanti, anche della società civile, che sono contro l’intervento militare, che trovano troppo violento, ma loro non si sporcano mai le mani. Non c’è una guerra con le mani pulite. Ci saranno altre situazioni difficili, queste persone sono molto violente. Negli eventi di Solhan si vede la barbarie. E questo ti fa diventare barbaro, e ti fa chiedere una giustizia punitiva immediata».
L’insurrezione
Parlando dell’insurrezione del 2014 e poi di quella del 2015 contro il colpo di stato, cosa è rimasto del movimento popolare?
«Nel 2014 c’è stata un’insurrezione salutare, che ha visto la fuga di un uomo che non voleva più lasciare il potere, mentre la nostra Costituzione prevede che il capo di stato può stare 5 anni, rinnovabile una volta. Ma Blaise Compaoré voleva un rinnovo perpetuo.
Le forze che hanno fatto l’insurrezione erano dei vecchi amici del partito di Compaoré che si erano dimessi (alcuni mesi prima, ndr) unendosi all’opposizione storica. Movimento che si era rafforzato con i giovani di Ouagadougou e di tutto il paese che si sono sollevati affinché ci fosse un rinnovamento.
Però, quando si fa un’insurrezione, e non c’è uno stato maggiore che dica, nel caso di successo, che cosa si farà, ecco che altri, più organizzati, possono appropriarsene. È quello che è accaduto qui con i militari, che hanno “recuperato” i risultati della rivolta. L’esercito è organizzato, ha potuto subito dire chi aveva preso il potere, mettere in piedi un sistema di sicurezza (per evitare derive, ndr). Hanno presentato un volto unico, mentre i partiti politici, che avevano mandato via Compaoré, non sono riusciti a presentare una struttura e una visione unica del dopo insurrezione. I militari stessi hanno messo in salvo il presidente deposto, facendolo fuoriuscire dal paese in segretezza.
Allo stesso tempo hanno utilizzato il linguaggio degli insorti e hanno preso le redini. Le contraddizioni sono poi venute fuori con il colpo di stato del generale Dinederé (sventato da una successiva insurrezione, ndr).
Oggi assisto a un fenomeno che mi fa sorridere, ovvero gli ex del sistema Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso, il partito di Compaoré che ha regnato 27 anni, ndr) che minacciano di preparare un’insurrezione contro questo governo, che è stato acquisito a sua volta dopo un sollevamento popolare.
Aspettiamo di vedere cosa faranno. Dicono che il regime attuale è fallito. Il governo ha creato delle forze speciali, e loro dicono di essere contrari, che esisteva già il Rsp (Reggimento di sicurezza presidenziale, il corpo militare scelto che proteggeva il presidente ed è stato origine del colpo di stato del 2015, ndr). Ma questo proteggeva un uomo e la sua famiglia e non la popolazione. Gli ex del Cdp dicono che il governo deve dare le dimissioni, altrimenti loro lo cacceranno con la forza. Poi chiedono che per la riconciliazione nazionale si faccia tornare Blaise Compaoré, che attualmente ha cambiato nome in Kouassi Kodjo, e vive in Costa d’Avorio».
Verità e giustizia sul passato
Facendo un passo indietro, in questo periodo si parla molto del processo contro i responsabili dell’uccisione di Thomas Sankara e dei suoi dodici compagni, quel 15 ottobre 1987. Lei come è coinvolto?
«Tutti gli elementi d’indagine sono riuniti affinché il processo possa cominciare. Il giudice d’istruzione, di grande competenza, ha convocato molti testimoni. Io stesso sono stato chiamato a testimoniare e ho raccontato quello che so. Devo dire che nessuno, prima d’ora, mi aveva convocato su questo. Ci hanno accusato di tante cose, me e Sankara, ma nessuno mi aveva mai interrogato.
Inoltre, il giudice d’istruzione, ha finalmente avuto accesso ai dossier francesi sul caso, che erano secretati. Qui tutti (gli avvocati, la famiglia, io stesso) pensano che il processo avrà luogo.
Per questo chiediamo che il termine “Riconciliazione nazionale” non sia esibito per dire, dobbiamo stare zitti, ma, al contrario, occorre fare verità su quanto è successo. Un paese che non ha la verità sul suo passato, che mente a se stesso, non può andare avanti. Non potrà dire di voler giudicare i ladri, se non ha fatto luce sui suoi dirigenti.
Penso che ci sarà il processo, e che il presidente Sankara possa essere sepolto, perché i suoi resti attendono ancora un degno commiato. Spero che si faccia presto, perché da quando se ne parla alcuni testimoni sono già deceduti. Stiamo diventando vecchi».
L’attualità di Sankara
Qual è l’attualità del messaggio del presidente Thomas Sankara per i giovani del Burkina Faso?
«Un messaggio per i giovani dell’Africa e del mondo, che ha superato la dimensione geografica del Burkina Faso. I giovani si devono organizzare seriamente. Non devono aspettarsi che tutto sia facile, ma devono responsabilizzarsi per prendere in mano il proprio destino. Occorre avere uno sguardo nuovo sul modo in cui organizzarsi, in tutti i settori di attività. Sankara voleva rivoluzionare i diversi settori. È stato il primo a parlare contro la deforestazione, per la protezione della natura, per un’economia endogena. Altrimenti consumiamo prodotti provenienti dall’estero e non sviluppiamo la nostra economia. Come, ad esempio, l’allevamento di piccoli animali, nel quale siamo forti.
L’avvenire del Burkina Faso non è nelle miniere d’oro. I giacimenti si sono costituiti durante periodi molto lunghi, non si può venire e sfruttarli per dieci anni, portando via tutto, dando allo stato solo qualche inezia e dicendo che si contribuisce al paese.
Sankara ha sempre detto che anche se troviamo del petrolio in Burkina, non sarà quello che ci salverà. Basta guardare ora in che stato è l’economia di tutti quei paesi che hanno trovato il petrolio, con i loro dirigenti che rubano i soldi derivati. Per l’oro è la stessa cosa».
L’insurrezione ha in qualche modo «sdoganato» la figura di Thomas Sankara, prima se ne parlava di nascosto, adesso sono tutti sankaristi.
«È vero, Thomas Sankara suscita molto interesse. Ci sono scritti che possono essere utili, altri lo sono di meno. Per esempio, c’è un libro scritto da un italiano che non conosco (Toé si riferisce a un romanzo pubblicato in Italia, ndr), che si sarebbe ispirato alla biografia scritta dal mio amico Bruno Jaffré (il biografo di Thomas Sankara, ndr). Mi hanno mandato qualche pagina di questo libro, nel quale l’autore parla di me in termini che ho trovato offensivi e irritanti. Prima di tutto non capisco perché in un romanzo (una fiction), anche se su Thomas Sankara, sia stato utilizzato il mio nome. Perché si sia parlato dei miei genitori, scrivendo Jérôme Toé, che non è il nome di mio padre. Se è stata fatta della fiction, bisogna farla con nomi inventati.
Il rapporto tra me è Sankara è presentato in modo falsato. Abbiamo sempre fatto dell’emulazione sana, per arrivare all’eccellenza, non ci copiavamo, ma potevamo completarci. Sankara è stato per me un amico e un compagno. E lui diceva che io ero un fratello per lui.
Quando aveva bisogno di qualcuno di fiducia, mi chiamava, e sono sempre stato al suo fianco. Prima come direttore di gabinetto della comunicazione, quando era segretario di stato, poi come ministro. Ho parlato con lui al telefono trenta minuti prima che fosse ammazzato. Scriverò un libro di memorie, con la mia verità».
�Bruno Jaffré, Burkina Faso. Les années Sankara, L’Harmattan, 1989.
�Lila Chouli, Sur l’insurrection populaire et ses suites au Burkina Faso, L’Harmattan-Sénégal, 2018.
�Marco Bello, Enrico Casale, Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri, Infinito edizioni, 2016.
Il paese combatte il terrorismo e cerca la verità sul suo passato
Massacro nel Sahel
Gli attacchi terroristici islamisti, iniziati nel 2015, continuano a insanguinare il Burkina Faso. A Solhan, nel giugno scorso, si è toccato il record di vittime. Di mezzo c’è l’oro, e il finanziamento che i gruppi jihadisti ne traggono. Intanto l’opposizione politica chiede conto al governo sulla sicurezza.
È la notte tra il 4 e il 5 giugno scorso. Verso le due del mattino una banda di giovani in motocicletta arriva al sito aurifero nei pressi del villaggio Solhan, capoluogo del comune rurale omonimo (entità amministrativa più piccola).
Gli assalitori attaccano inizialmente la postazione dei Volontari per la difesa della patria (Vpn), una sorta di milizia di autodifesa composta di persone della popolazione. In seguito, si dirigono verso le case, sfondano le porte e uccidono direttamente chi vi abita, senza chiedere nulla e senza considerare l’età. Saccheggiano il possibile, danno fuoco ad alcune case, poi ripartono. Piazzano dell’esplosivo sul ponte della strada che collega Solhan a Sebba, a una decina di chilometri. Causerà altre vittime.
Il bilancio ufficiale è di 132 morti, ma altre voci portano il numero a 150. Molti sono anche i feriti. Si tratta dell’attacco più sanguinoso che il Burkina Faso ha subito sul suo territorio, dall’inizio degli eventi di questo tipo, nel 2015.
In quell’anno il Burkina Faso stava vivendo una transizione politica, seguita da un’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Blaise Compaoré, in carica da 27 anni (cfr MC febbraio 2016). Un colpo di stato del Reggimento di sicurezza presidenziale guidato dal generale Gilbert Dienderé, aveva tentato di bloccare il cambiamento nel settembre 2015, ma il movimento popolare, con l’appoggio internazionale e, soprattutto, dell’esercito, era riuscito a evitare il peggio. La transizione era ripresa e un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré si era insediato il 29 novembre. Il suo governo aveva giurato il 12 gennaio 2016. Tre giorni dopo, un attacco in grande stile era stato perpetrato da jihadisti nel cuore della capitale, facendo 30 vittime di 18 nazionalità.
Da quel giorno gli attacchi si sono moltiplicati nel Nord del paese, per poi estendersi a Est e Sud Est, senza risparmiare la capitale. Si hanno evidenze di contatti diretti tra Compaoré, quando era presidente, e gruppi jihadisti, che avrebbe preservato il paese dalle incursioni.
Solhan, come detto, è un sito aurifero, ed è sfruttato da cercatori d’oro artigianali. Sono situazioni particolari, in cui il tessuto sociale è completamente stravolto. Qui sono installati, senza controllo, decine di migliaia di cercatori d’oro, molti provenienti da paesi vicini. Nell’agosto 2020, il Consiglio economico e sociale del Burkina Faso, ha pubblicato uno studio sul «lavaggio di denaro sporco e finanziamento del terrorismo», con focus sul paese.
Oltre a ricevere finanziamenti dall’estero, i gruppi jihadisti si autofinanziano sfruttando le risorse del territorio che occupano, come le miniere artigianali, o imponendo tasse e balzelli alla popolazione. Dallo studio risulta che dal 2016 al 2020 i terroristi hanno raccolto più di 140 miliardi di dollari, solo tramite gli attacchi o balzelli a siti auriferi artigianali, come quello di Solhan. Normalmente i siti nei quali i cercatori non pagano, vengono attaccati.
Il governo, il 7 giugno, ha disposto la chiusura di tutti i siti auriferi artigianali delle province di Oudalan e Yahga (qui si trova Solhan).
Nella regione sono presenti gruppi jihadisti legati alle due principali formazioni: il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), legato ad Al Qaeda, e lo Stato islamico nel grande Sahara, legato all’Isis. Si tratta di due coalizioni di una galassia di gruppi che talvolta si scontrano tra loro.
L’attacco di Solhan, che non è stato l’ultimo, secondo il governo è stato perpetrato da un gruppo burkinabè, denominato Mouhadine, che significa «Genti solidali», attivo dal 2019 in Burkina, ma anche Niger e Benin. Le forze di sicurezza avrebbero arrestato due elementi del gruppo.
Il presidente Kaboré – rieletto per un secondo mandato nel novembre 2020 – ha pure tentato di avviare una tre giorni (17-19 giugno) di «Dialogo politico», con tutti i partiti del paese. Ma alla fine l’opposizione si è sfilata, e per voce del Capofila dell’opposizione politica (è una figura istituzionale), Eddie Komboigo, ha indetto manifestazioni di protesta contro l’insicurezza e in memoria delle vittime, a inizio luglio.
Intanto, alcuni politici legati al partito di Blaise Compaoré, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), vogliono organizzarsi per il ritorno dell’ex presidente e la riconciliazione nazionale. Ma prima, occorre fare verità sul passato, a partire dall’assassinio di Thomas Sankara.
Marco Bello
Il popolo di Cabo Delgado vuole la Pace
Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |
La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.
Contestualizzare la guerra
Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.
La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.
Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.
Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).
Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.
Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.
Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.
Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.
Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.
Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.
C’è una chiara identificazione dei responsabili di questiconflitti?
Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.
Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.
A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.
Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.
Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.
C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?
Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.
Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.
Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.
Diritti umani più minacciati
La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Conseguenze immediate di questi eventi
Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.
Gli agenti pastorali
Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!
La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.
Necessità di misure nazionali e internazionali
A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.
Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.
Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte
Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.
Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.
Solidarietà internazionale
Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.
Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale
In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.
Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco. Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.
Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…
Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.
Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!
Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.
Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.
Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.
In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.
Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.
Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.
Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.
Storia di un popolo
I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.
Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.
Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.
Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.
Radicalizzati e armati
I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.
Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.
Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.
Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».
Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.
I sospetti sul potere
«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».
Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.
Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.
A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».
Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.
Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.
Il fattore religioso
Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».
Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.
«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.
Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».
Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.
Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.
Espansione islamista
«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.
La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».
All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».
Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.
Impunità
Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».
Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».
Sotto gli occhi di tutti
Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.
Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.
Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.
La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.
Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».
Marta Petrosillo
Burkina Faso: Tra jihad e fibra ottica
Il (Burkina Faso) paese che ha vissuto negli ultimi anni un’insurrezione popolare, un tentativo di colpo di stato e tre attentati sanguinari nella capitale, si confronta oggi con un incremento di attacchi terroristici sul suo territorio. Il tema della sicurezza domina il dibattito politico, mentre la società civile si divide e non riesce a giocare il ruolo di guardiana del potere. La vita quotidiana è influenzata dall’incertezza e da un nemico invisibile. E c’è chi dice che nell’ombra trami l’ex presidente-dittatore Blaise Compaoré.
Testo e foto di Marco Bello
Percorriamo la strada che dalla capitale Ouagadougou porta a Ouahigouya, nel Nord. Lungo tutti i suoi 180 km, vediamo di lato un fossato scavato e poi ricoperto. Ogni tanto spuntano dal terreno grossi cavi neri chiusi con un tappo colorato. È una visione che contrasta con la brousse, la campagna saheliana. Quel cavo è la fibra ottica che porta dati e connessione internet anche nei luoghi più remoti dell’Africa. È arrivata anche qui e presto sarà operativa.
Ma nel Burkina Faso di oggi, proprio Ouahigouya, città a 70 km dal confine con il Mali, è anche il limite della cosiddetta «zona rossa». Nella cartografia della sicurezza, la mappa aggiornata dall’ambasciata di Francia (in questo caso), il paese è diviso in zone: giallo, arancio e rosso. Il giallo corrisponde a «vigilanza rafforzata»; l’arancio a «zona sconsigliata, salvo per ragioni imperative»; mentre il rosso è «formalmente sconsigliata». Per il Burkina quest’area «proibita» agli stranieri coincide con tutta la banda di frontiera con il Mali, il Niger e parte del Benin. In queste zone, è più probabile che i jihadisti (terroristi islamisti, come li chiamano qui), i banditi e molti altri gruppi compiano attacchi o rapimenti.
Ebbene sì, il tranquillo Burkina Faso, terra di tolleranza e di convivenza pacifica tra etnie (ben 60) e religioni1, si sta trasformando in un territorio di conflitto, seguendo il contagio dei paesi vicini, Mali e Niger in prima battuta, in un’area, quella dell’Africa dell’Ovest, che è ormai tutta piuttosto instabile.
Come cambia la vita
A Ouahigouya, frontiera della zona rossa, incontriamo Adama Sougouri, direttore della radio comunitaria «La Voix du Paysan» (la voce del contadino). La radio trasmette in otto lingue locali e porta avanti un lavoro educativo, oltre che informativo, tipico di un media di comunità. «Il problema dell’insicurezza ha cambiato il modo di vivere qui nel Nord – ci racconta il direttore -. Quando è cominciato, ci dicevamo che da noi non sarebbe successo come in Mali, con i rapimenti e gli attentati. L’esercito aveva rinforzato i presidi, ma d’improvviso la nostra regione è stata messa in zona rossa a livello internazionale e questo ha giocato molto sull’organizzazione della vita e in particolare sull’economia». Questa, fino a poco tempo fa, era una zona di passaggio dei turisti per andare a visitare i famosi «Paesi Dogon» in Mali. Hotel, ristoranti e anche molti artigiani, giovani in particolare, e commercianti vivevano di turismo. Oggi il settore è in ginocchio. Anche l’associazionismo che viveva di partenariati con Ong e associazioni europee ha visto una drastica riduzione dei propri progetti, «perché gli stranieri qui non vengono più».
A livello sociale il clima d’insicurezza ha creato la «paura del prossimo», continua Sougouri. «Questa situazione è vissuta come un’incertezza, non si capisce cosa potrebbe succedere da un momento all’altro. Oggi ci sono località nel Nord dove due vicini che si conoscono bene, non hanno più fiducia uno dell’altro. Perché qualcuno è stato scoperto a trattare con questi sedicenti ribelli o jihadisti. Tutti hanno paura di tutti». Ma c’è anche chi approfitta di questa situazione: gruppi di banditi che vivono di saccheggio.
«Alcune scuole sono state chiuse perché gli insegnanti sono stati prima minacciati, accusati di insegnare il francese ai bambini, e poi uccisi a sangue freddo». Stessa sorte è successa ad amministratori e funzionari comunali, sgozzati nelle loro povere sedi comunali.
«Non sappiamo se siano jihadisti o criminali comuni. Per tutto quello che succede usiamo la parola terrorismo. Ma è questa la strategia reale dei jihadisti?». Si interroga il direttore: «Creare una situazione di paura, di psicosi nella popolazione, per poi mettersi di lato e guardare la nostra società disgregarsi».
Il grande Nord
Con un pick-up sfrecciamo sulla pista di laterite che da Ouahigouya conduce a Titao, a Nord Est. Penetriamo ancora di più in «zona rossa», ma vediamo solo il verde del sorgo e del miglio dei campi, che, grazie a un’ottima stagione delle piogge, è cresciuto rigoglioso. Incrociamo, nell’altro senso di marcia, due camionette zeppe di militari della gendarmerie, in assetto da combattimento, con elmetti, kalashnikov e le mitragliatrici sul tettuccio, pronte – sembrerebbe – a sparare. Deve essere, pensiamo, una pattuglia di stanza nel comune di Titao, che ha finito il turno ed è stata rimpiazzata.
Giungiamo nel villaggio di You. Qui un gruppo di donne ci accoglie festanti, perché un progetto della Ong Cisv, finanziato dal Fondo Fiduciario di emergenza dell’Unione europea2 ha consegnato loro delle capre. Potranno farle riprodurre e vendere i piccoli, godendo così di un piccolo reddito per lottare contro la fame. Incontriamo poi degli agricoltori, scelti tra i più poveri del villaggio, ci assicurano quelli di Cisv. Sono in un campo di niebé (fagiolo autoctono). Lo stesso progetto li ha aiutati a strappare questa terra all’erosione, grazie a tecniche locali e ha insegnato loro come coltivare con metodi più naturali, agroecologici.
La gente è serena, contenta della visita. Non si avverte la tensione tipica da «zona rossa».
Alcuni giorni dopo la nostra visita, il 23 settembre, a un’ottantina di chilometri più a Nord, un’auto dell’impresa che sfrutta la miniera d’oro di Inata, la ghanese Balaji Group, verrà fermata da una quarantina di motociclisti armati sull’asse Tongomayel – Djibo. I tre occupanti, un burkinabè, un indiano e un sudafricano verranno rapiti. I gendarmi lanciati all’inseguimento lasceranno tre morti sul terreno. Alcuni giorni dopo interverranno pure i Mirage francesi (aerei da caccia), dell’operazione Barkhane3, a bombardare la zona. Ma è difficile colpire delle motociclette nel deserto. E ormai il gruppo riparerà nel vicino Mali.
Fronte dell’Est
Da agosto sono cominciati attacchi nelle regioni ad Est del Burkina Faso, tanto da far scrivere ad alcuni media che è nata una nuova cellula jihadista in questa zona.
Il culmine si ha il 17 settembre, con il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano della Sma di Genova, in una località nigerina, nei pressi della frontiera con il Burkina. Era nella sua parrocchia, dove lavorava dal 2007. L’ipotesi più accreditata è che il padre sia stato rapito dal gruppo che imperversa nell’Est del Burkina, in fuga dalle forze di sicurezza. Può essere stato portato nella foresta della Tapoa (Burkina), oppure verso il Mali lungo un corridoio Sud-Nord sulla frontiera Burkina-Niger.
Ricordiamo che numerosi sono i gruppi integralisti di base nel vicino Mali (cfr. MC ago-set 18 e giugno 17), alcuni legati ad Al Qaeda e altri all’Isis. Il gruppo che più ha influenzato il Burkina è il Fronte di liberazione di Macina, di Amadou Koufa, che ha pure ispirato la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, nato proprio a Djibo, nel Nord. I tre attacchi eclatanti a hotel, ristoranti e, l’ultimo, all’ambasciata francese e allo Stato maggiore dell’esercito (marzo 2018) sono stati compiuti da altri gruppi della galassia maliana, come Al Murabitun. Qualcuno teme anche l’arrivo in Burkina di Boko Haram, il gruppo estremista nato nel Nord della Nigeria e in guerra aperta con Niger, Ciad e Camerun (cfr. MC ottobre 16). Gruppo che però agisce in modo geograficamente circoscritto, la cui presenza qui pare improbabile.
Che fa il governo?
«L’opposizione critica il governo sulla questione della sicurezza, ma in realtà questo non può fare di meglio, per i mezzi che ha. Ha pure organizzato una sezione speciale all’Assemblea Nazionale (parlamento, ndr) per valutare il budget militare che penso sarà aumentato sostanzialmente», commenta Germain Nama, direttore del giornale «L’Evénement» e giornalista impegnato per i diritti umani.
«Ma la questione della sicurezza non è solo una questione militare, perché si tratta di una guerra asimmetrica, con attacchi terroristici. Contano molto i mezzi tecnologici moderni, così come i servizi di sicurezza, per cui lo stato deve investire in questi aspetti».
Da notare che l’intelligence del regime di Compaoré, che era piuttosto forte e radicata, è stata smantellata, e ora costituisce uno degli aspetti deboli delle istituzioni.
Continua Nama: «Simon4 (Compaoré, ndr), è venuto qui in redazione e lo abbiamo intervistato. Quando gli abbiamo chiesto se la natura di questo terrorismo è, secondo lui, la stessa di quella del Nord o se ci sono nigeriani, ha detto che non ci sono elementi per dirlo. È poi stata diffusa quella rivendicazione poco credibile. Occorre essere prudenti». Si riferisce a un video mal fatto, che è circolato sui social in Burkina, nel quale alcuni uomini vestiti da jihaidisti, affermano di appartenere a una sedicente cellula legata ad Al Qaeda e rivendicano gli attacchi nell’Est del paese.
Richieste sociali
Se la questione degli attacchi e della sicurezza occupa molto il dibattito nazionale, un altro aspetto importante sono le rivendicazioni della società civile. Una parte di essa, quella dei lavoratori organizzati, ha visto, negli ultimi tre anniuno, un particolare slancio rivendicativo.
Incontriamo Mamadou Barro, già segretario generale della Federazione dei sindacati nazionali dei lavoratori dell’educazione e della ricerca, il maggiore sindacato degli insegnanti. «Sul piano sociale, le richieste sono molto forti. Nei settori strutturati, come quello dei salariati, sia della funzione pubblica che del privato, molti scioperi si sono susseguiti. Per noi è l’espressione delle frustrazioni, contenute e soffocate o represse durante gli anni del regime autocratico, quasi dittatoriale, di Blaise Compaoré». Mamadou Barro si collega al passato regime, quello di Blaise Compaoré, durato 27 anni e caduto sotto la rivolta popolare dell’ottobre 2014. «L’insurrezione ha indebolito chi detiene il potere, sono stati creati molti sindacati negli ultimi tre anni. Anche in settori che non avevano mai avuto un sindacato».
Continua il sindacalista: «Ma anche i settori non strutturati, come quelli dei contadini, cercatori d’oro artigianali, abitanti dei quartieri, stanno facendo rivendicazioni sulla sistemazione del territorio, la bonifica delle strade e l’accesso ai servizi sociali di base».
«Il fallimento del regime precedente è anche di questo attuale, perché, se prendete gli uomini ai vertici di oggi, hanno tutti avuto ruoli di primo piano ieri. Rifiutando di tenere in conto le richieste della cittadinanza per il miglioramento delle condizioni di vita in termini di lavoro, accesso ad elettricità, acqua, scuola di qualità, cure mediche, i dirigenti di oggi decidono di continuare su una linea fallimentare».
Secondo la lettura di Barro, l’insicurezza viene utilizzata in modo strumentale dal governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré: «In questo contesto si inserisce la separazione che il potere cerca di creare tra le problematiche di sicurezza e le richieste sociali: sapendo di non avere risposte alle questioni sociali, allora agita la questione dell’insicurezza come la via per la quale si deve fare l’unione sacra». Ovvero uniamoci per far fronte all’insicurezza e dimentichiamoci gli altri problemi.
«E diventa quasi un ricatto: se parlate di un problema, se siete contro il governo, significa che non amate la nazione in pericolo, attaccata dagli integralisti».
Secondo Germain Nama, questo governo è comunque riuscito a dare qualche risposta. Almeno nel campo della sanità, con la legge che rende gratuite le cure per le donne incinte e i bimbi sotto i 5 anni (una prima assoluta) e la costruzione di dispensari nelle province. Altro campo è quello dell’educazione, con al costruzione di infrastrutture scolastiche. Anche diverse strade cittadine sono state asfaltate.
Giustizia: a piccoli passi
Per quanto riguarda i dossier pendenti in Giustizia, alcune importanti novità sono state confermate dal processo sul tentato golpe del 16 settembre 2015. In particolare è stato confermato che Blaise Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, era dietro all’operazione.
Altri dossier importanti in fase istruttoria sono quello sull’insurrezione del 2014 e le sue vittime, che vede imputato il regime Compaoré; il dossier sull’assassinio di Thomas Sankara e i suoi compagni (15 ottobre 1987); il dossier sull’uccisione cruenta del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998), per il quale è incriminato François Compaoré, fratello del presidente, e altri.
«Mi sembra che le cose vadano avanti, in qualche caso si aspetta di terminare l’istruttoria, in altri, come per Zongo, si attende l’estradizione di François, arrestato in Francia». Ma la popolazione soffre anche per la crisi economica che morde il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo. «I veri problemi non sono affrontati», denuncia il quadro burkinabè di una Ong internazionale. «La mancanza di lavoro per i giovani, un’economia che sta peggiorando, causando un deterioramento delle condizioni di vita di tutti. Ho l’impressione che la linea di questo governo non sia di rottura con il passato regime».
Nama ricorda che «i commercianti non sono contenti, perché dicono che i soldi non circolano, mentre prima (dell’insurrezione del 2014, nda) c’erano più soldi e più lavoro. Forse prima erano soldi sporchi …».
Anche un falegname della capitale Ouagadougou ci dice che si lavora molto di meno e lui ha dovuto licenziare diversi aiutanti, e rimanere solo con suo figlio. L’economia in effetti ha subito un rallentamento dopo il cambio di regime.
Dov’è finita la società civile?
Che ne è stato del movimento della società civile che ha condotto l’insurrezione e poi si è opposta al colpo di stato del 2015? Le premesse erano che la presa di coscienza cittadina, incanalata attraverso un certo tipo di associazioni, avrebbe esercitato un potere di «controllo» sull’operato del governo.
Ma la società civile, almeno la componente che aveva guidato l’insurrezione, ha perso credibilità. «Molti leader sono caduti per soldi o potere», ci dice il quadro dell’Ong. «I movimenti più a sinistra hanno rimproverato ai gruppi di spicco, in particolare il Balai Citoyen5, di aver accettato i militari al potere. I capi di Balai sono poco critici del potere attuale, proprio perché hanno questo “peccato originale”. Se avessero tenuto le distanze, avrebbero potuto rimanere credibili e denunciare ancora l’operato di questo governo».
Il sindacalista Mamadou Barro è ancora più netto: «Non è più un segreto oggi: sono i dirigenti di Balai Citoyen che hanno convinto Isaac Zida a prendere il potere». Il 31 ottobre 2014, dopo la fuga di Blaise Compaoré, si era creato un momentaneo vuoto di potere. Il tenente colonnello Zida, che era il numero due della guardia presidenziale, i fedelissimi dello stesso Compaoré, si è imposto presentandosi sulla piazza dell’indipendenza, circondato dai responsabili di Balai Citoyen. «Zida non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi in quella piazza, se non fosse stato circondato dai beniamini della stessa. Il loro obiettivo era quello di mettere in piedi un regime militare, ma penso che neppure le potenze imperialiste (Francia, Stati Uniti, nda) fossero per questa soluzione. C’era gente che lo ha contestato, molti manifestanti erano contro alla sua presa di potere». Le potenze straniere hanno fatto sì che si creasse un governo di transizione con un presidente, Michel Kafando, che non è un militare. Però Zida è riuscito a rientrare dalla finestra, diventando ministro della Difesa. Poi, dopo un anno di transizione, con la scusa di una missione in Canada, è rimasto in quel paese, e da allora non è mai più tornato. La giustizia del Burkina lo cerca perché avrebbe fatto sparire molti fondi dello stato.
Oggi Balai Citoyen cerca di tenere vivo l’interesse organizzando incontri e dibattiti. Come le 72 ore organizzate proprio a Ouahigouya a inizio dello scorso ottobre.
«Hanno una struttura, ma non sono più così popolari – continua Barro -. Inoltre penso che gli Stati Uniti in qualche modo li finanzino, perché realizzano attività che senza fondi esterni non sarebbero possibili». Il sindacalista ci tiene a sottolineare la differenza tra il suo movimento e il Balai: «Cinquantotto anni dopo l’indipendenza, non riusciamo a liberarci, ma la coscienza è aumentata e molti, in particolare tra i giovani, hanno capito che ci vuole la rottura antimperialista. Finché non la facciamo non avremo uno sviluppo. Nel nostro paese c’è un movimento che ha delle forze e propone un altro modo di concepire il nostro destino nazionale, diverso dal medicare gli aiuti. E il Balai Citoyen non fa parte di questo movimento. Non possono neppure, perché ricevono finanziamenti dai paesi imperialisti».
Scopriamo che Balai Citoyen è il principale partner burkinabè del progetto «Justice and Security Dialogues» della statunitense United States Institute of Peace (Usip). Si tratta di un istituto nazionale indipendente fondato dal Congresso (il parlamento statunitense), che lavora in diversi paesi nell’ottica della riduzione dei conflitti come strategia per la sicurezza Usa. Di fatto è l’ente governativo Usa per la promozione della pace.
Salita all’onore delle cronache nei giorni dell’insurrezione, Balai Citoyen è in realtà una organizzazione piuttosto giovane, nata sull’onda delle manifestazioni del 2013. Altre sono le associazioni che hanno portato all’insurrezione di fine ottobre 2014. «Loro erano nei momenti giusti nei posti chiave», dice il sindacalista, che ricorda invece l’Organisation démocratique de la jeunesse (Organizzazione democratica della gioventù) come attore importante. «Quelli di Balai sono arrivati all’ultimo momento, mentre altri gruppi, come Cgtb6 (Confédération générale du travail du Burkina, ndr) e Mbdhp7 (Mouvement burkinabè des droits de l’homme et des peuples), hanno portato avanti la lotta per anni», ci conferma il quadro dell’Ong. Un movimento sociale che ha radici fin dalla fine del 1998, quando, l’indignazione per l’assassinio di Norbert Zongo causò l’inizio di un percorso di lotta per lo stato di diritto nel paese.
Il nemico che non vedi
In Burkina Faso, oggi si ha l’impressione che né la gente né le istituzioni siano abituate a questa situazione e che le misure di sicurezza non facciano parte del loro modo di essere. Anche se i muri si alzano e cingono di filo spinato. Fatto quasi inesistente anche solo pochi anni fa. Si percepisce una certa paura, mentre la gente cerca di condurre la sua vita in modo normale, con tanto di birra alla buvette (bar di strada) dopo il lavoro e il sabato sera. Eppure si capisce che il contesto non è più lo stesso di pochi anni fa nel paese degli uomini integri. C’è un nemico invisibile, che talvolta si materializza e fa parlare di sé. Intanto la fibra ottica è arrivata in zona rossa.
Marco Bello (fine prima puntata – continua)
Note
(1) In Burkina Faso si contanto 60 etnie, di cui le maggioritarie sono: mossì, gourmanché, fulbé (peulh), bobo e bissa. Anche a livello religioso c’è sempre stata ottima coabitazione: 60% musulmani, 19% cattolici, 5% protestanti, più culti tradizionali.
(2) Fondi fiduciari di emergenza dell’Ue: si tratta di un pacchetto di aiuti stanziati all’incontro della Valletta (novembre 2015), per alcuni paesi africani. L’obiettivo dichiarato è la stabilità e la migliore gestione delle migrazioni.
(3) Operazione militare francese anti terrorismo attiva in 5 paesi: Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania, dal 1 agosto 2014.
(4) Simon Compaoré, già ministro dell’Interno e della sicurezza, figura di spicco del vecchio e del nuovo regime e oggi ministro alla Presidenza della repubblica.
(5) Balai Citoyen (scopa cittadina), movimento della società civile, nato nel 2013, ha acquisito notevole visibilità durante l’insurrezione popolare, grazie a un’accorta strategia comunicativa.
(6) Cgtb, Confederazione generale del lavoro, è una confederazione sindacale, creata nel 1988, raggruppa 12 sindacati nazionali e 70 sindacati d’impresa.
(7) Mbdhp, Movimento burkinabè per i diritti dell’uomo e dei popoli, fondato nel 1989, è la maggiore associazione per la difesa dei diritti in Burkina Faso.