Transizione, miti e realtà


Abbandonare i combustibili fossili è un’impresa complicata e costosissima. Trovare le materie prime sostitutive lo è altrettanto. Con queste premesse, non ci sono dubbi che la transizione «verde» sarà un’impresa.

Prima il carbone, poi il petrolio, dopo il gas, fatto sta che, più o meno, da 250 anni utilizziamo combustibili fossili per produrre energia. Il risultato è che abbiamo emesso così tanta anidride carbonica da avere provocato l’innalzamento medio della temperatura terrestre di oltre un grado centigrado. Con inevitabili ricadute sul clima che ormai ha perso la regolarità di qualche decennio fa come testimoniano lo scongelamento dei ghiacciai, i lunghi periodi di siccità, le piogge torrenziali che devastano agricoltura e territori. Quando ormai il danno è già stato fatto, i centri di potere stanno meditando di fare qualcosa per mettere un freno alla produzione di anidride carbonica. L’obiettivo universalmente dichiarato è il raggiungimento di emissioni nette uguale allo zero per il 2050. Come dire che per quella data la CO2 prodotta dovrà essere ridotta di circa due terzi rispetto a quella prodotta oggi in modo da riportarla nei limiti di capacità di assorbimento del sistema vegetale presente sul pianeta.

La transizione energetica

Per riuscirci bisogna cambiare radicalmente modo di produrre energia e la parola d’ordine a livello planetario è diventata «transizione energetica» che significa un altro modo di produrre energia elettrica, di produrre calore in ambito industriale e domestico, di alimentare i mezzi di trasporto.

In ambito elettrico le nuove strategie sono il solare, l’eolico, l’idroelettrico. Ma c’è anche chi insiste nel rilancio di tecniche azzardate come le centrali nucleari, mentre si stanno conducendo ricerche nel campo della fusione nucleare, che poi significa riproduzione sulla Terra di quanto avviene all’interno del sole. Quanto alla mobilità, la nuova frontiera è rappresentata dai mezzi elettrici alimentati a batteria o celle a idrogeno.

Tra il dire e il fare: chi paga il passaggio?

La transizione energetica (o green) è tanto facile a dirsi, quanto difficile da attuarsi perché si tratta di un’operazione mastodontica con ripercussioni enormi sia sul piano finanziario che ambientale. Ad esempio, rispetto al primo aspetto, quello finanziario, la European round table, l’associazione delle principali multinazionali europee, valuta che, da qui al 2030, solo in Europa servirebbero 700 miliardi di euro per rinnovare e ammodernare il sistema di produzione e trasmissione elettrica. Fino al 2050 il costo previsto a tale scopo è di 2.300 miliardi di euro. E siamo appena all’ambito elettrico. Nel contempo vanno rinnovati anche gli altri comparti energetici: i riscaldamenti interni alle abitazioni, le fornaci interne alle aziende, la propulsione dei mezzi di trasporto che devono passare dai motori a scoppio ai sistemi alimentati da batterie elettriche o da batterie a idrogeno. Il tutto, poi, va esteso a livello mondiale, considerando anche che ci sono continenti, come quello africano, dove centinaia di milioni di persone non godono ancora di alcun tipo di fornitura elettrica.

In conclusione, secondo i calcoli effettuati dalla banca d’investimento britannica Barclays Bank, da qui al 2050 servono fra i 100mila e i 300mila miliardi di dollari, a livello mondiale, per sostituire il parco energetico oggi basato sui combustibili fossili. Come termine di paragone, si tenga conto che 100mila miliardi corrispondono all’intera ricchezza prodotta in un anno a livello mondiale.

I soldi sono un problema e il primo nodo della transizione energetica è: chi deve sobbarcarsi la spesa? La risposta dipende dall’orientamento politico, ma è verosimile che, chi più chi meno, tutti dovranno fare la propria parte: governi, imprese e famiglie, sapendo che ai governi tocca anche l’attività di regolamentazione e di indirizzo. Tutte iniziative che presentano la propria complessità, ma che sono ampiamente superabili se sostenute da un’adeguata volontà politica. Ciò che invece è di difficile soluzione riguarda gli effetti sociali e ambientali che la transizione green è destinata a sollevare.

La transizione complicata: i microchip non sono immateriali. Foto Brian Kostiuk – Unsplash.

Il materiale dell’immateriale

L’affermarsi dell’informatica ci ha fatto credere di essere entrati nell’era dell’immateriale, il tempo in cui si riesce a operare a distanza senza bisogno di alcun mezzo di trasporto né di energia per il loro movimento. Ma si tratta di un’illusione. A questo mondo, d’immateriale non c’è niente, neanche il pensiero, perché, per funzionare, il cervello ha bisogno di nutrimento, ossia di materia. E così pure i nostri congegni elettronici: per funzionare richiedono non solo energia, ma anche materia per dare forma alla tecnologia da cui dipendono. Né tragga in inganno la leggerezza dei microchip, emblema della moderna tecnologia informatica. I microcircuiti all’interno dei nostri computer e dei nostri cellulari sono distillati di processi produttivi che hanno impiegato una quantità di materiale assai più elevato del risultato finale.

Più esattamente per ottenere un microchip di appena due grammi servono 1,5 chilogrammi di combustibili fossili, 0,073 chilogrammi di composti chimici, 31,9 litri d’acqua e 0,7 chilogrammi di gas (in particolare azoto). Come dire che per produrre un microchip ci vuole una quantità di risorse materiali 17mila volte più alta del suo peso finale. Risorse entrate nel ciclo produttivo, ma poi rimosse una volta assolta la propria funzione. E, si noti bene, rimosse, ma non dissolte, bensì gettate in qualche angolo del pianeta sotto forma di rifiuto. Ogni prodotto che usiamo nasconde da qualche parte la zavorra degli scarti di produzione che gli esperti chiamano «zaino ecologico».

I nuovi materiali sono «critici»

I rifiuti nascosti sono solo uno dei problemi che accompagnano i nuovi materiali su cui si basa la transizione energetica. Altrettanto preoccupante è la nuova dipendenza che si sta profilando: il vecchio sistema energetico dipendeva dai combustibili fossili, il nuovo dipende da pochi minerali su cui è già lotta aperta per il loro accaparramento. L’Unione europea ha stilato una lista di 34 minerali strategici ai fini della transizione energetica, di cui alcuni già ampiamente inseriti nella tradizione industriale, altri solo marginalmente. Fra i primi possiamo citare il rame, l’alluminio, il nickel, che nel nuovo corso diventeranno ancora più importanti per il posto occupato nei dispositivi utili alla produzione e alla trasmissione di corrente elettrica. Fra i secondi risaltano il litio, il cobalto, la grafite, ma anche le terre rare, un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, tra cui cerio, lantanio, scandio (vedi MC giugno 2024). Un insieme di materiali che trovano un’ampia applicazione in tutti i settori della tecnologia avanzata e delle energie rinnovabili. Fondamentali per costruire magneti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche, pannelli solari, sono elementi imprescindibili di apparecchiature di medicina avanzata, di computer, smartphone e tecnologia aerospaziale, compresa quella a fini militari.

I nuovi minerali a fini energetici sono intriganti anche per il lessico che li accompagna. Potevano essere presentati come salvifici, sostenibili, verdi o in qualsiasi altra versione positiva. Invece, sono etichettati da tutti come «critici». Valga come esempio l’Unione europea che in tutti i documenti dedicati all’argomento ne parla come «materie prime critiche». Altrettanto negativamente sono rappresentate dalle associazioni a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ma per ragioni opposte: la società civile teme i rischi per la natura e le popolazioni locali; l’Unione europea teme quelli per la supremazia delle sue imprese. Un timore, quest’ultimo, dettato da due fattori: la scarsità dei minerali e la loro concentrazione in pochi paesi.

Per la verità il capitalismo non si è mai preoccupato della disponibilità di risorse. Ha eletto come zona di crescita economica una porzione ridotta di mondo: soltanto questa aveva il diritto di fare razzia per ogni dove. In altre parole, i paesi occidentali si sono sempre arrogati il diritto di perseguire la crescita infinita, certi che i limiti del pianeta non sarebbero mai stati un ostacolo. Ma oggi che molte altre aree geografiche si sono avviate lungo la strada della crescita economica, il vecchio capitalismo occidentale ha cominciato a capire che la crescita infinita non può esistere.

La transizione complicata: la produzione di energia elettrica. Foto Couleur – Pixabay.

Materie prime: chi le ha e chi le sa lavorare

A suonare il campanello d’allarme è perfino l’Ocse, l’ufficio studi dei paesi più ricchi incaricato di elaborare strategie di crescita economica per loro conto. Secondo le sue previsioni, da qui al 2060 la domanda mondiale di materie prime crescerà più del doppio, passando dagli attuali 79 miliardi di tonnellate a 169. Del resto, la pressione sui minerali è già evidente attraverso i prezzi.

Il litio carbonato, solo per citare un esempio, è passato da 20mila dollari a tonnellata nel 2018 a 80mila dollari nel gennaio 2023. Certo, i prezzi hanno sempre un andamento altalenante perché risentono della speculazione finanziaria, ma le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia rispetto alla domanda di minerali a fini energetici non ammettono dubbi. Secondo i suoi calcoli, nel 2040 la domanda di nichel sarà due volte più alta rispetto al 2010, mentre quella di cobalto cinque volte più alta. Quanto al litio, nel 2030 la sua richiesta sarà quattro volte più alta rispetto a oggi. Di conseguenza un quesito si pone con forza: nel futuro ci saranno minerali a sufficienza per tutti? E se non dovessero essercene, chi deciderà chi può averne? Sicuramente un grande decisore sarà il prezzo di vendita, destinato ad aumentare per tutti i minerali: chi potrà comprarli a qualsiasi prezzo sarà il vincitore, gli altri dovranno leccarsi le ferite. A fare da discrimine, insomma, sarà la ricchezza. Ma anche la nazionalità perché saranno avvantaggiati i paesi con riserve nel proprio sottosuolo e con capacità di raffinazione. Una situazione ad oggi molto sbilanciata.

Parlando di estrazione, ad esempio, si scopre che pochi paesi sono produttori di minerali critici. Spicca la Repubblica democratica del Congo per cobalto e tantalio, il Sudafrica per il manganese, la Cina per le terre rare, l’Australia e il Cile per il litio. E se passiamo all’attività di lavorazione e raffinazione delle materie prime, scopriamo che il livello di concenrazione è ancora più marcato.

Da questo punto di vista il primato spetta alla Cina rispetto a una grande quantità di metalli. La sua quota di raffinazione si aggira intorno al 35% per il nichel, al 50% per l’alluminio, al 60% per litio e cobalto, addirittura al 100% per le terre rare pesanti. Uno scenario che spaventa in particolare l’Unione europea, che fra tutte le potenze economiche è quella più sguarnita di minerali e di imprese siderurgiche.

Dalla globalizzazione all’autarchia

Ormai il tempo della globalizzazione, del consideriamoci tutti amici e lasciamo che il mondo sia un unico grande mercato dove ognuno va a comprare dove è più conveniente, è passato. Le imprese non fanno soldi solo per sé, ma sono anche garanzia di introiti per le casse statali e fonte di stabilità occupazionale. Di conseguenza, la politica ha scoperto che troppa globalizzazione fa male agli interessi interni e ha cominciato a tirare il freno. Anche su richiesta di tutte quelle imprese nazionali che dalla globalizzazione ci stavano rimettendo, tutte le grandi potenze economiche stanno virando verso un maggior senso di casa per ridurre la dipendenza dall’estero rispetto alle risorse strategiche. Hanno iniziato gli Stati Uniti ed è seguita a ruota l’Unione europea che, nel marzo 2023, ha varato un regolamento per rilanciare l’apertura di miniere dismesse e siti industriali utili a produrre metalli strategici per la transizione energetica. L’obiettivo dichiarato è che per il 2030 si estragga internamente almeno il 10% dei minerali strategici e si lavori nei paesi europei il 40% dei minerali utilizzati. È anche previsto che il 25% provenga da materie prime riciclate. In ogni caso, il regolamento più che obblighi per i governi, prevede facilitazioni finanziarie e normative per favorire il nuovo corso autarchico. Che, però, non tutti vedono con favore perché l’estrazione si accompagna spesso a processi di alterazione ambientale che inquinano il territorio, compromettono le falde acquifere, pongono a rischio la salute degli abitanti. Di questo tema, però, ci occuperemo nel prossimo articolo.

 Francesco Gesualdi

 




Terre rare. Corsa globale


Sulla Terra si moltiplicano le «zone di sacrificio» dove, in nome di un supposto bene comune (tecnologico), si calpestano persone e ambiente. Le terre rare, minerali cruciali per ogni prodotto, dagli smartphone ai missili, sono contese dai grandi del mondo.

Forse state leggendo questo articolo nella versione cartacea della rivista, oppure dallo smartphone, o da un computer. In ambedue i casi, lo leggete grazie alle tecnologie che fanno funzionare i nostri apparecchi elettronici e le loro batterie, oltre ai sistemi di stoccaggio di dati e ai vari cloud. Queste tecnologie utilizzano una grande varietà di materiali. Tra essi, fondamentali sono le cosiddette terre rare. Non le vediamo a occhio nudo, ma sono cruciali. Impiegate nelle auto elettriche, in apparecchi medici di precisione, laser, schermi, lampadine led. Persino nella raffinazione del petrolio.

La tecnologia fa passi da gigante, e ne abbiamo bisogno. Tuttavia, alcune domande dovremmo porcele. Soprattutto alla luce dei cambiamenti tecnologici promossi, ad esempio, dall’Unione europea. E, di questi tempi, anche alla luce degli enormi investimenti in armamenti e tecnologie nucleari.

Da dove provengono le terre rare? Quanto rare sono? Come si ottengono e come si processano? Chi lo fa, e dove?

Per provare a rispondere a queste domande, il gruppo di ricerca dell’EJAtlas (l’Atlante della giustizia ambientale), insieme alla catalana Observatori del deute en la globalització (Odg), allo statunitense Institute for policy studies e al Craad-oi del Madagascar, membri del Global rare earths element network, hanno condotto una ricerca e documentato i conflitti socio ambientali in relazione alla filiera delle terre rare. Dalla ricerca sono nati un rapporto e una mappa che documentano più di venticinque casi in Cina, Cile, Brasile, Finlandia, Groenlandia, India, Kenya, Madagascar, Malaysia, Malawi, Myanmar, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Svezia.

Ma cerchiamo di rispondere alle domande passo a passo.

Terre rare ovunque

Oggi, quasi tutta la tecnologia utilizza le terre rare. La loro pervasività è esemplificata dall’automobile, uno dei prodotti che ne consumano maggiori quantità. La sua parte elettronica, per esempio, così come gli altoparlanti del sistema audio che utilizzano magneti permanenti al neodimio-ferro-boro. I sensori elettronici che utilizzano zirconio stabilizzato con ittrio per misurare e controllare il contenuto di ossigeno nel carburante. I fosfori dei display ottici che contengono ossidi di ittrio, europio e terbio. Il parabrezza e gli specchietti sono lucidati con ossidi di cerio. Anche i carburanti sono raffinati utilizzando lantanio, cerio o ossidi misti di terre rare. Le automobili ibride sono alimentate da una batteria ricaricabile all’idruro metallico di nichel-lantanio e da un motore di trazione elettrico, con magneti permanenti.

Anche dispositivi come telefoni, televisori e computer impiegano terre rare per i magneti degli altoparlanti, i dischi rigidi, i display. Le quantità di terre rare utilizzate, pur ridotte (tra lo 0,1 e il 5 per cento del peso), sono essenziali per farli funzionare.

Cosa sono e dove si trovano?

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici. Il loro nome è piuttosto fuorviante perché non si tratta di «terre» e non sono neppure così rare.

I Ree – Rare earth elements – sono lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio, ittrio e scandio.

Siamo a conoscenza della loro esistenza dal 1787, quando il tenente dell’esercito svedese Carl Axel Arrhenius scoprì un minerale nero in una piccola cava di Ytterby (vicino a Stoccolma). Il minerale era una miscela di terre rare dalla quale il primo elemento isolato fu il cerio nel 1803. Allora sembravano degli ossidi rari. Da qui il loro nome. In seguito, invece, sono stati trovati in molti paesi.

Secondo l’Us geological survey (Usgs), nel 2022 la Cina ha fornito il 70% della produzione globale di Ree (210mila tonnellate metriche), seguita da Stati Uniti (14,3%), Australia (6%), Myanmar (4%), Thailandia (2,4%), Vietnam (1,4%), India (0,96%), Russia (0,86%), Madagascar (0,32%) e Brasile.

Le riserve sono invece documentate in oltre trentaquattro Paesi. Dopo la Cina (44 milioni di tonnellate), c’è il Vietnam (22 milioni), seguito da Russia e Brasile (21 milioni ciascuno).

La loro lavorazione avviene per l’87% in Cina, il 12% in Malaysia (dall’australiana Lynas rare earths) e l’1% in Estonia (dati della Agenzia internazionale dell’energia, Aie, del 2022).

Come abbiamo visto, le terre rare hanno proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche che le rendono cruciali per molti usi civili, tuttavia, esse sono strategiche anche per l’industria della difesa e aerospaziale: per produrre aerei, missili, satelliti e sistemi di comunicazione.

Infatti, la proposta della Commissione europea per la legge sulle materie prime critiche dell’Ue, pubblicata nella primavera del 2023, menziona la necessità strategica di questi minerali per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa e l’industria aerospaziale.

L’Aie suggerisce che, per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero, l’estrazione di terre rare dovrebbe aumentare di dieci volte entro il 2030. In realtà, è già cresciuta di oltre l’85% tra il 2017 e il 2020, soprattutto per la domanda di magneti permanenti per la tecnologia eolica e i veicoli elettrici.

Tuttavia, serve sottolineare l’assurdità della speranza di arrivare a zero emissioni. Infatti, anche se le emissioni per combustione di gas o petrolio non avverranno nelle centrali elettriche o nei motori delle auto, ci saranno nelle miniere e nelle fabbriche di lavorazione di pannelli fotovoltaici o di turbine eoliche.

Se non in Europa o altri paesi opulenti, le emissioni avverranno laddove le imprese delocalizzano e producono con minori costi e controlli.

Come si estraggono?

Come già detto, le terre rare sono abbondanti. La loro disponibilità, però, è limitata, soprattutto perché i livelli di concentrazione sono bassi (meno del 5% in media).

Una fonte, per essere economicamente redditizia, dovrebbe contenere più del 5% di terre rare, a meno che non siano estratte assieme ad altri metalli, ad esempio zirconio, uranio o ferro. In questo caso avviene il recupero economico anche di corpi minerari con concentrazioni addirittura dello 0,5%.

La concentrazione bassa e spesso combinata rende l’estrazione delle terre rare molto costosa. Richiede grandi quantità di energia e acqua, e anche la generazione di molti rifiuti.

Inoltre, le terre rare sono spesso mescolate con diversi elementi pericolosi, come uranio, torio, arsenico e altri metalli pesanti che comportano elevati rischi per la salute e l’ambiente.

L’estrazione avviene a cielo aperto o in miniere sotterranee, tramite un processo chimico e fisico spesso attuato in situ.

Le terre rare non si possono riciclare da prodotti vecchi. Nonostante le grandi aspettative sul riciclo, esso rimane una fonte marginale (meno dell’1%): la difficoltà di separare i singoli elementi gli uni dagli altri è elevata. Inoltre, quella del riciclo è ben lontana dall’essere un’industria pulita, poiché richiede grandi quantità di energia e genera rifiuti pericolosi.

Le miniere di terre rare

I casi di conflitti socio ambientali per l’estrazione, lavorazione e riciclaggio delle terre rare documentati nel report citato, indicano tendenze preoccupanti per quanto riguarda gli impatti ambientali, sociali e sui diritti umani. Le preoccupazioni denunciate dalle comunità locali prossime a questi stabilimenti riguardano l’inquinamento dell’acqua, del suolo, dell’aria e il suo impatto sulla salute.

Le proteste sono generate anche dalla mancanza di trasparenza e di partecipazione alle procedure decisionali e ai controlli, compreso il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni indigene.

Molti dei casi documentati dal report riguardano abusi dei diritti umani tramite diverse forme di violenza (repressione, persecuzione legale, criminalizzazione, violenza fisica) esercitate contro le comunità locali, i difensori dell’ambiente e dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.

Cina, Usa e Malaysia

Il più grande sito di estrazione e lavorazione al mondo si trova in Cina, a Bayan Obo, nella provincia della Mongolia interna.

Decenni di attività hanno prodotto un massiccio inquinamento di terreni e acque con metalli pesanti, fluoro e arsenico che hanno avvelenato gli abitanti e gli ecosistemi locali.

L’inquinamento si è poi diffuso lungo il bacino idrografico del Fiume Giallo, da cui dipendono quasi 200 milioni di persone per l’acqua potabile, l’irrigazione, la pesca e l’industria.

In Cina sono anche attivi centri di riciclaggio dei rifiuti elettronici, come quello di Guiyu (Guangdong), nel cui territorio si sono registrati livelli preoccupanti d’inquinamento da metalli pesanti nel suolo, nell’acqua e persino nel sangue umano.

Negli Stati Uniti, la miniera Mountain Pass, chiusa negli anni 2000 per l’inquinamento (e per la concorrenza cinese), è stata recentemente riattivata per l’approvvigionamento di terre rare negli Stati Uniti.

In Malaysia, dal 2011, le comunità del distretto di Kuantan combattono contro lo stabilimento di Lynas Rare Earths Ltd e l’inquinamento associato, nonché i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Myanmar e Madagascar

In Myanmar, principale esportatore verso la Cina, la miniera è controllata dal regime militare che ne beneficia. Le violazioni dei diritti umani, i danni agli ecosistemi locali e alle condizioni di vita degli abitanti della regione sono grandi. Precedentemente rinomata per le sue foreste incontaminate, la ricca biodiversità e i corsi d’acqua puliti, la regione di Kachin si sta ora trasformando in un paesaggio segnato dalla deforestazione e dalla presenza di pozze turchesi tossiche. Le attività estrattive stanno contaminando i corsi d’acqua, causando la fuga degli animali selvatici, incidendo sui mezzi di sussistenza delle comunità locali e causando molteplici problemi di salute.

Quando i leader dei villaggi hanno cercato di denunciare l’impatto dell’estrazione di terre rare sulla loro terra e sui loro mezzi di sostentamento, hanno ricevuto minacce e intimidazioni da parte delle milizie, o hanno subito arresti e omicidi.

In Madagascar, dal 2016, le comunità locali si oppongono al progetto minerario Tantalus rare earths malagasy in quanto violerebbe molti dei loro diritti, compresi quello alla terra e ai mezzi di sostentamento, dato che la maggior parte di loro vive di pesca e agricoltura. Fin dall’inizio del progetto, acquisito da Reenova e poi da Harena resources Pty Ltd nel 2023, le comunità locali hanno denunciato la natura irregolare dei permessi di estrazione, la trascuratezza dei lavori di riabilitazione dei pozzi, la mancanza di partecipazione dei locali e del loro consenso libero, preventivo e informato, nonché la mancata considerazione degli impatti sociali, sui diritti umani e sull’ambiente.

Il caso Lynas in Malaysia

In Australia occidentale, Lynas Rare Earths Ltd estrae minerali di terre rare dalla miniera semiarida di Mt Weld e li trasporta per processarli nello stato di Pahang in Malaysia. Qui, dal 2011, le comunità di Kuatan hanno lottato contro l’inquinamento e i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi della multinazionale. Le loro azioni hanno ottenuto il riconoscimento e il sostegno di alcune organizzazioni internazionali.

La Lynas ha promesso di rimuovere i rifiuti per ottenere la licenza dal governo, ma ha poi rinnegato l’impegno legale.

Mentre in Australia occidentale lo stesso tipo di rifiuti deve essere smaltito sottoterra, isolato dalla biosfera per mille anni, in Malaysia questo materiale radioattivo (ad oggi 1,5 milioni di tonnellate) è stato ammassato in una discarica priva di misure di sicurezza, vicino a complessi residenziali e località costiere.

La campagna «Stop Lynas», promossa dalla comunità, denuncia il green washing dell’azienda e la mancanza di applicazione della legge da parte dei governi, i rischi delle scorie radioattive, la riduzione di disponibilità di acqua e dei mezzi di sussistenza, e il rischio di cancro.

Svezia e India

Il continente europeo non è esente da simili preoccupazioni. È il caso di Norra Kärr, in Svezia. Nel progetto minerario vicino al lago Vättern, l’acido solforico viene utilizzato per separare le terre rare dagli altri minerali. I materiali di scarto vengono poi stoccati in bacini di decantazione. I gruppi ambientalisti temono che gli acidi e i minerali (tra cui uranio e torio) possano contaminare l’ambiente e in particolare il lago Vättern, inquinando l’acqua potabile di centinaia di migliaia di persone.

L’estrazione di terre rare è anche legata alla distruzione delle aree costiere e degli ecosistemi, ad esempio in India, dovuta all’estrazione intensiva di sabbia da cui vengono poi separate le terre rare, e ai potenziali impatti sugli oceani. In Nuova Zelanda e in Norvegia esistono progetti di estrazione in acque profonde, attualmente sospesi a causa degli incerti e gravi rischi ambientali e biologici che questa nuova frontiera mineraria comporta.

Le maggiori aziende

Le imprese estrattive hanno sede principalmente in Cina, Stati Uniti, Canada e Australia. La mega azienda China rare earths group controlla il 70% della produzione del Paese. Le altre principali società che estraggono terre rare a livello globale sono: Lynas Rare Earths Ltd (coinvolta nel più grande impianto di lavorazione delle terre rare al di fuori della Cina, in Malaysia e presto anche nel nuovo grosso impianto statunitense del Texas, con incarico diretto dal dipartimento di Difesa degli Stati Uniti), Iluka, Alkane resources (le tre con sede in Australia), Shenghe resources (con sede in Cina) e Molycorp (Stati Uniti).

Una corsa globale

Il dominio cinese del mercato suscita timori negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Nel contesto delle crescenti tensioni tra Cina e Occidente, la guerra fredda dei minerali trasforma la geopolitica delle terre rare.

Negli ultimi anni, ad esempio, gli Stati Uniti hanno cercato di mettere in sicurezza le catene di approvvigionamento diversificando le proprie fonti. Ciò ha comportato un aumento dell’attività estrattiva nazionale – il rilancio del sito di Mountain Pass in California e la lavorazione del minerale in loco anziché in Cina – nonché l’esplorazione di nuovi giacimenti in luoghi come Bear Lodge nel Wyoming.

Anche l’Unione europea sta promuovendo lo sviluppo di progetti di estrazione in Svezia, Finlandia, Spagna e in Serbia.

Tra le altre politiche, l’Us inflation reduction act richiede che i produttori di auto elettriche si riforniscano dagli Stati Uniti o da paesi alleati (leggi: non dalla Cina) di almeno il 40% del contenuto minerale delle batterie. Questa percentuale dovrà salire all’80% entro il 2027.

Washington non sta solo cercando di assicurarsi i propri minerali critici, ma sta anche costringendo gli alleati a ridurre gli scambi con Pechino.

Allo stesso modo, la Commissione europea ha presentato la legge sulle materie prime critiche nel 2023. Essa ha obiettivi ambiziosi per il 2030: raggiungere il 10% dell’estrazione di minerali critici, il 40% della lavorazione in Paesi europei, un’importazione diversificata che preveda un tetto massimo di minerali provenienti da un unico Paese pari al 65%.

La Cina, nel frattempo si sta assicurando la fornitura tramite progetti di estrazione in Asia, Africa e America Latina e nell’estate del 2023 ha imposto controlli sulle esportazioni di gallio e germanio, componenti fondamentali delle celle solari, delle fibre ottiche e dei microchip utilizzati nei veicoli elettrici, nell’informatica quantistica e nelle telecomunicazioni.

Le esportazioni della Cina di questi minerali sono scese da quasi nove tonnellate metriche a zero. Questo sforzo per «garantire le catene di approvvigionamento» viene presentato ai Paesi del Sud globale come un’opportunità per loro di aumentare il proprio reddito e persino ottenere vantaggi nello sviluppo di ulteriori processi di lavorazione e produzione, cosa che permetterebbe loro di richiedere maggiori diritti di proprietà intellettuale nei futuri accordi. Tuttavia, gli impatti e i conflitti evidenziano un modello industriale basato su vecchie e nuove «zone di sacrificio», dove le comunità e gli ecosistemi sono distrutti per un supposto bene comune superiore.

Pensiamoci quando ci confortiamo con soluzioni, come la transizione energetica, basate su fonti che non mettono in discussione il livello di consumo e le priorità produttive.

Daniela Del Bene

 


Il rapporto e la mappa da cui sono ricavati i dati riportati in questo articolo sono disponibili al sito:
https://ejatlas.org/featured/rees-impacts-conflicts-map