È morto a Lima, sua città natale, lo scorso 22 ottobre. Padre Gustavo Gutiérrez Merino, sacerdote, filosofo e teologo peruviano, aveva 96 anni. In gioventù, parroco nel distretto del Rímac, nel 1971 divenne conosciuto a livello mondiale per la sua «Teología de la liberación: perspectivas», un lavoro di enorme portata, non soltanto per la teologia e la Chiesa cattolica. Nel 1974, fondò l’istituto Bartolomé de Las Casas, che in breve tempo si sarebbe affermata come una prestigiosa istituzione di ricerca su teologia e povertà. Nel 2001 entrò nell’ordine dei Domenicani.
Nel corso della sua vita, padre Gutiérrez si è dedicato all’analisi e alla denuncia della povertà e delle disuguaglianze nel continente latinoamericano. La sua proposta centrale è così riassumibile: di fronte all’ingiustizia strutturale creata dall’ordine sociale ed economico prevalente, i cristiani debbono non soltanto denunciare ma anche agire. E proprio da qui, da questo concetto rivoluzionario, sono scaturite tutte le polemiche e le accuse – da parte del potere e dei settori più conservatori della società – di aver trasformato la teologia in teoria politica e, per di più, di sinistra.
Abbiamo avuto modo di constatare di persona quanto le sue idee potessero suscitare reazioni di fastidio all’interno della stessa Chiesa cattolica. Una volta il cardinale Augusto Cipriani (all’epoca, primate del Perù), in risposta a una domanda su padre Gutiérrez, ci disse: «L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scrivere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».
Per due volte, nel 1998 e nel 2004, nella capitale peruviana abbiamo incontrato padre Gutiérrez. C’impressionò subito per la forza che sprigionava dalla sua figura minuta. Nel 2004, quando lui era professore alla facoltà di teologia della statunitense University of Notre Dame, nell’Indiana, gli chiedemmo come – a suo parere – stesse la Teologia della liberazione. «Sta bene – rispose -. In questi anni stiamo lavorando su nuove dimensioni e approfondendo un’intuizione originale, che nei nostri primi scritti avevamo chiamato “la complessità della libertà”. Questo significa, in sintesi, prestare attenzione non solo agli aspetti economici della realtà ma anche a quelli etnici, culturali, di genere, ecc. Un’altra dimensione che stiamo sottolineando è la critica al pensiero unico neoliberista. Il nostro punto di partenza è l’opzione preferenziale per i poveri (opción preferencial por los pobres) che, ancora oggi, costituisce il centro della Teologia della liberazione».
Sempre durante quell’intervista, padre Gutiérrez spiegò: «Una volta un giornalista mi chiese se fossi pronto a scrivere di Teologia della liberazione come avevo fatto vent’anni prima. Io gli chiesi se fosse sposato. Lui mi rispose di sì, allora gli chiesi di nuovo: scriveresti a tua moglie una lettera d’amore come hai fatto vent’anni fa? Per me è lo stesso. Per me scrivere teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa a cui appartengo, al mio popolo, e questo è il mio progetto».
Padre Gutiérrez era consapevole delle difficoltà: «C’è – ci disse nel 1998 – una povertà che persiste, che dura, che continua nel tempo. Credo che la distanza tra i più poveri e i più ricchi si faccia più grande». Nel 2010, in un’intervista per l’Università cattolica di Lima (Pucp), osservò: «Il continente più diseguale del mondo è l’America Latina, eppure la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana è cristiana, cattolica ed evangelica. Il cristiano sa che deve amare il prossimo e preferibilmente il più povero. La realtà non sembra rispondere a questa richiesta».
Cosa rimane oggi della Teologia della liberazione? Rimane l’«opzione preferenziale per i poveri» – la scelta di una società in cui i meno fortunati siano al centro – che ne è un principio fondante. L’espressione, che risale ai documenti ufficiali dei vescovi dell’America Latina (Conferenza di Medellìn del 1968, Conferenza di Puebla del 1979), è stata infatti fatta propria da papa Francesco già al momento del suo insediamento, nel marzo 2013.
Sei mesi dopo quella data, esattamente il 12 settembre, Francesco e padre Gutiérrez si ritrovarono in un incontro privato a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un grande atto di stima e affetto del pontefice argentino nei confronti del teologo peruviano.
Paolo Moiola
Raccontare liberazioni. Teologia e femminismo brasiliani
Le storie di alcune donne cristiane impegnate per la liberazione propria e delle loro comunità narrano di un modo di essere Chiesa. Incontriamo l’autrice di un libro che, descrivendo alcune esperienze del passato, vuole aprire a buone pratiche per oggi e domani.
Neide Furlan, nata il 14 marzo 1957, è una donna brasiliana. Quando Viviana Premazzi, autrice del libro Per una società e una Chiesa senza esclusioni, la incontra nel 2005, vive nella diocesi di Lages, nello stato di Santa Catarina, zona Sud del Paese: uno dei territori più poveri dove la terra è nelle mani di pochi latifondisti.
L’ingiustizia è la radice dell’impoverimento della popolazione, e la condizione subalterna delle donne fa parte della situazione generale di oppressione.
Neide, moglie di un sindacalista camponeso (contadino), ha capito che la lotta per la terra e la dignità è diversa se si è donne o uomini. E, osservando la situazione attorno a sé, ha deciso di impegnarsi anche lei per i diritti dei contadini, in particolare per quelli delle donne camponesas.
Per anni è coordinatrice regionale del Movimento de mulheres camponesas (Movimento delle donne contadine).
Il suo impegno l’ha portata a prendere una laurea in storia. Pensa, infatti, che per lavorare nei movimenti sociali sia necessario conoscere il passato e i meccanismi che hanno generato l’ingiustizia. Non una storia generale, però, ma una storia specifica, di un luogo e di persone precisi. In particolare, pensa che la riscoperta delle storie di alcune donne che in passato hanno avuto ruoli di liberazione per i loro popoli possa aiutare la lotta delle donne del presente.
Data la sua formazione cattolica e il suo impegno nelle comunità ecclesiali di base (Cebs) approfondisce anche le figure femminili presenti nella Bibbia, perché crede che la Parola liberi.
Neide, Romilda e le altre
La storia di Neide è contenuta nel libro di Premazzi, pubblicato nel 2023 da Effatà editrice con il sottotitolo Teologia e femminismo in Brasile.
Assieme alla sua, l’autrice racconta anche la storia di Romilda che, a sua volta ispirata dall’esperienza delle Cebs, dalla teologia della liberazione e dalle donne della Bibbia, si impegna nella società e nella Chiesa per la liberazione della donna nelle vesti di leader di comunità, catechista, ministra della Parola e dell’eucaristia, animatrice di un gruppo famiglia.
Marione, invece, è una suora della Divina Provvidenza che lavora con le donne del barrio São José proponendo corsi di cucito, di teologia e di Bibbia, perché esse acquistino maggiore dignità e rispetto da parte degli uomini della comunità.
Proprio come Neide, anche Viviana Premazzi, lombarda, 43 anni, ha raccolto e raccontato le storie di alcune donne brasiliane per fare – ci dice – la sua parte nella costruzione di una società e una Chiesa senza esclusioni.
Pur pubblicandolo nel 2023, l’autrice ha lavorato sul materiale del libro nel 2005. Ha conosciuto Neide, Romilda, Marione e molte altre persone impegnate per la liberazione degli oppressi, durante un viaggio in Brasile per la sua tesi di laurea in Scienze politiche. Una volta laureata, ha lasciato decantare il testo finché non ha incrociato una ragazza induista e il suo scoraggiamento nei confronti della condizione delle donne nelle religioni. «In occasione di un evento interreligioso a Roma – scrive Premazzi nell’introduzione -, una ragazza di religione induista […] ha detto che non ci sarebbe mai stato nulla da fare per le donne nelle religioni, perché sono intrinsecamente misogine ed escludenti, perché perpetuano una cultura di sottomissione, violenza ed oppressione […]. Le sue parole mi hanno catapultato a vent’anni fa […]. Ho chiesto la parola […] e le ho detto che […] capivo benissimo quello che stava vivendo e che l’avevo vissuto anche io e che questa ricerca mi aveva portato in Brasile a cercare, scoprire e trovare un altro modo di vivere la religione e di essere Chiesa per le donne […]». A quel punto ha deciso che valeva la pena riproporre quelle esperienze ai lettori di oggi.
Tanti «Brasili»
Ci colleghiamo online con Viviana Premazzi poco prima dell’inizio dell’estate. Si trova a Malta, dove vive dal 2018, ma è in procinto di «scappare»: quando l’isola si riempie di turisti, preferisce andare altrove.
Nata a Venegono Inferiore (Va), Viviana è da sempre impegnata in ambito sociale ed ecclesiale.
Nella quarta di copertina si legge su di lei che «ha un dottorato in sociologia delle migrazioni e un master in gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi. Ha lavorato come ricercatrice, consulente e formatrice per organizzazioni, università e centri di ricerca in Europa, Nord America, Africa e Medio Oriente». Nel 2018 ha fondato a Malta il Global mindset development, una società di consulenza sul dialogo interculturale e interreligioso al servizio di aziende, Ong, enti pubblici, scuole, università, per «aiutare a formare – dice – una mentalità inclusiva e globale».
Le domandiamo come è nata la sua relazione con il mondo missionario e con il Brasile.
«Conosco i missionari Comboniani fin da piccola – risponde -. Quando sono partita per il Brasile per la tesi, sono andata tramite loro. In quegli anni ho incontrato anche i Missionari della Consolata grazie a suor Angela Puricelli che mi ha fatto conoscere i progetti che padre Giordano Rigamonti faceva nelle scuole della mia zona tramite l’Associazione Impegnarsi serve. Poi mi sono trasferita a Torino dove ho lavorato per il Fieri, il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione, per l’Università di Torino, la Banca Mondiale e l’Oim, sempre sul tema delle migrazioni, seconde generazioni, identità, culture. Nel 2009 sono tornata in Brasile con i Missionari della Consolata per raccogliere materiale da usare poi nelle scuole. Sono stata a Catrimani con gli Yanomami e a Raposa con i Macuxì. Nei miei viaggi ho scoperto che esistono tanti “Brasili”. La prima volta sono andata a Rio Grande do Sul, al forum sociale di Porto Alegre, la seconda volta sono andata per la tesi nella diocesi di Lages, a Santa Catarina, la terza volta in Amazzonia, a Salvador de Bahia, a Fortaleza, a Vittoria, poi in Paranà e infine di nuovo in Santa Catarina».
Chiesa e liberazione
Viviana racconta che la sua ricerca sulla teologia femminista è nata in risposta a un suo sentimento di disagio: «Ero una giovane donna impegnata nel mondo ecclesiale, associativo, ecc. Stavo bene, ma, allo stesso tempo c’era qualcosa che mi mancava, che non mi tornava. Al Forum sociale mondiale di Porto Alegre ho sentito parlare di teologia della liberazione, e ho capito che quella poteva essere una risposta alle mie domande. Ho deciso quindi di fare la tesi su una delle sue declinazioni: la teologia femminista, e mi ci sono buttata. Ho scoperto, così, e approfondito la realizzazione di una Chiesa strumento di liberazione per gli oppressi».
Donne nella diocesi di Lages
La conoscenza di una realtà specifica come quella della diocesi di Lages è stata fondamentale per lei, per vedere come la teologia femminista della liberazione si fosse incarnata nella vita di persone e comunità.
«Un comboniano mi ha messa in contatto con Maria Soave Buscemi, una missionaria laica italiana, una teologa, che ha vissuto tutta la vita in Brasile. A Lages ha lavorato molti anni per la diocesi e poi fondato, insieme ad altri, e anche con il sostegno di realtà italiane, il Centro ecumenico di studi biblici che molto ha fatto e continua a fare.
L’incontro con Soave è stato fondamentale: lei viveva come le persone, tra le quali stava, e io sono potuta entrare nelle comunità da eguale, non come una che andava per aiutare.
È stata Soave a permettermi di conoscere molte donne impegnate a livello ecclesiale che avevano trovato il loro empowerment in una certa modalità di lettura della Bibbia e di vivere la comunità. Donne impegnate a livello sociale. Donne impegnate in politica».
L’accaparramento da parte di pochi ricchi delle risorse fondamentali del territorio, l’acqua e la terra, provoca ancora oggi nella diocesi di Lages un forte impoverimento della popolazione. Ai tempi delle ricerche di Viviana, la Chiesa locale affrontava la povertà tramite l’esperienza delle comunità ecclesiali di base che incarnavano la teologia della liberazione diventando scuole di partecipazione ecclesiale, sociale e politica.
Oggi, ci dice Viviana, la vita delle diocesi è cambiata: quella di Lages era una delle ultime fedeli alla teologia della liberazione, ma nel tempo, per vari motivi, tutti i movimenti si sono raffreddati. Non sono spariti, ma sono diventati più sotterranei, e l’unica esperienza sopravvissuta ufficialmente è il Centro ecumenico di studi biblici, nonostante Soave oggi sia nel Mato Grosso.
Raccontare le donne
Chiediamo a Viviana in che modo le storie di Neide e delle altre donne parlano del patriarcato e della teologia femminista della liberazione.
«Per quanto riguarda la riflessione sul patriarcato, ad esempio, l’attenzione di Neide alla storia locale è un elemento fondamentale. Io, ad esempio, sono di Venegono Inferiore, un paesino nel quale da qualche anno si stanno riscoprendo alcune storie di streghe locali. Queste rappresentano un’occasione per riflettere non solo su come le donne sono escluse, ma anche su come vengono raccontate. Le ricerche storiche hanno mostrato che esse, dopo essere state sfruttate da alcuni signori locali, a un certo punto sono state accusate di stregoneria per interessi politici.
La riscoperta della storia locale sotto questo profilo è un insegnamento che Neide e le altre mi hanno lasciato».
Oltre al modo in cui le donne sono raccontate, per Viviana è importante riflettere anche sul modo in cui le donne sono escluse dal racconto della storia. «Anche nella Bibbia succede qualcosa di simile. Se io non vedo raccontate altre donne come me nella Bibbia e nella storia, penso di essere sbagliata a volere stare in questa storia. Ed è facile farmi sentire sbagliata se oggi decido di avere un ruolo, perché in qualche modo mi viene detto che io, in quanto donna, un ruolo non ce l’ho.
La cosa rilevante, secondo me, del lavoro fatto da persone come Neide, è la volontà di portare alla luce il ruolo delle donne, e di dirlo ad altre, oltre all’impegno diretto nella Chiesa, nei movimenti, nella politica».
La teologia femminista è stata il contesto ecclesiale nel quale le esperienze di Neide e delle altre hanno trovato casa. La lettura della Bibbia sperimentata nelle comunità ecclesiali di base, a volte condotte da coppie, altre volte da donne, è stata uno degli strumenti di emancipazione. In questo senso, ci dice Viviana, le storie di queste donne parlano della teologia femminista.
Stare con gli oppressi
Nel suo libro, Viviana Premazzi dedica uno spazio molto ampio, i primi tre capitoli, ad approfondire cosa è la teologia della liberazione e la sua declinazione femminista. Domandiamo all’autrice di darci qualche indicazione sintetica. «L’idea di fondo – risponde – è che una persona non è povera per colpa sua, ma perché vive una situazione di oppressione. Allora l’obiettivo della Chiesa è quello di aiutare questa persona a liberarsi. Riprende l’immagine della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto sotto la guida di Mosè.
Il passaggio fatto dalla teologia femminista è questo: la condizione di sfruttamento socio economico non è la stessa per gli uomini e per le donne, così come la teologia indigenista afferma che l’oppressione subita dai popoli nativi ha i suoi caratteri specifici, la teologia nera parla della condizione degli afrodiscendenti, e così via.
La domanda che queste teologie suscitano è: “Da dove deriva la mia situazione di oppressione socio economica, o di genere? Come attuare la liberazione?”».
Gli strumenti sono, oltre alla riflessione teologica, quello della lettura della Parola e quello della comunità. «Dalla teologia della liberazione nascono le comunità ecclesiali di base: la teologia non è una cosa che si fa da soli, ma assieme, e partendo dal basso, come accadeva alle prime comunità cristiane. Partendo dal suo popolo, la Chiesa si deve domandare: “Stiamo con i potenti o con i poveri?”».
Comunità ecclesiali di base
Viviana ci racconta che il titolo del suo libro ricalca quello delle linee guida per la diocesi di Lages consegnate alla curia nel 2005 dalla rete delle Cebs dopo un processo partecipativo. «Quando hanno presentato queste linee guida intitolate “Per una società e una Chiesa senza esclusioni”, la curia voleva togliere il termine “Chiesa”. Ma le comunità hanno insistito perché il cammino dell’inclusione anche nella Chiesa è ancora lungo.
Il primo nucleo delle comunità sono le famiglie, cioè il luogo delle relazioni affettive. In quelle zone in Brasile la maggior parte delle famiglie sono composte da donne sole con i figli, quindi i gruppi di famiglie sono spesso gruppi di donne.
La leadership è a rotazione, e ciascuno porta il suo talento. Le decisioni vengono prese in modo partecipativo. Nelle Cebs esiste anche la decima, un’autotassazione per sostenere, oltre alle attività ecclesiali, anche le persone bisognose all’interno della comunità».
Retroutopia
Il libro di Viviana Premazzi è composto da cinque capitoli: i primi tre sulla teologia della liberazione, il quarto, sulla diocesi di Lages al tempo del viaggio dell’autrice, il quinto su alcune figure di donne.
La teologa Maria Soave Buscemi, nella prefazione, parla del testo di Premazzi prima paventando il rischio che esso proponga una «retrotopia» – il racconto di qualcosa di bello, ma morto -, poi parlando di «retroutopia» – il racconto di un passato che può far scorgere nel presente simili segni di liberazione -.
«Anche io inizialmente avevo paura che il libro fosse retrotopia – conclude l’autrice -: cioè il racconto di una cosa bella, ma appartenente al passato, finita nella forma in cui l’avevo conosciuta. Un bel ricordo.
Però è fondamentale continuare a riflettere. Guardare indietro serve per sognare e pianificare qualcosa per l’oggi e il futuro. Anche per riconoscere le stesse cose che adesso magari hanno altre forme e non sono ancora state riconosciute.
Quello che racconto nel libro, che ha una collocazione spazio temporale precisa, non è un unicum. Esiste da altre parti. E dobbiamo parlarne».
Luca Lorusso
Argentina. Meno populismo, più lavoro e responsabilità
Per anni ha operato negli Stati Uniti, in Venezuela e in Argentina, con un breve ma interessante intermezzo a Cuba. Ha visto democrazie e autocrazie, ricchezza e povertà. Le Americhe sono il suo cruccio ma anche il suo pane e per questo, a dispetto dell’età, padre Luigi – oggi in Italia per cure mediche – vuole tornarci.
È un classe 1936. Dunque, l’età c’è, ma lo spirito e l’intraprendenza sono molto più giovani di quanto non dica il dato anagrafico. Padre Luigi Inverardi, bresciano, Missionario della Consolata dal 1970, ha attraversato le Americhe da Nord a Sud: Stati Uniti, Venezuela, Argentina. «Sono stato alcuni mesi anche a Cuba», precisa prima di raccontarsi in un simpatico mix d’italiano e spagnolo. Lo incontriamo a Torino, ma è nelle Americhe che vuole tornare. «Però, vorrei trascorrere in Italia gli ultimi anni», chiosa con naturalezza.
Dagli Stati Uniti alla dittatura argentina
«Appena ordinato missionario, desideravo andare in Africa. Come tutti, in quel tempo. I superiori mi mandarono invece negli Stati Uniti. In pratica, nel luogo opposto per definizione. Tuttavia, negli Usa ho lavorato con entusiasmo sia nell’animazione missionaria che nel lavoro pastorale». Negli Usa padre Inverardi trascorre oltre vent’anni, divisi in due periodi, tra New York, California e Pennsylvania.
Nel 1977 arriva per la prima volta in Argentina, dove da un anno è al potere una giunta militare. Va a Tartagal, nella provincia di Salta, estremo nord del paese, ai confini con la Bolivia. «Era – ricorda – un tempo molto difficile, complicato, un tempo doloroso. Perché il Paese era retto da una dittatura. I militari combattevano l’opposizione di sinistra con persecuzioni, arresti e sparizioni di persone.
Finalmente, nell’ottobre del 1983, si tennero le elezioni che furono vinte dal partito radicale (di centrosinistra, ndr). Il primo presidente fu Raúl Ricardo Alfonsín. Era un uomo onesto, capace, intelligente, un uomo che conosceva bene la realtà argentina». Una realtà, però, difficile da governare, soprattutto a causa di una situazione economica esplosiva.
«Quando arrivai in Argentina già si parlava d’inflazione. Ho sperimentato cosa significa vivere con aumenti dei prezzi giornalieri. L’inflazione è il cancro della vita economica, il cancro del paese, ma i politici non fanno che litigare invece di affrontare la questione. Il presidente Alberto Fernández ha annunciato (lo scorso 21 aprile, ndr) che non si ripresenterà alle elezioni del prossimo ottobre, forse perché ha capito che la maggioranza della popolazione lo considera un incapace. Sono trascorsi quasi 50 anni, eppure nel 2023 il problema argentino rimane sempre lo stesso». Affermazione veritiera: l’inflazione supera il 102 per cento annuo (una delle più alte al mondo), la povertà interessa 17 milioni di persone (circa il 43 per cento della popolazione argentina).
Cuba e la libertà
Dopo la dissoluzione della giunta militare, padre Inverardi non fa in tempo a seguire il ritorno alla democrazia e le contorsioni economiche del paese latinoamericano perché viene destinato nuovamente negli Stati Uniti (1983-2000). Le scelte dei superiori gli offrono, quindi, l’opportunità di conoscere realtà sociali, politiche ed economiche molto diverse. E non occorre pregarlo per farsi raccontare la propria opinione.
«Tanto il populismo latinoamericano quanto il capitalismo nordamericano – spiega – hanno grandi difetti. Però, ragionando in base alle mie esperienze e al mio pensiero, io preferisco il capitalismo, anche se spesso è esasperato. Nel 1997 i superiori della Consolata del Nord America pensarono di aprire una missione a Cuba. Per questo mi mandarono in visita all’isola dove rimasi per cinque mesi. Quando vi arrivai, subito gli amici mi avvertirono: “Padre, non dica assolutamente niente contro Castro”. Ecco, per me è importante che l’uomo sia libero di pensare e dire ciò che pensa e non essere obbligato dal governo. Per questo preferisco il capitalismo, perché, nonostante i suoi problemi, ti dà la possibilità di gridare, di manifestare la tua opinione personale».
Il populismo è un’ideologia di sinistra
Forse per i molti anni trascorsi negli Usa, forse per la possibilità di fare un confronto in base alle proprie esperienze in luoghi tra loro molto diversi, forse semplicemente per avere idee diverse, padre Inverardi vede il populismo latinoamericano come una piaga assoluta e contesta le modalità in cui nei paesi dell’America latina è stata portata avanti la lotta alla povertà. Il missionario ritiene che esista soltanto un populismo di sinistra: «Non considero il populismo di destra un’ideologia assoluta com’è stato quello di Chávez e Castro e oggi quello di Ortega e Maduro».
Lui ha vissuto in Venezuela dal 2000 al 2005 negli anni in cui il Venezuela di Hugo Chávez era diventato uno spartiacque nella politica latinoamericana.
Il comandante Chávez ha diviso senza colori intermedi: in genere, o si amava o si odiava. Padre Inverardi non fa eccezione.
«Il populismo è un’ideologia che dice di aiutare i poveri, ma lo fa sempre nell’ottica di interessi particolari (di un partito, di un governo, ecc.) e non per migliorare. I populisti aiutano i poveri, perché, al momento delle elezioni, questi votino per loro. Per esempio, all’inizio della presidenza Chávez, i poveri erano molto aiutati. Allo stesso tempo, però, erano obbligati a partecipare alle riunioni, alle manifestazioni. Quando i poveri sono dominati, non si tratta di un vero aiuto».
«L’Argentina – aggiunge padre Inverardi – ha cercato di imitare le idee di Chávez. Quando Cristina (Fernández de Kirchner, ndr) ricevette il presidente del Venezuela (nel 2009 e nel 2011, ndr), lo accolse come se fosse il liberatore dell’America Latina. Fu un grave errore, perché un paese non può progredire senza diversificare le proprie alleanze. Per esempio, lo stesso Chávez criticava moltissimo gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo vendeva a loro il petrolio del suo paese».
«Dopo cinque anni che stavo in Venezuela, io chiesi di essere trasferito altrove. Perché? Perché parlando con alcuni fanatici e con alcuni cristiani, capii che non si poteva dialogare con chi riteneva la Chiesa cattolica un avversario. Avevo lasciato il Nord America per portare un po’ di aiuto in Venezuela ma sentirmi accusare di essere un nemico del popolo per me fu una grave offesa. E così me ne andai».
Povertà e responsabilità
«In America Latina manca il concetto della famiglia. Ci sono famiglie composte da 7-8 bambini, ma chi è il padre? Non si sa. Spesso i padri sono due o tre. Gli uomini non si occupano molto dei figli che mettono al mondo e questo crea la povertà. Io dico che essa è data non dalla mancanza di cibo, ma dalla mancanza di responsabilità.
Sono convinto che l’uomo sia l’artefice della propria storia: con il lavoro e il sacrificio può migliorare. L’ho visto in California, dove ci sono molti latinoamericani. Oggi hanno una casa, una macchina».
La povertà prolifera anche tra i popoli indigeni. Rispetto ai quali padre Inverardi ha una propria idea. «A Tartagal, mia ultima sede, vivono vari gruppi di indigeni (Wichi, Guaraní, ma anche Qom-Tobas, Chané, Chorotes, ndr), ma ammetto di aver lavorato poco con essi. Io credo nel loro diritto di vivere la propria cultura. Allo stesso tempo, però, sono convinto che se essi vogliono progredire, dovrebbero assumere la cultura argentina. Non possono difendere unicamente la “loro” cultura. Ci vuole un equilibrio. Se pretendi (una casa, un lavoro), devi anche conoscere bene lo spagnolo, studiare, lavorare. Soltanto in questo modo si migliora». Padre Inverardi crede ciecamente nell’etica del lavoro. «Sì, credo nel lavoro. Ho visto in che modo il Nord America è progredito: con il lavoro. Non c’è alcun paese che possa migliorare senza lavoro. E in Argentina sarà così, se vogliono, perché è un paese con molte risorse. Diversamente, rimarrà il paese di oggi: la povertà di troppa gente e la ricchezza nelle mani di alcuni».
Per una fede senza ideologia
In tema di religione, nel continente americano sono nate e cresciute due interpretazioni del cristianesimo, nuove e contrapposte: nei paesi latinoamericani la teologia della liberazione, in Nord America le nuove chiese evangeliche. «La teologia della liberazione – spiega padre Inverardi – può essere un mezzo con il quale possiamo aiutare i popoli a crescere nella fede, a crescere nella libertà e responsabilità. Allo stesso tempo, dobbiamo avere dei limiti chiari. Non possiamo confondere quella teologia con il comunismo. La teologia della liberazione deve essere presentata sempre alla luce di Cristo. È Cristo che è il liberatore. È Cristo che ci guida. Per me, una teologia non può mai trasformarsi in una ideologia umana».
«In America Latina, molti si dicono cattolici, ma praticamente non conoscono molto di Cristo. Hanno una conoscenza superficiale della dottrina cristiana. Chiedono qualcosa. Le Chiese neoevangeliche offrono ciò che piace loro e per questo sono ritenute più vicine alla gente. È così che si spiegano i passaggi da una religione all’altra. Al contrario, la Chiesa cattolica non può dire unicamente quello che piace agli uomini, quello che essi vogliono ascoltare».
Il papa in Argentina?
Dal 2013, al Vaticano siede papa Francesco. Nei suoi dieci anni di pontificato il papa argentino non ha mai trovato modo di visitare il suo paese natale. Chiediamo una possibile spiegazione al nostro interlocutore. «Ci sono varie ragioni. Penso che la ragione fondamentale della sua mancata visita sia riconducibile al fatto di conoscere molto bene la complessa realtà politica dell’Argentina. Quando era cardinale di Buenos Aires, lui soffrì molto gli attacchi della politica. Oggi teme che il suo arrivo potrebbe creare dei problemi. Detto questo, a me personalmente farebbe molto piacere se si recasse in Argentina. Perché sono in tanti ad aspettarlo».
Il desiderio potrebbe essere presto realizzato: da poco, Francesco ha dichiarato (al quotidiano La Nación del 23 aprile 2023) di voler visitare il suo paese nel 2024. «Mi piace molto – continua il missionario – la semplicità di papa Francesco, la sua chiarezza e il suo pensiero teologico, la sua idea che la Chiesa debba essere una Chiesa povera. Tuttavia, allo stesso tempo, con alcuni suoi giudizi ha creato un po’ di confusione. Forse è la gente che non lo intende, però lui offre la possibilità di entrare in campi ambigui. Per esempio, sui temi dell’omosessualità e delle donne nella Chiesa».
Per concludere, chiediamo a padre Inverardi un giudizio sull’anima ambientalista di papa Francesco. «Mi è molto piaciuta la Laudato si’. Io credo nel progresso, ma esso è un autentico soltanto quando rispetta l’armonia della creazione. Quando questo non avviene, nascono i problemi».
Paolo Moiola
El Salvador: L’avvocata deve morire
Il 14 marzo del 1983, tre anni dopo l’uccisione di monsignor Romero, viene
assassinata Marianella García Villas, avvocata e presidente della Commissione per i diritti umani. Aveva 34 anni. Un’associazione italiana si è recata in Salvador in cerca della sua tomba.
Tra le migliaia di martiri e vittime della repressione, in El Salvador la figura di Marianella García Villas, assassinata il 14 marzo 1983, è ben nota tra coloro che hanno partecipato alla lotta contro la dittatura militare tra il 1980 e il 1992. Marianella venne diverse volte in Italia a chiedere solidarietà per il proprio popolo. E un mese dopo la sua morte fu ricordata a Roma in Campidoglio alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini e della presidente della Camera Nilde Jotti.
Tuttavia su di lei non vi è, nel piccolo paese centroamericano, alcuna pubblicazione significativa, se non qualche testo in libri o riviste. Marianella non era una leader politica o una esponente sindacale o religiosa. Era una giovane donna che già da studentessa universitaria aveva capito da che parte stare: accanto al proprio popolo oppresso da una feroce dittatura militare.
E poi nessuno sapeva dove fosse la sua tomba. Solamente nello scorso mese di agosto, grazie all’interessamento e alla cocciutaggine di Enza D’Agosto, presidente dell’associazione «Marianella García Villas» di Sommariva del Bosco (Cuneo), una realtà da dieci anni impegnata in progetti di solidarietà con El Salvador, la tomba è stata ritrovata: si trova nel Cementerio de los illustres a San Salvador. Questo è il diario del viaggio verso la sua tomba.
Al cimitero di San Salvador
Venerdì 14 agosto assieme a Enza mi avvio verso il Cementerio de los illustres a San Salvador. Siamo accompagnati da Mia Perla, già magistrato della Corte suprema di Giustizia e vedova di Herbert Sanabria, cornordinatore della Commissione diritti umani (la stessa di cui fu presidente Marianella), assassinato dai militari il 26 ottobre 1987; da Guadalupe Mejía, responsabile del Codefam «Marianella García Villas», una realtà che si interessa di memoria storica (in particolare di vittime della violenza), e vedova di Justo Mejía, torturato e assassinato dai militari; da Miriam Medrano, autrice di un volume su Lil Milagro, una cara amica di Marianella che però, a differenza sua, scelse la strada della lotta armata contro la dittatura, pagando con la vita; e da un avvocato che conobbe Marianella. La tomba è nel settore delle vittime illustri, in una cappella che sopra l’ingresso riporta la scritta «Beneficencia Spagnola». La cappella era chiusa a chiave ed è stato necessario rivolgersi, i giorni precedenti, all’Ambasciata spagnola e al Centro spagnolo perché ci venissero ad aprire. Il custode del cimitero, incaricato dal 1990, ci conferma che in tutti questi anni mai nessuno ha chiesto di vedere la tomba di Marianella. Si scende nella cappella e a destra, in fondo, quella di Marianella è la tomba più in alto. Sulla lapide è scritto:
Marianella García Villas / 14 marzo 1983 / Recuerdo de su familia / En Dios cuya promesa ensalzo./ En Dios confio no temere. ¿Que puede hacerme el hombre? (Salmo 55, 11-12).
Marianella fu sepolta lì perché il padre era spagnolo. Si tratta di una cappella chiusa da una porta in ferro e anche da una più ampia cancellata con l’ingresso sempre chiuso a chiave. Per tutti, in particolare per gli amici salvadoregni che ci accompagnano e che hanno conosciuto Marianella, è una grandissima emozione.
La tomba dimenticata
Al funerale di Marianella, nel marzo 1983, parteciparono solamente tre familiari e alcuni giornalisti, tra cui una giovane Lucia Annunziata (nota giornalista italiana, ndr): il clima di terrore instaurato dai militari impedì la partecipazione degli altri familiari e di quanti condividevano con Marianella la lotta per i diritti umani e la pace. Poi i familiari più stretti ripararono all’estero e non fecero più ritorno nel paese poiché nel mirino dei militari. Oggi fuori dal Salvador vi sono probabilmente ancora fratelli o sorelle di Marianella, ma ogni ricerca è stata finora vana. Con il passare del tempo ci si dimenticò di Marianella e nel clima di terrore creato dal regime nessuno si mise a fare domande in merito al luogo in cui era stata seppellita.
Dopo l’omaggio alla tomba di Marianella, su cui abbiamo posto un fiore, Mia Perla ci porta a visitare la tomba di suo marito, Herbert Sanabria, in un altro settore dello stesso cimitero. Sulla tomba sono scritte queste parole:
La agonia de non trabajar por la justicia / es mas fuerte que la posibilidad cierta de mi muerte, esta ultima no es mas que un istante, / lo otro constituye la totalidad de mi vida.
Poco distante troviamo anche la tomba monumentale del maggiore Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’assassinio di mons. Romero, uno dei capi degli squadroni della morte, poi tra i fondatori del partito politico di estrema destra «Arena», ancora oggi secondo partito in Salvador. Sulla tomba di D’Aubuisson è scritto: Roberto D’Aubuisson Arrieta / Presente por la patria.
Mai nessun processo venne fatto a D’Aubuisson, che morì nel proprio letto ed ebbe funerali cattolici, dopo essere stato anche presidente de l’Asamblea legislativa (il Parlamento).
A Bermuda, il villaggio del massacro
Con un taxi de confianza (di fiducia) raggiungiamo la parrocchia di Asunción, a Paleca, poco distante da San Salvador. Da qui con suor Ave, e con Nelson, un parrocchiano gentilissimo che ci fa da autista, partiamo in direzione Aguilares, il paese di cui fu parroco il gesuita padre Rutilio Grande, assassinato il 12 marzo 1977 assieme a un ragazzo e a un contadino che lo stavano accompagnando in un paese vicino per celebrare la messa. L’assassinio di Rutilio fu l’elemento che spinse mons. Romero a interrogarsi a fondo su ciò che stava avvenendo nel suo paese. Da quel momento in poi mons. Romero divenne la voce del suo popolo.
Da San Salvador a Aguilares sono quasi 50 km, su strada comoda a tre corsie, senza il traffico incredibile della capitale. Superato Aguilares, dove la piazza centrale davanti all’alcaldía (municipio) è dedicata a padre Rutilio e dove si vedono diversi murales con le figure del gesuita e di mons. Romero, ci dirigiamo verso Al Paisnal, paese di nascita di padre Rutilio. Sulla strada ci fermiamo nel punto in cui una cappella ricorda il luogo dove fu assassinato padre Rutilio con i suoi due accompagnatori: il sedicenne Nelson Lesmus e il campesino Manuel Solorzano. È un momento di grande commozione per tutti. Ad Al Paisnal, un piccolo ma ordinato paese, un grande murales raffigura Rutilio e mons. Romero e davanti al murale anche due statue che li rappresentano. Per le strade del paese e davanti all’alcaldía numerosi manifesti ricordano il 98° anniversario della nascita di mons. Romero e quello di padre Rutilio. Nella piccola chiesa, immagini dei due martiri. E, soprattutto, ai piedi dell’altare le tre tombe, di Rutilio Grande, Manuel Solorzano, Nelson Lesmus. Un animatore della parrocchia, nel presentarci il tutto, ci esprime il grande desiderio che, se padre Rutilio verrà beatificato (è ufficialmente iniziato il processo), la cerimonia avvenga qui, a Al Paisnal.
Non siamo lontani dal luogo in cui Marianella è stata arrestata il 13 marzo 1983, per cui ci siamo diretti verso il paese di Suchitoto (Dipartimento di Cuscatlán), ricco di esempi di architettura coloniale, una meta turistica in El Salvador. Qui chiediamo della località La Bermuda e, con non poche difficoltà, troviamo la strada: non più a tre corsie, la strada a un certo punto si addentra nella boscaglia diventando sterrata. Chiedendo indicazioni a quanti incontriamo, arriviamo a una semplice casa (per noi sarebbe una baracca), con un cartello davanti su cui a stento si legge «Hacienda Bermuda». La signora che vi abita, con nostra grande sorpresa, ci racconta tutto del massacro. Poi ci accompagna in visita al lugar de mártires (luogo di martiri). Solo un pannello ricorda che lì avvenne un massacro: Antiqua hacienda La Bermuda./ Tierra de lucha y de esperanza.
Il testo racconta che, a La Bermuda, il 13 marzo 1983 fu catturata Marianella García Villas. Fu trasportata in una scuola militare a San Salvador, brutalmente torturata e infine assassinata il giorno successivo, 14 marzo. Nell’operazione militare che portò alla cattura di Marianella furono uccisi una ventina di campesinos. La signora che abita lì vicino e ci fa da guida, ci indica nella boscaglia il luogo in cui avvenne l’assalto dei militari e dove sono ancora sepolti, in una sorta di fossa comune, i campesinos assassinati. Nessun segno a ricordare il fatto. La signora ci dice che lei e altri da tempo stanno chiedendo che i corpi siano riesumati e sepolti con dignità e che sia posto qualcosa di più significativo a memoria del massacro. Tutti gli anni, il 14 marzo, varie persone si riuniscono in questo luogo a commemorare Marianella e gli altri caduti.
La Comunità «Marianella García Villas»
Proseguiamo sulla strada sterrata nel bosco, ricco di cafetales (piante di caffè), alla ricerca di una comunità che ci dicono essere poco più avanti. Dopo poche centinaia di metri troviamo uno spiazzo e una semplice chiesetta. Siamo arrivati nella comunità che porta il nome di Marianella García Villas. Su un muro che dà sulla piazzetta un grande murale raffigura Marianella e una targa ricorda il suo sacrificio.
Nella chiesetta si sta preparando una cerimonia religiosa: è la festa del maís, una festa di ringraziamento. Non c’è il sacerdote, poiché viene solo per la messa la domenica mattina. Fanno tutto i laici: una donna spiega il significato della festa, un uomo legge e commenta le letture, alcuni intervengono poi a offrire la loro riflessione. Al termine della celebrazione ai presenti vengono offerti atol, una bevanda a base di maís, e pannocchie di maís cotte. Veramente una cerimonia segno di una chiesa viva e piena di dignità.
Un membro del direttivo della comunità ci spiega che complessivamente sono una sessantina le famiglie che ne fanno parte e che lì vivono, per lo più in modeste baracche, o semplici casupole, sparse nella boscaglia. C’è anche una radio parrocchiale, «Radio Positiva», che così è presentata in uno striscione appeso davanti alla sede: La voz del más humilde / de los salvadoreños y salvadoreñas / tiene derecho de informar, /de opinar y de ser escuchada.
Il ritorno a San Salvador è pieno di gioia per tutto quanto visto e incontrato. Tuttavia, il giorno dopo suor Ave ci telefona per ringraziarci della giornata e, con grande tristezza, ci fa sapere che davanti alla chiesa della sua parrocchia di Asunción, dove siamo stati due volte, la sera era stato ucciso un ragazzo mentre stava giocando a pallone in strada. È la violenza comune il grande problema del Salvador di oggi.
Anselmo Palini
L’autore – Anselmo Palini, docente di materie letterarie, con l’Editrice Ave ha pubblicato, tra l’altro, Oscar Romero.Ho udito il grido del mio popolo (Roma 2010) e Marianella García Villas. Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi (Roma 2014). La cronaca dettagliata del suo recente viaggio in Salvador è reperibile sul suo sito web:
www.anselmopalini.it.
In archivio: Anselmo Palini, San Romero de las Americas, Missioni Consolata, maggio 2015, pag. 32-34.
Anselmo Palini
PERU’ – La Teologia della liberazione: opinioni a confronto
Monsignor Bambaren: UN IMPEGNO PER I POVERI,
PER LE PROBLEMATICHE SOCIALI, PER LA DIGNITÀ UMANA
Monsignor Bambaren, qualcuno dice che la «teologia della liberazione» è morta?
«Morta? No, le idee non muoiono mai».
Nel 1998, abbiamo incontrato, qui a Lima, Gustavo Gutiérrez, considerato il padre della teologia della liberazione. A suo modo di vedere, cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato nelle sue idee?
«Nei primi anni Ottanta il papa fece una distinzione tra una teologia della liberazione buona che si deve appoggiare e un’altra che devia e va corretta. Io credo che ogni fenomeno vada collocato nel suo momento storico. Quando nasce la teologia della liberazione, in tutta l’America Latina ci sono fermenti rivoluzionari: Cuba, Cile, Bolivia, Perù, Colombia, Panama hanno movimenti o governi che cercano il cambiamento. È comprensibile che la situazione del momento possa aver esasperato la preoccupazione sociale dei cristiani. Anche attraverso gli sbagli la teologia della liberazione è andata maturando, superando quello che c’era di eccessivo».
Cosa va salvaguardato di quella teologia tanto dibattuta?
«In generale, possiamo dire che la teologia della liberazione ha portato a un maggiore impegno per i poveri, le problematiche sociali, la dignità della persona. Io voglio ribadire il concetto da cui sono partito: le idee non muoiono mai».
Monsignor Cipriani: UN’IDEOLOGIA MARXISTA. PADRE GUTIERREZ DOVREBBE SCUSARSI
Monsignor Cipriani, cosa pensa della «teologia della liberazione»?
«Io ho studiato a fondo la teologia della liberazione. E posso dire che non è una teologia. È un’ideologia, che ha una struttura filosofica al 90% marxista. È un coagulo di idee al servizio di un obiettivo. L’obiettivo non è la redenzione, ma la liberazione messianica ad opera di un movimento politico. E ciò viene fatto con citazioni del vangelo e tutta una manipolazione dei testi».
Dunque, lei non vi scorge nulla di positivo…
«Se dobbiamo trovarvi qualcosa da salvare, possiamo dire che essa è riuscita a mettere sul tavolo una maggiore preoccupazione per le enormi differenze sociali, enfatizzando le gravi ingiustizie di questo mondo».
Quindi, qualcosa di buono c’è stato…
«Ma il prezzo pagato è stato altissimo. Essa ha creato un’enorme confusione dottrinale all’interno di moltissime congregazioni, conventi, sacerdoti… Ha generato uno scontro molto forte con l’insegnamento della chiesa. E da questo, purtroppo, non si è ancora usciti».
Non si è ancora usciti?
«Esattamente. Perché la teologia della liberazione ha invertito la missione della chiesa. Con essa i sacramenti furono posti molto in secondo piano. Al primo posto vennero messi gli aspetti politici ed economici dei differenti paesi. Per queste cose la chiesa ha sempre avuto una pastorale molto ben strutturata e armonizzata. La teologia della liberazione, in molte delle sue parti, fu una critica frontale alla dottrina sociale della chiesa e alla sua opera. Purtroppo alcuni dei suoi sostenitori divennero guerriglieri, altri finirono con lo sposarsi, altri uscirono dalla chiesa».
E cosa ci può dire di Gustavo Gutiérrez?
«L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scri-vere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».