Un altro modo di dire mondo


La Banca Mondiale ha deciso di non utilizzare più l’espressione «paesi in via di sviluppo» ed è probabile che le altre istituzioni inteazionali si allineeranno alla sua decisione. Ma che significato e quali conseguenze ha questa scelta? Da «Terzo Mondo» a «paesi a basso reddito», la forma e la sostanza delle parole che usiamo per descrivere il mondo.

Non c’è più il Terzo Mondo di una volta. E nemmeno i paesi in via di sviluppo, a quanto pare. Nell’edizione 2016 degli Indicatori di sviluppo – una delle pubblicazioni di riferimento per chiunque lavori nel settore e non solo – la Banca Mondiale ha deciso di dismettere l’espressione developing countries (paesi in via di sviluppo, appunto). «Sulla spinta dell’agenda universale degli Obiettivi di sviluppo sostenibile», si legge nel documento, «questa edizione introduce un cambiamento nel modo di presentare gli aggregati globali e regionali. Salvo ove specificato, non c’è più una differenza fra paesi in via di sviluppo (definiti nelle precedenti edizioni come paesi a basso e a medio reddito) e paesi sviluppati (ad alto reddito). I raggruppamenti regionali sono basati sull’area geografica […] e il cambiamento ha due conseguenze: che c’è un nuovo aggregato per il Nord America e che l’Unione europea è inclusa negli aggregati per Europa e Asia centrale».

Già da anni l’espressione «in via di sviluppo» si accompagnava nei rapporti della Banca Mondiale alla precisazione che il suo utilizzo era una questione di brevità, non significava che tutte le economie così denominate sperimentassero uno sviluppo analogo e non faceva in alcun modo riferimento a una soglia di sviluppo preferibile o finale, unica e uguale per tutti, che alcuni stati del mondo avevano raggiunto e superato e altri no.

Le premesse di questo cambiamento erano emerse in un articolo firmato da Tariq Khokhar e Umar Serajuddin, rispettivamente data analist e economista statistico della Banca, pubblicato sul blog istituzionale della World Bank nel dicembre del 2015: «L’essere umano ha una naturale tendenza a fare delle categorie – scrivevano – ma la classificazione è un’arte, non una scienza esatta». I due funzionari citavano Hans Rosling, medico, statistico e accademico svedese, che in una conferenza del giugno 2015 aveva detto: «Ho un nuovo nome per il mondo in via di sviluppo: io lo chiamo “il mondo”. È il posto dove vivono sei su sette miliardi di persone, perciò il mondo in via di sviluppo è la stragrande maggioranza».

I limiti della categoria, insistevano i due autori, emergono chiaramente quando si guarda ad esempio ai tassi di mortalità infantile e di fecondità, considerati come indicativi del benessere complessivo di un paese. Negli anni Sessanta questi due indicatori ebbero un ruolo importante nel definire le due grandi categorie: i paesi sviluppati erano quelli dove il tasso di fecondità e quello di mortalità infantile erano più bassi mentre i paesi in via di sviluppo, presentavano i valori più elevati. Oggi, con l’eccezione di pochi paesi, mortalità infantile e fecondità sono diminuite ovunque.

Lo stesso vale per le classificazioni basate sul reddito o sulla soglia di povertà estrema, fissata a 1,90 dollari al giorno: che senso ha, si chiedono i due funzionari della Banca Mondiale, che il Malawi e il Messico si trovino nella stessa categoria quando il primo ha un reddito nazionale lordo pro capite di 250 dollari e il secondo di 9.860? O considerando che a vivere con meno di un dollaro e novanta centesimi al giorno sia in Malawi il settanta per cento della popolazione e in Messico meno del tre per cento?

Gli antenati: c’era una volta il Terzo Mondo

«Terzo Mondo» è un’espressione coniata dall’economista francese Alfred Sauvy in un articolo dell’agosto 1952 quando, sulla rivista L’Observateur, scriveva: «Parliamo spesso dei due mondi protagonisti, della loro guerra possibile, della loro coesistenza, dimenticando troppo sovente che ne esiste un terzo, il più importante, il primo in ordine cronologico. È l’insieme di quelli che chiamiamo, con lo stile delle Nazioni Unite, i paesi sottosviluppati».

Per «due mondi» si intendeva da una parte il gruppo di paesi e loro satelliti del blocco capitalista occidentale e dall’altra quelli del blocco comunista sovietico. Nei fatti, però, l’espressione «Terzo Mondo» finì per sottintendere e avallare soprattutto l’idea che una buona parte del pianeta fosse poco più di uno sfondo per la contrapposizione Usa-Urss; inoltre, dal momento che i paesi di questo gruppo erano per la maggioranza poveri, «Terzo Mondo» divenne sinonimo di povertà prima che di non-allineamento alle due superpotenze. Nel 2003, in un’intervista a L’Express, l’autore stesso sottolineava il malinteso: «Per noi», spiegava l’economista francese, «non si trattava di definire un terzo insieme di nazioni […]; era piuttosto un riferimento al Terzo Stato dell’Ancien Régime, a quella parte della società che si rifiutava di “essere niente”, come recitava il pamphlet dell’abate Sieyès. La nozione designa dunque la rivendicazione delle nazioni terze che vogliono entrare nella storia». Questa idea, proseguiva Sauvy, aveva però conosciuto una lunga eclissi e sembrava essere in ripresa con l’emergere, fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, di paesi come l’India, il Brasile e il Sudafrica e del loro rivendicare una identità peculiare rispetto all’Occidente.

Nord e Sud del mondo

Altre definizioni, poi, si sono alternate negli anni: la dizione «Nord e Sud del mondo», a guerra fredda finita, riprendeva la linea Brandt – dal nome del cancelliere tedesco Willy Brandt, presidente della commissione che nel 1980 produsse un noto rapporto sullo sviluppo internazionale – e intendeva fotografare la nuova linea di confine. Questa non correva più lungo la cortina di ferro separando l’occidente dal blocco sovietico dell’Urss e dell’Europa orientale, bensì lungo la linea che scindeva i paesi industrializzati del Nord America, dell’Europa occidentale, dell’ex Unione Sovietica, del Giappone e di altri paesi dell’Estremo Oriente – si stavano nel frattempo affermando anche le cosiddette Tigri Asiatiche – dall’America Latina, dall’Africa e dal Medio Oriente. Altre suddivisioni, frequentate per la verità più dagli accademici e filtrate solo di rado fino alle pagine dei giornali e nei dibattiti pubblici, erano quelle legate alle teorie della dipendenza che parlavano di centro ricco e periferia sottosviluppata e attribuivano al primo un ruolo di sfruttamento della seconda.

Di questo bouquet di espressioni, «in via di sviluppo» è stata la più longeva anche perché metteva d’accordo più persone o, se non altro, ne scontentava meno. Il suo richiamare il movimento («in via di») risultava incoraggiante per tutti, sviluppandi e loro tutori, e teneva a bada i critici perché era comunque meglio di «sotto-sviluppato»; infine – dettaglio fondamentale – piaceva ai media, sempre avidi di termini agili (in inglese «in via di sviluppo» diventa developing: un solo, pratico aggettivo).

Sviluppo in crisi

Ma poi, e molto prima che la Banca Mondiale decidesse il cambio di lessico, ad andare in crisi è stato lo sviluppo stesso, attaccato da ogni lato da dati e fenomeni che lo negano, o almeno ne stravolgono la fisionomia per come l’abbiamo conosciuta finora.

L’aiuto pubblico allo sviluppo è pari a un terzo delle rimesse dei migranti; il Brasile, l’India, la Cina, il Sudafrica da paesi assistiti sono diventati potenze regionali; a detta di analisti come la zambiana Dambisa Moyo, i mille miliardi di dollari in aiuti riversati sulla sola Africa in cinquant’anni hanno in larga parte mancato l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli africani e sono spesso finiti divorati da corruzione, spese di gestione e burocrazia kafkiana dei governi nazionali e delle istituzioni inteazionali.

E mentre, almeno in alcuni ambienti, ci si stava chiedendo se l’Occidente era poi davvero un modello di sviluppo, è arrivata la crisi finanziaria del 2008 a mostrare che il primo mondo, quello sviluppato, è molto più fragile e vulnerabile di quanto esso stesso pensasse di essere e ha al proprio interno sacche di povertà, emarginazione e degrado identiche a quelle dei paesi in via di sviluppo.

È in questo contesto che va collocata la decisione della Banca Mondiale di rivedere il lessico. I primi a riprendere la notizia sono stati paesi come l’India e il Messico, che la nuova classificazione «promuove» a paesi non più in via di sviluppo per il semplice fatto di non definire più nessuno stato come tale.

Che cosa cambia in concreto?

A dare retta a Charles Kenny, ricercatore presso il Centre for Global Development di Washington, alla variazione lessicale non si accompagna per ora un equivalente cambiamento della sostanza. Quello della Banca, avverte, è un piccolo passo e per di più traballante.

  • Innanzitutto, la suddivisione fra sviluppati e in via di sviluppo è ancora presente, eccome, nella versione on line – che sarà probabilmente la più consultata – del rapporto citato invece come spartiacque con il vecchio linguaggio.
  • Inoltre, aggiunge Kenny, la Banca continua nei fatti a decidere a chi concedere quali prestiti, dividendo i paesi del mondo in gruppi sulla base del reddito, li chiami o meno «in via di sviluppo».

Ed è esattamente questo il problema: servirebbe, piuttosto, una scala progressiva per cui ogni paese riceve l’aiuto di cui ha bisogno e nel contempo si impegna a dare il proprio contributo per risolvere i problemi globali. A maggior ricchezza maggior responsabilità e minor assistenza, insomma, non una rigida e binaria divisione fra stati «aiutanti» e «aiutati» a seconda che si trovino di qua o di là da una soglia di reddito.

Sana ironia

In attesa che si superi davvero la dicotomia e si conii eventualmente una nuova espressione, qualcuno sottolinea – con ironia – la necessità di un complessivo ripensamento del linguaggio dello sviluppo. L’organizzazione no-profit australiana WhyDev, ad esempio, indica «nove frasi dello sviluppo che odiamo (e i suggerimenti per un nuovo lessico)» [1].

Il capacity building? «Spesso è un eufemismo per dire che si stipano trenta persone in una stanza per un po’ di giorni e si cerca di ucciderle a forza di powerpoint, cartelloni e lavori di gruppo». L’espressione «in via di sviluppo»? «È semplicistico. Significa mettere i paesi del mondo in una scala da meno a più sviluppati, e lo scopo ultimo sarebbe quello di essere il più vicino possibile al nostro estremo della scala e il più lontano possibile dall’altro. E fidatevi, essere più vicini al nostro estremo significa somigliare ai Kardashian [famiglia statunitense di origini armene composta da imprenditori, attrici, modelle costantemente sulle riviste scandalistiche per i loro eccessi e lussi]. Nessuno può voler questo».

Il Development Research Institute dell’Università di New York è ancora più sarcastico nel suo dizionario dell’aiuto (AidSpeak Dictionary) [2]. La vera definizione di «sensibilizzare»? «Dire alle persone quello che devono fare». Gli «Obiettivi delle Nazioni Unite»? «Inventarsi soluzioni per problemi che non capiamo, pagando con soldi che non abbiamo». E che cosa intende davvero un professionista dello sviluppo quando dice di essere un esperto? «Beh, che ho letto un libro sul tema durante il volo».

Chiara Giovetti

[1] Weh Yeoh, Brendan Rigby and Allison Smith, 9 development phrases we hate (and suggestions for a new lexicon), in whydev.org, 13/09/2012.

[2] The AidSpeak Dictionary, in wp.nyu.edu, 19/09/2011.




Singapore sovrano regna l’ordine


Stretto tra la Malesia e l’Indonesia, Singapore è uno degli stati del pianeta con più alti redditi, efficienza sociale ed economica, bassissima corruzione. Goveato per oltre 30 anni da Lee Kwan Yew e oggi da suo figlio Lee Hsien Loong, è un paese in cui patealismo, dispotismo e confucianesimo hanno prodotto una limitazione dei diritti civili a cui la popolazione (5,5 milioni di persone appartenenti a tre etnie) pare assuefatta. Sull’immediato futuro incombono poi altri due problemi molto concreti: l’aumento demografico e la mancanza di spazi.

Per sopravvivere bisogna essere eccezionali, ha detto lo scorso maggio Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore. E ammirando al crepuscolo le luci che iniziano a illuminare la piccola città stato asiatica dall’alto del Marina Bay Sands1, non si può fare a meno di convenire che Singapore è una nazione eccezionale. Non per niente l’aggettivo è uno dei vocaboli più utilizzati nella retorica politica cittadina.

Dallo Sky Park2 o dall’Infinity Pool3 la vista spazia a 360 gradi tra cantieri navali, enormi distese di verde e la downtown. Cerco di individuare, inutilmente, il punto in cui, due secoli fa, Sir Thomas Raffles, l’inglese ritenuto essere il fondatore della modea Singapore, sbarcò dall’Indiana, la nave comandata dal capitano James Pearl. Chissà cosa direbbe vedendo come si è trasformato il minuscolo e insignificante porticciolo di poche centinaia di abitanti in cui, nel 1819, era arrivato.

La sua statua, un tempo punto obbligato delle visite turistiche, oggi è pressoché ignorata, schiacciata e umiliata dai grattacieli a cui porge la schiena, quasi a significare l’incomprensione verso quegli alberi di cemento che hanno preso il posto delle palme. Lo sguardo di Raffles si dirige, invece, verso il parlamento e il museo della Civilizzazione asiatica. Il suo nome, del resto, per la maggior parte degli stranieri che scorrazzano per le vie della città, è associato più al candido ed elegante albergo di lusso (il Raffles Hotel) che si affaccia a pochi isolati dal Boat Quay4 piuttosto che al governatore britannico.

Agosto 1965: via dalla Malesia

Colonia britannica dal 1867 al 1962, è la storia stessa ad aver reso Singapore eccezionale, a partire da quel drammatico giorno del 9 agosto 1965, quando il leader Lee Kuan Yew con le lacrime agli occhi annunciò al mondo la separazione del territorio dalla Federazione malese dopo soli due anni. Allora furono in molti a prospettare un futuro di miserie e tribolazioni per la neonata nazione. Priva di risorse naturali e dipendente quasi totalmente dalla Malesia per il rifoimento idrico, il governo dell’isola si trovava in balìa di ritorsioni dall’esterno, nel caso la sua politica avesse irritato Kuala Lumpur.

Nel libro autobiografico The Singapore Story, Lee Kuan Yew denunciava la minaccia dell’allora primo ministro malese Tunku Abdul Rahman di chiudere i rubinetti del canale che da Johor portava l’acqua a Singapore se il governo di questo paese avesse adottato azioni aggressive nei confronti della Malesia.

Inoltre la città si trovava a punzecchiare, come una punta di spillo, un altro colosso asiatico: quell’Indonesia che si accingeva a epurare Sukao e il movimento comunista, particolarmente radicato anche a Singapore. Suharto, che prese il potere con un sanguinoso colpo di stato, era pronto a intervenire nel caso i comunisti fossero andati al potere nella neonata nazione.

Ma, cosa ben più allarmante per uno stato multirazziale, la vigilia dell’indipendenza era stata funestata da manifestazioni sfociate in violenti disordini etnici che, se non sedati, avrebbero potuto far piombare la repubblica in un caos difficilmente controllabile e decretae la fine ancor prima della nascita. La comunità cinese di Singapore si sentiva seriamente minacciata da quella malay, mentre, da parte sua, l’Umno (United Malays National Organisation), il partito di governo malese, temeva che la forza economica di Singapore deviasse il baricentro politico da Kuala Lumpur.

Sviluppo e pugno di ferro

Eppure cinquant’anni dopo Singapore continua a rimanere uno degli stati più benestanti del pianeta, con un reddito pro capite doppio rispetto a quello della Gran Bretagna, la nazione che per due secoli ha colonizzato la città asiatica, accompagnato da indici di sviluppo umani tra i più alti al mondo, una corruzione bassissima e un’efficienza sociale ed economica elevata. Insomma, un’eccezione del mondo asiatico che si traduce in un mercato affidabile per gli investimenti stranieri, che nel 2015 hanno raggiunto il 22% del Pil.

A trainare lo sviluppo è stato lo stesso Lee Kwan Yew, padre-padrone di Singapore, che ha governato con un misto di patealismo, dispotismo e confucianesimo. Opposizioni imbavagliate, censura, restrizioni nelle assemblee pubbliche che coinvolgono più di dieci persone, sono i mezzi che il governo ha utilizzato e utilizza ancora oggi per mantenere l’ordine cittadino in nome dell’armonia e della pacifica convivenza. Il pugno di ferro è servito per mantenere unite le diverse comunità etniche di cui è composta la nazione e a evitare la disgregazione sociale e politica. Le differenze culturali, linguistiche e religiose tra le principali etnie (cinesi, malay, indiani) si ripercuotono, anche se in misura meno evidente di quanto avvenga in Malesia, sulle condizioni economiche. Lavoratori sfruttati con la complicità di diritti sindacali inesistenti hanno nutrito le recriminazioni delle varie comunità, in particolare quella indiana. Nel 2013 a Little India, uno dei quartieri più disagiati di Singapore, vi sono stati violenti scontri.

Di padre in figlio

La scomparsa di Lee Kwan Yew, avvenuta nel marzo del 2015, è stato un colpo emotivo per tutti gli abitanti, ma soprattutto per i partiti dell’opposizione parlamentare che, dopo il calo di voti nelle elezioni del 2011 del «Partito di azione popolare» (Pap), il partito che domina incontrastato la scena politica della Repubblica dal 1959, speravano di incrementare la loro già misera schiera di deputati nel parlamento. Così non è stato: anche se dalla politica si era ritirato ufficialmente sin dal 1990, la dipartita di Lee Kwan Yew ha trascinato ad una nuova schiacciante vittoria il Pap, che nelle votazioni del settembre 2015 ha ottenuto il 70% delle preferenze occupando 83 seggi su 89.

L’immensa folla di persone che ha partecipato alle esequie e ha sfilato per ore davanti alla salma, è stata la dimostrazione del successo della retorica nazionalista adottata dal fondatore di Singapore sin dal giorno della sua indipendenza.

Prima di morire, da buon autocrate, Kwan Yew si è assicurato che il potere restasse saldamente nelle mani della famiglia, manovrando affinché il posto di primo ministro passasse al figlio, Lee Hsien Loong, sin dal 2004, anno in cui il reddito pro capite del paese superò addirittura quello degli Stati Uniti.

Questa mancanza di alternanza al potere ha causato una pericolosa assuefazione al totalitarismo e al rifiuto, anche di parte della popolazione più anziana, di aperture democratiche nel sistema.

Oggi, però, Singapore deve cominciare a fare i conti con il proprio futuro: il sistema scolastico, giudicato tra i migliori in Asia, ha formato una classe di nuovi cittadini più colta e attenta ai mutamenti culturali e politici inteazionali che difficilmente accetterà la politica assolutistica e dispotica del governo.

Immigrazione e spazi

La scarsa dimestichezza con il pluralismo rappresenterà una delle principali sfide per la nazione assieme ad altri due temi scottanti e strettamente correlati tra loro: l’immigrazione e la mancanza di spazio per una popolazione in continua crescita.

Ai ritmi attuali e con una politica di attenta e severa pianificazione dei flussi migratori, la popolazione di Singapore potrebbe, già nel 2030, subire una rivoluzione demografica. Attualmente, secondo il dipartimento di Statistica, il 74,3% della popolazione singaporeana è di etnia cinese, seguita da quella malay (13,3%) e indiana (9,1%). Nel giro di tre lustri, però, metà della popolazione potrebbe essere composta da immigrati, il che ha generato forti preoccupazioni, specie nella comunità cinese, sfociate in manifestazioni di protesta contro la politica immigratoria imposta dal governo. Ad aumentare le tensioni ci sono state le dichiarazioni del ministro dell’Inteo, Kasiviswanathan Shanmugam, il quale, commentando i recenti attacchi terroristici di Bruxelles, ha detto che, per quanto riguarda Singapore, non è più questione se ci sarà o meno un attacco terroristico, ma quando questo avverrà. Il segretariato per la Sicurezza nazionale, l’organismo creato per combattere il terrorismo in città, ha smantellato con successo diverse cellule locali di Jemaah Islamiah, il movimento legato a Abu Sayyaf responsabile dell’attentato di Bali nel 2002 che causò la morte di 202 persone, ma ha anche fatto sapere che altri militanti sono attivi in diversi paesi del Sud Est asiatico.

Infine c’è il pressante e costante dilemma dell’aumento di popolazione e del continuo bisogno di spazio. Nel 1965, all’atto dell’indipendenza, Singapore aveva 1,9 milioni di abitanti e una superficie di 581 kmq. Oggi, a cinquant’anni di distanza, la popolazione ha raggiunto i 5.535.000 di abitanti, di cui solo il 61% (3,37 milioni) sono cittadini della repubblica. Per far fronte all’aumento demografico, principalmente dovuto all’immigrazione, il governo ha avviato una imponente opera di bonifica, accrescendo le aree abitabili del 23% sino a raggiungere l’attuale superficie di 720 kmq e progettando un ulteriore allargamento di 100 kmq entro il 2030. Al tempo stesso, le rigide leggi ambientali autornimposte dal governo, assegnano il 10% del territorio a parchi e riserve naturali.

Nazione minuscola, ma ben armata

Per economizzare l’utilizzo degli spazi, anche le forze aeree del paese hanno istituito sette basi in tre nazioni alleate (una in Francia, quattro negli Stati Uniti e due in Australia). E proprio sulle forze armate Singapore ha puntato, sin dalla sua estromissione dalla Federazione malese, per garantire la propria indipendenza dal pericolo malese e indonesiano. Nonostante che la nazione sia minuscola in confronto con i vicini, la sua capacità militare è tra le più organizzate e preparate della regione, anche grazie alla stretta collaborazione instaurata con Israele, scelto come principale consulente in materia militare. Nel 2015 Singapore ha aumentato del 5,7% il bilancio per la Difesa, raggiungendo i 13,12 miliardi di dollari (il doppio di quanti ne spenda la Malesia), pari al 3,3% del Pil.

Pochi, in verità, a Singapore si lamentano dell’ingente flusso di denaro che viene incanalato nel ministero della Difesa, anche perché molte industrie presenti sul territorio collaborano, direttamente o indirettamente, con i militari.

Singapore è una città eccezionale, ma nella sua unicità ha anche molte sfaccettature che aprono molti interrogativi sulla sostenibilità di uno sviluppo così avanzato in un territorio ristretto. Il governo, inoltre, a fronte del massiccio impiego di forza lavoro da altri paesi, dovrà anche rivedere il concetto di singaporeanità.

Le aperture democratiche che inevitabilmente dovranno essere messe in atto nei prossimi anni, produrranno terreno fertile per la nascita di organizzazioni e individui che chiederanno il rispetto dei diritti civili, ma rappresenteranno anche uno spiraglio verso quei movimenti meno pacifici che da tempo cercano di sfruttare la perfetta logistica del paese asiatico al fine di trarre vantaggio per le loro azioni propagandistiche.

Su questi temi da tempo Singapore sta chiedendo la collaborazione delle nazioni dell’Asean (l’Associazione degli stati del Sud Est asiatico) senza, però, trovare intese.

Piergiorgio Pescali




Cooperazione progetti micro


Micro progetti per grandi problemi. Cibo, scuola, sanità, acqua, diritti. Sono molti i nostri missionari che si spendono ogni giorno per costruire un mondo più vivibile, non solo annunciando la Parola, ma ponendo quotidianamente piccoli gesti di frateità verso i più piccoli e i più poveri. Ecco alcune attività significative in Africa e America Latina. Tutte, casualmente, sono portate avanti da missionari della Consolata africani.

Costa d’Avorio,
una cucina per la scuola di Blessoua

Durante la stagione delle piogge, nei villaggi della brousse (savana), le fragili costruzioni in terra e paglia faticano a resistere alle forti folate di vento e alle precipitazioni torrenziali. La cucina della scuola elementare di Blessoua, nella Costa d’Avorio meridionale, era una di queste casette precarie e risultava inservibile quando la pioggia si faceva troppo battente. Perciò l’ora del pranzo per i 423 bambini della scuola non poteva più essere mezzogiorno ma, molto più imprevedibilmente, l’ora in cui smetteva di piovere. Le conseguenze sulla didattica sono facili da immaginare, con i quindici maestri sempre a rischio di dover interrompere la lezione e gli alunni sempre meno concentrati e più stanchi per l’attesa del pasto. Per questo padre James Gichane, keniano di Nakuru, in missione a Blessoua, ha chiesto di poter costruire una cucina più solida che permetta al cuoco di lavorare in tranquillità e ad alunni e insegnanti di concentrarsi sulle lezioni. La scuola riunisce figli di ivoriani ma anche di togolesi, burkinabè e beninesi venuti in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao: la socializzazione fra questi bambini è un mattone basilare nelle fondamenta della pace che il paese sta costruendo dopo essere uscito da una guerra civile che si alimentava anche della manipolazione dell’odio fra ivoriani e stranieri.

Kenya,
energia pulita per la «meglio» scuola secondaria della Laikipia

Quasi cinquemila chilometri più a Sud Est, in un’altra scuola – stavolta secondaria – il responsabile padre David Mbgua ha invece potuto installare un sistema fotovoltaico alla Mary Mother of Grace Secondary School di Rumuruti nella contea di Laikipia, Kenya: il risparmio sulla bolletta della luce gli permetterà di liberare risorse da utilizzare per la didattica, di evitare i black out che impedivano ai ragazzi di studiare dopo il tramonto del sole e di alimentare la scuola con energia rinnovabile, tema questo tutt’altro che secondario in un paese che sta dibattendosi fra richiesta energetica sempre in crescita ed esigenza di sostenibilità ambiatele.

La Mary Mother of Grace fu aperta nel 1992 da padre Giuliano Gorini, recentemente scomparso. Ha 216 alunni e si trova in una zona abitata da pastori nomadi in costante movimento per seguire il bestiame, dove i casi di banditismo sono frequenti. Padre Gorini stesso, ricordava nel 2013 un articolo sul quotidiano Daily Nation, si è trovato più di una volta una carabina puntata in faccia mentre, sdraiato a terra, ascoltava i banditi chiedergli soldi. La scuola vanta uno dei migliori insegnati di fisica del Kenya secondo i risultati degli esami di maturità: le sue classi del 2009 e del 2013 hanno ottenuto 11,5 e 11,58 punti sul massimo di dodici del sistema di valutazione keniano. E non solo, la scuola che, come regola, accoglie ragazzi provenienti da famiglei povere, desiderosi di studiare, si piazza ogni anno tra le primissime di tutto il paese.

Tanzania,
a Pawaga contro i danni del clima impazzito

Se le piogge privavano i bambini ivoriani della loro mensa scolastica, in Tanzania non sono state da meno nel rendere dura la vita della gente di Pawaga, villaggio in un’area semi arida a un’ottantina di chilometri dalla città di Iringa, nel centro del paese: a febbraio di quest’anno le piogge, di solito scarse e brevi, sono state così abbondanti da provocare inondazioni e costringere centinaia di persone a sfollare mentre le loro proprietà sono state distrutte. Passate le piogge, l’acqua stagnante ha favorito il moltiplicarsi delle zanzare e i casi di malaria sono aumentati notevolmente rispetto alle medie locali. Per questo padre Vitalis Oyolo, missionario keniano e responsabile dei progetti in Tanzania, ha segnalato la necessità di acquistare e distribuire farmaci antimalarici e zanzariere in modo da contrastare l’espandersi dell’epidemia. A Itundundu, vicino Pawaga, i missionari gestiscono inoltre un dispensario che, grazie al supporto di un donatore statunitense, segue e cura circa 450 bambini malnutriti.

Congo RD,
acqua e salute a Neisu

L’acqua invece non è mai troppa quando si tratta di soddisfare le esigenze di una rete sanitaria come quella dell’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo, che serve circa settantamila pazienti e conta, oltre alla struttura principale, anche tredici centri e posti di salute, il più lontano dei quali si trova a sessantacinque chilometri dall’ospedale. L’ospedale è costantemente alle prese con situazioni al limite dell’emergenziale: lo scorso aprile David Bambilikpinga-Moke, missionario congolese rientrato in patria dopo anni di lavoro nell’Amazzonia brasiliana e ora responsabile dell’ospedale, scriveva: «In questo momento stiamo registrando una epidemia di malaria in cui la maggior parte dei pazienti sono bambini di meno di dieci anni (attualmente 183). È già la seconda volta in quattro mesi che ci troviamo di fronte a questa situazione».

I centri e posti sanitari hanno un ruolo fondamentale nel raggiungere pazienti che non potrebbero altrimenti affrontare lo spostamento fino all’ospedale. Per il loro corretto funzionamento l’acqua pulita è indispensabile e fra il 2010 e il 2012, grazie ai fondi dell’otto per mille della Tavola Valdese e della Water Right Foundation della Toscana, sei centri hanno potuto avere il loro pozzo, ma ne servono ancora sette per altrettanti centri o posti che ne sono sprovvisti. Due saranno finalmente realizzati entro la fine del 2016.

Brasile,
scuola di diritti a Serrinha

Quasi alla stessa altezza sull’Equatore rispetto a Neisu, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, i problemi legati all’acqua e all’istruzione si intrecciano con la resistenza dei popoli indigeni contro chi li vuole, continua a volerli, cittadini di seconda categoria.

La scuola statale Índio Prurumã II si trova nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Brasile. È la scuola della comunità indigena Serrinha, conta 85 alunni, nove insegnati e richieste di iscrizione crescenti di anno in anno. Nonostante il riconoscimento pubblico della comunità e della scuola, lo stato non fornisce nessun sostegno concreto alle strutture e alla didattica: un triste espediente, questo, che svuota nei fatti i diritti dei popoli indigeni sanciti per legge. A far pressione sul governo statale in questa direzione sono i grandi latifondisti e gli altri potentati economici del Roraima, peraltro spesso familiari o membri loro stessi della classe politica locale, che vedono nella presenza degli indios semplicemente un fastidioso ostacolo alla possibilità di appropriarsi della terra.

Le scuola aveva solo quattro aule, tutte di fango, lamiera, pali e assi di legno e la comunità non disponeva di fonti d’acqua affidabili e igienicamente sicure. Fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, inoltre, un’ondata di siccità particolarmente forte aveva messo in difficoltà la popolazione locale, costretta a dipendere gioalmente dall’arrivo delle autobotti inviate dal municipio o a utilizzare fonti d’acqua di fortuna. I progetti in corso, seguiti dal missionario congolese Jean Tuluba, permetteranno di migliorare la struttura delle quattro aule e scavare un pozzo artesiano che serva la scuola e la comunità intorno.

Brasile,
a Maturuca agricoltura biologica e sanità

Maturuca è il cuore della lotta indigena a Raposa Serra do Sol: è lì che si trova la grande maloca comunitaria dove possono riunirsi fino a mille persone provenienti da tutta la regione per unire le forze e le idee nelle loro battaglie. È il luogo della promessa con cui nel 1977 i tuxaua (capi delle comunità) cominciarono la lotta all’alcolismo che fiaccava la determinazione delle loro comunità a opporsi a chi voleva spazzarli via; è stata il punto nevralgico della campagna Indios Roraima del 1988-89 e del progetto ad essa legato, «Una mucca per l’indio», che ha permesso a Raposa Serra do Sol di passare da poche vacche a 42 mila capi di bestiame.

Oggi Raposa si trova a dover consolidare e rafforzare questi risultati per lottare contro la tentazione per i più giovani di spostarsi in città, e per puntare a una sempre maggiore autonomia economica di un’area che rimane isolata e, negli ultimi anni, esposta a cambiamenti climatici che hanno ridotto le piogge e reso più difficile l’agricoltura. A questa sfida cerca di rispondere il progetto di padre Philip Njoroge Njuma, missionario keniano in forza a Maturuca. Il progetto, che si chiama Terra Madre, vuole offrire ai giovani una scuola di formazione all’agricoltura biologica per autoconsumo e vendita e creare un efficiente sistema di irrigazione che permetta di coltivare contando sull’acqua. A questo si affianca poi un altro progetto che permetterà di aprire tre centri sanitari: diverse comunità hanno già provveduto in autonomia alla costruzione del proprio centro ma ci sono ancora aree non raggiunte dai necessari servizi di tutela della salute.

Colombia,
il teatro degli oppressi a Cali

Sempre a minoranze e gruppi vulnerabili è rivolto il progetto «Teatro degli oppressi» che si realizza a Cali, grande città della Colombia occidentale. Qui il keniano padre Venanzio Mwangi Munyiri sta lavorando da anni con i giovani discendenti degli schiavi deportati dall’Africa a partire dalla fine del XVI secolo. La popolazione afro-colombiana ha subito da sempre discriminazioni molto simili a quelle patite dalle popolazioni indigene, alle quali si sommano oggi, in città come Cali, i problemi tipici delle periferie urbane coi le loro sacche di marginalizzazione e povertà.

Questo insieme di condizioni, spiega padre Venanzio, ha indotto negli afro-discendenti un senso di impotenza e rassegnazione alla subalteità che li spinge a ripiegare su metodi di sostentamento degradanti e li espone al reclutamento da parte delle organizzazioni criminali.

Il progetto di sei mesi, a cui contribuiscono anche le amministrazioni locali, prevede una fase di sensibilizzazione delle comunità, la formazione degli animatori e un programma didattico che valorizzzando il teatro aiuti i partecipanti a riscoprire e apprezzare la propria identità e cultura e quella degli altri al fine di crescere nell’accettazione e nel rispetto delle diversità culturali.

Harambee, insieme

Per tutti i progetti la comunità locale ha fornito un contributo: manodopera, vitto e alloggio per gli operai, trasporto dei materiali oppure una parte delle risorse. Il contributo è una combinazione della minga colombiana, del mutirão brasiliano, dell’harambee kenyano o di altre forme di partecipazione comunitaria. Sono termini in lingue diverse che condividono un principio di base: è attraverso il fare insieme che la comunità, oltre a risolvere il problema pratico di procurare risorse, promuove la propria autoconservazione.

Chiara Giovetti




Timor est piccoli imprenditori crescono


Un piccolo paese, indipendente dal 2002, con appena 1,2 milioni di abitanti, in maggioranza cattolici, cerca di uscire dalla povertà e dall’isolamento. Vi raccontiamo le storie di alcuni giovani imprenditori locali.

«Adoro cucinare all’aria aperta. Mi piace che le persone possano vedermi mentre preparo i miei piatti. Questo crea un rapporto più diretto tra me e loro». A bordo di un pick up di seconda mano Cesar Gaio passa le sue giornate lungo le ventose strade che costeggiano il mare di Dili, fermandosi nelle zone più affollate per vendere deliziosi wrap. Una piccola cucina a gas montata sul retro del furgone gli basta per preparare questi sandwich fatti con morbido pane basso arrotolato intorno a un ripieno di patate dolci viola e pesce fresco. La scritta «Dilicious Timor» che si legge sulla fiancata del camioncino è la stessa che si trova sull’insegna del piccolo ristorante che ha aperto alcuni mesi fa, sempre vicino alla costa, nella capitale di Timor Est. E anche nel suo locale vengono serviti esclusivamente piatti preparati con prodotti freschi del luogo.

Cesar Gaio ha 32 anni, le idee chiare e la voglia di costruire qualcosa di stabile per sé e per il suo paese. È uno dei sempre più numerosi giovani imprenditori che, tra mille difficoltà, hanno deciso di scommettere sulle risorse e la popolazione locale per avviare attività che possano trascinare l’isola in cui è nato e cresciuto fuori dal baratro del sottosviluppo e della povertà in cui secoli di dominazione portoghese e 25 anni di occupazione indonesiana l’hanno sprofondata. La sua storia, raccontata dal sito latestnews24, dimostra che gli abitanti di Timor sono chiamati ad affrontare quotidianamente problemi di ogni sorta ma non hanno perso la speranza nel futuro.

Un caffè da Gally

L’anno scorso Gally Soares Araujo ha lasciato il suo ben retribuito lavoro da impiegato statale e, con i soldi messi da parte, ha aperto Kaffe Out, un piccolo bar costruito con mattoni rossi che offre diversi tipi di pregiati caffè, accompagnati da torte di carota e altri dolci, nel centro di Dili. A 29 anni Gally ha sentito il «bisogno di iniziare a fare qualcosa di mio». E siccome a Timor Est l’industria del caffè ha un enorme potenziale ancora poco sfruttato ha deciso di investire in questo settore. Nel suo locale, arredato in modo essenziale e colorato, particolarmente richiesta è la miscela prodotta nella zona del Monte Rameleau, che con i suoi 2.962 metri è la montagna più alta di tutta l’isola (curiosità: in passato è stata la vetta più alta di tutto l’Impero portoghese). Nella lingua locale, il tetum, il rilievo è chiamato Tata Mailau, che significa letteralmente «Il nonno di tutti». «Il particolare microclima della zona consente di coltivare un eccellente caffè, che ha un aroma molto particolare», ha spiegato Gally alla Bbc. «Penso che si possa veramente dare un contributo al cambiamento di cui il paese ha bisogno. Quando le Nazioni Unite hanno concluso la loro missione di pace nel 2012 abbiamo capito che avremmo dovuto iniziare da soli a ricostruire. Ed è quello che stiamo facendo».

Invasione straniera

Non tutti gli imprenditori hanno scommesso sul settore del cibo e della ristorazione. Rui Carvalho ha utilizzato i suoi risparmi e ha venduto alcuni terreni di famiglia per aprire nel 2009 Rui Collections, una boutique di moda made-to-order. L’azienda produce principalmente tais, un panno di cotone tradizionale che viene utilizzato per confezionare abiti, scarpe e borse. «Quando vedo le donne che vivono nelle zone rurali, che non sanno leggere, non sanno contare e non hanno neppure gli strumenti per produrre il tais mi accorgo di quanto sia difficile la strada che abbiamo davanti», ha sottolineato Rui nel corso di un’intervista a latestnews24. «Ma sono molto orgoglioso di quello che sono riuscito a realizzare fino ad ora con tanti sacrifici». L’imprenditore ha 42 anni e da quando ha avviato la sua attività ha potuto assumere più di una dozzina di dipendenti, in maggioranza vedove, giovani che avevano abbandonato la scuola e persone in difficoltà.

Quella di Carvalho è stata una scelta particolarmente coraggiosa in un paese in cui l’80% degli 1,2 milioni di abitanti vive di agricoltura, quasi sempre di sussistenza, e meno di 200mila persone hanno un impiego effettivo. Ma anche gli altri «colleghi» devono dimostrarsi molto determinati, essendo chiamati a fronteggiare difficoltà enormi collegate alla povertà diffusa, alla carenza di infrastrutture e alla mancanza di istruzione. Ostacoli cui si è aggiunto nell’ultimo periodo quello della concorrenza proveniente dall’estero.

La catena statunitense Burger King, ad esempio, ha deciso di raddoppiare entro i prossimi cinque anni i punti vendita presenti sull’isola, portandoli a otto. Beard Papa, franchising giapponese specializzato in bignè alla crema, ha appena aperto un negozio a Dili e ne avvierà altri quattro a breve. L’australiana Gloria Jean’s Coffee ha in programma di espandere la sua per ora modesta presenza e anche l’olandese Heineken ha iniziato le procedure per costruire una fabbrica di birra in loco. La speranza degli imprenditori stranieri è quella di attrarre non solo i turisti ma anche gli abitanti più giovani, inevitabilmente influenzati dallo stile di vita e di consumo occidentali.

Basta paura e rassegnazione

Filipe Alfaiate gestisce Empreza Diak, un’organizzazione che ha trascorso gli ultimi cinque anni cercando di incoraggiare l’imprenditorialità locale come una forma di cambiamento sociale. Secondo lui il popolo di Timor Est ha davanti a sé una sfida epocale, quella di riuscire a creare un’economia di mercato in grado di reggersi sulla domanda intea. Impresa di per sé non facile per un paese così piccolo, e resa ancora più complicata da decenni di sfruttamento da parte di potenze straniere che hanno contribuito a rendere le persone rassegnate e avverse a ogni tipo di rischio.

«Dopo tutto quello che hanno passato, gli abitanti di Timor preferiscono aggrapparsi a quello che già hanno. Questo li porta nella maggior parte dei casi a scegliere la sicurezza di una paga mensile, per quanto misera, piuttosto che assumersi il rischio legato all’avvio di una nuova attività», ha sostenuto Alfaiate alla Bbc.

Negli ultimi tempi però la situazione ha iniziato a cambiare. «I giovani hanno cominciato a capire che non ci sono abbastanza posti di lavoro per tutti. La metà della popolazione dell’isola ha meno di trent’anni e quindi una mentalità più aperta rispetto alle precedenti generazioni. Sempre più persone si stanno orientando verso scelte imprenditoriali, assumendosi dei rischi per avviare nuove attività che possano portare a un cambiamento e a uno sviluppo».

Per Alfaiate il primo scoglio da superare è proprio di tipo culturale. «Serve un grande cambiamento nel modo di pensare. Per secoli gli abitanti di Timor sono stati abituati a coltivare i campi, producendo cibo appena necessario al proprio sostentamento». Il piccolo sviluppo dell’economia avvenuto di recente è stato legato quasi esclusivamente al turismo e alla presenza del personale delle Nazioni Unite. «Si importano cose e si vendono. Quello che è necessario sono invece persone pronte a scommettere sulle risorse e sui lavoratori del luogo. Per essere un imprenditore nella nostra isola serve un mix di grande talento, accesso al credito e sostegno a livello locale. Ci vorrà del tempo ma le cose si stanno muovendo nella direzione giusta. Ci sono possibilità di crescita concrete, anche se ancora limitate».

L’ottimismo di Alfaiate è confortato dai numeri. Florencio Sanches, il capo dell’ufficio governativo incaricato di registrare nuove imprese ha dichiarato, sempre alla Bbc, che i giovani imprenditori negli ultimi anni sono andati aumentando, anche grazie allo snellimento delle procedure burocratiche, che ha reso più facile per gli abitanti avviare un’attività. Dal 2013 sono state costituite 11mila nuove imprese, in grandissima parte proprietà di persone sotto i trent’anni, mentre nel lustro precedente le registrazioni erano state in tutto 5mila.

La vera svolta, però, secondo Sanches si vedrà solo se si riuscirà a garantire alla popolazione un più ampio accesso al credito. «Il governo dovrebbe impegnarsi a sviluppare politiche che incoraggino banche e istituti a prestare denaro alle persone». Servono tassi e condizioni agevolate per l’ottenimento di finanziamenti, «senza i quali a Timor non potrà mai svilupparsi un tessuto imprenditoriale abbastanza robusto per consentire la nascita di un’economia locale solida». Anche volendo però, l’esecutivo non potrà fare tutto da solo. «Abbiamo bisogno della partecipazione del settore privato. Devono essere studiate in breve tempo delle soluzioni, perché solo risolvendo questo problema potremo dare alla nostra isola la speranza di un futuro migliore».

Paolo Tosatti*


Cronologia essenziale

Dai portoghesi agli indonesiani

XVI-XX Secolo – Timor Est è sotto il dominio del Portogallo, che sfrutta l’isola a fini commerciali.

1975 – Il 28 novembre fazioni filo-comuniste presenti nel paese dichiarano l’indipendenza da Lisbona. A dicembre il timore di vedere un governo comunista indipendente all’interno dell’arcipelago indonesiano porta il governo di Jakarta a invadere Timor Est su vasta scala, con il supporto dei governi occidentali.

1976 – Il 17 luglio l’Indonesia dichiara Timor Est come la propria 27esima provincia con il nome di Timor Timur. Inizia un lungo periodo segnato da scontri tra l’esercito clandestino degli indipendentisti, le forze regolari indonesiane e le milizie civili anti-indipendentiste. Nei combattimenti vengono spesso coinvolti anche i civili.

1996 – José Ramos-Horta, rappresentante del Fretilin, il partito che conduce la lotta clandestina contro l’occupazione, si vede assegnare, insieme a monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, il premio Nobel per la pace per il proprio impegno in favore dell’indipendenza del suo paese.

1999 – Dopo oltre 20 anni di occupazione il 30 agosto gli abitanti dell’isola votano in favore dell’indipendenza in un referendum organizzato dalle Nazioni Unite. Timor diventa così la prima nazione a raggiungere l’indipendenza nel XXI secolo. Nel paese si scatena un’ondata di violenze che si interrompe solo a seguito dell’intervento della forza di peacekeeping Interfet («Inteational Force for East Timor») formata da 10mila uomini di 17 paesi, Italia compresa. Successivamente subentrano le Nazioni Unite con Untaet prima e Unmiset poi.

2002 – Il 20 maggio Timor Est diviene indipendente. Xanana Gusmão, leader del movimento di guerriglia indipendentista Falintil, viene eletto presidente.

2006 – Nel mese di marzo metà delle forze armate si ribella al primo ministro Mari Alkatiri, che le aveva forzatamente congedate. I soldati ribelli si rivolgono a Gusmão che, sconfessando l’operato del premier, assume il comando dell’esercito. Il paese precipita nella guerra civile. L’intervento di 2000 soldati australiani, 500 malesi e di alcune unità neozelandesi e portoghesi limita i danni nei confronti della popolazione.

2007 – Il Nobel Ramos-Horta viene eletto capo di stato. Xanana Gusmão diventa primo ministro.

2008 – L’11 febbraio un gruppo di militari ribelli tenta un golpe, attaccando Ramos-Horta, che resta gravemente ferito, e Gusmão, che esce invece illeso dall’attentato. Il colpo di stato non ha comunque successo.

2012 – Taur Matan Ruak, ex leader della guerriglia antindonesiana, viene eletto presidente.

2015 – Il 2 febbraio Xanana Gusmão rassegna le dimissioni dalla carica di primo ministro. Gli subentra Rui Maria De Araujo.

2016 – A fine marzo prende possesso della diocesi di Dili il nuovo vescovo Virgilio Do Carmo Da Silva.

Pa.To.




Myanmar storia millenaria porti e caserme


Enormi complessi militari. Vaste zone disboscate per le piantagioni di caucciù. Pagode disseminate ovunque e molto frequentate. Turisti e lavoratori stranieri in cerca di spiritualità, storia e opportunità economiche. Il Myanmar si ricollega al mondo anche attraverso mega progetti di sviluppo (poco sostenibile). Mentre la gente locale si ingegna per uscire dalla miseria. Terza e ultima tappa del viaggio di Claudia in Birmania.

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Moulmein, Mon State. In due ore di navigazione sul fiume, da Hpa An raggiungo l’antica Moulmein, prima capitale della colonia britannica. Mi fermerò alcuni giorni, la città è piacevole, ricca di pagode e moschee. Qui la foce del fiume si confonde col mare, che rimane nascosto da un’isola molto grande, visitabile solo con una guida. Nei numerosi villaggi si mantengono vive attività di artigianato molto antico.

Il padrone della guest house di Moulmein, una volta lavorava in miniera, come geologo. Quando ha perso il lavoro è entrato in depressione, come i suoi colleghi che ho incontrato a Loikaw. Si è quindi rivolto alla pratica buddhista della meditazione, e, nel momento in cui ha ristrutturato la bella casa di famiglia sul lungomare, costruita da un commerciante inglese nei primi anni dello scorso secolo, ha creato al primo piano una piccola cappella.

A pochi chilometri dalla città, vi è un centro di meditazione che attira gente da tutto il mondo. Dedico una mezza giornata alla visita di questo complesso di padiglioni, sale con colonnati, ville per gli ospiti. Tutto è immerso in un grande parco. La strada per arrivarci costeggia grandi complessi dell’esercito, delimitati da mura e immersi nel verde. Caserme, scuole speciali, ospedale militare.

Sul viale alberato che conduce alla sala di meditazione femminile, incontro Vivien, califoiana, che mi dà i primi ragguagli: «Qui bisogna restare almeno dieci giorni. La vita è dura, sveglia alle 4,30, colazione alle sei, pranzo alle 10,30, poi nulla fino al mattino successivo. Sei sessioni di meditazione al giorno, si dorme e si mangia gratis, il luogo è finanziato dalle donazioni. Immagino siano cospicue, vista la cura con cui è mantenuto l’elegante complesso».

Ritoo in città e passo in cattedrale per salutare il vescovo Raymond Ray Po, che avevo conosciuto 20 anni fa. Anche lui ha i capelli grigi come me, ma il sorriso sul suo largo viso di Karen è sempre dolcissimo. Giustamente è stato coinvolto nelle trattative di pace con le tribù ribelli, che hanno portato al cessate il fuoco.

La cittadina di Ye

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti, anche il vescovo, mi avevano detto di evitare la cittadina di Ye, troppo calda e poco interessante. Però io devo sostarvi per interrompere il lungo viaggio verso Dawei (conosciuta anche come Tavoy). Lascio Moulmein attraverso un territorio completamente disboscato per fare spazio a vaste piantagioni di alberi di caucciù. Certo deve essere un privilegio appartenere alla casta che comanda e possiede queste proprietà, nonostante pare siano in crisi per il crollo dei prezzi.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Al mio arrivo scopro che Ye è una città vivace, con un bel lago, tante pagode dorate e alberi maestosi. Trovo alloggio da David, un americano della Florida, arrivato due anni fa dalla Thailandia dove viveva con Winnie, originaria di questa provincia, e la figlia di sei anni, Emma. Non desidera ritornare in patria. Ha comprato una casa con vista sul lago e la sta trasformando in guest house. Mi trovo bene, con la bambina che gioca e la moglie che cuce a macchina davanti alla mia stanza. Arrivano altri ospiti: Laura è una giovane americana che sta viaggiando da mesi in Oriente alla ricerca di luoghi di meditazione. Due settimane fa il padre l’ha raggiunta a Bangkok da una cittadina dello stato di Washington. Si fermeranno solo un giorno perché l’anziano padre ha problemi di salute ed è costretto a ritornare a Bangkok.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Mentre David taglia piastrelle per finire il bagno, scendo in paese e trovo piacevole anche il tessuto urbano, fatto di case di legno curate, botteghe, pagode e monasteri. Verso sera mi fermo sul marciapiede davanti al monastero delle monache dove una donna scodella mohinga (la zuppa tradizionale a base di pesce, cipolle e legumi) in ciotole e sacchetti per una fila di clienti che la porteranno a casa. Mi siedo al tavolo con altre dame e comunichiamo a gesti. Quando mi alzo per pagare, scopro che la mia vicina lo ha già fatto per me ed è sparita.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Hpa An e Ye sono due nomi insoliti di due città che ricorderò legate a momenti magici, con gente laboriosa e ospitale.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Tutti sono al lavoro, nei cantieri stradali, nei campi, nelle piantagioni, e vedo un certo benessere, dovuto a queste attività.

La sera David insegna inglese ai giovani che ne hanno bisogno. Ha a disposizione un’aula del liceo, dove sono presenti anche due insegnanti locali, desiderosi di collaborare. Coinvolgono anche me, Laura e il padre, professore di inglese in un college. Siamo felici perché sentiamo interesse da parte di questa gente, da tanti anni chiusa al mondo.

I bambini ci stanno a guardare dalle porte aperte sulla via e alla fine della lezione ci travolgono con il loro entusiasmo.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Fisheries

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Stamattina, andando in stazione, ho incontrato Soe Soe, un farmacista molto gentile. Mi invita a casa sua, e conosco la moglie cinese e i tre ragazzi. Soe Soe ha studiato a Yangon e si è laureato nel 1988. Oggi è sabato e, non avendo impegni, mi propone di andare alle fisheries (le pescherie). Usciamo da Ye in moto e attraversiamo le risaie oramai secche, e file di palme da zucchero, con le scale di bambù che consentono agli uomini di arrampicarsi per raccogliere il succo. Ci avviciniamo alla costa dove vengono fatti seccare i gamberetti su grandi teli azzurri. Le donne li lavorano con un rastrello. I ragazzi riempiono sacchi e li caricano.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Entriamo nel villaggio dove Soe Soe è molto conosciuto perché lo rifornisce di paracetamolo. C’è un forte odore di pesce secco. In un capanno le donne fanno la prima selezione di gamberetti. Passiamo alla sala macchine dove si separa la polpa dal guscio, che viene poi tritato per fae mangime o concime. In un altro capanno buio rimbomba un suono di martelli. Le ragazze battono i filetti di pesce secco. Qui si usa far seccare anche le meduse, utili per una certa zuppa.

Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)
Nelle fisheries di Ye (© Claudia Caramanti)

Quando mi vedono, le ragazze si aprono al sorriso, scompare l’aria mesta che avevano prima, ma continuano il lavoro.

Nel porto canale si sta lavorando per riparare le barche dei pescatori che trascorrono la stagione della pesca al largo, su grandi zattere di bambù, molto rudimentali. Come unico riparo, una piccola tenda. I pescatori vengono rifoiti di acqua e cibo dalle barche di appoggio.

A Dawei (© Claudia Caramanti)
A Dawei (© Claudia Caramanti)

Pasqua a Dawei

Lascio Ye la mattina di Pasqua (2015, ndr), insieme a Laura e Maury. La strada è in rifacimento. La stanno allargando, e il lavoro è intenso. Dobbiamo guadare i numerosi fiumi in secca perché i ponti in cemento devono essere ultimati. Per la prima volta vedo anche pale meccaniche al lavoro: fin’ora, per la costruzione di strade, avevo visto solo ragazzine che portano ceste di pietre.

A Dawei si dovrebbe realizzare il progetto di un porto profondo che consentirebbe alle navi container di evitare lo stretto di Malacca e Singapore. Una zona industriale sarà collegata alla Thailandia da un’autostrada, già in costruzione: Bangkok è molto vicina. La regione del Thanintharyi, in cui mi trovo, è strategica, molto ricca di risorse naturali, e la sua gente è attiva e laboriosa.

Aprile è uno dei mesi più caldi, e Dawei si prepara per il «water festival» (la festa delle acque), che tra una settimana avrà qui la sua celebrazione più festosa.

Prima di lasciare questa città giardino dalle belle case coloniali, in cui palazzi e alberghi ne stanno già cambiando l’aspetto, vorrei trovare la chiesa cattolica, e non è facile. Seguendo musica e canti, trovo il tempio indù dove è in corso una processione. Alcuni carri decorati sono trascinati da uomini che hanno uncini agganciati al dorso e alle guance. Non vedo segni di ferite, ma è impressionante. Proseguo verso la moschea, incontro musulmani biancovestiti e chiedo loro indicazioni. Loro sanno dove si trova la chiesa di Nostra Signora del Soccorso, dietro il mercato coperto, nascosta da alberi frondosi.

Padre Matthew sta preparando nel cortile la cena di Pasqua per i donatori che sostengono il convitto per 120 studenti provenienti da villaggi remoti, abitati da Karen che, anche qui, hanno sofferto le violenze dell’esercito governativo. Ho chiesto se fosse possibile trovare una bici in affitto, e una donna mi ha ceduto la sua per mezza giornata. Non ha voluto denaro, poi ho saputo che ha il marito malato in casa, lavora di giorno, e la sera apre una cucina sul marciapiede accanto alla sua abitazione. Ho cenato da lei: un piatto di noodles per pochi centesimi.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Maung Ma Kan

Impossibile costeggiare il mar delle Andamane: gli estuari dei fiumi lo impediscono. Con un moto taxi dobbiamo superare le colline per arrivare a Maung Ma Kan, il villaggio di pescatori dove trovo alloggio da Julien e sua moglie Zema, una giovane, intraprendente signora di Dawei. Julien è francese di stirpe contadina, nato in un villaggio del dipartimento della Lot. Sin da piccolo il nonno lo aveva portato a pescare nei torrenti. Il mare era lontano, allora, ma la tecnica appresa e la passione per la natura gli sono serviti quando ha deciso di trasferirsi in Thailandia.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Appena è stato possibile, la coppia ha lasciato Phuket, dove si erano conosciuti, e da otto mesi hanno aperto un piccolo ristorante con qualche capanno ombreggiato da palme e circondato da uno spazio verde vicino al mare. La lunga spiaggia grigia è bordata da una fila di casuarine (piante tipiche della zona, ndr) e tettornie di bambù per le merende delle famiglie.

Mare basso, acqua calda, riesco a fare nuotare le due bambine che vivono con Zema e Julien. Hanno perso la mamma, forse è andata in Thailandia a lavorare, non ho capito. Chiamano Zema zia, e me nonna. Pyiu Pyiu ha dieci anni, Elisa ne ha appena compiuti tre.

Il villaggio di Maung Ma Kan ha un grande mercato dove la mattina robuste dame preparano cibi squisiti per la colazione. Il settore del pesce è interessante, con grossi molluschi che fuoriescono dalle conchiglie, le nere aquile di mare, i barracuda, i pesci seccati. Tutto è esposto per terra.

Da noi arrivano alcuni giovani francesi e due ragazze di Monaco, gente simpatica con cui parlare la sera. Si fermano pochi giorni e con le moto vanno a cercare le spiagge remote, di sabbia bianca con le rocce. Vanno verso Sud e anche verso Nord dove, a dieci km da qui, dovrebbero iniziare i lavori per il porto di Dawei.

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)

Julien dubita che sia possibile realizzare un porto profondo in questo mare sottile.

Sono arrivati i russi. La sera li vedo scaricare grosse sacche nere da un pullmino, poi cenano al tavolo sotto la pergola, separati da noi. Due di loro mi sembrano guardie del corpo, sono giganteschi, muscolari. Uno ha uno sfregio sul viso: inquietante. Gli altri due sono normali ma ben solidi, tipo Putin. Rimangono qui quattro giorni per la pesca d’altura, fatta col fucile in apnea. Julien li porta alle isole in barca e ritorna la sera sfinito, con le prede e il filmato. L’ultima sera riesco a parlare con loro: lo sfregiato non è quasi mai uscito dal bungalow. Vengono da Irkutzk, in Siberia, abitano in Cambogia, sono stanchi di Sihanouk-ville, e stanno cercando un mare ricco e un posto tranquillo.

Ingenuamente, parlando di Siberia, cito un libro di Dostoevskij che sto leggendo, non ne sanno nulla e neppure conoscono Tolstoj.

Claudia Caramanti
(terza puntata – fine)

A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)
A Maung Ma Kan (© Claudia Caramanti)




Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti

 




Vangelo ed Educazione,Sviluppo e pace

Rumuruti: Missione di Frontiera

Un dossier narrativo in collaborazione tra la rivista The Seed di Nairobi e MC



Indice:

1. Terra di frontiera
2. La parrocchia Familia Takatifu
3. Un universo multietnico
4. Nomadismo e lavoro minorile
5. Curare fli infermi
6. Un uomo, una missione

 

 


1.

Terra di frontiera, terra di nessuno, terra di tutti
Rumuruti: una cosmopoli «remota»

di Henry Onyango e Gigi Anataloni

Rumuruti si trova pochi decimi di grado sopra l’equatore nel cuore del Laikipia Plateau, distretto di Laikipia Ovest, sulla strada che porta da Nyahururu a Maralal, al termine dei 40 km asfaltati che la separano da Nyahururu, sosta quasi obbligatoria prima di affrontare l’incognita degli altri 120 km di sterrato che portano a Maralal su una strada impegnativa durante il periodo secco e impossibile nella stagione delle piogge.

Il Liakipia Plateu è una immensa area di savana ricchissima di animali: mandrie enormi di zebre, branchi di elefanti che migrano stagionalmente seguendo le piogge, gazzelle e antilopi di ogni tipo, scimmie, serpenti, coccodrilli, leoni e leopardi, e chi più ne ha più ne metta. L’Ewaso Narok è il fiume principale della regione. Nasce dalle falde del Monte Kenya, crea una magnifica cascata, Thomson’s Fall, si disperde nelle zone paludose dette Ewaso Swamp poco più a Nord della cittadina di Rumuruti. Girando lentamente verso Est si unisce alle acque limacciose del fiume Ewaso Nyiro che attraversa il Samburu Park e, passato il ponte di Archer’s Post, continua ancora in una vastissima zona semiarida alimentando le Lorian Swamps. Infine, in Somalia si unisce al Jubba River.

I fiumi e la vicinanza del Monte Kenya, ricco di acque, hanno creato un ambiente ricchissimo di ogni tipo di fauna. Fino alla fine dell’Ottocento gli animali ne erano i padroni assoluti, disturbati di tanto in tanto soltanto dai Maasai o dai Samburu con le loro mandrie, mentre i Kikuyu e i Meru erano arroccati sulle fertili falde del Monte Kenya e dell’Aberdare.

Dal colonialismo all’indipendenza

L’arrivo degli inglesi, all’inizio del secolo scorso, alterò gli equilibri. Cacciati i Maasai, costretti a vivere nel Sud del Kenya, e spinti i Samburu sulle loro aride montagne più a Nord, i coloni bianchi, si stabilirono (settle in inglese, da cui il nome settlers per indicare i coloni) nella zona in maniera esclusiva. Divisa la terra in enormi proprietà di migliaia di ettari, la fecero lavorare da contadini e pastori provenienti da ogni parte del Kenya. Questi lavoratori non erano liberi nei loro movimenti, ma avevano un passaporto speciale da presentare a ogni controllo della polizia. Nessun altro africano, se non i lavoratori, poteva vivere là.

Dopo l’indipendenza, nel 1963, i terreni dei coloni furono riscattati dal governo inglese e ceduti al governo del Kenya. Mentre nelle zone più fertili della Nyandarua County, divisi in piccoli appezzamenti, furono venduti a prezzi simbolici ai contadini kikuyu, nella più arida e disabitata Laikipia County furono accaparrati da grandi latifondisti sia keniani che stranieri.

Si stima che il Laikipia Plateau sia di 10.000 chilometri quadrati, circa 2 milioni e mezzo di acri secondo le misurazioni locali. È l’area con il maggior concentramento di proprietari non africani, soprattutto della nuova «aristocrazia» inglese e americana. Con loro ci sono alcuni baroni locali, politicamente molto influenti. Venti proprietari possiedono il 74% di tutta la terra disponibile. Ci sono circa 36 grandi e piccole proprietà che vanno dai piccoli ranch o fattorie da 5.000 acri (20 km2), a enormi estensioni dagli orizzonti infiniti di oltre 100.000 acri (400 km2). Molte di queste proprietà sono oggi trasformate in santuari per gli animali e meta di turismo. Una delle proprietà più grosse, il Laikipia Ranch, di 100 mila acri (oltre 400 km2, 40.000 ettari, chiamato anche Ol Ari Nyiro Ranch, fattoria delle acque nere), appartiene alla «baronessa» Kuki Gallman, una scrittrice italiana naturalizzata in Kenya, che comperò l’area nel 1974 trasformandola poi in un santuario per gli animali selvatici, con esemplari del raro rinoceronte bianco e della bellissima zebra grevy dalle strisce sottili, che sono a rischio di estinzione. La proprietà confina con la missione di Rumuruti.

Finito il colonialismo, i Maasai e Samburu cominciarono a ritornare con le loro mandrie in quelle terre che loro considerano ancestrali, tollerati dai ricchi latifondisti che chiusero gli occhi al sorgere di piccoli insediamenti ai margini delle loro proprietà, nelle ampie aree riservate alle strade (da costruire), anche per rispondere ai bisogni dei loro lavoratori. Presto tornarono anche altri pastori nomadi, come i Borana e i Somali da Est, i Kalenjin e i Pokot da Ovest, i Turkana e gli Ndorobo (cacciatori e raccoglitori nelle grandi foreste) da Nord, attirati dai grandi pascoli offerti dal plateau. Sorsero qua e là dei piccoli agglomerati di povere costruzioni in legno in stile Far West: qualche bottega in cui si trovava di tutto, gl’immancabili bar, una scuoletta-asilo – che all’occasione diventava anche cappella – costruita dai missionari.

Poi negli anni Ottanta si cominciarono a vendere alcune delle grandi proprietà. Suddivise in centinaia di piccoli appezzamenti per rendee il costo accessibile, furono vendute a società cornoperative di contadini senza terra di ogni provenienza, privilegiando a volte questo o quel gruppo etnico. L’area divenne anche zona di rifugio per tanti altri cacciati dalle proprie regioni a causa dei conflitti etnici che di tanto in tanto ancora oggi infiammano il Kenya. Tra questi, le famiglie di rifugiati provenienti dalla Rift Valley per cui la Conferenza episcopale del Kenya ha acquistato i terreni nel 2008.

 

La «strada remota»

Il tranquillo villaggio di Rumuruti, così racconta la storia, fu scelto dal governo coloniale inglese come stazione amministrativa e sede di una grande prigione per la sua posizione a un importante incrocio di strade. Ma da dove viene questo nome? Si racconta che i coloni bianchi, i quali regolarmente facevano la strada da Nyahururu a Maralal, chiamassero remote route (strada remota) la pista che univa i due centri. I locali trasformarono l’espressione inglese facendola diventare Rumuruti.

Importante un tempo solo come centro per le fattorie dei settlers e punto di entrata controllato al territorio dei Samburu, oggi Rumuruti è la sede amministrativa del distretto. Cresciuto da villaggio a cittadina per l’aumento della popolazione e il nuovo status, non ha però le infrastrutture necessarie, come banche, alberghi, servizi sociali o altre comodità. È certamente in crescita, pur essendo in un ambiente geograficamente difficile e segnato da grandi problemi di convivenza e distribuzione della ricchezza. La posizione geografica ne fa un centro commerciale importante, con un ricco mercato del bestiame che ogni giovedì, in due località della periferia, richiama gente di tutte le tribù.

La popolazione di Laikipia West sembra povera, ma al mercato il denaro che cambia di mano è tanto. La gente arriva un po’ da ogni parte con mezzi di fortuna o mezzi pubblici per vendere e per comperare. Il giovedì Rumuruti prende vita. Anche i pastori che vanno nelle zone più lontane in cerca di pascolo per le loro greggi vi tornano per il giorno di mercato a vendere qualche animale o a comperare tutto quanto è necessario alla loro famiglia.

Il mercato del bestiame (capre, pecore e mucche) apre presto e chiude presto, e nel pomeriggio l’area è deserta. I mercanti contano i loro soldi, e i pastori, anche se stanchi, si mettono sulla via del ritorno per stare con le loro mandrie. Ma dove depositano i nomadi il loro denaro? C’è una sola banca nel paese, e loro non ci mettono mai piede.

Realtà plurietnica

Rumuruti è una realtà plurietnica con due componenti principali: i gruppi etnici dei pastori, attirati dai grandi pascoli offerti da Laikipia Ovest, e i gruppi degli agricoltori che nella vendita dei ranches hanno visto la possibilità di acquistare terre nuove specialmente per le giovani famiglie, ormai impossibilitate a vivere nei sovraffollati campetti dei loro padri nelle regioni di origine.

Mentre i contadini sono più aperti alla novità e al progresso, le comunità di pastori hanno preservato le loro tradizioni secondo le quali è vitale avere grandi mandrie. Questo fa sì che una famiglia di pastori che acquista un campo, non si accontenti mai di avere un numero di capi proporzionato alla proprietà, ma cerchi di moltiplicarlo sentendosi in diritto di invadere i terreni confinanti quando il proprio è esaurito. Creando così infinite ragioni di conflitto. In più, secondo la tradizione, i morans (i giovani guerrieri) una volta potevano far razzie per accumulare la ricchezza personale necessaria per sposarsi. Quelli che tornavano a casa a mani vuote erano considerati buoni a nulla. Così almeno stavano le cose tra i Samburu, Turkana e Pokot (i gruppi etnici più numerosi). Al giorno d’oggi ci sono ancora residui di questa cultura, i cui effetti si vedono nelle razzie locali, come spiega il presidente del Consiglio parrocchiale di Rumuruti, Emmanuel Achila. I conflitti, però, nascono anche per l’accesso alle scarse risorse naturali quali i pascoli e i pozzi. A questo bisogna aggiungere anche il problema dei confini.

 

Mancanza di istruzione

Secondo padre Nicholas Makau, viceparroco di Rumuruti e incaricato dell’ufficio di Giustizia e Pace dei missionari della Consolata, molta violenza giovanile va attribuita anche alla mancanza di istruzione e di lavoro.

Nonostante che le scuole locali siano tra le migliori, il livello di alfabetizzazione è ancora molto basso perché molti ragazzi di età scolare sono obbligati dalla famiglia a occuparsi del bestiame. Per troppi genitori la ricchezza materiale è più importante dell’istruzione. Altri lamentano che gli studi creano dei giovani ribelli alle tradizioni e mettono idee strane nella testa delle ragazze, in più studiano senza scopo, perché poi non trovano lavoro.

Ignoranza e mancanza di lavoro certamente alimentano le tensioni tribali. Le tribù in cui l’istruzione è ben avviata godono di maggior prestigio. È un fatto, quando si cerca impiego, soprattutto negli enti governativi, chi è andato a scuola è avvantaggiato sugli altri. È facile, allora, vedere che le comunità i cui figli studiano fanno la parte del leone sul mercato del lavoro.

Ma la mentalità degli anziani vuole che le opportunità di impiego siano distribuite proporzionalmente secondo l’appartenenza etnica e non secondo il merito. E qui sta il nocciolo di tanti altri problemi. David Koskey, un membro del «Comitato per la Pace» della missione, ne fa notare l’incongruenza: «La polizia sta per reclutare nuove leve. Secondo gli anziani deve essere arruolato un numero uguale di giovani da ogni tribù per mantenere l’equilibrio». Il rischio è di avere poi dei poliziotti completamente analfabeti e impreparati al loro servizio. Ma una distribuzione di impiego etnicamente non equilibrata genera una disuguaglianza politica, in cui i gruppi più forti tentano di limitare lo sviluppo degli altri.

 
Sedentarizzare

La Chiesa cattolica di Rumuruti incoraggia da sempre i nomadi a diventare sedentari, prendersi un pezzo di terra e imparare l’agricoltura così da ridurre la loro dipendenza dal bestiame. Un certo numero di nomadi ha già cominciato a fare così, per quanto strana sembri la cosa. La Chiesa è intervenuta ad aiutare le vittime della violenza esplosa nel post-elezioni a risistemarsi, altre famiglie hanno acquistato terra diventando azionisti di società create apposta per aquistare i latifondi messi in vendita. Tante vittime della violenza che fece seguito alle elezioni del 2007 trovarono rifugio temporaneo nel recinto della parrocchia, ma dopo l’acquisto di cento acri di terreno la missione poté rilocarne 1.500 di cui la maggioranza ora si dedica all’agricoltura. Padre Makau ci dice che rimane ancora il problema di molti acquirenti che non riescono a prendere pieno possesso delle fattorie, per il fatto che i loro padroni legali non sono presenti e non si sa dove trovarli, per cui la transi-zione di proprietà non può essere completata.

Altri conflitti sorgono quando gli animali dei nomadi invadono i campi dei coltivatori distruggendone il raccolto. Oltre all’invasione accidentale di animali domestici ci sono anche le visite di animali selvatici. Non pochi agricoltori hanno il loro terreno vicino al corridoio di migrazione degli elefanti che quando passano mangiano tutti i raccolti, golosissimi come sono di granoturco.

A Rumuruti i matrimoni tra membri di tribù diverse stanno aumentando e favoriscono la coesione pacifica contribuendo a modificare la mentalità ancestrale che male accettava queste unioni, soprattutto nei tempi di tensione fra le varie tribù. Elizabeth Lomeno, mezza Samburu e Turkana, è ora sposata a un Luya. È già nonna e assicura che le cose sono ora cambiate e che la gente non teme più di sposarsi fuori della propria tribù. «Personalmente, auguro che le mie figlie e nipoti siano sempre libere di sposarsi con chi vogliono», dice Elizabeth.

 


2.

La Parrocchia della santa famiglia Uscire verso i poveri,
Costruire la pace

di Stephen Mukongi

Da cappella sperduta nella savana a fiorente missione e polo di pace e riconciliazione: l’impresa dei missionari della Consolata di trasformare una regione di grandi contrasti e divisioni in una comunità sul modello della Santa Famiglia (Familia Takatifu), cui la missione è dedicata.

L’ombra degli alberi della parrocchia di Rumuruti offre un sospirato sollievo dalla calura insopportabile del plateau a cavallo dell’equatore. Gli alberi piantati da padre Antonio Bianchi (classe 1922) negli anni Novanta, hanno profondamente cambiato l’ecologia del luogo la cui vegetazione, all’arrivo dei missionari della Consolata nel 1991, consisteva sì e no di una mezza dozzina di alberi del pepe (schinus molle) attorno alla casetta di legno in cui abitavano.

Rumuruti è oggigiorno una parrocchia enorme, con un territorio che da Sud-Ovest a Nord-Est misura oltre cento chilometri, e con ben 27 cappelle sparse nella grande piana semiarida che fa da ponte tra gli altipiani della sviluppata e ricca zona agricola centrale attorno al Monte Kenya e l’arido Nord abitato prevalentemente da pastori nomadi e seminomadi.

Nata come cappella di Nyahururu (una missione fondata nel lontano 1954 dai missionari della Consolata, passata poi ai sacerdoti fidei donum della diocesi di Padova e diventata diocesi nel 2002), quando divenne parrocchia nel 1991 aveva già una bella chiesa in muratura dedicata alla Santa Famiglia (Familia Takatifu) e la casetta dei missionari. Da allora la missione ha conosciuto un continuo sviluppo per rispondere alle necessità del luogo. Al presente è una piccola cittadella che comprende un centro pastorale per gli incontri di formazione dei catechisti e dei vari operatori pastorali e leader comunitari, un asilo, una modea scuola con elementari e medie, la scuola secondaria femminile, il dispensario, il convento delle suore Dimesse (fondate a Vicenza nel 1579 dal venerabile Antonio Pagani), la falegnameria, un’officina, un grande orto, diversi campi da gioco, un salone polivalente, più l’indispensabile pozzo per dare acqua potabile a tutto il complesso.

 

Sviluppo umano integrale

Il territorio in cui opera la missione è caratterizzato da tutte le speranze che la frontiera ispira ma anche da tutti i drammi e le conflittualità che una società in continuo cambiamento si porta dietro, accentuate da una natura apparentemente suggestiva ma in realtà segnata dai capricci del tempo, per cui improvvise o prolungate siccità possono distruggere i raccolti o alterare gli equilibri tra pastori e agricoltori. La regione è costantemente provata da tanti mali: razzie di animali, diffusione di armi leggere, povertà endemica, pratiche tradizionali come la mutilazione genitale (che non giunge agli estremi dell’infibulazione) delle donne e i matrimoni precoci, mancanza di abitazioni adeguate, insufficienza di servizi sociali educativi e sanitari, corruzione, stato precario delle strade e insicurezza.

Questo spinge la Chiesa a darsi come compito prioritario la formazione umana e lo sviluppo sociale, come dice padre Mino Vaccari, parroco dal lontano 1994, quando padre Luigi Brambilla, primo missionario della Consolata a Rumuruti, fu trasferito a Nairobi. Suo aiutante attuale è il keniano padre Nicholas Makau, succeduto ai padri Antonio Bianchi, grande pollice verde, Domenico Galbusera (classe 1930) e Juan Puentes (colombiano del 1946, deceduto prematuramente nel 2010).

 
La scuola

Nel programma di sviluppo primeggia l’educazione con la costruzione di scuole, allo scopo di aiutare la popolazione a diventare attiva nella lotta alla povertà. Si comincia con l’asilo perché, se si prendono i bambini fin da piccoli, si mettono delle basi serie per la loro crescita. Poi con la scuola ci deve essere il collegio perché molti ragazzi arrivano da zone molto distanti oppure sono figli di nomadi che si spostano di continuo. Il collegio riesce anche a garantire quell’alimentazione adeguata che troppe famiglie molto povere o impoverite non riescono a provvedere.

L’asilo Familia Takatifu, accanto alla chiesa, è stato una delle prime opere costruite per preparare i piccoli alla scuola primaria. Oggi tutte le 27 cappelle hanno il loro asilo che di domenica serve anche come cappella.

Costruire le scuole è stato relativamente «facile», tenendo conto dell’ampia rete di amici e benefattori che si è creata attorno alla missione. Non così facile è invece far sì che i bambini frequentino regolarmente la scuola. Moltissimi genitori non capiscono ancora i benefici dell’istruzione e ignorano la legge del paese che prevede la scuola obbligatoria per tutti. Presi dai problemi di sopravvivenza, se mandano i figli a scuola, si aspettano che lo stato o la Chiesa li mantengano e li educhino gratuitamente.

Anne Munyi, la segretaria della parrocchia, conferma che oggi la missione aiuta circa mille studenti indigenti, di cui venti sono all’università, una quarantina frequentano varie scuole superiori, una quindicina le scuole tecniche, mentre la maggior parte sono ancora nella scuola primaria o matea. Anne spiega che il programma di aiuto scolastico si occupa delle necessità primarie dei ragazzi, ma quando ci sono situazioni disperate si occupa anche delle loro famiglie.

 

Un modello da imitare

La scuola elementare Familia Takatifu, iniziata con la prima classe nel 1997 come evoluzione necessaria dal primo asilo parrocchiale, è il fiore all’occhiello della missione ed è diventata modello da imitare per tutte le altre scuole dell’area. Quando nel 2005 partecipò per la prima volta agli esami nazionali dell’ottava classe (equivalente alla nostra terza media, ndr), si qualificò terza tra le altre duecento primarie di tutto il distretto, come attesta Peter Mbugua, preside della scuola. Nel 2013 ha migliorato ancora salendo al secondo posto.

Il professor Mbugua attribuisce il successo all’impegno del corpo docente e alla buona disciplina degli scolari. Fa notare quanto la Chiesa abbia contribuito al miglioramento di Rumuruti e riconosce a padre Vaccari il merito di aver voluto la struttura per l’istruzione dei figli della gente locale. «Come questa, anche le altre scuole sostenute dalla parrocchia, hanno validamente contribuito ad affrontare i tanti problemi che ancora sfidano la comunità, come la povertà endemica, l’analfabetismo, e l’ignoranza».

La parrocchia sostiene anche alcune scuole statali. Esempi di questo sono il convitto femminile Maria Consolata presso la scuola di Sosian e il collegio misto di Matigari, pensato appositamente per i figli dei nomadi, per cui la missione ha acquistato il terreno.

Le suore Dimesse dirigono la scuola superiore femminile St. Anthony Pagani che sta davanti alla chiesa parrocchiale. Queste suore, presenti da anni a Nyahururu servivano Rumuruti con una clinica mobile già quando era ancora una semplice cappella. Avendo poi stabilito una sede fissa poco dopo l’arrivo dei missionari della Consolata, ora, oltre alla scuola, dirigono il dispensario della missione e provvedono tanti servizi preziosi per la salute della comunità e nella rete di piccoli dispensari che si vanno creando per rispondere alle esigenze di una popolazione in continua crescita (vedi box).

 
Acqua

La mancanza di acqua potabile è un’altra piaga della regione. La parrocchia ha già provveduto sette pozzi di acqua purificata che garantisce acqua potabile per tutto l’anno. Il primo pozzo fu quello scavato nella missione stessa, profondo oltre cento metri. A esso è collegato un sofisticato sistema di potabilizzazione, perché gran parte delle acque sotterranee di queste aree, che hanno un suolo di origine vulcanica – il grande vulcano spento che è il monte Kenya domina sempre l’orizzonte -, sono molto ricche di fluoro e questo causa gravi problemi ai denti e alla struttura ossea delle persone (osternofluorosi), soprattutto dei bambini.

La parrocchia costituisce anche un punto di riferimento super partes e sicuro, e come tale è diventata il centro di tante attività sociali. L’ampio salone si presta a molteplici attività: campo da gioco per energici toei di pallavolo, teatro per spettacoli scolastici, auditorium per competizioni di cori, sala gioco per bambini, luogo di incontro per riunioni sociali della popolazione locale, dormitorio per i rifugiati, deposito per cibo in periodi di fame e anche magazzino per i fertilizzanti che il governo provvede di tanto in tanto ai contadini del posto.

 

Pace e riconciliazione

La pace e la riconciliazione sono una delle preoccupazioni principali. È prioritario fare di tutto per creare più armonia tra i membri delle varie tribù che vivono in Rumuruti. Ancora di recente (2014) si sono verificati nella zona degli scontri tribali apparentemente pilotati da figure politiche. La tensione è continua e cresce soprattutto in concomitanza di elezioni politiche locali o nazionali.

Durante la quaresima del 2008, oltre 4.000 persone si rifugiarono per mesi nei cortili della missione e nelle aule scolastiche, a causa di scontri e razzie che causarono morti e distruzioni.

Per questo la parrocchia, insieme ad altri gruppi, è seriamente impegnata in attività che promuovano la soluzione dei conflitti e costruiscano una pace duratura sia a Rumuruti che nelle altre zone a rischio. Proprio nel territorio della missione la Conferenza episcopale del Kenya aveva allora acquistato una delle grandi fattorie per sistemarvi più di trecento famiglie che erano state sloggiate a forza dalla loro terra nella Rift Valley durante gli scontri che hanno sconvolto la nazione dopo le elezioni di fine 2007. E la missione, di suo, ha sistemato altre 1.500 persone.

Malgrado i cristiani contribuiscano ai progetti di sviluppo e alle attività ordinarie, la parrocchia è ancora lontana dall’autosufficienza. Senza l’aiuto di una vasta rete di benefattori, l’incredibile sviluppo di Rumuruti non sarebbe stato possibile. E neppure sarebbe possibile quella vasta rete di progetti educativi e sanitari di cui tutti, indistintamente traggono beneficio. «Noi guardiamo ai bisogni della gente, e non alla loro religione», dice con forza padre Mino. «La nostra parrocchia è tutta per i poveri, proprio come vuole papa Francesco».

 


3.

Un universo multietnico Convivere in pace o perire

di Henry Onyango

Una terra contesa da uomini e animali, agricoltori e pastori, latifondisti e senza terra. Ci sono spazi immensi e molte opportunità, angoli di paradiso e distese brulle, ma l’acqua è scarsa e molto dipende dai capricci del tempo. La grande piana che gravita attorno a Rumuruti è una terra di contrasti e tensioni, che hanno già causato morte e distruzioni. L’impegno per la pace e la riconciliazione è essenziale per il suo futuro.

«Ongea lugha ya taifa», parla la lingua della nazione, fu l’invito che padre Mino Vaccari si sentì rivolgere quando, arrivando per la prima volta a Rumuruti, salutò i cristiani in kikuyu, come era abituato a fare a Tetu, vicino a Nyeri, dove era stato parroco per tanti anni. Avrebbe imparato ben presto che la sua nuova parrocchia era abitata da molte comunità provenienti da una ventina di etnie diverse, tutte molto suscettibili a ogni discriminazione tribale.

Rumuruti si trova al centro di un’area abitata da pastori e agricoltori, rinchiusi in piccoli spazi accanto ai grandi latifondi. Nel distretto prevalgono gli agricoltori che occupano altre aree periferiche più fertili, ma nel territorio della missione vivono soprattutto i pastori. Tra questi ultimi ci sono quelli che si sentono i padroni (la «nostra» terra ancestrale, dicono) e trattano tutti gli altri come degli immigrati abusivi. Le razzie di bestiame sono così un metodo convincente per intimidire le comunità arrivate per ultime.

La violenza a volte è tale da tenere in scacco anche la polizia locale. Padre Nicholas Makau pensa che all’origine di questi conflitti si trovino anche pratiche culturali retrograde, mancanza d’istruzione e isolamento. Il padre commenta: «Ci sono giovani che hanno fatto anche l’università, o che sono impiegati governativi, ma quando tornano qui non fanno nulla per aiutare le loro comunità di origine a capire che devono sostenere la pace… ci sono i Turkana che vogliono tagliare tutti gli alberi per produrre carbonella e poi, quando tutto diventa secco, andarsene in altri posti. I Samburu si assicurano i punti di abbeveraggio per i loro animali occupandoli, mentre i Kikuyu e Kalenjin fanno loro guerra per poter usare la stessa acqua per  l’irrigazione dei loro campi. Rifiuto del dialogo e tribalismo intollerante hanno causato morte e distruzione».

 

I Wazee wa Amani

Questa violenza dura da decenni e solo ora alcuni cominciano a capire che non ci sarà modo di sopravvivere se non si accetta di coesistere. Le comunità assistite dalla Chiesa, con l’aiuto di Ong, sono impegnate a lavorare per una pace duratura accettando di controllarsi reciprocamente tramite un comitato locale di anziani col compito di presentare le proprie necessità a un «senato» chiamato Wazee wa Amani, Anziani per la Pace.

David Koskey, uno di essi, conferma che il senato ha già contribuito molto a mettere in moto il processo di pace. «Mentre cinque anni fa membri di tribù diverse si odiavano, oggi le cose sono cambiate per il meglio».

I Wazee wa Amani hanno il compito di prevenire, controllare e risolvere i conflitti facendo dialogare le parti interessate, e monitorando e valutando la situazione. Sono circa settanta anziani, uomini e donne, provenienti da tutto il distretto che si avvalgono di una rete permanente di altri anziani sparsi nei vari villaggi i quali possono facilmente rintracciare il bestiame rubato e provvedere alla restituzione prevenendo in questo modo le possibili vendette.

Lo mzee Koskey dice che collaborano «strettamente anche con gli organi governativi come il Comitato distrettuale per la sicurezza, la polizia locale e il servizio segreto. Ci siamo guadagnati la loro fiducia e così confidiamo che la nostra gente goda sicurezza».

Stando alle parole dell’anziano, l’iniziativa dei Wazee wa Amani ha ridotto in modo significativo le razzie nella regione e assicurato che le varie comunità si proteggano a vicenda. Rimangono ancora piccole trasgressioni, ma senza questa iniziativa le razzie e i conflitti tra i vari gruppi di pastori, e tra questi e i piccoli contadini, avrebbero affondato Laikipia Ovest in un bagno di sangue.

Un cammino lungo

Padre Makau, nel suo realismo, ammette che malgrado gli sforzi fatti resta ancora una mancanza di fondo: non c’è fiducia fra le diverse etnie.

Secondo un ufficiale di polizia le vere razzie che avevano infestato la regione per decenni, ora non ci sono più. Al momento ciò che ancora persiste sono furti di bestiame perpetrati da pochi individui che attaccano qualche casa, soprattutto le più isolate. Dietro queste attività criminali ci sono persone senza scrupoli che pagano della gente locale per rubare il bestiame che poi è venduto a Nairobi o in altre città del Kenya. Il poliziotto, però, riconosce che grazie a una crescente cooperazione delle comunità, attraverso il comitato degli anziani, la polizia può agire con più efficacia nel prevenire i furti e nell’arrestare i colpevoli. Purtroppo non tutti, ancora, cornoperano con le forze dell’ordine rendendo con la loro omertà più arduo il lavoro per garantire sicurezza e pace.

La missione, sostenuta dalla diocesi e dall’istituto della Consolata, è attivamente presente nelle zone dove la violenza è più acuta e dove le forze dell’ordine non osano entrare. Attraverso la Commissione di Giustizia e Pace parrocchiale ha formato i Miviringo ya Mazungumzo ya Amani, cioè i «Circoli di formazione alla pace», e stabilito posti per la discussione pubblica, dove dieci membri di ogni tribù discutono i loro problemi e propongono delle soluzioni.

Padre Nicholas assicura che questi incontri hanno aiutato molto a promuovere la riconciliazione e a superare non poche difficoltà a livello personale e comunitario. Il missionario crede che alla fine, però, saranno i matrimoni misti tra le varie tribù a sanare la situazione. Infatti i matrimoni misti sono in aumento. A Rumuruti risiedono Borana maritati a Kikuyu, Somali sposati con Meru e Pokot con Samburu. Padre Makau conclude: «Alcuni di questi matrimoni misti mi hanno molto sorpreso, perché hanno messo insieme persone di tribù che prima si odiavano profondamente».


4.

Nomadismo e Lavoro Minorile
Una Silenziosa Minaccia

di Lourine Oluoch

Per uno che viaggiasse nelle vaste pianure del Laikipia, non sarebbe difficile incontrare qualche ragazzino o ragazzina sui nove, dieci anni, che, invece di essere a scuola, sta pascolando centinaia di pecore e capre. Non sempre il bestiame è di proprietà della famiglia, spesso il ragazzo è alle dipendenze di qualcuno per questo lavoro.

Le comunità dei pastori nomadi in Kenya hanno tradizioni, come il far sposare ragazze ancora minorenni, la mutilazione genitale e le razzie di bestiame, che fanno a pugni con lo stile di vita di una società multietnica, scolarizzata e sedentarizzata. Ma oggi c’è un altro male silenzioso che sta emergendo, proprio come conseguenza dell’incontro-scontro tra due modi di vita contrastanti, quello tradizionale e quello moderno: il lavoro minorile.

Ogni anno all’apertura della scuola, a gennaio, ci sono presidi che non sono mai sicuri se tutti i loro allievi ritorneranno sui banchi di scuola. Lo stesso accade all’inizio di ogni trimestre a maggio e settembre. La scuola di Matigari, diretta dal professor Hosea Ole Naimado (un maasai), è una primaria mista del tutto speciale nel distretto di Laikipia West. È stata pensata per aiutare i figli dei nomadi dando loro vitto e alloggio mentre le loro famiglie si spostano seguendo le mandrie. Per il preside questa incertezza è causa di grave preoccupazione per il corpo insegnante. Ragazzi e ragazze molto intelligenti, che sono stati nella scuola per un intero trimestre, al successivo non si ripresentano. Potrebbero essere andati in Samburu, a Baragoi o Isiolo (località a oltre 100 km di distanza) seguendo il bestiame di famiglia, ed essere impossibilitati a tornare. Il preside racconta di avere avuto una ragazzina brillante in prima media, era la capoclasse. Ora è scomparsa, e non c’è verso di rintracciarla.

Dove vanno a finire questi ragazzi? Il professore risponde sconsolato: «Per le ragazze c’è il matrimonio precoce; per i ragazzi, invece, se dopo l’iniziazione (il rito di passaggio che li rende moran – guerrieri, ndr) non riescono a mantenersi, si offrono per lavori dipendenti, anche mal pagati, perdendo la possibilità di ricevere una buona istruzione. Crediamo che tutti – volontariamente o forzati dalla miseria – si mettano a lavorare. I ragazzi si prestano a fare qualsiasi tipo di lavoro. Lungo i fiumi dove fiorisce un po’ di agricoltura, è facile vederli lavorare nelle coltivazioni. Sono lavoratori che costano poco».

C’è tutto un mercato per il lavoro minorile. I ragazzini poveri, che non si possono permettere il convitto, sono facilmente indotti a servire come pastori dalla stessa famiglia o da altri. Molti lasciano la scuola per il lavoro non perché non vogliano studiare ma per far fronte alle necessità della famiglia.

«È triste per gli insegnanti perdere degli studenti all’inizio di ogni nuovo semestre e non sapere dove siano finiti. Si può allora capire perché ci pensino due volte prima di lasciare andare a casa uno scolaro a prendere del denaro sia per la tassa scolastica o per comperarsi cose necessarie alla scuola. Il rischio più grande è che il bambino non torni più. Se ci si appella ai genitori, la risposta è che non hanno mezzi sufficienti per mantenere il figlio o la figlia a scuola. Così ci sono insegnanti che spesso si sobbarcano anche le spese del ragazzo: quadei, matite, divisa, e perfino le scarpe», dice la signora Jane Ndegwa, preside della scuola a Simotwa. Succede così che i genitori lascino che i figli frequentino la scuola solo se tutto è gratuito. In questo modo l’alunno diventa in tutto dipendente dall’insegnante o da chi lo aiuta.

Anche Peter Mwangi, incaricato distrettuale per i giovani di Laikipia Ovest, riconosce che la gioventù della regione non ha buoni modelli da seguire: «I ragazzi non trovano nella loro comunità esempi da emulare e con cui identificarsi. Anche le figure politiche locali, quando sono invitate a venire a parlare ai ragazzi, come durante la giornata internazionale della gioventù, evitano il problema. Noi vorremmo che appoggiassero di più il nostro progetto educativo e che dicessero chiaramente alla comunità di finirla con tradizioni arretrate e di impegnarsi di più ad aiutare i loro figli a ricevere l’istruzione di cui hanno diritto per migliorare la loro vita».

Peter Mwangi fa pure notare che i bambini soffrono per la negligenza dei genitori che per ignoranza valutano di più il lavoro che i piccoli possono svolgere a casa che non l’educazione. «L’ottanta per cento della comunità non ha un vero lavoro: o sono pastori nomadi oppure lavoratori avventizi. Nonostante tutto, non si deve dimenticare la Sezione 53 della Costituzione che stabilisce in modo chiaro che i genitori hanno l’obbligo di provvedere per i loro figli. La scusa che non hanno lavoro fisso non tiene, infatti riescono a provvedere alle loro necessità giornaliere e potrebbero risparmiare qualcosa anche per i loro figli». Purtroppo la comunità è anche affetta dalla sindrome di dipendenza ed esige di essere aiutata appena ne vede l’opportunità.

 

Pensata per i nomadi

La Chiesa, per loro fortuna, si è fatta avanti, e per aiutare i bambini dei pastori nomadi ha comperato il terreno dove il governo ha costruito la scuola di Matigari. «Questa è la sola scuola pubblica con convitto nella regione, aperta soprattutto ai bambini maasai, samburu, turkana, pokot, somali e borana. Non ci sono solo gli scolari che risiedono al convitto, ma anche quelli che, vivendo vicino, possono andare e venire dalle loro case».

Nelle vicinanze della scuola si è già stabilita una piccola colonia di nomadi che non potendo pagare le tasse scolastiche hanno costruito le loro capanne permettendo ai figli di venire a scuola senza stare nel convitto. I piccoli sono accuditi dalle nonne mentre i genitori si spostano con gli armenti in cerca di pascoli. Il direttore, che è padre e insegnante, insiste sul fatto che in questa area è urgente soccorrere i bambini che per ragioni varie non vanno a scuola. «Il ragazzino che si deve fare una decina di chilometri per venire a scuola o all’asilo va aiutato. I bambini vogliono imparare ma la povertà è un grosso ostacolo per loro. Se qualcuno potesse aiutarli ad entrare nel convitto, potrebbero essere salvati».


5.
Curare gli infermi
di Cynthia Awor

I pastori nomadi hanno sempre creduto nell’efficacia della medicina tradizionale e nell’uso di erbe medicinali. Ma non tutto si può curare con esse, e allora normalmente sopportano i loro mali in silenzio e solo quando non ne possono più cercano aiuto all’ospedale della missione. Questo è ciò che ci dice suor Anna Muturi (nella foto), delle Suore Dimesse, che dirigono il Dispensario Cattolico a Rumuruti.

Le Suore Dimesse aprirono il Dispensario di Rumuruti nel 1992. Suor Anna dice che «in questa area c’era veramente un grande bisogno di un centro per la salute, così la missione pensò all’ospedaletto che assiste gioalmente i malati. Ogni primo giovedì del mese offriamo servizio oculistico e odontoiatrico. Abbiamo pure un reparto di maternità e pediatria».

Secondo la suora il servizio che il dispensario offre, incontra molti problemi, non ultimo quello finanziario, perché la gente pensa che essendo il dispensario cattolico, i servizi debbano essere gratuiti. Naturalmente tutti gli ammalati vengono curati, e nessuno viene mandato a casa senza essere stato esaminato. Spesso però si presentano persone che, oltre alle medicine, hanno bisogno di altro e allora, quando si può, il dispensario provvede per i più poveri anche vestiti e cibo. Suor Anna dice: «Un gran numero di infermi soffrono di depressione. Allora li ascoltiamo e consigliamo. Parliamo loro di Dio e diamo loro informazioni su come migliorare la loro salute. Questo è il nostro modo di evangelizzare». L’orario del dispensario è molto flessibile e sempre le suore rispondono alle emergenze, sia di giorno che di notte, e sovente perfino durante le funzioni religiose.

In Thome, a sedici chilometri da Rumuruti, c’è un altro piccolo dispensario con tre letti e con un piccolo reparto maternità. È stato fatto nel 2011 grazie all’aiuto di un gruppo di medici italiani di «Africa nel Cuore» che hanno voluto sostenere gli sforzi della missione. Il dispensario ha allargato oggi i suoi servizi in altri settori: una falegnameria, un allevamento di galline, un orto sperimentale e un servizio di acqua potabile.

Ambedue i dispensari, Rumuruti e Thome, offrono servizi di prim’ordine: consulte, analisi, accertamenti, distribuzione di farmaci, e fa l’impegnativa presso altri ospedali regionali nei casi più complessi. Sono dotati anche di farmacie ben foite, grazie all’aiuto di amici e Ong. Ogni dispensario è servito da un’infermiera, un farmacista e un tecnico di laboratorio. Occasionalmente si uniscono anche i medici italiani. Per il futuro, Suor Anna vorrebbe anche un reparto maternità più ampio, in quanto gli ospedali del distretto sono inadeguati e tante donne devono andare fino a Nyahururu.

Questi dispensari cattolici sono orgogliosi dei servizi che offrono alla gente; non trattano solo corpi ma in primo luogo persone. Costituiscono un investimento per il futuro e aiutano a creare stabilità sul territorio. Il loro contributo non si può valutare solo in termini economici, ma va visto e misurato soprattutto col numero di vite che toccano e migliorano.


6.
Un uomo, una missione

Dopo 55 anni di servizio missionario, padre Vaccari è ancora sulla breccia. Con il suo passo quieto, il cuore grande, l’occhio attento ai bisogni delle persone e la capacità di dar fiducia ai collaboratori, continua a camminare con la gente di Rumuruti nell’ostinata ricerca della pace, non fondata sulle promesse dei politici, ma su Cristo Gesù, il solo che può far di tutti un’unica famiglia.

Francesco (per la Chiesa) Mino (per il comune) Vaccari, nato nel 1930 a Baiso (Reggio Emilia), entra ragazzino nei missionari della Consolata il 1° ottobre 1942, durante la guerra. Ordinato sacerdote nel 1959, arriva in Kenya il 28 agosto 1960. Apprendista di lingua e cultura kikuyu a Kiangoni nel Nyeri, conosce due missionari speciali che saranno suoi modelli di vita: padre Enrico Manfredi (1896-1977), vero «uomo di Dio», e padre Bartolomeo Negro (1903-1967), l’«uomo di tutti», che voleva un gran bene alla gente. Nel 1962 è mandato a Nyahururu (sull’equatore) con l’incarico di cornordinare le scuole. Vi rimane fino al 1969, vivendo il passaggio dal colonialismo all’indipendenza, e lascia il posto a don Luigi Paiaro, sacerdote fidei donum di Padova, che nel 2003 diventerà il primo vescovo di Nyahururu con l’omonima diocesi che comprende la Nyandarua County e il distretto di Laikipia West.

Nel 1970 è trasferito a Tetu (fondata nel lontano 1903), una missione dalla gente «difficile» (si diceva allora), ma non povera, perché grazie alla fertilità dell’ambiente tutti hanno il necessario per vivere. Sono gli anni del post-concilio, tempi di contestazione, sì, ma soprattutto rinnovamento.

Lui, missionario sbarazzino (come lui stesso si definisce), ma dal carattere quieto e tollerante, si butta nella pastorale parrocchiale affascinato dalla nuova visione conciliare di Chiesa «popolo di Dio». Il confronto spirituale con altri missionari amici e l’amore dato alla gente e ricevuto in cambio, lo aiutano a superare anche i momenti più difficili. Rimane a Tetu 17 anni, fino all’87, godendo anche dell’amicizia e stima del vescovo di Nyeri, mons. Cesare Gatimu. Visita tutte le famiglie casa per casa, promuove le piccole comunità cristiane, forma catechisti, leader e animatori della liturgia domenicale e costruisce ben 22 cappelle periferiche, il tutto grazie alla capacità di coinvolgere persone e comunità nel cammino.

Eletto superiore regionale del Kenya nell’ottobre 1987, serve per due mandati e a fine 1993 è nominato parroco di Rumuruti facendo staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939), eletto vice superiore regionale. Abituato a parlare kikuyu, a oltre sessant’anni deve imparare sul campo il kiswahili, la lingua franca necessaria in quella realtà multietnica. L’impatto iniziale è duro: isolamento, comunità sparse, grandi distanze, mancanza di strade, povertà, molti rifugiati interni con tanti orfani, nomadismo. È la missione di frontiera, ai margini delle fiorenti comunità cristiane del Nyeri e del Nyandarua, terra di conflitti e conquista. Si rimbocca le maniche cominciando dalla formazione dei catechisti e focalizzandosi su quello che è più urgente: l’educazione e la lotta alla povertà per costruire una comunità cristiana che viva in pace. Ma non fa tutto da solo, con la sua pacatezza riesce a mobilitare una marea di collaboratori sia in loco che in Italia, soprattutto nelle generose terre dell’Emilia e della Brianza.

Dietro la storia di queste pagine c’è lui, un missionario d’azione e di poche parole. Uno che fa bene il bene, senza far rumore.

Gigi Anataloni

The Seed e Gigi Anataloni