La Fondazione Missioni Consolata Onlus compie vent’anni. Nata nel 2001 per accompagnare nel nuovo secolo i Missionari della Consolata, diventata Ong nel 2007 e, oggi, organizzazione della società civile riconosciuta dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, incarna, con le sue iniziative, i tratti peculiari dei missionari che l’hanno fondata.
Il 26 luglio del 2001 nasceva la Fondazione Missioni Consolata Onlus (Mco), costituita dall’«Istituto missionari di Maria Ss.ma Consolata», come si chiamava davanti allo stato la «filiale» italiana di quello che, quasi dalle origini, era registrato nei libri del governo come il «Collegio internazionale della Consolata per le missioni estere». Lo scopo della fondazione, si legge nello statuto, è quello di «informare, sensibilizzare e promuovere l’interesse» verso i paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione alle attività dei Missionari della Consolata.
Fin dai suoi esordi, Mco ha avuto uno spettro di attività piuttosto ampio che abbraccia ambiti anche molto diversi fra loro, come gli aiuti umanitari e la tutela dei beni di interesse storico e artistico. Anche gli interventi che la Fondazione intende svolgere per realizzare i propri scopi statutari sono molto vari – dalla cooperazione allo sviluppo alla salvaguardia della pace e dei diritti dell’uomo, dall’allestimento e gestione di musei e biblioteche alla promozione di servizi per favorire l’inserimento della popolazione immigrata -, e prevede non solo azioni dirette, ma anche il sostegno a iniziative svolte da altri enti idonei.
Questa grande varietà è solo apparentemente una frammentazione. È, viceversa, la coerente traduzione in termini operativi e laici di quello che i Missionari della Consolata indicano come elemento chiave del proprio carisma, cioè il tratto che hanno ereditato dal loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e che più li definisce e li identifica: l’ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce. Questa missione richiede uno sguardo talmente ampio e articolato su popoli, culture, religioni, visioni del mondo, che non può che trasferirsi anche alle organizzazioni al servizio del lavoro dei missionari, come è, appunto, Mco.
Un po’ di storia
Alla fine del secolo scorso, i Missionari della Consolata avevano già all’attivo diverse attività che potevano dirsi di cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale. Un ufficio cooperazione era presente in Casa Madre a Torino fin dal 1970 e aveva gestito le primissime adozioni a distanza a partire dagli anni Ottanta. Campagne come quella del 1980 per la creazione del «Parco Yanomami» con la raccolta un milione di firme (reali, non digitali), e quella di «Una mucca per l’indio» in favore dei popoli indigeni dell’Amazzonia negli anni 1988-89, avevano proposto una visione dello sviluppo che cercava le cause della povertà nell’ingiustizia e nelle diseguaglianze.
I primi contatti con il mondo del volontariato impegnato in attività di cooperazione cominciarono ancora negli anni Cinquanta con l’invio in Kenya di medici del Cuamm di Padova, passarono attraverso la collaborazione alla nascita e sviluppo di Mani Tese a metà degli anni Sessanta e nel 1967 videro l’Lvia di Cuneo inviare una sua volontaria in Kenya con missionari della Consolata in Meru@.
Inoltre, diversi missionari, ad esempio nella regione colombiana del Cauca, avevano cominciato ad affiancare alle attività realizzate con il sostegno di singoli benefattori anche diversi progetti finanziati con fondi di istituzioni pubbliche e private, dando un contributo cruciale al riscatto del popolo indigeno Nasa. La rivista Missioni Consolata ospitava con regolarità, fin dagli anni Settanta, articoli di riflessione sulla cooperazione e sullo sviluppo.
Tutte queste iniziative, quasi sempre lanciate da missionari pionieri, riflettevano i cambiamenti in atto nei rapporti fra paesi ricchi e quello che all’epoca era chiamato Terzo Mondo. Questi cambiamenti, alla fine degli anni Novanta, richiedevano una maggior professionalizzazione della cooperazione ed evidenziavano la necessità di superare i fallimenti degli anni Ottanta, a cominciare dalla crisi del debito, che si era tradotta per l’Africa e l’America Latina in quello che viene ricordato come il «decennio perduto» dello sviluppo@.
Nasce la fondazione
I missionari che lavoravano con i popoli indigeni dell’America Latina o con le aree più isolate dell’Africa, si erano affacciati al mondo della cooperazione allo sviluppo e dei progetti spesso appoggiandosi ad altre organizzazioni e associazioni. Avevano condiviso poi queste loro esperienze, che di fatto erano diventate anche competenze, con i confratelli in Italia, rendendo sempre più urgente e concreta la necessità di darsi uno strumento come la Fondazione per poter portare avanti le iniziative in prima persona.
All’inizio di questo secolo, dunque, era tempo per i membri della Regione Italia dell’«Istituto missionari di Maria SS.ma Consolata» di trarre le conseguenze di questi cambiamenti e di mettere a frutto le intuizioni di tanti confratelli attivi sul campo e in Italia. La Fondazione avrebbe organizzato le conoscenze e l’esperienza che l’Istituto aveva acquisito dagli anni Settanta, e le avrebbe rese disponibili a tutti i missionari.
I finanziatori di Mco
In questi vent’anni, Mco ha realizzato progetti e iniziative, sia direttamente che come partner di altre organizzazioni, grazie a fondi di diversi enti privati e pubblici: la Conferenza episcopale italiana, Caritas italiana, la città di Torino, la Regione Piemonte, Roma Capitale, l’8×1000 della Chiesa valdese, la Water Right Foundation, solo per citarne alcuni.
Ma la peculiarità – e la forza – di Mco sono, da sempre, i donatori privati, oltre settemila persone nel 2020, insieme a tante realtà dell’associazionismo, dell’imprenditoria e del mondo cattolico: 79 associazioni, organizzazioni, cooperative sociali e gruppi amici, 32 aziende, 20 diocesi o loro uffici missionari, e a oltre 200 istituti o congregazioni religiose.
Gli ambiti di azione
Quanto agli ambiti della cooperazione allo sviluppo in cui la Fondazione è attiva, quello prevalente è senza dubbio l’istruzione (un ambito tipico dell’impegno missionario) che riguarda tutti i gradi scolastici dall’infanzia alla secondaria, fino ai corsi professionali (infermieristica, insegnamento …) e universitari, e comprende il sostegno a distanza concentrato, ma non limitato, sulle scuole primarie.
Seguono poi l’educazione allo sviluppo, realizzata sulle pagine della rivista Missioni Consolata, di cui Mco è editore, il diritto alla salute promosso da quattro ospedali e tanti dispensari in Africa, oltre diversi centri di salute in Amazzonia. L’accesso all’acqua, la salvaguardia dei diritti dei popoli indigeni, lo sviluppo economico, la difesa dell’ambiente sono gli altri ambiti.
Mco realizza i propri progetti e le iniziative in collaborazione con i Missionari della Consolata o con organizzazioni partner indicate da questi. I responsabili operativi dei progetti, dei programmi di sostegno a distanza, delle strutture sanitarie ed educative che Mco sostiene sono missionari che lavorano e risiedono nei paesi nei quali si svolgono le attività. A loro, la Fondazione offre servizi tecnici nella raccolta fondi, nella stesura, presentazione e rendicontazione dei progetti, nelle relazioni con i donatori, nella promozione e comunicazione del loro lavoro tramite la rivista, i siti web e i social.
Nel 2020 Mco ha raccolto fondi e svolto attività in 18 paesi: Italia, Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Etiopia, Uganda, Costa d’Avorio, Eswatini, Angola, Mozambico, Sudafrica, Madagascar, Mongolia, Brasile, Colombia, Messico, Argentina, Venezuela.
In Africa, a beneficiare maggiormente dei fondi raccolti sono stati Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya ed Etiopia, mentre per l’America Latina è stato il Brasile – e specialmente le attività in Amazzonia con i popoli indigeni di Roraima – che ha ricevuto il sostegno maggiore.
Le prospettive per il futuro
L’anno del ventesimo anniversario dalla fondazione ha coinciso anche con quello in cui Mco è stata chiamata a preparare e pubblicare il suo primo Bilancio sociale. Questo esercizio ha finito per trasformarsi anche in un’occasione per riflettere proprio su questi vent’anni e, inevitabilmente, sulle prospettive per il futuro. Come scrive il coordinatore di Mco, padre Ugo Pozzoli, nella lettera introduttiva al Bilancio sociale@, «la rivista che deve aprirsi maggiormente a un pubblico più giovane attraverso un più forte impulso sul web e sui social; la formazione dei nostri missionari, soprattutto quelli sul campo, che deve garantire un sempre migliore accompagnamento di progetti e programmi di cooperazione e solidarietà; la Certosa di Pesio, storico luogo di fede immerso nel verde di un bellissimo parco naturale, che deve trasformarsi in luogo di educazione alla spiritualità della missione e dell’ambiente: sono soltanto alcune fra le sfide che ci attendono nel prossimo futuro e verso cui guardiamo speranzosi».
Quanto poi al campo della cooperazione allo sviluppo, occorrerà chiedersi quali siano, oggi, quei territori inesplorati che possono dare sostanza a quell’ad gentes che plasma l’Istituto Missioni Consolata e Mco con lui, come negli anni Sessanta lo furono l’esperienza con i popoli indigeni dell’America Latina e, all’inizio del Novecento, l’invio in Kenya dei primi missionari.
Un esempio efficace sono le parole che padre Matteo Pettinari ha affidato a questa rivista nel marzo del 2020@: «Si può dire che la salute mentale sia l’ad gentes del mondo della sanità: sono i malati mentali quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Mco e i missionari si sono sempre impegnati nella sanità, ma è presente da anni nell’Istituto la consapevolezza che per farlo con efficacia oggi, forse, non si tratta più solo di costruire un ospedale en brousse, nella foresta, dove nessuno è ancora arrivato, bensì di riuscire a immaginare qual è la nuova brousse nel 2021 – si tratti di un luogo fisico o di un ambito, come appunto la salute mentale – per raggiungerla e non lasciare al margine le persone che la abitano.
Non c’è un manuale tecnico che possa aiutare a sviluppare uno sguardo al tempo stesso lucido e coinvolto per vedere le brousse di oggi e capire come affrontarle. Probabilmente quello sguardo è lo stesso che un missionario come fratel Carlo Zacquini ha condiviso con chi scrive raccontando il suo primo contatto con gli Yanomami e con la foresta amazzonica al suo arrivo a Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, ormai più di cinquanta anni fa: «Rimasi a bocca aperta: vedevo bellezza, armonia, e pensavo che volevo capirla ed esserne parte. Così pian piano, in punta di piedi, cominciai ad avvicinarmi».
Chiara Giovetti
Mco – carta d’identità
Nome: Fondazione Missioni Consolata Onlus
Data di nascita: 26 luglio 2001
Riconoscimento come Ong idonea: 17 dicembre 2007
Iscrizione all’elenco delle Organizzazioni della società civile (Osc): 4 aprile 2016
Sede legale: Torino, Corso Ferrucci, 14
Sedi operative: Certosa di Pesio a Chiusa di Pesio (CN), fraz. San Bartolomeo e Roma, Viale della Mura Aurelie, 16
Sito web: www.missioniconsolataonlus.it
Personale: Diciotto persone, di cui quattro missionari, tredici laici e una volontaria
Attività principali: sostegno a distanza, progetti di cooperazione, informazione e formazione, rivista Missioni Consolata
Ambiti principali: istruzione, educazione allo sviluppo, sanità e nutrizione, accesso all’acqua, diritti dei popoli indigeni, sviluppo economico, pace e cura del creato
Il ruolo della Cina e i primi passi di Biden
testo di Chiara Giovetti |
Il disinteresse della scorsa amministrazione Usa per la cooperazione ha contribuito all’espansione dell’influenza cinese, specialmente nelle organizzazioni internazionali. L’aiuto allo sviluppo, ma soprattutto gli investimenti cinesi, infatti, sono in forte crescita già da un ventennio. Il nuovo presidente Usa, Joe Biden, dovrà trovare una mediazione fra la fermezza verso Pechino e il riparare e ricostruire quanto cambiato o demolito da Trump.
Quattro delle principali quindici agenzie delle Nazioni Unite hanno un cittadino cinese come direttore o segretario generale: al primo mandato sono Fang Liu, che guiderà l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao) fino al prossimo luglio, e Qu Dongyu che sarà fino al 2023 il direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si concluderà invece alla fine di quest’anno il secondo mandato di Li Yong all’Agenzia per lo sviluppo industriale (Unido), mentre Houlin Zhao, riconfermato nel 2018 alla testa dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), occuperà la posizione fino alla fine del 2022.
Una maggior presenza di una potenza come la Cina nelle istituzioni internazionali è del tutto fisiologica; ma per farsi un’idea del peso che Pechino sta acquisendo basta pensare che le altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia hanno loro cittadini alla guida di una sola agenzia ciascuno@.
Centri d’influenza
Le agenzie Onu non sono molto note ai non addetti ai lavori, ma il loro operato riguarda ambiti con i quali milioni di persone vengono a contatto quotidianamente e non solo nei paesi in via di sviluppo. L’Unione internazionale per le telecomunicazioni, ad esempio, ha fra i suoi incarichi quello di elaborare le norme tecniche per il funzionamento delle reti dell’informazione e della comunicazione senza le quali, si legge sul sito dell’organizzazione, «non sarebbe possibile fare una telefonata o navigare in Internet. Per l’accesso a Internet, la compressione vocale e video, le reti domestiche e molti altri aspetti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, centinaia di standard Itu consentono ai sistemi di funzionare, a livello locale e globale»@.
Un esempio delle diatribe che possono sorgere intorno ai temi di cui si occupa l’Itu si è avuto assistendo allo scontro fra l’amministrazione guidata da Donald Trump e la Cina a proposito delle tecnologie di telefonia mobile e cellulare di quinta generazione, o 5G, e del ruolo che l’azienda cinese Huawei ha nella produzione della componentistica e nella costruzione dell’infrastruttura necessaria a far funzionare queste tecnologie. I timori avanzati dal governo statunitense, spiegavano in un articolo del 2019 Alberto Belladonna e Alessandro Gili del centro di ricerca Ispi, riguardavano principalmente la possibilità che i dispositivi Huawei vengano usati per attività di «sorveglianza o spionaggio sulle reti digitali americane» e il fatto che «utenti, aziende e istituzioni sempre più interconnesse saranno più vulnerabili a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese». A questo, sottolineavano gli autori, va aggiunta la competizione relativa alla definizione delle norme di riferimento: «l’International telecommunication union adotterà infatti come standard quello di una specifica azienda, che dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori»@.
A prendere posizione a favore di Huawei è stato proprio il direttore dell’Itu, Houlin Zhao: quelle statunitensi sono preoccupazioni generate dalla politica e dagli interessi commerciali, ha detto il funzionario cinese, non dalla presenza di prove concrete.
Il pasticcio alla Fao
Anche la Fao, precisa un’analisi di Colum Lynch e Robbie Gramer apparsa nel 2019 sulla rivista Foreign Policy, ha un ruolo importante che riguarda tutti i paesi del mondo, non solo quelli a basso e medio reddito. L’agenzia, infatti, contribuisce a definire la regolamentazione internazionale per la sicurezza degli animali e la salubrità del cibo, e svolge un ruolo chiave nell’elaborazione di risposte alla fame globale, ai cambiamenti climatici causati dalla produzione alimentare e alle esigenze delle agroindustrie@.
L’elezione a direttore della Fao di Qu Dongyu è stato un altro evento indicativo dell’intenzione della Cina di ottenere più posizioni di potere nelle agenzie Onu, e avrà conseguenze anche sulla nomina del prossimo direttore del World food programme (Wfp, Programma alimentare mondiale), l’agenzia che si occupa di assistenza alimentare e che dal 1982 è guidata da un cittadino statunitense. Sarà il direttore della Fao, insieme al Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a scegliere nel 2022 il prossimo direttore del Wfp e ad «approvare tutte le nomine del personale di alto livello presso l’agenzia, complicando i futuri sforzi degli Stati Uniti per mantenere il loro ruolo dominante».
L’elezione di Qu – figlio di un coltivatore di riso e biologo con alle spalle anche una solida carriera in scienze agrarie e ambientali – è la conseguenza di tre fattori, il primo dei quali è la campagna elettorale molto decisa che la Cina ha fatto per il proprio candidato. Foreign Policy riporta un articolo della Cnn secondo il quale nel febbraio del 2019, pochi mesi prima dell’elezione del direttore generale, un alto funzionario cinese si è recato in Camerun per annunciare la cancellazione di 78 milioni di dollari dal debito del paese africano con Pechino. Un mese dopo il candidato camerunese alla direzione della Fao si è ritirato, facendo sospettare a molti osservatori un legame fra i due eventi.
Il secondo fattore è la confusa e maldestra gestione della vicenda all’interno dell’amministrazione Trump, dove si è consumato uno scontro fra i funzionari più vicini all’ex presidente – cristallizzati sull’appoggio a un candidato debole come l’ex ministro dell’agricoltura georgiano Davit Kirvalidze – e i funzionari più aperti a considerare altri profili da sostenere. Il terzo fattore è stato la mancanza di collaborazione, se non l’aperta ostilità, fra gli Usa di Trump e i paesi europei, compatti invece nel sostegno alla candidata francese, l’agronoma Catherine Geslain-Lanéelle.
«La leadership cinese non è intrinsecamente cattiva», ha spiegato a Foreign policy kristine Lee, del centro studi Center for a new American security, «in una certa misura, gli Stati Uniti dovrebbero essere contenti che Pechino stia cercando di assumersi maggiori responsabilità nelle organizzazioni internazionali. Il problema è che sta abusando di questa responsabilità. I funzionari cinesi riferiscono a Pechino e prima di tutto servono gli interessi ristretti del Partito comunista cinese, invece di promuovere veramente il multilateralismo e rafforzare la trasparenza e la responsabilità alle Nazioni Unite».
L’aiuto cinese e la nuova agenzia
Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2018 la cooperazione allo sviluppo internazionale della Cina ha raggiunto 4,4 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi del 2017. Un miliardo e quattrocento milioni sono andati alla cooperazione multilaterale, cioè alle banche di sviluppo regionale, specialmente la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), e alle agenzie delle Nazioni Unite@.
Il dato Ocse è inferiore a quello fornito dall’Agenzia per la cooperazione giapponese, secondo la quale l’aiuto (stimato) della Cina è aumentato da 5,1 miliardi di dollari nel 2015 a 5,9 sia nel 2018 che nel 2019. L’aiuto sarebbe costituito da donazioni bilaterali e prestiti senza interessi per circa la metà, mentre un quinto andrebbe in prestiti agevolati del governo cinese ai paesi beneficiari e il restante 30% in contributi alle organizzazioni internazionali@.
Il dato più alto è quello calcolato dal sito Aiddata, che considera però anche gli impegni dichiarati (commitments) e non soltanto i fondi effettivamente sborsati; secondo Aiddata l’aiuto cinese è aumentato da un miliardo e 300 milioni del 2000 ai 6,9 miliardi del 2014, con una punta di quasi 14 miliardi nel 2009. Nel quindicennio, quindi, la Cina avrebbe fornito aiuti allo sviluppo per 81 miliardi. Nello stesso periodo, il dato per gli Usa – principale donatore mondiale – è di 366 miliardi di dollari@. La China Africa research initiative (Cari) della Johns Hopkins University presenta invece cifre più basse, che vanno dai poco più di 600 milioni del 2003 ai 3 miliardi del 2019@.
Il motivo delle discrepanze tra i dati delle diverse ricerche è che la Cina non riporta i propri dati a nessun ente internazionale e tutte le stime si basano dunque su complesse ricostruzioni che raccolgono e incrociano i dati pubblicati da ministeri, ambasciate, aziende, banche e altri enti cinesi con quelli messi a disposizione dalle agenzie Onu e da altre organizzazioni alle quali la Cina contribuisce. Tutte le stime dell’aiuto cinese, comunque, puntano nella direzione di una crescita decisa.
Inoltre, la Cina ha creato nell’aprile 2018 l’Agenzia cinese di cooperazione internazionale per lo sviluppo (Cidca). Secondo diverse analisi, fra cui quelle del centro di ricerca Brookings@ e del Centro per lo sviluppo globale@, l’agenzia è nata con lo scopo di riorganizzare e dare maggiore coerenza alla cooperazione allo sviluppo cinese. Fino al 2018 era l’ufficio per l’aiuto estero del ministero del Commercio a fare da coordinatore, ma i progetti e gli interventi veri e propri venivano affidati a numerosi ministeri e istituzioni finanziarie cinesi, generando così una dispersione delle responsabilità sulla gestione dei fondi e notevoli difficoltà di coordinamento.
Se, da un lato, Cidca ha effettivamente un ruolo centrale nella definizione della strategia e nella formulazione dei progetti, oltre che nel monitoraggio di lungo termine alla fine degli interventi; la gestione dei fondi e le fasi centrali della progettazione rimangono al ministero del Commercio. Per il momento, quindi, l’agenzia appare come la faccia della cooperazione cinese da mostrare ai partner internazionali più che l’ente che effettivamente organizza e gestisce i fondi dell’aiuto.
Per farsi un’idea del ruolo di Cidca basta pensare che i fondi su cui ha contato nel 2019 sono stati, secondo Brookings, l’equivalente di 18 milioni di dollari, a fronte dei 2,63 miliardi ancora gestiti dal ministero del Commercio per aiuto allo sviluppo. Nello stesso anno Usaid, l’agenzia per la cooperazione degli Stati Uniti, ha amministrato 20 miliardi di dollari dei circa 35 destinati all’aiuto allo sviluppo nel bilancio americano.
Il grosso dei flussi finanziari della Cina a sostegno dello sviluppo è sempre stato e continua a essere costituito non dal cosiddetto aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, o Oda nell’acronimo inglese), ma da quelli che, nella classificazione dell’Ocse, si chiamano altri apporti del settore pubblico (Oof, Other financial flows). Sono transazioni che comprendono una percentuale di dono – cioè di fondi che non devono essere restituiti al donatore – inferiore a quella che l’Ocse richiede per classificarli come aiuto@ e operazioni finanziarie bilaterali che hanno principalmente uno scopo di facilitazione delle esportazioni. Secondo Aiddata, questi flussi cinesi sono stati pari a 216,3 miliardi di dollari complessivi fra il 2000 e il 2014, mentre quelli degli Usa sono stati di 28,1 miliardi.
L’amministrazione Biden
I primi atti del nuovo presidente americano Joe Biden per quanto riguarda la cooperazione internazionale sono stati di decisa rottura rispetto alla precedente amministrazione. Biden ha ordinato il rientro degli Usa nel trattato di Parigi sul clima e ha annullato il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità@.
Tuttavia, secondo Devex, piattaforma online che si occupa di sviluppo@, alcune iniziative lanciate dall’amministrazione Trump hanno buone probabilità di rimanere in piedi, a cominciare dalla riforma di Usaid e dalla Development finance corporation (Dfc), l’ente che usa fondi pubblici per sostenere gli investimenti privati americani in paesi a basso e medio reddito. La Dfc, spiega Daniel Kilmann del Center for a new American security@ disporrà di più risorse, rispetto agli enti che l’hanno preceduta, per «stimolare la partecipazione del settore privato nei progetti all’estero» e va utilizzata in modo efficace se si vuole competere con la Cina e la sua iniziativa nota come Nuova via della seta. Ma, puntualizza Devex, i sostenitori della cooperazione ritengono anche fondamentale assicurarsi che siano le esigenze dello sviluppo e non gli interessi economici e di politica estera a guidare la strategia della Dfc.
Chiara Giovetti
Il nostro 2020 di solidarietà
testo di Chiara Giovetti |
Nel corso di quest’anno abbiamo sostenuto diverse famiglie del Mozambico nel loro lavoro di ricostruzione delle case distrutte dalle alluvioni e dal ciclone Idai del 2019. Abbiamo poi assistito i nostri missionari impegnati a mitigare gli effetti della pandemia e rafforzato il nostro programma di sostegno a distanza. Vi raccontiamo il nostro 2020 al servizio degli ultimi reso possibile dalla generosità di tutti voi.
Era il 3 aprile del 2019 quando padre Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico e all’epoca amministratore apostolico della diocesi di Tete, scriveva@: «Qui è stato un disastro. Alluvioni come ho vissuto a Vilanculos nel 2000», anno in cui un’ondata di maltempo come non si vedeva dagli anni Cinquanta del secolo scorso e un successivo ciclone provocarono 800 vittime e oltre mezzo milione di sfollati. Nel 2019 il bilancio è stato di poco diverso: 603 morti e 400mila sfollati, causati dal ciclone Idai, che ha raggiunto l’area della grande città costiera di Beira con vento fra i 180 e i 220 chilometri orari e ha colpito con piogge intense (200 millimetri in 24 ore) le province di Sofala, Manica, Zambézia, Tete e Inhambane@.
A Tete, continuava il racconto di padre Sandro, «centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».
Ricostruzione dopo il ciclone
Insieme a padre Diamantino Guapo Antunes, superiore dei missionari in Mozambico che di lì a poco sarebbe diventato vescovo di Tete, padre Faedi ha identificato un gruppo di dodici famiglie di Nkondezi, un villaggio vicino a Tete particolarmente colpito dalle alluvioni. Grazie a donatori privati negli Usa, nell’aprile del 2019 e, a inizio 2020, al contributo della mostra di Solidarietà degli Amici di Missioni Consolata a Torino, è stato possibile raccogliere i fondi grazie ai quali le case di queste famiglie sono di nuovo in piedi.
«La costruzione delle case», scriveva lo scorso ottobre monsignor Antunes (diventato vescovo il 12 maggio), «è iniziata il 15 settembre 2019 dopo la cerimonia di benedizione della prima pietra. Un’azienda locale ha svolto il lavoro sotto la mia supervisione. Non tutte le case sono state costruite a Nkondezi come previsto. Gravi situazioni di povertà urbana e solitudine degli anziani ci hanno spinto a sostenere la costruzione di case nella periferia della città di Tete, colpita anch’essa dagli effetti del ciclone Idai».
Monsignor Antunes segnalava un leggero ritardo rispetto ai tempi previsti per completare le case: ci sono state infatti delle difficoltà nel procurarsi cemento – il cantiere principale era distante dalla città di Tete, dove si trovano le materie prime – e anche alcuni rallentamenti causati dalla pandemia di Covid-19, che ha reso più complicato lo svolgimento dei lavori.
La costruzione delle casette è terminata il 1° luglio 2020, riferiva ancora il vescovo. Le famiglie hanno partecipato attivamente a tutte le fasi della realizzazione del progetto, collaborando secondo le loro possibilità e aderendo a una raccolta fondi locale per contribuire alla copertura di alcune spese. Anche la comunità ha collaborato offrendo manodopera non qualificata. Il costo della costruzione di ogni casa è stato 2.500 euro, per un totale di 30mila euro.
Coronavirus, il ciclone planetario
A metà marzo di quest’anno i nostri missionari in Africa e America Latina, hanno iniziato a inviare i primi brevi aggiornamenti sulla situazione dei contagi nei rispettivi paesi, e sulle prime misure adottate dai governi per contenere la diffusione del nuovo coronavirus.
Al di là dei numeri, che la scorsa primavera non erano ancora molto elevati nei due continenti, è apparso subito evidente che in paesi come quelli subsahariani o nelle zone amazzoniche di Brasile e Colombia, l’unico modo realistico per tentare di reagire efficacemente alla pandemia era fare prevenzione, cioè contrastarla diffondendo informazioni, disinfettante e dispositivi di protezione per evitare il contagio. Le strutture sanitarie, infatti, non avrebbero mai potuto reggere l’impatto di un numero elevato di pazienti e il tempo e le risorse per adeguare o costruire ospedali erano chiaramente insufficienti.
«La maggioranza dei paesi nel continente», ammoniva l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo scorso maggio, «non ha la capacità di gestire molti pazienti Covid-19 in condizioni critiche. Secondo un’indagine basata sui rapporti presentati dai 47 paesi membri della Regione Africa dell’Oms, i letti in terapia intensiva sono in media nove per milione di abitanti», meno di uno per centomila: in Italia a inizio pandemia i posti in terapia intensiva era intorno ai 5.100, una proporzione di 8,6 per 100mila abitanti, mentre la Germania ne aveva poco meno di 34@.
Un reportage di Reuters del maggio scorso segnalava che i tre giganti del continente africano – Nigeria, Etiopia ed Egitto – disponevano di 1.920 posti in terapia intensiva a fronte dei loro complessivi 400 milioni di abitanti e che vi erano spesso discrepanze fra i dati ufficiali e la reale capacità delle terapie intensive sul campo. L’Uganda, ad esempio dichiarava di avere 268 letti disponibili, ma secondo Arthur Kwizera, professore di anestesia e terapia intensiva all’Università di Makerere, vicino alla capitale Kampala, meno di un quarto avevano effettivamente il personale e gli strumenti per funzionare@.
La risposta sanitaria alla pandemia
A fine aprile, grazie alla generosità di alcuni donatori, sono dunque partiti i primi aiuti per tre delle strutture sanitarie dei missionari della Consolata in Africa: l’ospedale di Neisu, in Repubblica democratica del Congo, e i centri sanitari di Dianra e Marandallah, in Costa d’Avorio.
A partire da maggio, poi, diversi centri sanitari e missioni in Kenya, Uganda, RD Congo e Costa d’Avorio hanno ottenuto fondi messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana, che ha distribuito un totale di circa 9 milioni di euro per 541 progetti in tutto il mondo.
Questi contributi hanno permesso di realizzare intense e capillari campagne informative, da un lato, e di acquistare mascherine, guanti, disinfettanti, pulsossimetri, dispositivi per l’ossigenoterapia, bombole di ossigeno, abbigliamento protettivo per il personale sanitario, termometri a infrarossi e altro materiale necessario per far fronte all’emergenza.
Un’iniziativa emblematica della collaborazione con i sistemi sanitari nazionali è stata quella realizzata in eSwatini (Swaziland fino al 2018) dalla diocesi di Manzini, il cui vescovo è un missionario della Consolata, monsignor José Luis Ponce de León.
In un post sul suo blog@, il vescovo ha raccontato come i fondi della Cei siano stati usati a Manzini per un’attività apparentemente insolita, cioè l’acquisto di radio. «Devo confessare la mia sorpresa quando qualcuno ha parlato di questa ipotesi», scriveva a settembre monsignor Ponce de León. «Sul serio? C’è bisogno di fornire radio alle famiglie?». Presto però l’esigenza è apparsa evidente: «Il governo ha fatto un ottimo lavoro di sensibilizzazione attraverso diversi media sia in siswati (la lingua del regno di eSwatini, ndr.) che in inglese, ma se le persone non hanno accesso a quei media. il messaggio non le raggiungerà».
Non solo salute: il sostegno alle comunità vulnerabili
Un altro aspetto della pandemia che è emerso immediatamente nei paesi africani e latinoamericani dove lavorano i missionari della Consolata, è stato quello dei danni economici inflitti dai lockdown alle già fragili economie delle famiglie. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese», constatava padre Matteo Pettinari dalla Costa d’Avorio lo scorso marzo. Il confinamento per molte persone in Africa e America Latina ha significato non poter più disporre delle risorse economiche per nutrirsi, dall’oggi al domani.
Per questo una significativa parte del sostegno che i missionari hanno ricevuto dai donatori si è tradotto in sostegno al reddito delle famiglie.
Le comunità della Terra indigena Raposa Serra do Sol, in Roraima, Brasile, hanno quindi potuto beneficiare di un aiuto in generi alimentari di base, dispositivi di protezione e igienizzanti che stanno permettendo alle persone più vulnerabili di affrontare il confinamento.
Lo stesso vale per le comunità di migranti africani e di famiglie povere che vivono nelle periferie delle grandi città dove operano i missionari della Consolata in Sudafrica. A Daveyton, Johannesburg, 73 famiglie migranti e sudafricane hanno ricevuto i generi alimentari necessari per superare il periodo del lockdown durante il quale non era possibile nemmeno trovare uno di quei lavori giornalieri la cui paga, per quanto bassa, rendeva possibile procurare cibo per sé e per i propri familiari. A Mamelodi, township di Pretoria, le famiglie migranti e locali assistite sono 97 nella parrocchia di Saint Mary e 46 in quella di Saint Peter Claver.
Anche a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio, cinquanta famiglie locali hanno ricevuto aiuti alimentari – riso, olio, zucchero, salsa di pomodoro, latte in polvere – e igienizzante per far fronte alle ristrettezze derivanti dalle chiusure. «Alcuni si sono commossi quando ci hanno visto arrivare con gli aiuti», spiega padre Daniel Yoseph Baiso, missionario etiope responsabile del progetto, «non si aspettavano che qualcuno si occupasse di loro e che lo facesse senza distinzioni di credo religioso. Non avevano nessun modo alternativo per procurarsi cibo, tutto era chiuso. Chi ha potuto è andato a passare il lockdown nei villaggi intorno a San Pedro, ma chi è rimasto in città ha passato un momento veramente difficile».
I missionari della Consolata, inoltre, hanno anche sensibilizzato la comunità del quartiere attraverso messaggi diffusi via whatsapp, facebook e altri social network, sulle buone pratiche per evitare l’infezione avvalendosi della collaborazione di un gruppo di giovani molto attivo che frequenta la missione e, prima della pandemia, organizzava giornate di raccolta dei rifiuti nelle strade della zona e formazione alle tematiche ambientali.
Il sostegno a distanza non si ammala di Covid
Missioni Consolata Onlus ha un programma di sostegno a distanza iniziato nei tardi anni Novanta. La persona che da oltre vent’anni coordina il programma, Antonella Vianzone, ricordava@ in un’intervista del 2012 che le adozioni sono nate come evoluzione naturale delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto già nel 1970 grazie a una intuizione di padre Mario Valli, diretto poi da padre Giuseppe Ramponi nei primi anni Duemila e ora guidato da Antonella.
Oggi i sostegni a distanza sono circa 1.300, suddivisi in nove paesi fra Africa, America Latina e Asia. Nemmeno la pandemia ha scoraggiato i donatori, che hanno continuato a sostenere i bambini nonostante le difficoltà che dalle chiusure di marzo ad oggi rendono molto più complicato per tante persone riservare una quota del proprio reddito alla solidarietà.
«Qualcuno mi ha scritto o chiamato per chiedere di suddividere la donazione in più tranche oppure di ritardarne l’invio», spiega Antonella, che non si stanca mai di ricordare come il rapporto diretto, che ha di persona o per telefono, con i donatori – l’ascolto, il dialogo, l’empatia – sia una parte imprescindibile del suo lavoro. «Quasi nessuno ha annullato l’adozione: soltanto due persone hanno dovuto sospenderla, per quanto a malincuore, perché avevano perso il lavoro a causa della pandemia, non ce la facevano a continuare».
A partire dalla primavera inoltrata sono arrivate anche richieste di avviare nuovi sostegni. «Credo che sia la concretezza dell’aiuto a convincere le persone», riflette la responsabile. «In un tempo così incerto e difficile, chi dona vuole essere sicuro di aiutare davvero. E che cosa c’è di più essenziale e fondamentale di garantire a un bambino istruzione e salute?». Alcuni, conclude Vianzone, hanno avviato un sostegno proprio in memoria di un familiare mancato a causa del Covid-19, «quasi a voler dare alla persona cara che hanno perso nuova vita attraverso un atto di generosità».
Chiara Giovetti
In queste tre foto, il bello del sostegno a distanza: Malina (figlia della terra Samburu in Kenya) in prima elementare, al primo anno delle superiori e dopo l’esame di maturità, finito con ottimi voti, mentre è in attesa della chiamata all’università, coronavirus permettendo.
Antropologi e missionari. Tanti mondi, un’unica terra
testi di Stefania Raspo, Francesco Remotti, Paolo Moiola |
Due categorie – i missionari e gli antropologi – che parrebbero molto lontane. Invece, è vero il contrario. Si sono spesso incrociate. Spesso hanno compiuto gli stessi errori. Sempre hanno avuto dilemmi su come comportarsi davanti a
«uomini diversi da noi».
Quando l’antropologia muoveva i suoi primi passi come ambito di studio con un suo proprio statuto scientifico, nella seconda metà dell’800, i missionari già da tempo andavano nei paesi di missione dei vari continenti per incontrare e convertire popoli non cristiani. I «nuovi» antropologi iniziarono a frequentare quegli stessi luoghi per studiare culture e organizzazione sociale dei popoli visitati. In un caso e nell’altro, si trattava di incontrare «uomini diversi da noi», per riprendere il titolo (italiano) di un libro dell’antropologo britannico John Beattie. A quel tempo, e per qualche decennio, gli sbagli furono molti: imperialismo, dominazione coloniale, monopolio culturale dell’Occidente, individuazione di culture superiori e culture inferiori. C’era tutto questo.
«Gli antichi Greci – scrive Beattie – credevano che tutti i popoli di stirpe non ellenica fossero barbari, selvaggi incivili. Sarebbe stato del tutto fuori posto trattarli come individui veri e propri. E anche oggi in nazioni notevolmente progredite troviamo gente che considera popoli di razza, nazione e cultura diversa in modi non molto dissimili da quelli citati, soprattutto se il colore della loro pelle è diverso oppure se essi si differenziano per fede religiosa o credo politico»1.
Per quanto riguarda i portatori di altre fedi religiose come i missionari, lo studioso inglese concede: «Nessuno sa meglio degli antropologi sociali quanto abbiano contribuito al benessere delle popolazioni africane molte migliaia di missionari di tutte le confessioni, che dedicarono la loro vita a tale scopo. Tuttavia, […] il loro messaggio non è sempre stato capito, e spesso gli effetti prodotti […] sono stati quelli di sconvolgere le istituzioni tradizionali, sia quelle moralmente innocue, sia quelle moralmente riprovevoli da un punto di vista cristiano».
Riconoscere uno sconvolgimento delle istituzioni tradizionali vuole intendere che l’opera dei missionari e quella degli antropologi sono inconciliabili? «I missionari – ammette Beattie – sono stati in grado di fare la loro antropologia. [Essi] hanno il vantaggio di un soggiorno prolungato in una singola comunità e, di solito, di una buona conoscenza della lingua indigena. Alcuni degli studi più profondi delle istituzioni e dei modi di pensiero indigeni sono dovuti a missionari». Verso gli uni e gli altri è durissimo Alfonso Maria Di Nola, uno dei più famosi antropologi italiani (1926-1997), che vede «una prepotenza e una violenza immorale dell’uomo occidentale che si autodimensiona come unica realtà di cultura e nega la comprensione di ogni altro uomo come portatore di diversità e di alienità. La quale violenza e prepotenza – consolidate negli studiosi occidentali anche più eminenti da una colposa pigrizia a uscire eroicamente dal proprio guscio culturale e alimentata dal terrore di scoprire le dimensioni altre ed aliene, quasi fossero attentati alla propria sicurezza – è stata una delle cause di tragica incomprensione fra uomini e ha fondato i diritti all’aggressione, all’imperialismo, al colonialismo»2.
Uscì certamente dal suo guscio – non senza scandalo – padre Silvano Sabatini (1922-2014), 40 anni tra gli indigeni dell’Amazzonia. La sua – ha scritto Antonino Colajanni, antropologo de La Sapienza – è stata una magnifica storia di missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale»3
Padre Sabatini – scrive ancora Colajanni – «passa rapidamente dallo “scandalo” per la nudità degli indios di fronte all’altare di Cristo alla comprensione dei loro diversi valori, del loro diverso senso del pudore. Coglie immediatamente un tratto della cultura indigena, quella sorta di “teologia ambientale” che li fa sentire come parte del mondo naturale (e soprannaturale, a quello collegato) e non come dominatori della natura».
Padre Sabatini «identifica da subito un compito ineludibile per il missionario come per l’antropologo: quello di “dar voce” direttamente all’indigeno, perché racconti la sua verità, il suo punto di vista, non quello che i bianchi vogliono sentirsi dire».
Un rivoluzionario, padre Silvano Sabatini. Un antropologo de facto. Un missionario antitetico agli evangelici che danni enormi hanno fatto e stanno facendo in giro per il mondo. Un missionario di quelli che fanno tanto «arrabbiare» (eufemismo) i cattolici tradizionalisti, quelli che ogni giorno criticano papa Francesco4
«C’è un’incapacità che si è istituzionalizzata nella nostra società. Si tratta dell’incapacità di confronto. Ci riferiamo al confronto con le esperienze culturali distanti dalla nostra. […] A livello ideologico generale si sono istituzionalizzate forme di razzismo ed etnocentrismo»5.
Queste riflessioni del sociologo francese Gérard Leclerc risalgono al 1973. Si pensava descrivessero situazioni se non superate almeno attenuate. Invece, sono tornate e stanno tornando a farsi largo in modo prepotente, ovunque nel mondo. Il lavoro di missionari e antropologi dovrebbe contribuire a contenere questa tendenza.
Da tempo, papa Francesco sembra lavorare in questa direzione. Nel messaggio diffuso lo scorso 9 giugno per la giornata missionaria mondiale 2019, si legge: «Noi non facciamo proselitismo». A febbraio di quest’anno, nell’esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia, ha scritto: «In un vero spirito di dialogo si alimenta la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non potendo assumerlo come una propria convinzione» (n. 108). Infine, lo scorso marzo, in un messaggio rivolto ai cattolici cinesi, papa Francesco ha precisato che essi «devono promuovere il Vangelo, ma senza fare proselitismo». Tutte testimonianze che aiutano a inquadrare il ruolo dei missionari e a «superare l’incapacità del confronto».
Paolo Moiola
(1) (2) (5) John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973..
(3) Antonino Colajanni, introduzione a Il prete e l’antropologo di Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Ediesse, Roma 2011, pag. 11-23.
(4) Paolo Moiola, Tribalista ed ecologista, in «Amazzonie», dossier Missioni Consolata, gennaio-febbraio 2020.
La missionaria
Da un mito all’altro, dalla «civiltà» al «progresso»
Il missionario propone una religione, l’antropologo difende la libertà di essere quello che si è. Il racconto di una persona in cui missione e antropologia riescono a convivere. Arricchendosi a vicenda.
Sono una missionaria, ma anche un’antropologa. La vocazione e lo studio dell’antropologia si sono intrecciate già da molto tempo, da quando ero una studentessa universitaria di filosofia che, ad un certo punto, ha sentito la chiamata di Dio. A quel tempo dovetti scegliere un’area di studio per il secondo biennio. Io scelsi l’orientamento socio-antropologico, perché lo sentivo più in sintonia con l’apertura del cuore verso il mondo intero.
All’università venivano presentati come contrapposti l’atteggiamento missionario, descritto come volontà di proporre-imporre una religione, e quello antropologico, descritto invece come volontà di difendere la libertà di essere quello che si è, per dirla in parole molto povere. La cosa mi colpiva, ma dentro di me non ho mai preso posizione. O forse sì…
Dopo la mia formazione e consacrazione religiosa, fui destinata alla missione in Bolivia, dove – con somma gioia – arrivai il primo febbraio del 2013. Da allora vivo con il popolo contadino di lingua quechua, nel dipartimento di Potosí: la gente ha conservato una forte identità indigena, e molte tradizioni continuano a essere vigenti, anche nelle nuove generazioni. Dopo alcuni anni, ecco che l’antropologia di nuovo bussa alla mia vita: mi viene proposto lo studio a distanza della disciplina, che comporta un’immersione continua nella realtà quechua e, allo stesso tempo, una riflessione teorica da incarnare nella vita quotidiana.
Questa esperienza mi porta ad affermare che non c’è contrapposizione tra missione e antropologia: le due situazioni s’illuminano a vicenda. Da estirpare, piuttosto, sono alcuni pregiudizi che possono accompagnare sia l’antropologa, sia la missionaria che convivono in me.
Iniziamo con la missione e la sua relazione con la colonia, che ha prodotto conseguenze fino al giorno d’oggi. L’espansione della Chiesa cattolica – e in generale del cristianesimo – a livello planetario si è servita di un mezzo non neutro, come è l’espansione coloniale dei paesi europei: dapprima in America, con gli imperi spagnoli e portoghesi, poi in Asia, Africa e Oceania. Alla base del colonialismo c’era una giustificazione molto semplice: noi siamo i più «bravi», siamo i civilizzati, che portano la civilizzazione ai primitivi. D’altra parte, la nostra missione, in questo caso come cristiani, era quella di fare uscire dall’errore gli infedeli perché abbracciassero la verità di Cristo per potersi salvare. Poi, è arrivato il Concilio Vaticano II, il quale ci ha spiegato che ci si può salvare anche fuori dalla Chiesa. Nel frattempo, il mito dei «portatori di civiltà» si è trasformato nel mito contemporaneo del «progresso». Sicuramente, chi ha frequentato le medie e superiori negli anni Ottanta e Novanta avrà studiato quelli che si chiamavano (e spesso ancora si chiamano) «i paesi in via di sviluppo».
Graficamente parlando, l’idea è che i vari popoli si trovino su una retta, sulla quale stiamo progredendo, chi un po’ più avanti, chi un po’ più indietro (= in via di sviluppo). In quell’epoca (seconda metà del Novecento) la Chiesa missionaria ha tradotto questa idea con opere, grandi e piccole, per lo sviluppo di aree povere, costruendo scuole, ospedali, e chi più ne ha, ne metta.
Attualmente, il «mito del progresso continuo» è ormai stato sfatato dalle crisi economiche mondiali e dal disastro ecologico. Cosa resta di tutto questo, allora? Un sottile, subdolo senso di superiorità: «Io, come missionaria, ne so di più di questa povera gente…», e si agisce di conseguenza.
Come la missione, anche l’antropologia non è esente da pregiudizi o forse da errori di prospettiva. L’antropologa che è in me apprezza e valorizza le espressioni culturali dei vari popoli, e in modo speciale del mio caro popolo andino. Una posizione molto positiva che però rischia di farmi scivolare nel «romanticismo», come ci ha detto una volta un nostro professore di antropologia. Le culture non sono perfette, sono in cammino, come lo sono gli esseri umani che le creano giorno dopo giorno. La cultura, per di più, non è qualcosa di statico, che vive asetticamente nell’«iperuranio», in un Paradiso incontaminato, come direbbe Platone. La cultura è estremamente dinamica, non perfetta, ma perfettibile, in continua negoziazione con altre culture, dando e ricevendo in prestito, appropriandosi di elementi altrui e trasformandosi per poter continuare ad essere ciò che è profondamente: un progetto di vita, di vita buona, per il gruppo che la crea e la ricrea continuamente. Molte volte gli antropologi si presentano come dei «conservazionisti», cioè delle persone che operano per la salvaguardia della cultura così come è, in una certa staticità.
Cosa significa tutto questo dentro di me?
Caratterialmente, a pelle, anch’io apprezzo tanto le culture come sommamente buone, e vorrei che si conservassero così, soprattutto quelle native, che tanto hanno mantenuto della sapienza ancestrale. Allo stesso tempo, come missionaria sono chiamata ad annunciare Cristo, forse con categorie occidentali, perché da lì vengo e da lì viene anche il cristianesimo. Non voglio cambiare la gente, ma il mio desiderio è che conoscano Gesù come un Dio d’amore, e non castigatore. Dove trovare la soluzione?
Credo fermamente che il dialogo sia la strada giusta. Un dialogo tessuto nel quotidiano, nelle relazioni tra vicini, e non un monologo da una cattedra. Il popolo andino ha una spiritualità millenaria molto ricca: imparo da loro e posso anche offrire la mia semplice esperienza. In un incontro di missionarie della Consolata che lavorano con popoli nativi abbiamo pensato di chiamarlo «dialogo interspirituale».
Non si tratta di qualcosa di cerebrale, è piuttosto quel discorrere sereno e semplice, nel quale far trasparire la bellezza di una fede nel Dio che è amore, e scoprire che Lui si è già rivelato vicino e presente nella vita della gente. L’antropologia, permettendomi di entrare, in punta di piedi, nella cultura quechua, mi aiuta a trovare le parole giuste, le metafore che toccano il cuore, per poter condividere la mia esperienza, e allo stesso tempo mi aiuta a comprendere il sentire e la spiritualità del mondo andino. La fede in quel Gesù per il quale ho scommesso tutta la vita e mi manda in missione, è il senso del mio stare qui e del mio camminare con la gente.
Stefania Raspo
L’Antropologo
A proposito di missionari e antropologi
Ci sono stati i missionari «coloniali» e i missionari «conciliari». C’è stato il tempo delle «razze» e il tempo delle «culture». Queste, a loro volta, potevano entrare in contrasto con concetti quali «sviluppo» e «progresso». Un antropologo racconta i cambiamenti intervenuti.
Da tempo nutro un autentico interesse nei confronti dei modi con cui i missionari rappresentano se stessi e la loro attività in un mondo sempre più coinvolgente e interconnesso.
Pochi anni fa ero stato interpellato perché esponessi alcune mie riflessioni sull’argomento per Missione Oggi, la rivista dei missionari saveriani. Il titolo di quel modesto contributo – «I missionari visti da un antropologo» – non deve trarre in inganno: esso non significa «i missionari in generale», ma certe figure di missionari che un antropologo, o aspirante tale, ha incontrato nella sua ricerca sul campo. Quel contributo conteneva alcune precisazioni, che riproduco come punto di partenza del mio intervento1.
Nonostante sia stato sempre ben consapevole del ruolo storico svolto dai missionari nei diversi continenti, non ho mai affrontato questo tema a livello generale e neppure nei contesti di mia diretta conoscenza (intendo dire soprattutto il Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo). L’obiettivo della mia ricerca tra i Banande (o Nande) del Nord Kivu riguardava in effetti non già la situazione «attuale», bensì ciò che a partire dalla situazione attuale si poteva recuperare della loro cultura prima delle trasformazioni indotte dalla colonizzazione e dall’attività missionaria.
Le mie considerazioni iniziali nascono quindi non da studi appositi, bensì soltanto da esperienze e frequentazioni con i missionari incontrati durante l’arco temporale delle mie ricerche tra i Banande, tra il 1976 e il 2013.
Nel contributo citato avevo messo in luce due tipi di missionari, in cui mi ero imbattuto fin dall’inizio della mia esperienza: i coloniali e i conciliari.
Il primo tipo: i missionari coloniali
Il primo tipo era rappresentato da missionari anziani – per lo più belgi e olandesi – i quali erano approdati in quella parte del Congo durante il periodo coloniale. Ciò che colpiva il mio sguardo esterno erano in particolar modo i dispositivi di separazione rispetto alla gente: le case dei missionari chiuse, accuratamente recintate, vigilate e custodite non solo dal personale di guardia, di giorno e di notte, ma anche da cani, addestrati a latrare minacciosamente nei confronti dei neri. L’atteggiamento di questi missionari nei confronti di catechisti e di preti indigeni era inoltre improntato a un rigoroso senso gerarchico: i missionari, detentori – per la loro stessa origine europea – della verità evangelica, erano senza alcun dubbio i superiori, mentre catechisti e preti indigeni (a prescindere dal loro curriculum) erano gli inferiori. Del resto, la cultura europea in cui i vecchi missionari coloniali si erano formati era fortemente segnata da un’impostazione razzistica o quanto meno razziologica: nell’Europa di allora, tra Ottocento e Novecento, le razze erano ritenute da tutti come dati di fatto, e l’antropologia di cui i missionari coloniali erano portatori era un sapere fortemente biologizzante, che poneva le razze a fondamento di ogni altra considerazione. Non v’è dunque da meravigliarsi che il razzismo fosse un tratto normale del loro comportamento, indiscusso e quasi naturale.
Ho potuto conoscere di persona alcuni di questi missionari coloniali.
Il secondo tipo: i missionari conciliari
Negli anni Settanta, la scena cominciava a essere occupata da un secondo tipo di missionari. Erano i missionari che si riferivano esplicitamente al Concilio Vaticano II (1962-1965): scomparsi i cani dai cortili delle missioni, anche le razze erano ormai divenute un concetto desueto. Al posto delle razze si parlava di culture.
Almeno per quanto riguarda i missionari di questo secondo tipo da me incontrati, la cultura, pur ammessa, era però in gran parte soverchiata dall’economia, ossia dalla preoccupazione per i problemi materiali della comunità locale. Una parola svettava su tutte le altre: «sviluppo» (maendeleo nel kiswahili parlato in quella zona). Molte attività dei missionari erano dirette appunto allo sviluppo, e la cultura (la cultura locale, ma anche la cultura più in generale) era in gran parte sacrificata all’economia. Evidentemente, alle spalle non c’era soltanto il Concilio Vaticano II; c’erano anche gli echi delle rivendicazioni che i movimenti giovanili e solidaristici avevano «portato avanti» (come si usava dire allora) anche in un’ottica internazionale. Per questo secondo tipo di missionari il Vangelo significava fare del bene, in primo luogo ai poveri, alle popolazioni del sottosviluppo. La domanda che essi si ponevano era dunque la seguente: è più importante mantenere i loro usi e costumi, la loro cultura o non piuttosto favorire lo «sviluppo», insegnare loro la strada del «progresso»?
Soldi invece di capre
Vorrei portare un esempio in cui sono rimasto coinvolto. Uno dei temi su cui mi ero concentrato fin dall’inizio delle mie ricerche sul campo era il cosiddetto compenso matrimoniale (omutahyo in kinande), secondo il quale il futuro sposo raccoglieva dieci capre dalla sua famiglia per offrirle in maniera cadenzata e ritualmente programmata alla famiglia della sposa: si trattava, dunque, di un processo rituale che si svolgeva nel tempo e che impegnava in diversi modi le due famiglie, così da creare legami di «alleanza» sempre più stretti (Remotti 1993: cap. II). La ricostruzione di questo lungo e complesso processo rituale si scontrò con il fatto che – su suggerimento e per impulso degli stessi missionari – esso veniva ormai in gran parte sostituito dalla moneta. Ricordo di avere discusso con alcuni di questi missionari, i quali consideravano l’omutahyo non solo un residuo del passato, un costume puramente tradizionale, senza più alcun vero significato culturale, ma un’istituzione cha faceva da ostacolo al progresso economico e sociale. Perché perdere tempo ed energie per raccogliere le dieci capre e consegnarle con un ritmo ritualizzato ed estenuante, visto che con la moneta il problema del compenso – se proprio si doveva mantenere questa idea – poteva essere risolto in un batter d’occhio?
Anche questo cambiamento (soldi invece di capre) rientrava nel progresso, nello sviluppo: la monetarizzazione era condizione e segno dell’accesso alla modernità.
Teologia e tecnologia
Pure i Banande avevano diritto di lasciare alle spalle il sottosviluppo, la stagnazione e accedere al mondo moderno. L’impegno dei missionari consisteva ovviamente nel tentativo di impedire che questo avvenisse sotto l’egida del più brutale capitalismo o all’insegna di movimenti di sinistra. Sotto questo profilo, l’acquisizione delle innovazioni tecnologiche appariva come un passo necessario e inevitabile, da compiere però nell’ambito della Chiesa e della parrocchia. In sintesi, mi sia consentito citare questo brano:
«Da parte di alcuni [missionari] vi era persino l’idea di dover competere con i movimenti di sinistra: la sfida era coinvolgere la popolazione in progetti, in cui coabitassero temi evangelici, come la solidarietà, l’acquisizione di un maggiore benessere, grazie a processi di sviluppo locale, la valorizzazione dell’associazionismo indigeno. Teologia e tecnologia andavano a braccetto: il Dio evangelico era dispensatore di turbine, con cui si alimentavano alcuni piccoli mulini e si portavano luce e corrente elettrica nei villaggi e nelle case» (Remotti 2017: 50).
Il Dio dei cristiani, gli dèi degli altri
Il Dio evangelico era pur sempre il Dio che nel Primo Testamento ebbe a dire di sé: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso». Quindi, «non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 5; Deuteronomio 5, 7). Nel capitolo IV di Contro l’identità ho riportato l’episodio della reprimenda a cui fu sottoposto un vecchio giudice, nonché decano dei catechisti della parrocchia, allorché i missionari vennero a sapere che costui venerava sì in chiesa il Dio dei cristiani, ma nel contempo continuava a fare sacrifici agli avalimu, gli spiriti della tradizione: «Anche noi – mi diceva K. – abbiamo i nostri avalimu» (Remotti 1996: 40).
Questo vecchio giudice non intravedeva alcun problema di coesistenza tra il Dio dei cristiani – giunto dalle loro parti negli anni Quaranta del Novecento (un Dio senza dubbio importante, a giudicare dal potere degli europei e dalle risorse di cui anche i missionari disponevano) – e le loro divinità. Perché mai si sarebbe dovuto scegliere? Per questo vecchio saggio non c’era alcun motivo di rifiutare il Dio arrivato con gli altri, da lontano e dotato di tutti i beni di cui gli europei facevano sfoggio. Del resto, non era forse sufficiente che altri credessero in una loro divinità per ammetterne l’esistenza? Perché mai, in base a quali motivi, ricorrendo a quali criteri si dovrebbe negare l’esistenza delle divinità altrui? E se queste argomentazioni rendevano conto del fatto che i Banande non opposero alcuna resistenza all’arrivo della divinità dei Bianchi, perché mai esse non dovevano valere per gli spiriti e le divinità locali? «Anche noi abbiamo i nostri avalimu» aveva dunque il significato di una richiesta di riconoscimento: il vecchio giudice non chiedeva che gli europei (missionari o laici che fossero) partecipassero ai loro culti e ai loro sacrifici; chiedeva soltanto che si riconoscesse il diritto, da parte dei Banande, di venerare tanto il nuovo Dio (quello della chiesa costruita in mattoni), quanto gli avalimu, gli spiriti a cui erano dedicate minuscole capanne sparse qua e là sulle colline.
Per i missionari – anche per i missionari del secondo tipo, quelli che si ponevano esplicitamente nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II – la coesistenza invocata dal vecchio giudice era del tutto inammissibile. Nonostante la sua età avanzata e la sua autorevolezza, il vecchio giudice fu sottoposto a una dura lezione di monoteismo e, beninteso, non di un monoteismo generico, bensì del monoteismo forgiato da ciò che Jan Assmann (famoso egittologo tedesco, ndr) ha chiamato la «distinzione mosaica», ovvero il principio secondo cui il «nostro» Dio non è soltanto un Dio unico, ma è anche l’unico «vero» Dio: gli altri sono idoli, falsi dèi, con cui non si può convivere e che, anzi, occorre distruggere (Assmann 2011: 15, 25).
I missionari e il diffondersi del dubbio
L’episodio del vecchio giudice avvenne nel 1976, proprio all’inizio della mia esperienza tra i Banande. Vent’anni dopo, nel 1996, incontrai a Kinshasa un gruppetto di giovani missionari: erano i missionari della Consolata. Anche per questi missionari il riferimento al Concilio Vaticano II era d’obbligo. Ciò che però mi aveva colpito, rispetto ai missionari del primo e del secondo tipo, era l’emergere di un – per me inatteso – spirito critico, anzi di un atteggiamento di dubbio. Dalle conversazioni avute con loro mi sembrava che lo spirito critico e il dubbio si rivolgessero sostanzialmente a due concetti: l’inculturazione e lo sviluppo. Ricordo anche che alcuni di loro chiedevano a me, in quanto antropologo, cosa esattamente fosse e come si dovesse intendere l’inculturazione, «quasi che i documenti del Concilio non fossero più del tutto convincenti» o del tutto chiari (Remotti 2017: 50).
Mi sia consentito proseguire nella citazione: «Rimasi colpito da questa loro esitazione e perplessità. Mi resi poi conto che per loro era molto problematico distinguere nella cultura nativa ciò che doveva essere considerato compatibile con il messaggio evangelico e quindi mantenuto, e ciò che doveva essere scartato. Ai loro occhi, e alla loro profonda sensibilità, balzavano i drammi che – magari senza saperlo, senza preavviso – si generavano con l’inculturazione».
Non diedi alcuna lezione. Mi rendevo conto che il concetto di inculturazione emerso dai documenti del Concilio e quello di impiego comune nelle scienze sociali non erano la stessa cosa. Soprattutto, però, mi rendevo conto che i dubbi e le perplessità di quei giovani missionari erano rivolti anche alla seconda nozione a cui ho accennato: «Essi ormai vedevano anche i guasti di ogni genere (sociale, culturale, economico) che spesso si producevano in nome dello “sviluppo”». La sensazione di avere a che fare ormai con un terzo tipo di missionari – se si accetta questa tipologia improvvisata, fondata soltanto sull’esperienza personale – era alquanto vivida e veniva confermata da quanto mi disse uno di quei missionari, il quale viveva presso un gruppo di pigmei. Riassumo in questo modo le sue parole: «Intendo la mia missione solo come una testimonianza; non impartisco ordini né suggerimenti; cerco di vivere come loro e secondo i dettami del Vangelo». Quel giovane missionario mi faceva anche capire che «”loro”, i pigmei, gli erano umanamente grati» di ciò. In questo modo, «era riuscito a farsi considerare un amico, un compagno. Nulla di più». Ma forse non c’è proprio bisogno «di più». Quel «nulla di più» in realtà «è tanto»: è niente di meno che condivisione di umanità, di una qualche forma di umanità.
La fede nel «progresso»: dall’esaltazione al ripensamento
Missionari e antropologi hanno molte cose in comune: tra queste il fatto di essere eredi di certezze, le quali si possono riassumere nella credenza di un progresso universale. Ovviamente, qui mi riferisco ai primordi dell’antropologia, allorché tra Ottocento e Novecento essa riteneva di poter collocare le società che andava studiando nei diversi continenti in una serie graduata di stadi di progresso, di forme di umanità sempre più perfezionate, culminanti nella civiltà contemporanea. E per quanto riguarda i missionari, che cos’è se non un’idea di progresso incessante quella contenuta nel concetto di plantatio ecclesiae? Come ci ricorda padre Mario Menin (2016: 13, 24-25), l’espressione, risalente agli Atti degli Apostoli e alle Epistole paoline, si ritrova nei padri della Chiesa (Agostino), nella teologia scolastica (Tommaso d’Aquino), per riapparire – infine – nella missiologia moderna, la quale «nella prima metà del secolo scorso ne fa una “bandiera di guerra” per definire il fine delle “missioni estere”». «Nel contesto coloniale», sottolinea ancora Menin (2016: 16), «missione» assume le sembianze ora di un’opera civilizzatrice di popoli «primitivi» e «selvaggi», ora di «conquista» di nuove terre a Cristo, attraverso la sconfitta e la sostituzione delle altre religioni e, più tardi, delle ideologie anticristiane, come il comunismo e l’ateismo.
Un secondo punto di convergenza tra antropologi e missionari può essere intravisto nel successivo abbandono, sia pure in tempi diversi, della fede nel progresso universale. Il rapporto tra gli antropologi e le società indigene non è più mediato dall’idea di progresso: è invece la «cultura» ciò che conferisce dignità di studio a società pur illetterate, prive di scrittura, dotate di una cultura materiale e di una tecnologia assai meno elaborate di quella occidentale. Perché la cultura (antropologicamente intesa) è sufficiente a conferire dignità di studio? Perché gli antropologi intravedono idee, valori, persino sistemi di idee e di significati, forme di pensiero profonde e raffinate nelle lingue e nelle pratiche sociali, nei rituali e nelle mitologie, nei saperi scientifici indigeni e nelle strutture politiche, nelle concezioni cosmologiche e filosofiche come nel pensiero giudiziario e così via. In altre parole, l’uso del concetto antropologico di cultura induce a scovare e a riconoscere un significato intrinseco ai sistemi sociali e culturali, e ciò del tutto a prescindere dalla posizione attribuita alle singole società in una ipotetica e ormai rinnegata scala evolutiva. Se la credenza nel progresso collocava inevitabilmente gli antropologi su un piano superiore di civiltà e gli indigeni su un piano inferiore, il concetto di cultura pone invece indigeni e antropologi sullo stesso piano, su un piano di parità e di dialogo. Addirittura costringe gli antropologi ad apprendere i segreti e le particolarità culturali delle società che essi studiano: molti antropologi hanno paragonato l’apprendimento, a cui sono professionalmente costretti sul campo, a quello del bambino che deve apprendere lingua e norme culturali del proprio gruppo.
Il Concilio Vaticano II e il nuovo missionario «ad gentes»
Nei documenti del Concilio Vaticano II possiamo cogliere assai bene il ruolo svolto dal concetto di cultura nell’impostare in maniera innovativa l’attività missionaria. Mario Menin sottolinea giustamente questo punto, allorché afferma: «Un’altra novità di Ad gentes», il decreto approvato quasi all’unanimità dal Concilio e promulgato da Paolo VI nel dicembre 1965, «è l’importanza data alle culture» (2016: 38). A questo proposito egli cita «uno dei passaggi più belli» (contenuto nel par. 11), quello in cui si afferma che occorre conoscere gli uomini in mezzo ai quali si vive e intrecciare con essi «un dialogo sincero e paziente» in modo tale da conoscere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli». Nello stesso paragrafo 11 le ricchezze elargite da Dio sono identificate con i «germi del Verbo» che si trovano nascosti nelle diverse culture umane: essi contribuiscono a costituire in maniera determinante il «patrimonio culturale» dei vari popoli (par. 21), nonché «tutta la bellezza delle loro tradizioni» (par. 22).
Per questo motivo coloro che si recano nei luoghi di missione – siano essi sacerdoti, religiosi, suore o laici – debbono «stimare molto il patrimonio, le lingue ed i costumi» delle società locali e a tale scopo occorre che essi siano «singolarmente preparati e formati» attraverso gli studi sia di missiologia sia delle scienze che forniscono «una conoscenza generale dei popoli, delle culture e delle religioni», una conoscenza che non sia orientata esclusivamente verso il passato, bensì soprattutto verso il presente (par. 26). Non solo, ma il decreto raccomanda un ulteriore approfondimento di conoscenza: una volta giunti sul terreno della missione, occorre impegnarsi per conoscere a fondo «la storia, le strutture sociali e le consuetudini dei vari popoli». Come si può notare, l’acquisizione del concetto di cultura induce a completare la figura del missionario con una vera e propria preparazione antropologica ed etnologica: egli non sarà soltanto un etnologo, perché – come vedremo – il suo compito non è solo conoscitivo; ma per svolgere il suo compito, il missionario dovrà comunque conoscere a fondo la cultura della società presso cui intende recarsi. E così, in veste di studioso, egli dovrà indagare e venire a conoscenza delle «idee più profonde» che le società «in base alle loro tradizioni, hanno già intorno a Dio, al mondo, all’uomo» (par. 26). È veramente notevole l’apertura che il decreto Ad gentes dimostra per gli aspetti più preziosi e in un certo senso più intimi e segreti di una cultura. Senza alcun dubbio è il concetto di cultura – fatto valere a proposito di coloro che un tempo venivano definiti «primitivi» e «selvaggi» – ciò che induce a trovare in loro e a valorizzare idee di ordine teologico, cosmologico, antropologico. La cultura presa in considerazione dal decreto Ad gentes e attribuita alle popolazioni del mondo è in effetti ricca e complessa: non è più la cultura povera ed elementare di coloro che dovevano essere spinti, a forza, sulla strada del «progresso».
I dissidi tra evangelizzazione e culture
Come si è detto, il missionario di Ad gentes non è però soltanto colui che conosce da vicino e intimamente la cultura della società presso cui opera. Egli deve compiere all’interno della cultura un minuzioso lavoro di selezione. In un articolo di alcuni anni fa – a cui rimando per eventuali approfondimenti (Remotti 2011) – ho proposto alcuni brani, che qui riproduco in maniera sintetica:
1) nella Costituzione sulla sacra liturgia (Constitutio de sacra liturgia) «Sacrosanctum Concilium» (1963) si stabilisce di distinguere ciò che «nei costumi dei popoli… è indissolubilmente legato a superstizioni ed errori» e ciò che invece non lo è. Ciò che non è superstizione ed errore, la Chiesa «lo considera con benevolenza», «lo conserva inalterato» e «lo ammette nella liturgia stessa» (par. 37 – Denzinger 2003: 4037);
2) nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Constitutio dogmatica de Ecclesia) «Lumen Gentium» (1964) si ribadisce la distinzione tra ciò che nelle culture umane può essere conservato e ciò che va rifiutato. «Le capacità, le risorse e le consuetudini di vita dei popoli», che sono conservate in quanto «buone», vengono – inoltre – purificate, consolidate, elevate (par. 13 – Denzinger 2003: 4133).
Dieci anni dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI emana l’esortazione apostolica (Adhortatio apostolica) «Evangelii nuntiandi» (1975) in cui si precisa ulteriormente il rapporto tra evangelizzazione e cultura. In questo testo decisivo appaiono evidenti l’importanza e l’imprescindibilità della cultura sotto il profilo antropologico, come quando si afferma che gli uomini risultano sempre «profondamente legati a una cultura (sua certa cultura imbuti sunt)», di cui evidentemente non possono fare a meno, a tal punto che la stessa «costruzione del Regno», secondo i dettami del Vangelo cristiano, «non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane» (par. 20 – Denzinger 2003: 4577).
E tuttavia vi è un discidium inter Evangelium et culturam, una rottura, che si spiega con il fatto che il Vangelo e l’evangelizzazione «non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture».
L’evangelizzazione non può fare a meno di calarsi nelle culture, di diventare essa stessa cultura, ma la sua prerogativa è quella di «penetrare» profondamente in tutte le culture e «impregnarle», senza con ciò «asservirsi ad alcuna». Anzi, il Vangelo ha una forza dirompente nei confronti delle culture esistenti: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere (evertere) mediante la forza del Vangelo (Evangelii potentia) i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono «in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (par. 19 – Denzinger 2003: 4575).
La verità cristiana e il fine ultimo
È su questo sfondo tematico che occorre interpretare il concetto di inculturazione. Nell’enciclica Redemptoris Missio del 1990, Giovanni Paolo II intende tutta l’attività missionaria come avente lo scopo di inserire la Chiesa «nelle culture dei popoli», di provvedere dunque al «radicamento del cristianesimo nelle varie culture» (1991: § 52). Paolo VI in un discorso a Kampala aveva parlato di una vera e propria «incubazione» della verità cristiana nelle culture altrui. «Proseguendo nella metafora», possiamo dunque dire che «i missionari (parte attiva) sono coloro che penetrano nelle culture e le inseminano, facendo in modo che il germe attecchisca e si sviluppi in armonia con il Vangelo e con la chiesa universale» (Remotti 2011: 56).
Il fine è pur sempre quello chiarito in maniera indiscutibile nell’Ad gentes, ossia entrare nelle culture, separare ciò che è compatibile con il messaggio evangelico da ciò che non è compatibile, al fine di costruire «l’uomo nuovo», come era stato predicato nelle lettere di san Paolo e come ritorna più volte nell’enciclica citata (par. 8, 11, 12, 21).
Nell’Ad gentes si afferma in modo inequivoco che la costruzione dell’umanità nuova è non soltanto «compito imprescindibile» della Chiesa, ma anche suo «sacrosanto diritto».
Leggiamo in Ad gentes (par. 8): «“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). E poiché chi non crede è già condannato (Gv 3, 18), è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di condanna e di grazia, di morte e di vita. Soltanto facendo morire ciò che è vecchio possiamo pervenire al rinnovamento della vita.
E ancora: «La ragione dell’attività missionaria discende dalla volontà di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 4-6), e «non esiste in nessun altro salvezza» (At 4, 12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo (par. 7).
I missionari che avevano rimbrottato il vecchio giudice seguivano esattamente queste linee dell’Ad gentes. Conoscevano le culture indigene, ma di fronte al «piano divino nel mondo e nella storia», di cui «l’attività missionaria non è altro che la manifestazione, cioè l’epifania e la realizzazione» (par. 9), le culture – come il vecchio giudice catechista – devono recedere: devono lasciarsi trasformare in un campo da inseminare.
Vangelo ed evangelizzazione: alcuni dilemmi
A me pare di trovarmi in un altro momento storico rispetto al Concilio Vaticano II. Come pure sostiene Mario Menin nel suo libro, «a cinquant’anni dalla fine del concilio (1965), la missione è molto cambiata» (Menin 2016: 121). L’idea della plantatio ecclesiae – così evidente, a mio parere, in tutta la prima parte dell’Ad gentes, dove in effetti si parla espressamente di plantatio Ecclesiae in populis (par. 6) – è stata in gran parte accantonata: la nuova idea di missione conosce la «svolta antropologica […] della teologia del Novecento» e l’inculturazione o l’inreligionizzazione sono concepite quali procedure di un’attività missionaria che «accetta il mondo, le religioni e le culture come interlocutori» (Menin 2016: 122). Le cose ovviamente non sono così semplici: alla base vi è pur sempre il «tormentato rapporto Vangelo-culture» (2016: 139).
Se le culture diventano protagoniste o coprotagoniste, se alle culture indigene si riconosce un ruolo attivo, che ne è del Vangelo? Possono ancora il Vangelo e la conseguente evangelizzazione essere considerati come fattori indipendenti, come manifestazione di una verità assoluta, che prescinde dai contesti storici e culturali, oppure Vangelo ed evangelizzazione sono anch’essi manifestazioni e realizzazioni culturali dell’umanità?
Vangelo e culture, una distanza che si riduce
Le relazioni tenute al Convegno dei missionari e missionarie della Consolata (Roma, 14-18 ottobre 2019) non sono giunte dichiaratamente a questi esiti. Tuttavia, l’insistenza sui temi del dialogo e della condivisione; dell’incontro e dell’apertura; del convivere anziché del convertire; della necessità dell’apprendimento dalla cultura di coloro che coltivano altre credenze; della valorizzazione dei loro saperi e della loro peculiare e intrinseca spiritualità; della compenetrazione reciproca; dell’armonizzazione intima e paritaria tra Vangelo e saggezza indigena; delle opportunità di sintesi tra cristianesimo e religioni sconosciute e senza nome; dell’interculturalità come linguaggio polifonico; dell’ascolto del pensiero altrui provvedendo a una sospensione (epoché) dei propri criteri di giudizio e delle proprie convinzioni; del considerare e rendere gli indigeni protagonisti dell’attività missionaria; del ricercare un percorso condiviso così da non convivere solamente e limitarsi a stare insieme, bensì camminare insieme; del ricercare insieme, umilmente e fattivamente, forme più proponibili di umanità; del progettare insieme, in forma collaborativa, un futuro migliore per l’umanità – l’insistenza su questi temi fa capire che il discidium tra Vangelo e cultura, che per Paolo VI era «senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, par. 20 – Denzinger 2003: 4578), tende ad attenuarsi.
La distanza tra Vangelo e cultura appare assai meno accentuata: non sono più le culture a dover essere evangelizzate (§ 2); è anche il vangelo che potrebbe presentarsi come una cultura: una cultura a cui si vuole essere fedeli e tuttavia una cultura umana in mezzo ad altre culture umane.
Molti missionari nelle loro relazioni hanno posto in luce come la convivenza e l’interazione con le culture indigene abbiano plasmato la loro esistenza, abbiano mutato in senso positivo le loro convinzioni di partenza. Non ho mai sentito nessuno esprimere a tal proposito la preoccupazione avanzata da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio, il quale metteva in guardia circa «i pericoli di alterazione che si sono a volte verificati», con la rinuncia alla «propria identità culturale», coincidente con il Vangelo e la verità cristiana (par. 53). Allo stesso modo, in nessuna relazione a cui ho assistito mi pare sia emersa la convinzione, presente invece nella stessa enciclica, secondo cui le culture umane, in quanto prodotte dall’uomo, sono inevitabilmente «segnate dal peccato» (par. 54): una definizione negativa e svalutativa delle culture umane, le quali hanno manifestamente bisogno di un programma di salvazione dal peccato per essere utili all’umanità. Al contrario, ho sentito dire che Dio è presente in quei luoghi, nelle loro culture, nelle loro forme di umanità.
Che fare (se rimane un po’ di tempo)?
Nelle relazioni ho avvertito un senso di urgenza. Il riferimento costante all’enciclica di papa Francesco Laudato si’, alla visione di un’ecologia integrale, al tema di un’interconnessione tra le culture umane e tra la cultura e la natura, esprimeva la necessità di dare luogo a una visione comune e condivisa, un sapere alla cui costruzione contribuiscano tanto il Vangelo quanto molte altre culture e religioni. Il mito del progresso, con cui un tempo missionari e antropologi pretendevano di indicare la via di salvezza per l’intera umanità, si è tramutato nello spettacolo immondo di una terra devastata, dove è in pericolo l’umanità stessa, oltre che molte altre specie naturali. Su questi temi molte società frequentate dai missionari e indagate dagli antropologi hanno da tempo richiamato l’attenzione di noi occidentali, noi «popolo della merce» dalla vista corta, accecati dalla nostra avidità, come lo sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha apostrofati (Kopenawa e Albert 2018).
Non è più tempo di divisioni. Se ancora rimane un po’ di tempo, è bene che lo impieghiamo a costruire davvero una «nuova umanità», recuperando saggezza e lungimiranza da ogni parte esse possano provenire: dai testi sacri delle religioni più importanti, tanto quanto dalle culture più lontane e dalle religioni senza nome e notorietà. A questa impresa reputo che si sentano chiamati sia gli antropologi, allorché concepiscono la loro professione come un salvataggio conoscitivo delle forme di umanità più diverse (anche le più problematiche e inquietanti), sia i missionari, i quali con la loro presenza nei luoghi più lontani e più difficili intendono dimostrare che la collaborazione tra esseri umani è possibile e perseguibile, nonostante le differenze culturali e nonostante i conflitti, le lacerazioni, le degradazioni. Forse proprio questa è l’idea di missione più condivisa, quale è emersa dal Convegno, ossia un comune e partecipato impegno antropo-poietico (Remotti 2013), proprio quando si assiste ai disastri umani e naturali di un «incivilimento» forsennato.
Fratel Antonio Soffientini, missionario comboniano, ha affermato che prima i missionari camminavano insieme ai civilizzatori, ora invece camminano insieme alle vittime della civiltà. Anche per questo, mi sembra di poter dire che antropologi e missionari si ricongiungono su una stessa sponda. Abbandonati i miti e le certezze di un tempo, si ritrovano infine nella stessa barca, insieme a coloro che, costretti a fuggire dalle loro terre, si ostinano disperatamente a spingere lo sguardo verso un futuro migliore.
Francesco Remotti
Fonti bibliografiche
Francesco Remotti, Etnografia Nande, Il Segnalibro, Torino 1993.
Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996.
Francesco Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2004.
Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Roma-Bari 2013.
Mario Menin, Missione, Cittadella Editrice, Assisi (Perugia) 2016.
Davi Kopenawa – Bruce Albert, La caduta del cielo, Nottetempo, Milano 2018.
John Beattie, Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Editori Laterza, Roma-Bari 1973.
Gérard Leclerc, Antropologia e colonialismo. L’Occidente a confronto, Jaka Book, Milano 1973.
Alfonso Maria Di Nola, Antropologia religiosa, Vallecchi Editore, Firenze 1974.
Silvano Sabatini – Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia, Ediesse, Roma 2011.
Hanno firmato questo dossier:
Francesco Remotti – Antropologo e professore universitario, tra i vari incarichi ricoperti è stato direttore del dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino. Si è occupato soprattutto di Africa equatoriale. Ha condotto ricerche in Congo Rd presso la popolazione Nande. È autore di numerosi libri tra cui i più recenti sono: Per un’antropologia inattuale (2014), Somiglianze. Una via per la convivenza (2019).
Stefania Raspo – Missionaria della Consolata, quarantatreenne, piemontese di nascita, boliviana di adozione. Dal 2013 vive a Vilacaya, nel dipartimento di Potosí, in Bolivia, in una regione contadina di lingua quechua. Laureata in filosofia e in teologia, sta studiando antropologia con un corso a distanza dell’Università cattolica boliviana.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
L’ad gentes della cooperazione
testo di Chiara Giovetti |
Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020, cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.
1. Costa D’Avorio
La malattia mentale, terra di nessuno della sanità
«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.
Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».
Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.
In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.
«Chi li aiuterà se non voi?»
In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».
A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.
Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.
«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».
Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.
Formare operatori
ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».
Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.
2. Kenya, il biogas
Energia pulita per le scuole
La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.
I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.
Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.
Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.
I vantaggi del biogas
«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».
Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.
Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.
Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.
Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.
Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.
Bambini sradicati
«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.
Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.
Chiara Giovetti
Qual buon «Venti»
testo di Chiara Giovetti |
Nel 2020 arrivano a scadenza o vengono lanciate diverse iniziative internazionali che riguardano lo sviluppo, l’ambiente, il clima. È anche l’anno internazionale delle piante e di un importante compleanno dell’Onu.
Nel 2020 le Nazioni unite compiranno tre quarti di secolo. L’Onu nacque infatti ufficialmente 75 anni fa, il 24 ottobre 1945, con l’entrata in vigore della «Carta delle Nazioni unite», il suo trattato fondativo.
Per celebrare la ricorrenza, ha annunciato il segretario generale António Guterres, l’Onu lancerà un dibattito che si chiamerà Un75@ e sarà «la più ampia e approfondita conversazione globale mai realizzata sulla costruzione del futuro che vogliamo». Tutti possono partecipare, si legge sul sito, in modo formale o informale, online o no.
Nel contempo saranno condotti sondaggi di opinione e analisi dei mezzi di comunicazione a livello globale, così da ottenere dati statisticamente significativi per diffonderli e portarli all’attenzione dei leader mondiali.
Fra le questioni più urgenti che il dibattito affronterà vi sono le nuove tecnologie con tutte le loro opportunità e i pericoli, il modo in cui si sono evoluti i conflitti e come affrontarli, l’aumento delle diseguaglianze e la necessità di chiudere la forbice, i cambiamenti demografici – con un pianeta che si prepara a passare dagli attuali 7,7 miliardi di abitanti ai 9,7 del 2050 – e il cambiamento climatico.
Per capirci: sarà nel 2030 che il mondo potrà fare una valutazione sul raggiungimento degli obiettivi come si fece nel 2015 per gli Mdg (Millennium development goals, obiettivi del millennio). Tuttavia, ventuno sotto obiettivi, su 169, hanno come scadenza il 2020 (vedi i due box). Di questi, dodici riguardano la biodiversità e sappiamo già che non saranno raggiunti.
Secondo un rapporto del Wwf@, questi dodici obiettivi sono cruciali per il complessivo successo degli Sdg perché riguardano il mantenimento e il ripristino di risorse naturali da cui l’umanità dipende per sopravvivere. Ogni anno, si legge nel rapporto, gli ecosistemi forniscono all’economia globale un valore pari a 125 mila miliardi – una volta e mezzo il Pil del pianeta – sotto forma di acqua potabile, cibo, aria, assorbimento del calore, suoli produttivi, foreste e oceani che assorbono anidride carbonica. Proteggere l’ambiente e ristabilire le risorse naturali, quindi è – letteralmente – una questione vitale. Il cambiamento climatico è poi un altro tema centrale del nostro tempo e promette di prendere quest’anno ancora più spazio. È vero che il mondo si è dato tempo fino al 2030 per realizzare un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica, necessario per contenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo in questo secolo. Ma, fa presente Mission 2020, il gruppo di pressione guidato dalla ex segretaria esecutiva della «Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici», Christiana Figueres, se nel 2020 si riuscisse davvero a bloccare il picco delle emissioni (e cominciare quindi a ridurle) questo renderebbe il meno costosa possibile la transizione verso un’economia libera dai combustibili fossili entro il 2050@.
Si conclude con quest’anno anche il programma Horizon 2020, il più ampio programma mai lanciato dall’Unione europea nel settore della ricerca e dell’innovazione. Realizzato negli anni dal 2014 al 2020, ha messo a disposizione circa 80 miliardi di euro «con lo scopo di assicurare che l’Europa produca scienza di livello mondiale, rimuova le barriere all’innovazione e renda più facile la collaborazione fra settore pubblico e privato nel fare innovazione».
Horizon 2020 ha avuto anche una componente legata alla cooperazione internazionale che si è rivolta a paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l’Ue ha finanziato partner appartenenti all’Unione africana con quasi 124 milioni di euro (meno dello 0,02% del totale) e i paesi più attivi sono stati Sudafrica, Kenya, Marocco, Tunisia ed Egitto.
Horizon 2020 ha anche sostenuto con 6 milioni di euro gli studi clinici sul vaccino contro l’ebola. Il programma di test è guidato dal ministero della Sanità e dall’Istituto nazionale di ricerca biomedicale della Repubblica democratica del Congo e vede la collaborazione di partner internazionali fra cui la London School of Hygiene and Tropical Medicine e Médecins Sans Frontières@.
L’anno delle piante
Il 2020 è inoltre l’«Anno internazionale per la salute delle piante»@, una celebrazione che a detta delle Nazioni unite, rappresenta un’occasione unica «per accrescere la consapevolezza globale su come proteggere la salute delle piante possa aiutare a metter fine alla fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico».
La Fao stima che gli organismi nocivi e le malattie delle piante provochino ogni anno la perdita di circa il 40% delle colture sul pianeta, lasciando milioni di persone prive di cibo e danneggiando l’agricoltura, che rimane la fonte principale di sussistenza delle comunità rurali. Il danno complessivo è stimato in 220 miliardi di dollari in perdite commerciali di prodotti agricoli. Le iniziative dell’anno internazionale si concentreranno perciò principalmente su come evitare che le malattie e i parassiti si diffondano.
Le piante producono l’80% del cibo che mangiamo e il 98% dell’ossigeno che respiriamo, si legge sul sito nella lista dei dati essenziali sulla salute delle piante. Sempre la Fao stima che la produzione agricola debba aumentare del 60% entro il 2050 per nutrire una popolazione mondiale che sarà più numerosa e generalmente più ricca.
Ma a minacciare le piante ci sono il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature, che riducono la disponibilità di acqua e cambiano le relazioni fra parassiti, piante e patogeni facendo apparire organismi nocivi dove non si erano mai visti prima.
A non sparire ma, al contrario, a crescere rigogliosi dovrebbero essere invece gli alberi della Liberia, che potrebbe diventare nel 2020 il primo paese africano ad essersi liberato del problema della deforestazione. In cambio di 150 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo messi a disposizione dalla Norvegia, la Liberia ha infatti accettato nel 2014 di smettere di tagliare gli alberi e di mettere il 30% delle proprie foreste sotto vincolo ambientale. Alla fine del 2020 sarà possibile dire se l’obiettivo è stato effettivamente raggiunto@.
Nel frattempo, la Norvegia ha offerto il proprio aiuto anche al Gabon@. Si tratta sempre di 150 milioni di dollari destinati attraverso un programma delle Nazioni unite che si chiama Redd+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) e che promuove iniziative in grado di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste.
Chiara Giovetti
SDG generali in scadenza
3.6 Entro il 2020, dimezzare il numero globale di morti e feriti a seguito di incidenti stradali.
4.B Espandere considerevolmente entro il 2020 a livello globale il numero di borse di studio disponibili per i paesi in via di sviluppo, specialmente nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari e negli stati africani, per garantire l’accesso all’istruzione superiore – compresa la formazione professionale, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i programmi tecnici, ingegneristici e scientifici – sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.
8.6 Ridurre entro il 2020 la quota di giovani disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di studio o formazione.
8.B Sviluppare e rendere operativa entro il 2020 una strategia globale per l’occupazione giovanile e implementare il Patto globale per l’occupazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro.
9.c Aumentare in modo significativo l’accesso alle tecnologie di informazione e comunicazione e impegnarsi per fornire ai paesi meno sviluppati un accesso a Internet universale ed economico entro il 2020.
11.B Entro il 2020, aumentare considerevolmente il numero di città e insediamenti umani che adottano e attuano politiche integrate e piani tesi all’inclusione, all’efficienza delle risorse, alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici, alla resistenza ai disastri, e che promuovono e attuano una gestione olistica del rischio di disastri su tutti i livelli, in linea con il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri 2015-2030.
17.11 Incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti e, entro il 2020, raddoppiare la quota delle loro esportazioni globali.
17.18 Entro il 2020, rafforzare il sostegno allo sviluppo dei paesi emergenti, dei paesi meno avanzati e dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo (SIDS). Incrementare la disponibilità di dati di alta qualità, immediati e affidabili andando oltre il profitto, il genere, l’età, la razza, l’etnia, lo stato migratorio, la disabilità, la posizione geografica e altre caratteristiche rilevanti nel contesto nazionale.
SDG ambientali in scadenza
2.5 Entro il 2020, mantenere la diversità genetica delle sementi, delle piante coltivate, degli animali da allevamento e domestici e delle specie selvatiche affini […].
6.6 Entro il 2020 proteggere e ripristinare gli ecosisstemi legati all’acqua, comprese montagne, foreste, paludi, fiumi, falde acquifere e laghi.
12.4 Entro il 2020, raggiungere la gestione eco-compatibile di sostanze chimiche e di tutti i rifiuti durante il loro intero ciclo di vita […].
13.A Rendere effettivo l’impegno […] che prevede la mobilizzazione – entro il 2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, […] e rendere pienamente operativo il prima possibile il Fondo verde per il clima […].
14.2 Entro il 2020, gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero […].
14.4 Entro il 2020, regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi […].
14.5 Entro il 2020, preservare almeno il 10% delle aree costiere e marine […].
14.6 Entro il 2020, vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi […].
15.1 Entro il 2020, garantire la conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra nonché dei loro servizi, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride […].
15.2 Entro il 2020, promuovere una gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione, ripristinare le foreste degradate e aumentare ovunque, in modo significativo, la riforestazione e il rimboschimento.
15.5 Intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali, arrestare la distruzione della biodiversità e, entro il 2020, proteggere le specie a rischio di estinzione.
15.8 Entro il 2020, introdurre misure per prevenire l’introduzione di specie diverse e invasive nonché ridurre in maniera sostanziale il loro impatto sugli ecosistemi terrestri e acquatici e controllare o debellare le secie prioritarie.
15.9 Entro il 2020, integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà.
Tutti «a casa loro», ma quale casa?
Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.
«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.
L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.
Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.
È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».
Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.
I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.
Come si finisce in strada o in una baraccopoli?
I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.
A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.
Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.
Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.
Perdere la casa per gli eventi naturali
C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.
Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.
Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.
Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.
Chiara Giovetti [continua a dicembre]
Il nostro impegno con i ragazzi di strada
Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione)è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.
La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.
Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.
Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo
Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.
Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.
Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.
Aiutarli a casa loro:
dalle parole ai fatti
Testo di Chiara Giovetti |
Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.
Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.
Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.
Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.
La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.
A che punto siamo
Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.
Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.
Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.
Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.
Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.
D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.
Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.
L’OverseasDevelopment Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.
In un rapporto del settembre 2018@l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.
Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.
È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.
Le spinte in senso contrario
Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.
Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.
Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.
Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’AfricaProgress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.
Più sviluppo meno migrazione?
Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.
È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.
Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.
Chiara Giovetti
Popoli indigeni e alfabetizzazione
In agosto e settembre cadono due ricorrenze che riportano l’attenzione su due temi mai come oggi attuali: la giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo (9 agosto) e la giornata internazionale dell’alfabetizzazione (8 settembre).
Era il 1994 quando le Nazioni Unite hanno fissato nel 9 agosto la giornata internazionale dei popoli indigeni. È stato scelto questo giorno perché in esso cade l’anniversario della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni, che aveva avuto luogo nel 1982.
Di fatto, l’ingresso delle popolazioni indigene fra i temi all’attenzione dell’Onu è storicamente avvenuto attraverso la porta dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) che si occupa dei popoli indigeni sin dagli anni Venti, quando l’organizzazione «madre» non era ancora l’Onu, bensì la Lega delle Nazioni.
Il motivo per cui l’Ilo, a suo tempo, ha portato alla ribalta il tema indigeno è che una serie di studi sui lavoratori rurali avevano mostrato come gli indigeni rappresentassero, all’interno di questa categoria, un gruppo piuttosto significativo e altrettanto discriminato.
Uno dei primi aspetti che le organizzazioni internazionali hanno tentato di affrontare è stato quello della definizione di popoli indigeni. Un primo contributo sostanziale è stato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione in New York il 13 settembre 2007@.
Poi, in un rapporto del 22 novembre 2017, Decent Work for Indigenous and Tribal Peoples in the Rural Economy@, l’Ilo ricorda che: «Non esiste una definizione universale di popoli indigeni e tribali, ma la Convenzione Ilo sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989, N. 169, fornisce un insieme di criteri soggettivi e oggettivi che vengono applicati congiuntamente per identificare chi sono questi popoli in un determinato paese».
Il criterio soggettivo sia per i popoli indigeni che per quelli tribali è il sentimento di appartenenza, cioè il sentirsi parte di un gruppo. I criteri oggettivi sono poi, nel caso dei popoli indigeni, il fatto di discendere da popoli che abitavano in quella zona all’epoca della colonizzazione, della conquista o della definizione degli attuali confini dello stato. A questo si aggiunge un secondo criterio oggettivo, cioè il fatto di conservare in tutto o in parte le proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche, a prescindere da quale sia il loro status giuridico.
Chi è indigeno?
I criteri oggettivi riguardanti i popoli tribali, invece, sono il fatto di avere condizioni sociali, culturali ed economiche che li distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale e l’avere uno status regolato in tutto o in parte dalle loro consuetudini e tradizioni o da leggi o regolamenti speciali.
Il rapporto del 2017 precisa, inoltre, che «data la diversità dei popoli che cerca di proteggere, la Convenzione usa la terminologia inclusiva di popoli “indigeni” e “tribali” e attribuisce a entrambi lo stesso insieme di diritti. Ad esempio, in alcuni paesi latino-americani il termine “tribale” è stato applicato ad alcune comunità afro discendenti».
La Convenzione, si legge sul sito di Survival, una delle organizzazioni più attive nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, è importante perché «riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. […] riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette». A oggi è stata ratificata da 22 stati prevalentemente latinoamericani e, fra gli europei, solo da Danimarca, Olanda, Norvegia e Spagna.@
Per fare alcuni esempi, e limitandosi ad alcuni dei popoli con i quali i missionari della Consolata lavorano, sono identificati come popoli indigeni: i Pigmei in Rd Congo, i Turkana, i Samburu, i Masaai in Kenya, gli Yanomami, i Makuxì in Brasile, i Guarani-Kaiowá, i Toba, i Tupi-Guarani in Argentina.
Un quadro complesso e variegato, dunque, come lo è la realtà dei popoli indigeni ai quali ad oggi appartengono circa 370 milioni di persone che vivono in 90 stati e parlano una larga maggioranza delle lingue del mondo, le quali, secondo le Nazioni Unite, sono tra 6.000 e 7.000.
Ma ci sono anche alcuni elementi che accomunano la condizione delle popolazioni indigene: il rapporto Ilo indica che queste costituiscono il 5% della popolazione del pianeta ma al tempo stesso rappresentano il 15% dei poveri del mondo e la loro aspettativa di vita, riporta il Programma Onu (Undp) per lo sviluppo, è di 20 anni più bassa rispetto ai non indigeni@. Sono loro che si prendono cura di circa un quinto della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità rimanente sulla Terra.
Quest’anno, la giornata del 9 agosto fa da preludio a una serie di iniziative che si terranno nei mesi successivi. Infatti, il 2019 è stato dichiarato Anno internazionale delle lingue indigene@.
«Nonostante il loro valore immenso», si legge nel Piano d’azione per l’organizzazione dell’anno internazionale, «le lingue di tutto il mondo continuano a scomparire a tassi allarmanti. […] Secondo il Forum permanente sulle questioni indigene, non meno del 40% delle circa 6/7.000 lingue parlate nel 2016 rischiavano di scomparire. Il fatto che molte di queste sono le lingue indigene mette a rischio le culture e i sistemi di conoscenza a cui appartengono quelle lingue».
Altro evento che vedrà come protagonisti i popoli indigeni sarà nell’ottobre 2019 il Sinodo sull’Amazzonia. Nella presentazione del documento di preparazione all’Assemblea speciale per la Regione Panamazzonia si insiste molto sulla «urgenza dell’ascolto», sulla imprescindibilità dell’ascoltare i popoli che abitano l’Amazzonia e i popoli indigeni in particolare@ (cfr. MC luglio 2018).
Alfabetizzazione, va meglio ma non basta
L’8 settembre si celebra la giornata internazionale dell’alfabetizzazione. Nel 2017 Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, aveva diffuso alcuni dati statistici aggiornati@: il tasso di alfabetizzazione globale fra le persone da 15 anni in su aveva raggiunto l’86%, dato che aumentava al 91% se si considerava solo la fascia d’età fra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, sottolineava Unesco, 750 milioni di persone nel mondo erano analfabete e due terzi di queste erano donne, mentre i giovani fra 15 e i 24 anni non in grado di leggere e scrivere erano 102 milioni.
I tassi più bassi di alfabetizzazione si registrano nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e sono inferiori al 50% in venti paesi: Afghanistan e Iraq in Asia; Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan, in Africa, e Haiti in America Latina.
Quanto ai bambini in età da scuola primaria e secondaria fino a 14 anni, secondo i dati 2016 non sono a scuola 63 milioni fra i 6 e gli 11 anni e 61 milioni fra i 12 e i 14 anni. Non solo: fra quelli in classe il problema è la qualità dell’insegnamento. Secondo un rapporto Unesco del 2014 i cui dati sono tuttora citati@, dei 650 milioni di bambini delle scuole primarie 250 milioni non stanno imparando in modo sufficiente le basi della lettura e della matematica. Di questi, quasi 120 milioni non sono arrivati alla quarta classe, mentre i restanti 130 milioni sono a scuola ma non hanno raggiunto gli standard minimi di istruzione. Questi bambini, precisa il rapporto, spesso faticano a capire una frase elementare e non hanno una preparazione adeguata per il passaggio alla scuola secondaria.
Anche nell’ambito dell’alfabetizzazione e dell’istruzione i popoli indigeni sono spesso penalizzati rispetto agli altri membri della comunità nazionale in cui vivono. Le principali cause sono la carenza di adeguate strutture e di personale qualificato nelle aree indigene e anche il mancato rispetto delle specificità delle culture nei programmi scolastici e nei metodi di insegnamento. Tutto questo fa sì che l’istruzione per i popoli indigeni sia non solo difficilmente accessibile ma anche espressione di una cultura imposta e lontana da loro.
I progetti dei missionari della Consolata
L’etno educazione è un ambito nel quale alfabetizzazione e cultura indigena trovano un terreno comune. Padre Corrado Dalmonego, che dal 2010 segue diverse attività di etno educazione con gli Yanomami del Catrimani (Roraima, Brasile), riporta che gli obiettivi dell’etno educazione sono quelli di «costruire con le comunità un processo specifico, differenziato, interculturale e bilingue, a partire dalle conoscenze e da una pedagogia propri. L’etno educazione non si riduce solo alla scuola, e neppure solamente all’alfabetizzazione; nasce dal modo di essere Yanomami e si espande attraverso tutte le relazioni interetniche».@
Iniziative che vanno in questa direzione sono in corso anche nella terra indigena di Raposa Serra do Sol, sempre in Brasile, ad esempio a Linha Seca, dove padre Joseph Musito ha seguito la realizzazione delle aule per la scuola Indio Luiz. «Questa scuola», scrive padre Joseph, «non ha solo il ruolo di trasmettere agli alunni le conoscenze sulla società moderna, ma anche la storia e i valori tradizionali attraverso i racconti orali, i canti, le danze, il disegno, le consuetudini e la lingua indigena».
Quanto alle iniziative con i popoli indigeni dell’Africa, ricordiamo la scuola itinerante che padre Andrés García Fernández sta portando avanti a Bayenga, nel Congo Rd, con i pigmei Bambuti@. Si tratta di un percorso prescolare rivolto ai bambini di 33 insediamenti nella foresta, realizzato «con metodi il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti» (cfr. MC giugno ‘17).
Al di là dell’ambito dell’istruzione, poi, il lavoro dei missionari della Consolata con i popoli indigeni consiste anche nell’accompagnare le comunità nel loro sforzo di mettersi in relazione con la cultura dominante senza esserne travolte. È il caso, ad esempio, dei progetti di promozione dell’artigianato Warao o delle attività generatrici di reddito legate alla sartoria nella zona di Tucupita, in Venezuela (vedi MC luglio 2018).
Altra iniziativa che ha come principale obiettivo quello della promozione, valorizzazione e difesa della cultura indigena è il Centro di documentazione Indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista, Brasile. Fratel Carlo Zacquini, veterano della missione in Roraima, vi ha riunito le testimonianze e i materiali che, insieme a diversi suoi confratelli, ha raccolto in 53 anni di lavoro con gli Yanomami.
Infine, vale la pena di citare un’iniziativa di alfabetizzazione non legata a popoli indigeni ma attiva in uno dei paesi con tassi di analfabetismo intorno al 50%. A Dianrà, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata organizzano corsi rivolti a circa 220 persone fra adulti e bambini in abbandono scolastico. Si svolgono presso i locali della missione della Consolata e nell’apatam (paillote) costruito a questo scopo in un villaggio vicino. Anche Marandallah, la missione a 80 chilometri da Dianra, ha realizzato progetti dedicati a chi non ha potuto ricevere un’istruzione scolastica o ha dovuto interromperla: fra il 2013 e il 2015 grazie al sostegno dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) è stato possibile costruire degli apatam e dotarli di impianto fotovoltaico.
Chiara Giovetti
Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione
testo di Chiara Giovetti |
A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.
«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.
E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.
Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.
C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.
A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».
Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.
Le richieste di Trump e la reazione del Congresso
Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.
Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.
Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.
«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.
Tagli effettivi
Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.
A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».
Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».
«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».
L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit
Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).
Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.
La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».
Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».