L’intelligenza artificiale potrebbe aiutarci a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 e a contrastare il cambiamento climatico. A patto, però, che l’energia e l’acqua necessarie per farla funzionare non peggiorino il problema più di quanto lo risolvano.
L’intelligenza artificiale (Ia) può aiutare a prevedere carestie e inondazioni, a usare l’acqua in modo più efficiente, a monitorare e tagliare le emissioni di gas serra, a ridurre la mortalità materna e infantile e le disparità di genere, a colmare le lacune nella raccolta dei dati a livello globale e a fare molte altre cose utili al raggiungimento degli obiettivi si sviluppo sostenibile (acronimo inglese: Sdg) dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
A patto, però, di trovare modi efficaci per renderla sicura, inclusiva e sostenibile.
Lo hanno affermato lo scorso maggio a Ginevra al vertice mondiale Ai for Good@ sia il segretario generale Onu António Guterres – l’intelligenza artificiale può «mettere il turbo allo sviluppo sostenibile» -, sia Doreen Bogdan-Martin, la segretaria generale dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu, nell’acronimo inglese), l’agenzia Onu per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Bogdan-Martin ha riconosciuto il ruolo potenziale dell’Ia nel «salvare gli Sdg», ma ha anche ricordato che un terzo degli abitanti del mondo, cioè 2,6 miliardi di persone, rimane privo di connessione ed «escluso dalla rivoluzione dell’Ia».
L’intelligenza artificiale è affamata di elettricità e assetata di acqua, ha poi spiegato nel suo intervento Tomas Lamanauskas, il vice di Bogdan-Martin: quando si parla di clima, si è chiesto Lamanauskas, le tecnologie basate sull’intelligenza artificiale sono parte del problema o ci aiuteranno a trovare una soluzione?@
L’Ia per clima e sviluppo
Queste tecnologie, ha detto Lamanauskas, hanno un potenziale evidente nel contribuire a identificare soluzioni per affrontare la crisi climatica: possono, ad esempio, rilevare e analizzare cambiamenti anche minimi degli ecosistemi, e aiutare a pianificare le attività per la loro conservazione, monitorare le aree danneggiate dalla deforestazione, aumentare l’efficienza energetica e ridurre gli sprechi.
Secondo uno studio del Boston consulting group, società di consulenza con sede a Boston, Usa, l’uso dell’Ia potrebbe aiutare a realizzare un taglio delle emissioni di anidride carbonica fra il 5 e il 10%. Per dare una misura, si tratta di una quota non lontana da quella prodotta oggi dall’Unione europea. Anche nell’adattamento ai cambiamenti climatici le tecnologie basate sull’Ia potrebbero aiutare le città a individuare meglio le aree vulnerabili e a fornire stime realistiche sui costi che le amministrazioni cittadine dovrebbero affrontare se non agiscono in tempo.
Ad esempio, lo scorso aprile Preventionweb, un servizio dell’Ufficio Onu per la riduzione del rischio di disastri, riportava@ i risultati promettenti ottenuti da alcuni studiosi del California institute of technology nel prevedere con un anticipo fra i 10 e i 30 giorni le piogge monsoniche dell’Asia meridionale. I ricercatori hanno affiancato l’apprendimento automatico alla più tradizionale modellistica numerica (l’uso cioè di modelli matematici per simulare ciò che avviene nell’atmosfera), ottenendo un modello che si è mostrato più preciso e attendibile. Capire e prevedere meglio il comportamento dei monsoni è importante per i contadini di Paesi come India, Pakistan, Bangladesh, che devono programmare il raccolto, e per le autorità locali, che possono prepararsi per tempo a eventuali inondazioni. Ma anche per chi studia i fenomeni climatici a livello globale, poiché i monsoni hanno un’influenza sul clima del pianeta. Quanto al contributo potenziale dell’intelligenza artificiale allo sviluppo sostenibile, proprio l’Unione internazionale delle telecomunicazioni ha pubblicato di recente una lista di casi d’uso in cui l’Ia viene testata per capire quanto efficace può essere nel raggiungere gli Sdg. La selezione finale – 53 casi da 19 Paesi, scelti fra 219 casi da 38 Paesi – include progetti che usano l’Ia per fornire servizi di telemedicina in Cambogia, ottimizzare l’uso dell’acqua in agricoltura e ridurre la corruzione negli appalti pubblici in Tanzania, migliorare la salute e il benessere degli animali negli allevamenti avicoli in Rwanda e prevenire gli incendi nei terreni torbosi della Malaysia.
L’Ia ha fame di energia
Il consumo di energia da parte di centri dati (data centre) per l’Ia e il settore delle criptovalute potrebbe raddoppiare entro il 2026, passando dai circa 460 terawattora (TWh) nel 2022 a oltre mille. È un consumo di elettricità che equivale più o meno a quello del Giappone. Lo scrive nel rapporto Electricity 2024@ la Iea, Agenzia internazionale dell’energia, che riferisce anche che ci sono oggi circa 8mila centri dati nel mondo, di cui un terzo negli Stati Uniti, il 16% in Europa e il 10% in Cina. Negli Usa, 15 Stati ne ospitano l’80%, mentre in Europa si fa notare il caso dell’Irlanda che, anche grazie a un regime fiscale molto favorevole per le imprese, ha visto il settore espandersi rapidamente e oggi i centri dati hanno un consumo di energia pari a quello di tutti gli edifici residenziali urbani del Paese.
Ma che cos’è un centro dati? È uno spazio fisico dove vengono collocati i computer e i dispositivi hardware che servono per elaborare, archiviare e comunicare dati. L’intelligenza artificiale funziona e si «allena» proprio grazie alla enorme mole di dati elaborati in questi entri (necessari per internet a prescindere della Ia, che però ne aumenterà il numero, ndr). Il 40% dell’energia che usano, continua il rapporto Iea, serve per l’elaborazione dei dati, un altro 40% per il raffreddamento degli impianti e il 20% fa funzionare altre apparecchiature.
Ma, ricordava a marzo sul Financial Times@ la giornalista, politica e consulente della Commissione europea, Marietje Schaake, molti esperti del settore, a cominciare dall’amministratore delegato del laboratorio di ricerca OpenAI, Sam Altman, sono convinti che il futuro dell’intelligenza artificiale dipenda da una svolta energetica. Anche per questo, continua Schaake, le aziende tecnologiche sono diventate grandi investitrici nel settore dell’energia: «Meta scommette sulle batterie, Google punta sulle fonti di energia geotermica, Microsoft afferma di poter mantenere il suo impegno a raggiungere emissioni zero e diventare autosufficiente dal punto di vista idrico entro la fine del decennio». Tuttavia, conclude la giornalista citando Christopher Wellise, vicepresidente dell’azienda di data center Equinix, la tecnologia si sta muovendo più velocemente di quanto si sia evoluta la nostra infrastruttura.
È presto per dire quale strada prenderà il settore tecnologico per garantirsi l’energia che gli serve, ma, sottolinea il rapporto Iea, per contenere il consumo dei centri dati sarà fondamentale sia migliorare l’efficienza energetica sia promuovere una legislazione che vincoli lo sviluppo tecnologico agli obiettivi climatici.
Il dibattito oggi sembra muoversi intorno a questi aspetti: le fonti rinnovabili possono dare un grande contributo alla produzione dell’energia necessaria, ma fonti come il sole e il vento hanno il limite di essere intermittenti e di non poter garantire da sole la continuità che i centri dati richiedono. Per garantire questa continuità servono soluzioni nuove che evitino di gravare sulle reti elettriche locali e di ricorrere alle fonti fossili, e c’è anche chi, come la Svezia, ipotizza la costruzione di centri dati alimentati a energia nucleare. L’Ia, poi, può e deve avere un ruolo sia nel migliorare l’efficienza dei centri dati da cui dipende sia nel trovare soluzioni utili alla decarbonizzazione globale.
La sete dell’Ia
L’intelligenza artificiale, riferivano tre studiosi dell’Università di Amsterdam sul sito The Conversation a marzo scorso@, consuma anche molta acqua. Questa serve sia per raffreddare i server che ne sostengono la potenza di calcolo sia per produrre l’energia che li alimenta. Una stima che è circolata molto negli ultimi mesi è quella indicata nello studio di Shaloei Ren, professore di Ingegneria elettrica e informatica presso l’Università della California, Riverside, e dei suoi colleghi@, secondo cui Gpt-3 – il modello computazionale alla base del software ChatGpt – deve «bere» (cioè consumare) una bottiglia d’acqua da mezzo litro per un numero di risposte che varia fra le 10 e le 50 a seconda delle condizioni: una tradizionale ricerca su Google consuma circa mezzo millilitro di acqua.
Sempre secondo Ren, il consumo idrico nei centri dati di Google nel 2022 è aumentato del 20% rispetto all’anno precedente, mentre quelli di Microsoft hanno registrato un incremento del 34% nello stesso periodo ed è molto probabile che sia proprio l’intelligenza artificiale la causa di questi aumenti.
Il prelievo complessivo di acqua da parte di Google, Microsoft e Meta, si legge nello studio, è stimato in 2,2 miliardi di metri cubi nel 2022, equivalente a due volte il prelievo totale annuo di acqua della Danimarca e, nel 2027, potrebbe collocarsi fra i 4,2 e i 6,6 miliardi di metri cubi, pari a metà del prelievo del Regno Unito. Un altro dato che colpisce nel rapporto è quello secondo cui circa 0,18 miliardi di metri cubi sono stati persi a causa dell’evaporazione: una quantità che supera il totale prelevato in un anno dalla Liberia per i suoi 5,3 milioni di abitanti.
Proteste di chi ha sete
Diversi investitori si stanno orientando proprio verso l’Africa subsahariana@: in Kenya, ad esempio, si prevede una espansione del settore dei centri dati dai 190 milioni di dollari di valore del 2021 ai 434 milioni previsti per il 2027. L’Africa, ricorda il rapporto 2024 delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche, è però anche il continente in cui circa mezzo miliardo di persone vive in condizioni di insicurezza idrica@.
In America Latina, poi, il progetto di Google di costruire un data center in Uruguay ha scatenato forti proteste: il consumo di acqua per raffreddare i server sarebbe di 7,6 milioni di litri di acqua al giorno, pari all’uso domestico quotidiano di 55mila persone. Nel 2023 il Paese ha avuto la peggiore siccità degli ultimi 74 anni. Le autorità pubbliche hanno cercato di affrontarla prelevando acqua dall’estuario del Rio de la Plata, acqua che però ha un sapore salato ed è sconsigliata a donne incinte e persone fragili. In un’intervista al Guardian, Carmen Sosa, della Commissione uruguaiana per la difesa dell’acqua e della vita, ha detto che la siccità ha evidenziato i limiti di un modello economico dove l’80% dell’acqua va all’industria e le risorse sono concentrate in poche mani.
Non stupisce che il progetto di Google non sia stato accolto con grande entusiasmo.
Il primo rischio è che le infrastrutture inadeguate e le minori competenze nei Paesi del Sud globale portino a un ulteriore aumento del divario digitale con il Nord del mondo. Vi è poi il problema dei pregiudizi che l’intelligenza artificiale potrebbe contribuire a propagare: gli algoritmi alla base dei modelli di Ia, infatti, «imparano» e si «allenano» su dati che spesso riflettono le diseguaglianze e gli stereotipi della società e tendono a riprodurli quando vengono utilizzati, ad esempio, per la selezione del personale o per assegnare priorità nell’assistenza ai pazienti in una struttura sanitaria.
Vi sono infine i rischi legati alla violazione della privacy e dei diritti umani, come nel caso dell’uso di droni per la raccolta di immagini o delle app di riconoscimento facciale.
Da qualche anno, però, c’è una nuova catena che commercia online, la cinese Shein, che aggiunge 60mila nuovi articoli al mese e nel 2023 ha generato circa 32,5 miliardi di dollari di fatturato. Shein sembra a sua volta destinata a essere superata da Temu, piattaforma cinese di e-commerce nata a settembre 2022 e capace di generare, già nel 2023, 27 miliardi di fatturato. Shein e Temu, ha detto Lenier, sono ciò che accade quando lasciamo che l’intelligenza artificiale sia applicata a settori che stanno già distruggendo il pianeta e sfruttando le persone nelle loro catene di produzione: l’Ia permette a queste aziende di analizzare rapidamente le tendenze della moda e le preferenze dei consumatori, creare strategie di marketing iper-personalizzate e ottimizzare cicli di produzione accelerati.
Queste aziende non potrebbero produrre a un ritmo così veloce e a basso costo senza lo sfruttamento del lavoro, incluso il lavoro minorile e quello assimilabile alla schiavitù. La pressione resa possibile dall’intelligenza artificiale acuisce queste condizioni di sfruttamento.
Chiara Giovetti
Niger. Creatività al lavoro
Vi ricordate le start up di giovani nigerini di cui avevamo scritto nel marzo 2023? Avevamo incontrato alcuni protagonisti del progetto «Obiettivo lavoro», gestito da due Ong italiane. Le attività sono terminate e li abbiamo contattati per sapere come è andata.
Abbiamo parlato in video chiamata con il coordinatore del progetto Obiettivo lavoro, gestito dalla Ong Cisv in partenariato con Africa 70. Le attività, iniziate a fine 2020, consistevano nell’aiuto a start up di giovani imprenditori e a cooperative.
Moussa Arohalassi Halidou, dottorato in nutrizione, con oltre tredici anni di esperienza nel campo dello sviluppo, pare soddisfatto: «È un progetto fuori dal comune, rispetto a quelli che si trovano oggi in Niger. Gli iniziatori delle micro imprese e i membri delle cooperative sono stati responsabilizzati rispetto all’uso dei fondi, sia per gli investimenti iniziali che per le attività. Sono stati loro a studiare e proporre gli investimenti da fare. Noi, équipe di progetto, abbiamo verificato la fattibilità delle loro idee».
Responsabili della gestione finanziaria, dunque, ma anche della scelta dei fornitori e del rapporto con i clienti.
Soddisfazioni
Per quanto riguarda le micro imprese, l’équipe di progetto ha fatto una selezione delle 36 migliori idee di start up, su circa 500 domande ricevute. È stato quindi dato un appoggio formativo nelle materie della gestione d’impresa e dell’amministrazione. Ogni start up ha poi ottenuto un pacchetto di fondi (tra i 5 e i 6mila euro) per gli investimenti iniziali, ricevuti a rate dopo aver presentato un pano aziendale soggetto ad approvazione.
Quindi, l’équipe del progetto è rimasta al fianco di imprenditrici e imprenditori in una forma permanente di tutoraggio. «Noi siamo stati lì a verificare quello che le micro imprese facevano, per orientarle e dare consigli», continua Moussa, soddisfatto dei risultati. «Il progetto Obiettivo lavoro ha permesso a molte micro imprese di partire. Non esistevano, e il progetto le ha accompagnate a formalizzarsi, e poi a cominciare le loro attività».
Oggi però il progetto è terminato, e il tempo di accompagnamento è scaduto: «Avere a disposizione un periodo più lungo per accompagnare le start up aiuterebbe gli imprenditori a ridurre certe difficoltà che devono affrontare per portare le imprese a realizzare un maggiore volume di affari e quindi creare impiego.
Questo è uno degli obiettivi del progetto: creare lavoro per giovani e donne. Lo abbiamo raggiunto con le cooperative, ma non ancora con le micro imprese. Ogni start up dovrebbe creare dai due ai tre posti. Purtroppo, a fine progetto, non c’erano ancora questi numeri. È qualcosa che si vede sul medio lungo termine: quando una micro impresa decollerà, allora assumerà personale».
Difficoltà
Ma le difficoltà non sono mancate, come ricorda il coordinatore. A partire dal colpo di Stato del 26 luglio dello scorso anno (cfr MCnotizie. Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel), e dalle conseguenti sanzioni imposte dalla Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che hanno bloccato il sistema finanziario nigerino. Ricorda Moussa: «Le sanzioni internazionali hanno reso più complesso l’arrivo dei fondi dall’Italia, ma anche i versamenti delle rate alle singole micro imprese, che poi dovevano realizzare, esse stesse, gli investimenti, ad esempio per l’acquisto di macchinari o di materiali. Tutto questo ha complicato il programma».
Inoltre, occorre ricordare che in tutta l’area del Sahel, imperversano diversi gruppi armati jihadisti, rendendo insicuri vasti territori. «Il Paese non è totalmente stabile e ci sono zone nelle quali sono frequenti gli attacchi da parte di gruppi armati. Le cooperative e le micro imprese nella regione di Tillaberi hanno avuto questo problema, mentre quelle nella capitale Niamey e a Zinder non sono state toccate».
Gli chiediamo come hanno proceduto: «Le nostre équipe non potevano visitare i partner, seguirli e dare loro consigli perché era troppo pericoloso. Per i momenti di formazione e le riunioni facevamo venire i responsabili a Niamey. Inoltre, in alcune zone, le strutture esistenti, come uffici e magazzini, sono state saccheggiate dai gruppi armati. Tutto questo ha penalizzato le start up di quell’area».
Niger Shine Lady’s
Dopo aver sentito Moussa, abbiamo contattato alcuni imprenditori che sono riusciti a partire.
Lei si chiama Leila Barry, e si definisce imprenditrice sociale. Ha 34 anni ed è laureata in comunicazione d’impresa all’Università di Niamey. Ha un buon lavoro nel settore amministrativo, ma non le bastava. «L’idea della creazione della micro impresa Niger shine lady’s mi è venuta perché facevo borse e scarpe in cuoio e desideravo formare alcune ragazze del mio quartiere a produrle perché diventassero autonome sul piano economico. Dopo alcuni anni, quando ero capo progetto per una Ong internazionale che si occupava della salute delle donne, ho notato che le ragazze più povere avevano difficoltà a procurarsi gli assorbenti. Allora mi è venuta l’idea di insegnare loro la confezione di assorbenti igienici riutilizzabili».
Leila ha iniziato con l’ideazione del prodotto, ha poi realizzato qualche piccolo investimento con i propri fondi: «Pensavo ai bisogni delle ragazze che stavo seguendo». In seguito, il progetto le ha permesso di acquisire le macchine da cucire elettriche e le competenze in gestione.
Leila continua appassionata: «Gli obiettivi della mia micro impresa inizialmente erano la confezione di assorbenti riutilizzabili ma anche la fornitura di servizi associati per le ragazze in difficoltà, in tutto il Paese. In secondo luogo, avevo l’idea di creare qualche posto di lavoro, indispensabile per il funzionamento dell’attività. Ovviamente con una gestione rigorosa, per raggiungere la sostenibilità economica nel tempo. Ma sempre con grande attenzione agli aspetti sociali e ambientali».
Leila racconta che ci sono state anche difficoltà di tipo culturale, in quanto il tema è ancora considerato tabù dalla maggior parte della gente in Niger. Oggi però l’impresa funziona e oltre lei vi lavorano la sua assistente, un sarto e un guardiano.
Terra di Adamo
Ismael Hassane Adamou è un ingegnere nigerino di 32 anni. È a capo di un laboratorio che fa test sui materiali dell’edilizia. Qualche tempo fa, ha avuto un’idea: «Si può avere un terreno a Niamey, ma costruire una casa è piuttosto complicato. Allora ho pensato a un’alternativa al mattone in cemento, economica e pure più adattata al nostro clima. Ho scoperto un tipo di mattone di terra compattata con una particolare forma a incastro, che mette insieme economicità e un maggior confort all’interno della casa».
Si tratta di mattoni fabbricati con speciali presse, che compattano ad alta pressione una miscela di terra lateritica (molto diffusa in Niger) con una percentuale di cemento.
Ismael: «Ho chiamato la mia impresa Terre d’Adam (Terra di Adamo). L’obiettivo principale è quello di diffondere la costruzione con la terra, in quanto i suoi vantaggi sono innegabili e, in seconda battuta, di aiutare a risolvere la crisi di alloggi che c’è a Niamey. Oggi, infatti, in questa città è molto complicato trovare una casa in affitto o in acquisto ben costruita.
Questi mattoni sono economici perché usano meno cemento di quelli normali, ma sono comunque molto solidi. Inoltre, la costruzione avviene più rapidamente grazie alla struttura a incastro. Anche questo fa diminuire i costi complessivi».
Ismael, preparato tecnicamente, ha allargato le sue conoscenze grazie al progetto Obiettivo lavoro: «Ho acquisito alcune competenze cruciali, soprattutto in contabilità e in gestione, che mi hanno permesso di strutturare la micro impresa e renderla redditizia».
La start up produce attualmente tra i 120 e i 200 mattoni al giorno, utilizzando una pressa manuale. «Ma con la pressa semi automatica che stiamo per installare, potremo moltiplicare questo numero per 20», riprende soddisfatto Ismael. «Inoltre – continua -, l’appoggio passo passo di Cisv fino dall’apertura dell’impresa è stato fondamentale, perché mi ha permesso di sentirmi aiutato e seguito in tutto il processo. È stato molto importante per me. Mi sono sentito come in famiglia».
Oggi, la start up, è pronta a mettersi sul mercato. Impiega un responsabile della produzione e tre operai.
Cerimonie e compost
«Mi chiamo Rahamatoulaye Alio Sanda Almou, detta Ramatou, ho 27 anni, sono nigerina e ho studiato farmacia all’Università di Niamey. Quando ero studentessa, mi è venuta l’idea di creare una micro impresa. Ho avuto la possibilità di seguire una formazione in gestione d’impresa, e questo mi ha spinto a creare la mia attività. Ho scelto il settore dei servizi igienico sanitari con l’idea di trasformare i rifiuti organici in concime».
L’idea era buona: «Ma non è stato facile. Volevo creare la mia micro impresa, mi sono subito scontrata con i primi problemi: come finanziarla e quindi realizzarla?». Ramatou ha partecipato ad alcuni concorsi per le idee di start up nazionali e regionali. Ne ha vinto uno, e con i fondi ricevuti ha comprato la prima «toilette mobile» che pensava di affittare agli enti locali, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri della capitale ma anche di ottenere concime organico.
«Mi sono scontrata con il problema delle abitudini e degli usi della popolazione. Come portare le persone a utilizzare le toilette?». Nel frattempo, è arrivata la pandemia e tutto si è fermato. «Mi sono detta: devo essere resiliente e riflettere su come rimodulare le attività della micro impresa. Ho quindi orientato l’attività al privato, che mi pareva più recettivo per utilizzare questo servizio. L’idea era quella di fornire servizi a chi organizza eventi privati e cerimonie, come i matrimoni, i battesimi, che coinvolgono molte persone». I servizi si sono ampliati all’affitto di sedie e tendoni per gli eventi, molto utilizzati nel paese.
«Devo dire che la pandemia è stata una difficoltà, ma anche un fattore determinante che mi ha fatto cambiare gli obiettivi della micro impresa. Inoltre mi ha spinta a cercare dei partenariati con progetti come Obiettivo lavoro».
Ramatou ha chiamato la sua start up «Sapta», che in haussa, la lingua più parlata in Niger, significa pulito o pulizia. Selezionata dal progetto di Cisv, ha potuto acquisire le attrezzature che le mancavano. Inoltre, lei e i suoi colleghi, hanno seguito formazioni di marketing, gestione aziendale e contabilità.
Oggi Sapta impiega quattro persone, di cui due permanenti e la altre a cottimo.
Polli che passione
Moumuni Saley ha 31 anni, è sposato e ha una figlia di due anni: «Il mio lavoro è gestire progetti in ambito sanitario, perché ho un master di secondo livello in gestione di progetti e programmi di salute pubblica. Però ho anche alcune certificazioni in fabbricazione di incubatrici per le uova, in orticoltura, in avicoltura moderna e biologica. Inoltre, ho competenze in gestione d’impresa.
La mia idea di micro impresa è nata perché avevo un sogno: creare una fattoria integrata, che comprendesse la piscicoltura, l’orticoltura e l’avicoltura. Era una passione che non avevo potuto seguire con gli studi».
La start up Complex Agro vende polli, pulcini e uova, produce e vende incubatrici, e fornisce assistenza dopo la vendita, consulenze e formazioni.
«Il progetto Obiettivo lavoro mi ha permesso di fare il salto di qualità. Prima facevo tutto questo a casa e in modo informale, in piccole quantità, non avevo i mezzi tecnici e finanziari. Adesso, dopo avere ricevuto tre formazioni sulla gestione d’impresa e una sull’avicoltura biologica, e dopo il finanziamento per le infrastrutture, tecnicamente sono più forte. È come se mi avesse fatto progredire di otto anni di lavoro in uno solo. Sono passato a un livello superiore per realizzare il mio sogno».
Marco Bello, con la collaborazione di Issa Yakouba
Trent’anni di missione
Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.
«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.
Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.
Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.
Ma andiamo con ordine.
1994. L’inizio di tutto
«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».
Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.
«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».
Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».
Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.
Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.
1977. Un’infermiera
«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».
Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.
«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».
Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».
1999. Il primo anno
Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.
«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».
Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.
«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.
Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».
2001. E missione sia
Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».
Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».
Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».
Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».
Riflessioni
I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».
Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».
Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.
2006. Il ritorno
Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.
Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.
Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».
In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.
Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».
2024. Nuove idee
Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».
Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».
Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.
«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».
Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.
Marco Bello
Senegal. La democrazia può attendere
Oppositori politici incarcerati, manifestazioni represse, arresti arbitrari, restrizioni delle libertà. Il Paese vetrina dell’Africa occidentale perde colpi sul piano di diritti e democrazia. Mentre cerca di emergere come economia. Il gruppo al potere non sembra pronto a cederlo. Anche perché la torta da dividere sta aumentando.
Juliette è una giovane donna della Casamance, regione nel sud del Senegal. È un’attiva sostenitrice dell’oppositore politico Ousmane Sonko, impegnata sui social media e non solo. A metà marzo scorso era presente a una manifestazione a Dakar, nei pressi della casa del politico. La polizia aveva circondato l’abitazione e impediva a Sonko di uscire. A un certo punto gli agenti hanno caricato l’assembramento di manifestanti e lanciato lacrimogeni. Molti partecipanti, perlopiù giovani, sono stati arrestati. Anche Juliette è finita in prigione. Non ha avuto alcun processo, ma a ottobre, il presidente Macky Sall ha graziato un migliaio di detenuti e così anche lei è potuta tornare a casa dalla sua bimba di cinque anni e al suo lavoro.
Episodi di questo tipo, iniziati nel 2021, sono sempre più frequenti in un Senegal, vetrina dell’Africa dell’Ovest, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 24 febbraio.
L’attuale presidente, Macky Sall, al potere dal 2012 (già primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale), ha inizialmente tentato di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale) ma, in seguito alle manifestazioni e alla pressione della Francia, ha desistito, e il partito al potere presenterà come candidato l’attuale primo ministro Amadou Ba.
Il Senegal di Macky Sall
Negli ultimi dieci anni il paese è cambiato, soprattutto nella capitale Dakar.
Gli investimenti della gestione Macky Sall si sono concentrati sulle infrastrutture: sono state costruite nuove strade, asfaltate alcune di quelle vecchie, costruiti impianti sportivi e il nuovo aeroporto Blaise Diange, ultimata l’autostrada Dakar-Tuba, elettrificate zone del Paese.
«Nel suo discorso di insediamento il presidente Macky Sall disse che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfare i bisogni dei senegalesi ed elevare il loro livello di vita. Inoltre, le infrastrutture non funzionavano», ci racconta il giornalista senegalese Ama Dieng, contattato telefonicamente.
E continua: «Così Sall ha lavorato molto sulle infrastrutture. È stato anche realizzato il treno espresso dalla nuova città di Diamniadio a Dakar e una rete di bus rapidi. Ha molto investito nelle vie di comunicazione e risposto alle richieste del mondo sportivo. Questo occorre riconoscerlo». Diamniadio è diventato un polo urbano ed economico, ha tutti i moderni servizi, lo stadio, il nuovo aeroporto. Vi si sono trasferiti alcuni uffici amministrativi e ministeriali. Anche a Dakar ci sono molti cantieri, ma la città è concentrata sullo spazio limitato di una penisola per cui sta esplodendo.
Nel 2013 è stato lanciato il Plan Sénégal emergent (Pse, Piano Senegal emergente), ovvero una strategia decennale (2014-2024) che ha come obiettivo di portare il paese saheliano tra i paesi cosiddetti «emergenti» entro il 2035. È un programma che prevede grossi finanziamenti, anche da parte di multinazionali straniere, che ha spinto soprattutto sull’economia e sull’impresa privata.
«L’imprenditoria è molto favorita in città, ma anche a livello rurale. È chiaro che il contesto non è ricco. Ho visto tanta attività economica. Però lavoro non ce n’è abbastanza, così come la formazione. C’è molta precarietà e lavoro informale», ci dice Federico Perotti, ingegnere esperto di cooperazione e conoscitore del Paese.
Il sogno del benessere
Continua il giornalista: «Per quanto riguarda il livello di vita della popolazione, possiamo dire che il presidente non ha rispettato i suoi impegni. Aveva promesso di fare in modo che i senegalesi avessero il benessere. La povertà, invece, è aumentata e molte famiglie hanno difficoltà a comperare i beni di base.
Sall non è riuscito nella politica dell’impiego per la gioventù. Ha tentato di realizzare alcune strutture, ma i progetti non sono andati avanti. Così c’è stato un aumento del tasso di disoccupazione. Il che spiega la continua emigrazione dei giovani senegalesi». In Senegal circa la metà della popolazione ha meno di vent’anni.
«Le industrie senegalesi – agiunge Dieng – non hanno sentito l’appoggio dello stato, rispetto alla concorrenza del mercato mondiale. Le nostre industrie hanno una capacità di produzione debole e non c’è stata una protezione, per cui molte di loro hanno dovuto chiudere a causa della concorrenza estera». Un altro motivo per l’aumento della disoccupazione.
Parliamo di agricoltura con un esperto italiano (che ha chiesto l’anonimato) con un’esperienza ventennale nel Paese. «Dal punto di vista globale possiamo dire che il Senegal è avanzato, però non su basi solide. Infatti, tutto dipende dalla capitale, che concentra i servizi e l’economia. Il mondo rurale si spopola e la produttività agricola è sempre molto bassa. Secondo un recente studio, in un anno, quindi nel tempo di una campagna agricola, si arriva a guadagnare l’equivalente di circa 30 euro al mese. Questo nonostante ci siano progetti e miliardi di franchi cfa (milioni di euro) investiti nel settore ogni anno. Ma sono soldi mal gestiti, o usati per questioni politiche (fini elettorali, ndr)». Il Senegal è un paese prevalentemente rurale, dove coltivazione della terra e allevamento fanno parte della tradizione e dell’economia famigliare. «Ci sarebbero le potenzialità per sviluppare l’agricoltura, ma ci vorrebbe più organizzazione e infrastrutture migliori. Anche la congiuntura internazionale favorirebbe, perché il prezzo dei cereali sul mercato mondiale è aumentato». Così, ci spiega l’esperto, «i giovani rurali vanno a Dakar a fare lavori informali e guadagnano di più, mentre le campagne restano popolate da anziani. Occorrerebbe investire per rendere l’agricoltura un’attività interessante anche per i giovani. I modelli oramai sono quelli occidentali, non più i tradizionali, e i ragazzi non tornano in campagna se non vedono un interesse economico». E conclude: «Tutto questo ha portato molta frustrazione nei giovani, e ha spinto il fenomeno populista Ousmane Sonko».
L’oppositore
Ousmane Sonko, 49 anni, sindaco di Ziguinshor, capitale della Casamance, è di un’etnia della zona.
Da alcuni anni ha iniziato a presentare un discorso antifrancese (come molti nell’area dei paesi ex colonie della Francia), contro la casta al potere, «un approccio più distruttivo che propositivo», ci dicono.
Inizialmente si è opposto al terzo mandato di Macky Sall, e già nel 2021 le manifestazioni dei suoi sostenitori sono state violentemente represse. Ma da quando ha iniziato a diventare popolare, il regime ha montato una serie di accuse contro di lui, a partire da una condanna per abusi sessuali a una massaggiatrice, fino all’accusa di aver diffamato un ministro, e di aver istigato all’insurrezione. Sonko è oggi in prigione con una condanna a due anni.
«Abbiamo l’impressione che il presidente Macky Sall non sopporti l’opposizione – ci dice il giornalista – la tecnica delle incriminazioni giudiziarie era già stata usata con altri candidati, come Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Con il caso Sonko, si è visto che la volontà di non farlo partecipare alle elezioni è concreta».
Ma perché? Ci chiediamo. «Perché, bisogna riconoscerlo, Sonko è l’uomo politico più popolare del Senegal in questo momento, perfino più dello stesso presidente». Alcuni sondaggi lo danno addirittura al 58%. Di fatto la sua presa sui giovani e sulla loro frustrazione è elevata, ed essi lo vedono come il loro leader.
In ballo non c’è solo il potere, che questo gruppo è abituato ad avere da oltre un decennio, ma anche i nuovi giacimenti di petrolio offshore, al confine con la Mauritania, che inizieranno a essere sfruttati proprio quest’anno.
Repressione
Le manifestazioni del marzo 2023 sono state violentemente represse. Poi, i primi giorni di giugno, ci sono state altre manifestazioni contro la condanna di Sonko per «corruzione di giovani», in diverse città (Dakar, Ziguinchor, Kaolak) con arresti ma anche con numerosi morti. Secondo Amnesty International, durante due giorni sono stati almeno 23 i morti, tra i quali tre bambini, e 390 i feriti causati dalle forze di sicurezza. L’Ong chiede inoltre di fare luce sulla presenza di «uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate». Inoltre, «nei giorni delle proteste e in quelli successivi, le autorità hanno sospeso l’accesso a internet e alle piattaforme social. È stato interrotto il segnale dell’emittente Walf Tv e il suo canale YouTube».
A causa della condanna, Sonko è stato rimosso dalle liste elettorali, e questo lo renderebbe non candidabile alle prossime elezioni. Usiamo il condizionale, perché ci dicono che il dossier giudiziario non ha finito il suo percorso.
Nel frattempo, il 23 novembre, il suo partito, il Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) ha presentato un altro possibile candidato, il vice Bassirou Diomaye Faye. Pure lui in carcere, ma non essendo giudicato, è candidabile.
Il partito stesso è stato sciolto per decreto il 31 luglio scorso. La motivazione data dal ministro dell’Interno, Antoine Diome, è l’accusa di frequenti chiamate all’insurrezione. Comportamento non consono a un partito politico. Lo stesso giorno Sonko era stato condannato per insurrezione e complotto, e nuovamente arrestato. Il fatto è stato seguito da manifestazioni a Dakar Ziguinchor, represse violentemente, con alcuni morti.
Diritti in bilico
Un militante dei diritti umani senegalese (che chiede l’anonimato) ci dice: «Le repressioni delle manifestazioni, che hanno provocato diversi morti, sono fatti che i senegalesi deplorano. Si è assistito a una grande violenza poliziesca. Il governo dice che ci sono infiltrazioni di terroristi, ma si tratta di senegalesi che manifestano per dire che non sono contenti del presidente, e questo fa parte della democrazia. Ma le dimostrazioni dell’opposizione sono sistematicamente proibite e la repressione è forte. Oggi le prigioni sono piene di questi giovani. Mentre il ministro dell’Interno dice che non ci sono prigionieri politici.
Oggi assistiamo a una regressione della democrazia in Senegal. Quello che il presidente Abdoulaye Wade ha accettato, il presidente Macky Sall non lo accetta».
Come abbiamo visto per Juliette, anche per quanto riguarda i diritti civili in generale, gli osservatori notano un certo arretramento. A livello della libertà di stampa ci sono molte pressioni, e sovente i giornalisti sono convocati o arrestati, soprattutto se scrivono sul presidente. Pratica che prima non era comune. Si contesta loro il reato di «offesa al capo dello stato» o quello di «false notizie». Inoltre il potere è riuscito ad avere molti giornali a lui favorevoli e ne ha creati di nuovi.
Il Senegal, che punta a raggiungere il club dei paesi emergenti entro il 2035, sta rischiando di uscire da quello dei paesi democratici e rispettosi dei diritti umani. Mentre la pagina delle elezioni di febbraio è tutta da scrivere.
Marco Bello
Il progetto
L’Ong Cisv di Torino, presente dal 1988 in Senegal, vi realizza oggi il progetto Provives, di promozione del lavoro e della piccola imprenditoria «verde». Si tratta di un’esperienza pilota di appoggio all’imprenditoria locale impegnata nella transizione ecologica e intende contribuire alla riduzione della povertà attraverso il sostegno di piccole e medie imprese sociali e ambientali nelle regioni di Dakar, Thiès, Louga e Saint-Louis. A tale scopo utilizza gli approcci della green economy, dell’innovazione digitale e dell’economia circolare (raccolta, riciclo, riutilizzo di rifiuti e scarti).
Il progetto risponde agli obiettivi 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 2 (fame zero) e 12 (produzione e consumo responsabile) dell’Agenda 2030. Sono partner del progetto anche le Ong Lvia e Rete, e le attività sono cofinanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Questo progetto rientra in un approccio strategico dell’Ong Cisv su accompagnamento e appoggio delle micro imprese giovanili in Africa dell’Ovest.
www.cisvto.org
Nemici ieri, partner oggi
Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.
«Guarda, è quello che rimane della Città proibita purpurea». Thang punta il dito e nella sua voce fin lì squillante e divertita subentra una punta di tristezza. Aveva 8 anni quando, nel 1968, l’antica capitale di Hue divenne il teatro di una delle più lunghe e sanguinose battaglie della guerra del Vietnam. Compresa la cittadella imperiale, simbolo della dinastia Nguyen, che era riuscita a unire da nord a sud il territorio vietnamita dopo tanti infruttuosi tentativi.
Hue si trova nel Vietnam centrale, a pochi chilometri dall’antica zona demilitarizzata tra l’allora Vietnam del Nord e Vietnam del Sud.
La cittadella era stata danneggiata una prima volta nel 1947, quando i francesi avevano preso d’assedio la città occupata dai Viet Minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam, ndr): molte delle strutture principali erano state colpite. Ancora peggiori furono le conseguenze di quanto accadde tra il 31 gennaio e il 2 marzo del 1968, settimane in cui l’antica capitale e la sua cittadella contenente edifici e opere di valore inestimabile divennero l’epicentro del conflitto.
L’Esercito popolare del Vietnam e i soldati Viet Cong (termine dispregiativo con cui erano chiamati i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, ndr) arrivarono a conquistare la maggior parte della città. L’ordine era quello di distruggere l’apparato amministrativo del Vietnam del Sud e punire spie e reazionari. Quelli identificati vennero portati fuori dalla città per essere «rieducati». Pochi avrebbero fatto ritorno. Quelli ritenuti colpevoli dei «crimini» più gravi furono processati e giustiziati.
Gli Stati Uniti prepararono il contrattacco, ma alle truppe venne ordinato di non bombardare la città per paura di distruggere i numerosi edifici storici, nonché per rispetto nei confronti dello status religioso di Hue, dove ancora oggi sorgono, lungo il fiume dei Profumi, le celeberrime e lussuose tombe degli imperatori. Dopo settimane di combattimenti casa per casa, proprio la cittadella divenne il fronte di combattimento. I Viet Cong occuparono diversi edifici e installarono dei cannoni anti aerei sulle torri esterne. I sudvietnamiti riuscirono comunque a entrare nel sito, sostenuti dai bombardamenti americani, ai quali era stato infine dato il via libera. Alcuni di questi colpirono direttamente edifici in cui erano piazzati cecchini rivali. I combattimenti avvennero tra giardini, fossati e padiglioni. Si arrivò a sparare anche alle porte del palazzo imperiale, dove si erano rifugiati i Viet Cong. Molte delle mura e delle porte vennero ridotte a poco più che macerie. Dei 160 edifici originari, solo 10 siti principali sono rimasti in piedi dopo la battaglia.
Circa 100mila persone furono sfollate dalla città, dove lungo le strade rimasero insepolti centinaia di cadaveri. Le vittime furono numerose: morirono 216 militari statunitensi e 421 soldati sudvietnamiti, e poco meno di cinquemila militari da entrambe le parti restarono feriti.
La battaglia causò la morte di circa quattromila civili. Tra questi, anche alcuni familiari di Thang, che oggi accompagna i turisti in ciclorisciò tra le mura della cittadella. «Ho perso i miei zii e uno dei miei cugini. Era tremendo, eravamo tutti senza acqua e non sapevamo dove andare o dove trovare rifugio. Avevamo paura sia dei nordvietnamiti che cercavano le presunte spie, sia delle bombe degli americani», racconta. «Mi fa impressione leggere che la battaglia è durata circa un mese. Quando ero piccolo ero convinto che fosse durata molto di più, quasi come un’intera epoca della mia vita».
I segni della guerra
Osservando le grandi porte d’ingresso, il sontuoso palazzo Dien Tho e il laghetto pieno di carpe del padiglione Truong Du è difficile credere che questa enorme cittadella sia, suo malgrado, anche uno dei simboli della violenza del conflitto. Eppure, guardando bene, i segni di quella battaglia sono ancora presenti.
Ci sono quelli visibili a occhio nudo, nonostante i decenni di ricostruzione che hanno reso la città una popolare attrazione turistica. Diversi fori di proiettile sono ancora lì in alcune parti delle mura della città, mentre al museo storico e rivoluzionario sono esposti diversi cimeli militari, tra cui un carro armato M48 Patton e un aereo da attacco leggero A-37 Dragonfly della Marina statunitense.
E poi ci sono i segni non visibili agli occhi, ma percepibili attraverso ragione e sentimenti. «Meglio di tanti altri, qui conosciamo che cosa significa subire le devastazioni della guerra», sospira Ngoc, celando per un momento il sorriso mai interrotto durante tutta la cena presso il suo ristorante di cucina locale. «Per questo ora siamo preoccupati da quanto sta succedendo in Ucraina, ma anche e soprattutto dalla tensione tra Stati Uniti e Cina». Suo malgrado, Hue è stata uno dei principali campi di battaglia (indiretti) tra le due superpotenze e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Ora il timore è che l’assenza di dialogo tra Washington e Pechino porti a una nuova epoca di divisioni in blocchi, costringendo i vari paesi asiatici a scegliere da che parte stare. Una scelta che Hue, il Vietnam e in generale tutto il Sud Est asiatico non vorrebbero compiere.
Proprio il caso del Vietnam è forse il più emblematico dell’intera regione. Il paese ha conosciuto la colonizzazione occidentale e combattuto l’America, ma ha anche vissuto sotto la dominazione cinese per oltre mille anni, tra il terzo secolo avanti Cristo e il decimo secolo dopo Cristo, per restare poi a lungo uno stato tributario dell’impero cinese e subire diverse altre invasioni di cinesi e mongoli. Ancora oggi, le iscrizioni dei palazzi della cittadella imperiale di Hue sono in caratteri cinesi.
I vicini scomodi
Nonostante la vicinanza politico ideologica, i rapporti tra Repubblica popolare cinese e Repubblica socialista del Vietnam non sono mai stati del tutto distesi. Nel 1979 ci fu anche una guerra durata un mese, risultato della tensione per il sostegno di Hanoi all’Unione Sovietica (in un momento di grande contrasto con Pechino che si stava aprendo agli Usa) e dell’invasione vietnamita della Cambogia, causa della deposizione dei Khmer Rossi, tradizionali alleati della Cina.
Oggi i rapporti politici tra i due partiti comunisti sono cordiali. E i rapporti commerciali tra i due paesi sono floridi.
Ma questa cordialità si tesse su uno sfondo sempre più evidente di tensioni per alcune dispute territoriali sul Mar Cinese meridionale, intorno ai due arcipelaghi Spratly e Paracelso. A quest’ultimo è dedicato un museo nella città marittima di Da Nang, circa 100 chilometri a sud di Hue. Tre piani di esposizione per raccontare la storia di quelle che qui vengono chiamate isole Hoang Sa (letteralmente «sabbia gialla») e rivendicare su di esse la sovranità vietnamita, che trova spazio anche in alcune mappe esibite in altri musei della zona.
Dall’apertura nel 2018, circa la metà dei suoi visitatori sono stati studenti che, attraverso mappe, fotografie e altri documenti, apprendono la versione ufficiale di Hanoi, secondo cui le isole sono del Vietnam e non della Cina. È una questione seria e molto attuale, tanto che l’anno scorso è stata vietata la distribuzione del blockbuster americano Uncharted, perché un frammento di due secondi mostra l’immagine di una mappa che recepisce tutte le rivendicazioni territoriali cinesi.
Il capo del dipartimento del cinema, chiamato a censurare i prodotti culturali non in linea con la sicurezza nazionale, ha spiegato il divieto di distribuzione del film citando una «immagine illegale dell’infamante linea dei nove tratti».
Acque contese
All’esterno del museo di Da Nang si trova il peschereccio 90152 TS. Affondato nel 2014 durante uno scontro con una nave di sorveglianza marittima cinese vicino alle isole Paracelso, il suo equipaggio è stato salvato da un’altra barca vietnamita. Un episodio che ha segnato molto i rapporti bilaterali degli ultimi anni, simboleggiando anche la differenza di capacità navali e militari dei due paesi. In quell’occasione, infatti, la nave cinese più grande e con scafo in acciaio ha sopraffatto quella vietnamita più piccola e in legno. La Cina sostiene che la nave vietnamita avesse «molestato» un peschereccio cinese.
D’altronde, le acque contese tra Pechino e Hanoi sono ricche di risorse naturali (cfr MC, giugno 2014). Tanto che al loro interno il governo vietnamita ha assegnato concessioni petrolifere ad aziende nazionali e straniere. Anche se di recente il governo ha dovuto accettare di pagare circa un miliardo di dollari a due compagnie petrolifere internazionali (la spagnola Repsol e la Mubadala degli Emirati arabi uniti) dopo aver annullato le loro operazioni nel Mar Cinese meridionale in seguito alle crescenti manovre militari della Cina. Hanoi ha spesso avanzato rimostranze per delle esercitazioni militari svolte all’interno di un’area che il governo vietnamita ritiene come parte della sua zona economica esclusiva, non riconosciuta da Pechino.
Guardare altrove
Il Vietnam è uno dei paesi che meno si è espresso pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Ma forse è tra quelli che guarda con maggiore preoccupazione alle sue conseguenze. Anche perché il Vietnam forse più di chiunque altro rischia una sorta di «accerchiamento», confinando non solo con la Cina ma anche con Cambogia e Laos, vale a dire i due paesi della regione maggiormente inseriti negli ingranaggi di Pechino.
Il premier cambogiano Hun Sen, che si appresta a vincere le ennesime elezioni senza rivali a luglio (la rivista è stata chiusa prima della data elettorale, ndr), sembra peraltro disposto a garantire accesso alle navi cinesi nella base militare di Ream. Come altri paesi vicini il Vietnam teme un potenziale crescente allineamento tra Cina e Russia. Sinora, infatti, Hanoi aveva sapientemente dosato i rapporti con Pechino e Mosca sfruttando le evidenti asimmetrie della loro relazione.
Se la Cina è da tempo il primo partner commerciale del Vietnam, la Russia è sempre stata il primo fornitore di componenti militari. Dal 2000 al 2021, l’80 per cento delle armi acquistate dal Vietnam provenivano da Mosca. A fine 2021, i governi dei due paesi hanno siglato un nuovo accordo per espandere ulteriormente la cooperazione militare. Ma la guerra in Ucraina sta rendendo più complicato per il Cremlino continuare a garantire le esportazioni nel settore della difesa. Tanto che Mosca starebbe già riportando a casa armi promesse a partner regionali come Myanmar e India, ritardando consegne ad Hanoi e non solo.
Ecco allora che il Vietnam è costretto a guardare altrove. E quell’altrove possono essere gli Stati Uniti che, dopo un embargo decennale, sono pronti a rifornire di componenti militari anche Hanoi. Negli scorsi mesi, si è svolta la più grande missione «di sistema» di aziende americane in Vietnam di sempre. Presenti anche Lockheed Martin e Boeing, che gestiscono contratti milionari per spedire elicotteri e droni armati.
Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla posa della prima pietra della nuova ambasciata americana ad Hanoi, che diventerà una delle sedi diplomatiche con l’edificio più costoso dell’Asia. Non solo. Joe Biden ha telefonato a Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista, proprio nel giorno dell’apertura del suo secondo summit della democrazia, invitandolo a Washington. Un atto inusuale, visto che solitamente la Casa Bianca si confronta con il presidente vietnamita, una figura più cerimoniale. Trong ha, invece, accentrato molto il potere, sbaragliando tutti i rivali interni al Partito con la feroce campagna anticorruzione della «fornace ardente». Tanto da ottenere uno storico terzo mandato, rompendo il vincolo dei due mandati introdotto da Le Duan, ancora prima che lo facesse Xi Jinping in Cina.
Fabbriche hi tech
Da ultimo, proprio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria che lo ha lambito ed è stato sostituito da Von Van Thuong, fedelissimo di Trong. Ma tutto questo non sembra essere un problema per Usa e occidente, che hanno individuato proprio nel Vietnam la base perfetta per spostare linee di produzione in uscita dalla Cina, nel tentativo di «riduzione del rischio» di esposizione al mercato della Repubblica popolare.
Si tratta di un fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Pechino e Washington. Negli ultimi anni, sempre più colossi digitali americani e loro fornitori (tra cui Apple) hanno messo radici in Vietnam. Comprese fabbriche ad alto valore tecnologico. Tutti segnali di un rapporto che potrebbe presto conoscere un rafforzamento anche a livello politico difensivo. Ciò non significa che il Vietnam verrà «arruolato» dagli Stati Uniti nella loro strategia di «contenimento» della Cina. Hanoi proverà a continuare a mantenere la sua cosiddetta diplomazia del bambù. Piantato solidamente nel terreno, ma agile nel flettersi secondo il vento.
Così il Vietnam cerca di restare in piedi e navigare le acque agitate della contesa tra le super potenze. D’altronde, qui più che altrove, forse si spera che il confronto non si tramuti mai in conflitto. «Anche perché in caso contrario sappiamo già chi ne pagherà subito le conseguenze», dice Thang, abbassando il dito che indicava ciò che resta della Città proibita purpurea di Hue.
Nonostante i progressi e la presenza di un islam relativamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.
Agadir. Appena esco dalla fusoliera dell’aereo della Royal Air Maroc, mi sorprendo nel sentirmi investito da una fresca brezza. «Il Grande Atlante ci protegge dalla calura proveniente dal deserto», mi spiega Kadhem, uno dei tanti venditori di souvenir che affollano il lungomare cittadino: «Appena ti dirigi nell’entroterra le temperature aumentano improvvisamente e allora sì, assaporerai la vera estate marocchina».
Mi godo la frescura serale all’ombra della collina su cui è scritto in arabo Allah, e-Watan, el-Malik (Dio, nazione, re), una triade che mi accompagnerà durante tutto il viaggio.
Posta sulla costa sudoccidentale del Marocco, Agadir non è una bella città: i turisti vi giungono per la sua spiaggia e gli alberghi di lusso, ma oltre a questo offre ben poco. Rappresenta comunque un buon inizio per assaporare lo spirito del Paese.
Nuovi quartieri continuano a espandere la città verso l’interno e i cantieri sorgono come funghi. L’amministrazione locale cerca di offrire nuove occasioni di intrattenimento, ma spesso questa volontà si scontra con una burocrazia bigotta e sclerotica. Me ne accorgo andando a visitare quella che viene spacciata come la medina (termine che indica la parte antica di una città araba, con vicoli e mura, ndr), ma che in realtà non è altro che una sorta di centro commerciale composto da una serie di negozi e ristorantini, costruito nel 1992 imitando regole architettoniche e costruzioni antiche.
Fare fotografie, mi dicono, è vietato e, nonostante abbia un’autorizzazione del ministero della Cultura, vengo informato che occorre un ulteriore consenso da parte dell’ufficio del governatore locale.
Molto più bella e tradizionale è invece Taghazout, un villaggio a una ventina di chilometri a nord di Agadir, le cui case bianche si abbarbicano su una collina che fronteggia una bella spiaggetta.
Il ministero del Turismo ha già adocchiato la zona che oggi, dopo essere stata frequentata da giovani in fuga da Agadir, è meta ambita di surfisti. Nei progetti delle autorità ci sono complessi alberghieri per 300mila turisti all’anno e, lungo la strada che congiunge Taghazout con Agadir, cartelloni pubblicitari di imprese di costruzioni invitano ad accaparrarsi lotti e case che sorgeranno su aree già fornite di corrente elettrica e impianti idraulici (in Marocco, prima delle case si predispongono i servizi). «La bellezza di Taghazout e della sua spiaggia forse verrà preservata, ma l’atmosfera rilassante e un po’ hippy che si respira scomparirà», lamenta Hassane, che fa parte di un gruppo ambientalista locale che si batte contro la costruzione selvaggia sulla costa. Ma Hassane è isolato: la maggior parte dei commercianti e degli albergatori della cittadina accoglie a braccia aperte lo sviluppo turistico. Taghazout è un po’ l’esempio di come stia cambiando il Marocco: in ogni città, da qui a Ouarzazate, da Marrakech a Tangeri, immense superfici di terreno aspettano di essere trasformate in nuovi quartieri residenziali.
Lo sviluppo da oggi al 2035
Il rinnovamento del parco immobiliare è uno dei punti del programma del Nuovo modello di sviluppo che intende riformare l’economia sulla base di una crescita atta a migliorare le condizioni di vita di una popolazione di 38 milioni di persone che, secondo le Nazioni unite, ha raggiunto un Indice di sviluppo umano (Hdi) di medio livello.
Le nuove abitazioni garantiranno non solo migliori condizioni di vita, ma anche un utilizzo più oculato dell’energia e delle fonti naturali, in particolare dell’acqua, elemento sempre più prezioso, soprattutto nei paesi dove l’incremento demografico si accompagna a una concentrazione urbana sempre più problematica.
Sanità, scuola e assistenza sociale sono i tre grandi temi oggi rincorsi da un paese che, entro il 2035, vorrebbe raggiungere l’ambizioso obiettivo di avere l’economia più avanzata del continente africano. Per questo punta al raddoppio del Pil in una dozzina d’anni con una crescita annua del 5-6% e al rafforzamento dell’istruzione scientifica al fine di orientare l’80% della forza lavoro verso il comparto della transizione energetica.
Nel febbraio 2020 è stata lanciata la campagna Generazione verde 2020-’30 che ha come linee guida la creazione di un ceto medio agricolo migliorando le condizioni economiche di circa tre milioni di contadini e delle loro famiglie. Al tempo stesso, si cerca di aumentare di un milione di ettari la quantità di terreno destinato a uso agricolo formando 150mila giovani nel settore.
Il piano ha già però subito delle battute d’arresto, sia per la pandemia, che ha contratto l’economia di un 6,3% nel 2020 (compensata da una crescita del 7,4% nel 2021), sia per la prolungata siccità che ha colpito i raccolti riducendoli del 17,3% rispetto all’anno precedente. A questi due aspetti si è aggiunta la guerra in Ucraina con il blocco delle importazioni di grano. Nel 2022, la Banca mondiale ha stimato solo all’1,2% la crescita del Pil marocchino e, secondo la Fao, la crisi ha messo in difficoltà il 28% della popolazione.
Per far fronte al crollo della produzione, Rabat ha stipulato accordi con Francia e Canada, da cui importerà grano e frumento, due dei cereali fondamentali di cui si compone la dieta non solo dei marocchini, ma di gran parte del Maghreb.
La bassa meccanizzazione agricola e l’arretratezza delle infrastrutture costringono il 39% dell’intera forza lavoro marocchina impiegata nei campi a produrre solo il 14% del Pil del Paese.
I giovani, appena possono, cercano di trasferirsi in città, dove in molti vanno a ingrossare le file dei disoccupati (il 22% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non lavora), o cercano di emigrare verso l’Europa.
Per limitare questa emorragia di forza lavoro giovane, si stanno sviluppando nuove iniziative in cui le cooperative hanno un ruolo importante. Luc Fougère, direttore del Riad Angsana di Marrakech, ha creato alcune realtà tra le più vivaci della zona. «Invece di trasferire giovani marocchini nelle coltivazioni europee, abbiamo deciso di trasferire le coltivazioni in Marocco». E così nel suo albergo ristorante vengono serviti piatti che utilizzano ingredienti provenienti da realtà locali cofondate da Fougère stesso: miele, olio, frutta, verdura, anziché essere importati da migliaia di chilometri di distanza, ne percorrono solo pochi dalle campagne attorno alla città.
Un miliardario come primo ministro
Nell’incertezza economica, che risale a ben prima della pandemia, ma che il coronavirus ha contribuito ad aggravare e le recenti vicende internazionali a far esplodere, la prima a vacillare è stata la classe politica. Le elezioni del 2021, subito dopo le riaperture dal Covid, si sono trasformate in un terremoto che ha causato il tracollo dei partiti tradizionali: il Partito della giustizia e dello sviluppo (Pjd, Parti de la justice et du développement), che ha guidato tutti i governi del Paese dal 2011 sull’onda delle Primavere arabe, è stato spazzato via dall’elettorato perdendo 112 dei suoi 125 seggi al parlamento.
Conservatore, portatore di un’ideologia islamista moderata, il Pjd era riuscito a convogliare il profondo malcontento popolare emerso nelle proteste del 2010 anche grazie al leader d’allora, Abdelilah Benkirane, un politico che rappresentava sia le istanze di un’identità islamica all’interno della nazione, sia quelle progressiste. Le sue critiche nei confronti del re Mohammed VI, assieme all’incapacità di dare risposte alle richieste di riforme sociali che erano state i cavalli di battaglia con cui aveva sconfitto gli avversari, gli sono costate carriera e governo.
Netta è stata, invece, la vittoria del Raggruppamento nazionale degli indipendenti (Rni, Rassemblement national des indépendants), guidato dal miliardario Aziz Akhannouch. Dal 7 ottobre 2021, l’uomo è anche primo ministro in un governo di coalizione con il Movimento popolare e l’Istiqlal.
L’Rni, il cui originario orientamento socialdemocratico è stato soppiantato da un indirizzo più liberale e più vicino agli ambienti industriali, è stato fondato nel 1978 dall’allora primo ministro Ahmed Osman, cognato di re Hassan II, padre dell’attuale monarca. L’appoggio al partito da parte della Casa reale non è mai venuto a meno anche a causa della partecipazione di membri della famiglia negli affari di Akhannouch, dal 2016, anno in cui il miliardario ha preso le redini dell’Rni. Oggi Akhannouch è amministratore delegato (Ceo) del gruppo Akwa, il principale conglomerato marocchino impegnato in diversi settori, in particolare nel campo energetico (petrolifero e gas). Sue sono le stazioni di servizio Afriquia, la compagnia Maghreb Oxygène, la rete di distribuzione di gas e Gpl Afriquia Gaz e Le Vie Eco, il più diffuso settimanale marocchino.
Questa concentrazione di potere economico e mediatico non sembra causare turbamento nella maggioranza dell’elettorato. Secondo il rapporto 2021 di Reporter senza frontiere (Rsf), il Marocco sarebbe al 136° posto nella classifica della libertà di stampa su 180 paesi presi in esame. Nove dei 36 editori che detengono i media più influenti, appartengono alla famiglia reale, mentre gli altri sono proprietà di pochi uomini d’affari.
Le riforme di Mohammaed VI
È anche vero che il Marocco, più degli altri paesi del Maghreb, è riuscito a smorzare il malcontento popolare emerso dalle Primavere arabe con un miglioramento delle condizioni sociali e democratiche nella nazione.
Merito anche dell’attuale re Mohammed VI, secondogenito di Hassan II, salito al trono dopo la sua morte nel 1999. L’attuale re, formato nelle scuole europee, dove ha ottenuto una laurea e un PhD in diritto internazionale, ha saputo coniugare il classico bastone con la carota.
Nel primo quinquennio di regno, il monarca ha ammesso che, durante il potere del padre, fossero stati commessi abusi sui diritti umani, che l’ingerenza reale nella politica fosse troppo pronunciata e che le misure economiche costringessero una grossa fetta della popolazione a umilianti sacrifici.
Di fronte alle proteste che hanno sconvolto il Marocco nel 2011, invece di rispondere con il pugno di ferro, come è avvenuto in altri paesi, è apparso alla Tv promettendo «una riforma costituzionale» che «avrebbe allargato le libertà individuali e collettive e rafforzato i diritti umani».
Mohammed VI ha mantenuto gran parte delle sue promesse: ha formalmente equiparato donne e uomini garantendo gli stessi diritti civili e sociali, ha elevato il berbero a lingua ufficiale assieme all’arabo, ha limitato il potere politico del monarca che perde la carica di primo ministro il quale, a sua volta, è una persona scelta tra i deputati del partito vincitore delle elezioni e non più una figura nominata a piacere dal sovrano.
La figura del re desacralizzata, tuttavia rimane inviolabile e continua a non essere passibile di critica e questo limita enormemente il grado di mobilità e indipendenza politica del Paese. Non potendo opporsi al suo volere (il re rimane anche il capo delle forze armate e il massimo leader politico con potere pressoché assoluto), i partiti preferiscono adattare i loro programmi alla linea dettata da Mohammed VI piuttosto che rischiare la ghettizzazione o, peggio, lo scioglimento proponendo azioni radicali. Questo ha ultimamente creato malumori negli ambienti più laici e progressisti del Paese anche perché, nonostante le promesse di consolidamento dei diritti umani, in realtà questi sono sempre più erosi.
Il 13 febbraio 2023, anniversario della Primavera araba in Marocco, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il carovita che sta falcidiando il potere d’acquisto di intere famiglie. Le proteste sono state organizzate dalla Cdt, la Confederazione democratica del lavoro, l’organizzazione sindacale più potente del Paese.
A queste proteste il governo ha cercato di rispondere siglando una serie di accordi che, oltre a confermare i sussidi alimentari per le fasce più deboli, hanno anche aumentato i salari minimi.
Essere donna in Marocco
Il fermento della società marocchina, favorito anche dalla vicinanza all’Europa e da un islam moderato che ha sempre rifiutato modelli integralisti, ha aiutato anche l’emancipazione femminile. Lungo la strada che conduce a Essaouira, incontro decine di cooperative gestite da donne che producono prodotti derivati dell’argan.
«Contribuendo alla finanza familiare, la donna acquista un ruolo più importante anche nella famiglia», mi dice una delle ragazze della cooperativa Marjana. Come altre sparse per il Marocco, queste cooperative stanno contribuendo a dare il giusto peso alle donne del Paese, anche se sono spesso soggette a critiche da parte degli ambienti femministi più radicali: «All’inizio, la loro nascita ha contribuito ad aiutare le donne a emanciparsi, ma oggi molte cooperative usano questa narrativa per sfruttare le lavoratrici. A fronte di prodotti venduti a prezzi esorbitanti ai turisti, le donne che vi lavorano hanno paghe inferiori anche della metà di quelle che verrebbero date agli uomini», mi dice Khnata, della organizzazione Union de l’action féminine.
La questione migratoria e gli accordi con la Spagna
La crisi economica, che si è aggiunta alla voglia dei giovani marocchini di migliorare il proprio status cercando lavoro all’estero, ha fatto confluire le contestazioni anche sulla questione migratoria, a sua volta collegata alle relazioni internazionali tra Rabat e Madrid.
Da parte sua il Marocco, in particolare dal 2000, ha cambiato profondamente la propria politica migratoria, anche perché da paese di migrazione si è trasformato principalmente in paese di transito per migliaia di cittadini dell’Africa subsahariana che cercano di entrare in Europa. Fino al 20 novembre 2003 i regolamenti che gestivano l’immigrazione in Marocco risalivano all’età coloniale. Non si parlava di stati o nazioni indipendenti, ma di colonie, protettorati, zone di influenza. La nuova legge regola le condizioni di accesso al Paese, sancisce punizioni severe non solo verso i trafficanti di esseri umani, ma anche verso le vittime, gli immigrati irregolari o chi tenta di valicare i posti di frontiera di Ceuta e Melilla senza i documenti in regola.
I diritti dei richiedenti non sono tenuti in considerazione. Le organizzazioni non governative che agiscono nell’ambito sociale e nel campo migratorio hanno più volte denunciato la repressione del governo nei confronti di quelle persone che, sfruttando la vicinanza geografica con la Spagna, tentano di entrare nelle enclave di Ceuta e Melilla. L’ultima è avvenuta il 24 giugno 2022, quando circa duemila africani hanno cercato di scavalcare il muro che separa Melilla. Cinquecento sono riusciti ad aprire un varco alla frontiera ed entrare nell’area, territorio spagnolo.
Il primo ministro iberico, il socialista Pedro Sánchez, ha ringraziato il governo marocchino in un’intervista al programma Hoy por hoy, di radio Cadena Sur, aggiungendo che gli incidenti non erano stati causati dalle forze marocchine e spagnole, ma da organizzazioni di trafficanti di esseri umani e da reti malavitose.
Quello tra Rabat e Madrid è uno degli accordi più importanti stipulati dal paese africano. Il patto fa del Marocco un paese filtro per l’emigrazione africana in cambio dell’accoglienza, da parte della Spagna, di decine di migliaia di lavoratori marocchini stagionali (impegnati per lo più nelle raccolte agricole). Madrid ha il diritto di rimpatriare i clandestini maggiorenni lasciando a Rabat la responsabilità di rimandare gli immigrati che non hanno passaporto marocchino nei loro paesi d’origine.
Gli accordi tra le due capitali sono ritenuti così importanti che subito dopo ogni elezione, il primo ministro spagnolo si reca a Rabat per presentarsi alle autorità del Paese.
Se i trattati sulla migrazione favoriscono chiaramente la Spagna (e l’Unione europea), il Marocco li usa come arma per imporre la sua politica a livello internazionale, in particolare sulla spinosa questione, non ancora risolta, del Sahara occidentale (ex spagnolo, ndr).
Nell’aprile 2021 Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario (organizzazione per l’autodeterminazione del Sahara occidentale, ndr), è stato ricoverato a Saragozza per essere curato dal Covid. Per ritorsione, nello stesso periodo, il Marocco ha accolto il politico indipendentista catalano Carles Puigdemont sospendendo al tempo stesso i controlli alla frontiera di Ceuta per 48 ore e consentendo il passaggio di 8mila migranti. Il governo spagnolo si è così trovato ad affrontare la peggiore crisi migratoria dal 2005, quando il tentativo di diversi migranti di forzare il blocco di Ceuta costò la vita a 18 di loro. A farne le spese sono state soprattutto le isole Canarie, una delle porte d’entrata in Europa, dove sono stati allestiti in fretta e furia nuovi campi di accoglienza. Qui sono state registrate violazioni dei diritti umani, con migranti trattenuti nei porti per diverse settimane.
I rapporti tra i due paesi si sono ristabiliti quando Pedro Sánchez ha licenziato la sua ministra degli Esteri Arancha Gonzalez Laya, che aveva garantito l’accesso in Spagna di Brahim Ghali.
Israele tra Algeria e Marocco
Molto complicati sono i rapporti con la vicina Algeria, paese che ospita cinque campi di indipendentisti del Sahara occidentale, territorio che il Marocco considera proprio (articolo a pagina 46). In tutto sono circa 174mila i rifugiati saharawi. Il conflitto è, per il momento, a bassa intensità, ma l’Algeria potrebbe sfruttare l’impasse rifornendo di armi il Polisario per indebolire Rabat, specialmente dopo il caso Pegasus che ha fatto perdere le staffe al governo di Algeri.
Pegasus è un software prodotto dall’israeliana Nso che sarebbe stato utilizzato dai servizi segreti marocchini per spiare, oltre a giornalisti, attivisti nel campo dei diritti umani e organizzazioni marocchine considerate troppo eversive, anche 6mila politici, uomini d’affari, giornalisti, militari, funzionari e diplomatici algerini.
L’Algeria, che con il Marocco ha già diversi contenziosi aperti, non ha digerito il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Rabat e Tel Aviv avvenuto il 10 dicembre 2020, lo stesso giorno in cui gli Usa hanno riconosciuto al Marocco il diritto di sovranità sul Sahara occidentale (strana coincidenza, visto che Rabat si ostina a dire che i due eventi non sono in alcun modo correlati).
La riapertura delle sedi diplomatiche nei rispettivi paesi ha inasprito i rapporti con l’Algeria che, il 24 agosto 2021, ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Rabat.
Del resto, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati idilliaci in quanto entrambi vogliono diventare la nazione guida del riscatto africano e del
Maghreb. Per perseguire questo obiettivo di leadership, nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione africana (Ua) dopo esserne uscito nel 1984 perché essa aveva accettato come membro la Repubblica democratica araba Saharawi (autoproclamata dal Fronte Polisario per il Sahara occidentale, ndr).
Le due capitali si imputano a vicenda la responsabilità di alimentare l’estremismo sui propri territori. Le forze di polizia e di controterrorismo marocchine hanno 50mila agenti ausiliari che controllano il territorio impedendo la nascita e il proliferare di movimenti terroristici. Tra il 2002 e
il 2017, secondo fonti ufficiali marocchine, sarebbero stati sventati 352 attacchi e scoperte e smantellate 172 cellule terroristiche.
L’Algeria, da parte sua, accusa il Marocco di appoggiare il movimento estremista islamico Rachad e il Mak (Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia, regione algerina). A inasprire le divergenze tra Rabat e Algeri hanno contribuito diversi fattori, tra cui l’aperto appoggio dato da Omar Hilale, rappresentante permanente del Marocco presso le Nazioni unite, al «popolo cabilo [che] merita di godere il diritto all’autodeterminazione», ma soprattutto la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, definito da Algeri «entità sionista» che avrebbe compiuto «incessanti atti ostili» contro il Paese.
Nel 2021 l’Algeria ha chiuso le valvole del gasdotto Maghreb-Europe e ha iniziato a far passare il gas verso la Spagna attraverso il gasdotto Medgaz, che collega direttamente l’Algeria alla nazione iberica, evitando di attraversare il territorio marocchino. Israele è anche presente, in collaborazione con la Russia, nell’accordo siglato il 12 ottobre 2022 per lo sviluppo del settore nucleare tramite la collaborazione in 14 aree di interesse. Oltre che impianti per la produzione di energia da fissione, saranno costruiti impianti di desalinizzazione, acceleratori di particelle, depositi di scorie nucleari e verranno effettuate ricerche minerarie per sfruttare l’uranio presente nel sottosuolo. Questi progetti andranno ad aggiungersi al reattore di ricerca di Maamora, oggi in funzione per la produzione di isotopi a scopo medico.
La rete (avvolgente) della Cina
In tutte queste iniziative di sviluppo, si sta inserendo prepotentemente la Cina, la quale ha sempre elogiato la stabilità politica del Marocco. Le Primavere arabe qui non hanno avuto gli effetti destabilizzanti che hanno avuto in altre nazioni e il rientro di Rabat nell’Unione africana, ha indotto Pechino ad approfondire i legami per poter sfruttare la diplomazia marocchina come grimaldello per entrare nel continente.
Sebbene il Marocco non abbia mai avuto stretti rapporti con il paese asiatico, nel gennaio 2022 è stato firmato un accordo – il primo nell’area nordafricana – riguardante il progetto Belt and Road (la moderna via della seta, ndr). L’alleanza economica prevede 80 progetti cinesi in campo scientifico, agricolo, scolastico e della finanza, tecnologia, sicurezza, industria, salute, ricerca e sviluppo e trasporti. La costruzione del ponte Re Mohammed VI che, con i suoi 952 metri sarà il ponte a campata unica più lungo d’Africa e la realizzazione di una ferrovia ad alta velocità che collegherà Marrakech con Agadir, la quale si affiancherà al treno ad alta velocità che dal 2018 collega Casablanca a Tangeri (350 km), sono alcuni dei programmi più ambiziosi della collaborazione sino-marocchina.
Nel campo degli scambi culturali è in programma anche l’apertura nel Paese di tre uffici dell’Istituto Confucio.
A differenza di altre nazioni africane dove la Cina è già presente, la moderna struttura industriale e logistica marocchina ha permesso a Pechino di concludere accordi per agganciarsi alle strutture già esistenti e integrarli senza prevedere la costruzione da zero di nuovi impianti e progetti. Questo permetterà al Marocco di mantenere una posizione di controllo sugli investimenti e di direzione degli stessi formando delle partnership privilegiate con i cinesi.
Gli spazi di intervento sono ampi: gli investimenti cinesi in Marocco ammontano oggi a 1,26 miliardi di dollari, mentre il commercio bilaterale nel 2020 è arrivato a registrare scambi per 4,76 miliardi.
Un’inezia, se si confrontano a quelli di paesi come la Francia e gli Emirati arabi uniti, che assieme raggiungono i tre quarti degli investimenti totali stranieri in Marocco, ma Rabat vede nella Cina un’opportunità per diversificare i propri legami con l’estero e sganciarsi dall’orbita europea, francese in particolare.
Eppure, è proprio questa caratteristica, la forte presenza francese nel tessuto economico marocchino, che ha trasformato il Paese in un mercato assai appetibile per le compagnie cinesi. Queste vedono nella mediazione marocchina un modo indiretto per entrare nel mercato europeo evitando eventuali contrasti e tensioni politiche con Parigi e Bruxelles mettendo al sicuro quelle aziende cinesi che hanno integrato la loro produzione con industrie francesi fuori dall’Unione europea.
Un esempio di questa cooperazione è la Nanjing Xiezhong, che ha concluso un accordo con la Renault per fornire l’impianto di aria condizionata agli automezzi prodotti nel suo stabilimento da 15 milioni di dollari di Kenitra, mentre, sempre nella città marocchina sull’Atlantico, la Citic Dicastal fornirà, ancora alla Renault, componenti di alluminio per le sue auto.
Tra i progetti più corposi vi sono quelli della casa automobilistica Byd (Built your dreams), che ha in programma la costruzione di uno stabilimento per macchine elettriche, mentre nel 2019 la China communications construction company ha firmato un contratto da 10 miliardi di dollari per edificare la Mohammed VI Tanger tech city, un hub tecnologico che ospiterà 200 aziende cinesi e sarà abitata 300mila persone al fine di sfruttare manodopera a basso costo abbinata alla vicinanza geografica con l’Europa.
L’alleanza tra Pechino e Rabat permetterà al Marocco di diventare la nuova economia trainante nordafricana, ma rischia anche di aumentare i contrasti con i paesi del Maghreb, in particolare dopo il ristabilimento dei rapporti diplomatici con Israele. L’attuale governo marocchino e quelli che gli succederanno dovranno, quindi, giocare una partita molto delicata per non esporsi al rischio di emarginazione da un consesso regionale e internazionale sempre più fluido.
Piergiorgio Pescali
Umma calcistica
Bandiere rosse sventolate da donne, uomini e bambini, tutti con un enorme sorriso stampato sul viso. Era dicembre quando gli emigrati marocchini di tutta Europa – in tutto sono oltre quattro milioni di persone – sono scesi nelle strade e nelle piazze per festeggiare la propria nazionale di calcio, prima squadra africana e araba a raggiungere una semifinale ai mondiali. Un evento a suo modo storico che ha riempito d’orgoglio un paese e un popolo spesso umiliati. Una festa durata però lo spazio di qualche giorno. Poi, la realtà è tornata a dettare l’agenda.
Negli stessi giorni delle finali dei mondiali del Qatar sono, infatti, esplosi gli scandali noti come «Qatar gate» e «Marocco gate»: mazzette date a vari rappresentanti del Parlamento europeo per influenzare le decisioni riguardanti i due paesi. Sui servizi di intelligence del Marocco è anche caduta l’accusa di aver utilizzato
Pegasus, il software di spionaggio sviluppato dall’azienda israeliana Nso Group, per spiare uomini politici (forse anche il presidente francese Macron), giornalisti, oppositori sgraditi.
Se confermata, si tratterebbe di una notizia nella notizia. Marocco e Israele, infatti, non avevano rapporti ufficiali fino ai cosiddetti «accordi di Abramo», sottoscritti (sotto la spinta di Washington) il 10 dicembre del 2020.
I numeri sono da plebiscito russo o cinese. Secondo le statistiche ufficiali, in Marocco, su una popolazione totale di 38 milioni, il 99 per cento è di fede islamica. Si tratta di un islam sunnita aderente alla scuola malikita (corrente che allarga le fonti del diritto islamico). Quello marocchino è un islam moderato. Ciò non significa che l’estremismo sia completamente assente dal paese. La storia racconta di un attentato a Casablanca nel 2003 (con 45 morti) e di uno a Marrakech nel 2011 (18 morti).
La popolazione cristiana è stimata in circa 40mila persone (30mila cattolici).
Papa Francesco ha visitato il paese maghrebino nel marzo 2019, accolto dal sovrano marocchino, re Muhammad VI, sul trono dal luglio 1999. Dal novembre 2020, i Missionari della Consolata operano a Oujda, città nell’estremo orientale del paese, a circa 15 chilometri dal confine con l’Algeria e circa 60 a sud del Mediterraneo.
I primi marocchini arrivarono in Italia negli anni Settanta, epoca che segna l’inizio dell’immigrazione dai paesi non europei. Oggi, quelli in regola sono circa 400mila, costituendo la prima comunità di stranieri extra Unione europea. Su quasi 3,3 milioni di stranieri non comunitari presenti in Italia, l’11,8% proviene dal Marocco. La metà di loro è residente in tre regioni del Nord: Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte (infografica a lato).
Nel rapporto La comunità marocchina in Italia (2021) del ministero del Lavoro, si legge: «Il radicamento della comunità marocchina nel tessuto sociale italiano è reso evidente anche dall’ampio coinvolgimento nei matrimoni misti, per i quali la comunità in esame risulta prima, tra le principali non comunitarie».
Eppure, nonostante i numeri, la storia e una fede islamica più tollerante, nei loro confronti non sono scomparsi sentimenti di razzismo, più o meno palesi. Ne Il razzismo spiegato a mia figlia Tahar Ben Jelloun, forse il più celebre tra gli scrittori marocchini, dà una definizione tanto sintetica quanto incontrovertibile: «Il razzismo è ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze». Le differenze sono tante, ma arricchenti. «Spesso – ha scritto il professor Mohammed Hashas – è difficile per un marocchino definirsi perché ci tiene a mantenere quella molteplicità di ricchezze che lo contraddistingue, una liasion tra la cultura e l’identità amazigh (berbera, ndr), araba, africana, mediterranea e internazionale».
Paolo Moiola
Noor e i parchi solari
La ricerca di fonti energetiche a basso impatto ambientale è stata inserita nel Nuovo modello di sviluppo del Marocco tanto che, secondo i piani, entro il 2030 la metà dell’elettricità generata nel Paese proverrà da fonti rinnovabili. E qui entra in gioco il Sahara occidentale, ricco di sole e vento.
Gli impianti solari in costruzione nella regione sud sahariana forniranno il 30% dell’energia prevista dal piano marocchino.
A oggi esistono cinque parchi solari, di cui quattro appartenenti alla Nareva, la compagnia energetica proprietà al 100% della Sni (Société nationale d’investissement), una holding di proprietà della famiglia reale che opera nel campo finanziario, bancario, alimentare, delle telecomunicazioni e dell’energia rinnovabile.
Nel Sahara hanno investito anche compagnie straniere, tra cui la Siemens gamesa renewable energy, spin-off della Siemens tedesca che fornisce turbine agli impianti eolici marocchini nell’ex colonia spagnola.
La volontà di avviare con decisione la transizione energetica è testimoniata dal Noor («luce» in arabo), il più grande impianto solare termodinamico (Concentrated solar power, Csp) al mondo che ha richiesto un investimento di 9 miliardi di dollari parzialmente finanziati per 435 milioni dal Climate investment funds, 700 milioni dall’Afdb (African development bank) e 3 miliardi dalla Banca mondiale. Situato a Ghessat, nella provincia di Ouarzazate, copre un’area di 2.500 ettari che gode di una quantità di irraggiamento solare tra le più intense al mondo, 2.635 kwh/m2/anno.
Una volta completato, il Noor consentirà di ridurre le emissioni di carbonio di 770mila tonnellate all’anno (240mila tonnellate risparmiate dall’impianto Noor I Csp e 533mila tonnellate risparmiate dal Noor II e Noor III) e si svilupperà su quattro complessi solari con una capacità combinata di 2 Gw: il Noor I Csp, che ha batterie di stoccaggio a sali fusi con capacità di accumulo di tre ore; il Noor II Csp e Noor III Csp, con batterie di stoccaggio di sette ore e l’impianto fotovoltaico Noor IV. Il tutto verrà gestito dalla Nomac, sussidiaria della Acwa e della Masen (Moroccan agency for solar energy).
Pi.Pes.
Il conflitto per il Sahara occidentale
Sabbia negli occhi
Già protettorato spagnolo, dal 1976 Rabat considera la regione un proprio territorio. Al momento, l’indipendenza del popolo dei Saharawi, reclamata dal Fronte Polisario di Brahim Ghali, pare una chimera.
Nel Sahara occidentale, il Marocco ha messo a segno il suo principale successo internazionale, avendo inglobato la parte controllata dalle sue truppe (l’80 per cento dell’intero territorio) con il nome di Province meridionali per un totale di circa 190mila km2 su cui vive una popolazione di 500mila abitanti. Sempre più istituzioni internazionali mostrano cartine del Marocco con la regione meridionale già inclusa (tra queste il Comitato europeo delle regioni, l’ambasciata Usa in Marocco, il sito della Cia, The World Factbook).
Apparentemente arido e senza risorse, il Sahara occidentale è in realtà un forziere di fosfati, garantendo il 70% della produzione mondiale di questo minerale essenziale per l’industria agricola, mentre le acque antistanti le coste sahariane forniscono il 78% del pescato nazionale. Con una tale ricchezza, in tempi di crisi come quelli attuali in cui il controllo delle materie prime per l’agricoltura è strategico, la destabilizzazione della regione non è vista con favore dalla comunità internazionale.
Il Marocco e la Repubblica del Saharawi
Quello del Sahara occidentale è un problema che si trascina dal 7 novembre 1975, quando re Hassan II organizzò la Marcia verde durante la quale 350mila marocchini attraversarono il confine con la regione, protettorato spagnolo dal 1884 (il cosiddetto Sahara spagnolo), per rivendicare il diritto di Rabat sul territorio. Era una chiara violazione del verdetto emesso il 16 ottobre 1975 dalla Corte internazionale di giustizia, in cui si affermava che Marocco e Mauritania «non hanno alcun vincolo di sovranità territoriale sul territorio del Sahara occidentale» e che la popolazione saharawi era «in modo schiacciante» a favore dell’indipendenza. La Spagna, che stava attraversando un difficile periodo di transizione, pieno di incognite dopo la morte del dittatore Francisco Franco (20 novembre 1975), anziché contrastare la Marcia verde entrando in conflitto con Rabat, preferì abbandonare la colonia lasciando che Mauritania e Marocco se la spartissero. Il Fronte Polisario (Frente popular de liberación de Saguía el Hamra y río de Oro), appoggiato dall’Algeria, si oppose a questa soluzione, autodichiarando la fondazione della Repubblica democratica araba del Saharawi e continuando la lotta per l’indipendenza, già iniziata nel 1973 contro la Spagna.
Nel 1979 la Mauritania si ritirò dalla sua parte del Sahara occidentale, affermando che la questione doveva essere risolta come un problema di decolonizzazione. La guerra di liberazione del Fronte Polisario continuò contro il solo Marocco, obbligando migliaia di saharawi a migrare a Tindouf, in Algeria.
Nel 1980 il Marocco iniziò a costruire una linea di divisione fisica lunga 2.700 chilometri (il cosiddetto Berm, o muro di sabbia) che lasciò al popolo saharawi solo un terzo del territorio reclamato.
Furono proposti anche diversi tentativi di raggiungere un’intesa, ma tutti fallirono.
L’intervento delle Nazioni Unite
Nel 1991, Marocco e Polisario raggiunsero un accordo per il cessate il fuoco stabilendo una zona cuscinetto controllata dal contingente Onu del Minurso (United Nations mission for the referendum in Western Sahara) in attesa di un referendum che avrebbe deciso il futuro del territorio e della nazione saharawi. Il referendum non ebbe mai luogo e al suo posto Rabat presentò nel 2006 un piano che avrebbe garantito un governo autonomo saharawi sotto la sovranità marocchina. La proposta, che ebbe l’appoggio statunitense e l’apprezzamento delle Nazioni Unite, venne rifiutata dal Polisario.
La situazione del Sahara occidentale rimase nel limbo delle azioni internazionali sino all’agosto 2017, quando il presidente tedesco Horst Köhler venne nominato inviato speciale dell’Onu.
Fu sotto la conduzione di Köhler che Polisario, Marocco, Algeria e Mauritania iniziarono promettenti negoziati. Le iniziative del nuovo inviato speciale vennero accolte positivamente anche dagli Usa che, assieme alla Francia, proposero un documento che il Polisario interpretò come un appoggio al Piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2006. In più, lo stesso documento accusava il Polisario di aver violato il cessate il fuoco nell’area di Guerguerat (estremo sud del Sahara occidentale) chiedendo di dislocare la funzione amministrativa della Repubblica democratica araba del Saharawi a Bir Lehlu, località nel nord est della regione.
I negoziati iniziarono a Ginevra nel dicembre 2018 con un primo successo del Marocco, che riuscì a portare al tavolo delle trattative, oltre al Polisario, anche Algeria e Mauritania, che invece avevano sempre preferito evitare di essere coinvolte nella questione.
Le improvvise dimissioni di Köhler, avvenute il 22 maggio 2019 per ragioni di salute, misero le trattative in stallo. La ricerca di un nuovo inviato speciale dell’Onu non trovò concordi i due principali attori: la proposta del Polisario di cercare tra le diplomazie scandinave il sostituto di Köhler trovava l’opposizione del Marocco, che considerava quei paesi troppo inclini ad appoggiare le rivendicazioni saharawi.
Da parte sua, lo stesso António Guterres, Segretario generale dell’Onu, faticò non poco a trovare candidati internazionali, visto che la causa del Sahara occidentale non è popolare, non porta consenso internazionale, è per lo più una causa sconosciuta ed economicamente non paga. Solo il 6 ottobre 2021, Guterres riuscì a nominare l’italiano Staffan de Mistura come inviato speciale per il Sahara occidentale.
Il vuoto di potere servì a Rabat per promuovere l’apertura di consolati stranieri nel Sahara occidentale. Sono 26 oggi gli Stati che hanno una rappresentanza a El Aaiun o a Dakhla, le due principali città della regione.
La fine del cessate il fuoco
Tra ottobre e novembre 2020, l’interruzione della strada asfaltata del Guerguerat causata da manifestanti nazionalisti saharawi con l’appoggio del Polisario ha indotto il Marocco a mobilitare le proprie truppe all’interno dell’area, una zona cuscinetto controllata dalle truppe del Minurso. L’azione, provocata anche dal disinteresse dell’Onu che non è intervenuta con l’auspicata decisione per riportare la tranquillità nella regione, ha indotto il Polisario a dichiarare terminato il cessate il fuoco che durava da tre decenni, riattivando i suoi contatti diplomatici all’estero e coordinando i militanti nei cinque campi profughi che sorgono in Algeria.
La latitanza delle Nazioni Unite, sommata al peso sempre più importante assunto dal Marocco nell’economia mondiale, ha indotto gli Stati Uniti a riconoscere, il 10 dicembre 2020, la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale suscitando le proteste di Russia e Algeria. La prima ha contestato la mossa di Trump come violazione del diritto internazionale, la seconda ha criticato Usa e Marocco di aver barattato il diritto di autodeterminazione dei saharawi con la normalizzazione diplomatica con Israele. Biden che, in un primo tempo, aveva criticato la mossa del suo predecessore ha fatto buon viso a cattivo gioco: il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri marocchino, Nasser Bourita, ha ammesso che il piano di autonomia proposto dal Marocco «rappresenta un potenziale approccio per soddisfare le aspirazioni del popolo del Sahara occidentale».
Ad aggravare la precaria situazione venutasi a creare per il Polisario, sempre più abbandonato a sé stesso nel contesto internazionale, vi sono le accuse di nepotismo, corruzione e violenze sessuali provenienti dalla stessa organizzazione indipendentista. Il 12 ottobre 2022, dopo aver negato per anni ogni coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani accadute nei campi profughi, alla fine la leadership saharawi ha ammesso le proprie responsabilità portando la Saharawi association for the defence of human rights a chiedere alla Corte spagnola di aprire un’inchiesta approfondita sull’operato di Brahim Ghali, il settantenne presidente dell’autoproclamata Repubblica democratica araba del Saharawi.
Piergiorgio Pescali
Il peso dei fertilizzanti
La guerra ucraina ha aggiunto alla crisi del grano anche quella dei fertilizzanti, visto che la Russia ne è il maggiore esportatore e da essa l’Uione europea dipende per il 30% del suo fabbisogno.
Dopo Russia, Cina e Canada, il Marocco è il quarto esportatore di concimi al mondo. Il principale produttore nazionale è l’Office chérifien des phosphates (Ocp) che, con 21mila dipendenti in 12 filiali nei paesi africani, è la maggiore multinazionale marocchina. Nel 2020 ha registrato ricavi per sei miliardi di dollari e l’Unione europea è il suo terzo mercato mondiale. La Ocp ha previsto per il 2022 un aumento della sua produzione di fosfati del 10% (1,2 milioni di tonnellate).
Nel 1976 la compagnia ha acquisito la miniera di Phosboucraa nel Sahara occidentale, nelle cui viscere sarebbe contenuto il 2% delle riserve di fosfato del Marocco. Secondo la stessa Ocp, il 100% dei profitti sono reinvestiti nella regione attraverso la Fondazione Phosboucraa che ha avviato diversi programmi di sviluppo, tra cui la creazione di Technopole Forum El Oued, una città di 600 ettari a 18 km da Laayoune che, una volta ultimata, dovrebbe offrire un centro di ricerca e sviluppo per studiare l’ambiente sahariano, un centro di supporto per lo sviluppo economico del Sahara occidentale, un centro culturale, servizi sociali. Ma l’industria dei fosfati è anche estremamente energivora: per produrre la quantità di fertilizzanti oggi commercializzata dalla nazione africana, il Marocco deve spendere il 7% della sua produzione energetica totale e destinare l’1% delle sue riserve idriche.
Il fertilizzante più diffuso è il fosfato di ammonio (Dap) che è prodotto da acido fosforico e ammoniaca. L’ammoniaca si produce in una reazione tra azoto e idrogeno, due elementi la cui produzione è estremamente energivora e il cui prezzo dipende quindi (almeno per l’80%) dal costo del gas naturale. Già alla fine del 2021 l’aumento del costo dei gas ha fatto levitare i prezzi dell’ammoniaca da 110 dollari per tonnellata a mille.
Per diminuire le importazioni di ammoniaca necessarie per la produzione di fertilizzanti (Ocp importa tra 1,5 e 2 milioni di tonnellate di ammoniaca per anno), l’Office chérifien des phosphates nel 2018 ha concluso un accordo di cooperazione con il tedesco Fraunhofer institute per sviluppare un progetto per produrre idrogeno verde a Ben Guerir (Sahara occidentale) assieme all’Iresen (Moroccan institute for research in solar energy and new energies).
Nel frattempo, l’invasione russa dell’Ucraina ha peggiorato la crisi alimentare nel paese, dove la gravissima siccità sta facendo il resto. Già durante l’estate del 2021 il prezzo del grano tenero era aumentato a 270 dollari/ton rispetto al 2020 (più 22%) e a 389 dollari/ton all’inizio di marzo 2022.
Pi.Pes.
Hanno firmato il dossier:
Piergiorgio Pescali
Ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è uno dei più assidui collaboratori della rivista Missioni Consolata.
a cura di Paolo Moiola giornalista redazione MC.
Freddy, un cyclone lungo un mese
Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.
È durato più di un mese il ciclone Freddy, dal 4 febbraio al 14 marzo 2023, affermandosi come uno dei più lunghi di sempre, e ha colpito l’Africa sudorientale provocando 499 vittime in Malawi, 165 in Mozambico e 17 in Madagascar.
Si è formato sull’Oceano indiano, al largo della costa nordoccidentale dell’Australia, e ha percorso ottomila chilometri toccando terra una prima volta in Madagascar il 21 febbraio, e poi di nuovo il 24 febbraio e l’11 marzo in Mozambico@.
Secondo il Sistema globale di allerta e coordinamento in caso di catastrofi, struttura nata da una collaborazione fra Nazioni Unite, Unione europea ed Eurosat, i venti sono arrivati a 250 chilometri all’ora nel tratto a est delle Mauritius@, e intorno ai 170 chilometri orari all’approdo in Madagascar e nel secondo approdo in Mozambico. La popolazione in qualche modo esposta agli effetti del ciclone è stata di 2,9 milioni di persone.
Nei giorni successivi al dissiparsi del fenomeno, gli sfollati in Malawi avevano superato il mezzo milione, mentre in Mozambico erano oltre 163mila le persone ospitate in vari centri di accoglienza nelle province di Zambezia, Sofala, Tete, Inhambane e Niassa@.
«Per quanto riguarda la nostra zona», scriveva lo scorso marzo monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «nei distretti di Doa e Mutarara, nelle pianure e sulle sponde dei grandi fiumi, molte persone hanno perso la casa, hanno perso tutto. Centinaia di edifici sono crollati a causa della forza del vento e della pioggia. La situazione peggiore è l’alluvione provocata dall’esondazione dei fiumi Chire e Zambesi: l’intera regione è allagata, compresi i campi coltivati. Le strade sono interrotte, così come la ferrovia Beira-Tete».
Epidemia di colera
Il ciclone si è abbattuto su Malawi e Mozambico quando entrambi i paesi stavano affrontando un’epidemia di colera, cominciata a marzo 2022, e ha complicato le operazioni di contrasto alla diffusione dell’infezione, anche perché molte strutture sanitarie hanno subito danni.
Il dipartimento per la gestione delle catastrofi del Malawi segnalava@ infatti 81 strutture danneggiate, di cui 74 funzionanti ma non accessibili e 7 in cui il servizio era sospeso. In Mozambico, secondo l’Istituto nazionale di gestione e riduzione del rischio di catastrofi, i centri sanitari danneggiati erano 53, di cui 50 nella sola Zambezia@.
L’epidemia di colera in corso è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come la peggiore nella storia del Malawi. Lo scorso marzo Ifrc Go, la piattaforma della Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale per l’informazione sulle emergenze, riferiva che erano 54.677 le persone colpite dalla malattia nei precedenti 12 mesi trascorsi dal primo caso registrato (3 marzo 2022) e le vittime erano state 1.682@.
Quanto al Mozambico, il portale di informazione umanitaria Reliefweb riportava che la cifra cumulativa delle persone colpite dal colera dall’inizio dell’epidemia era di 11.158 in otto province, con un aumento di 479 casi in un solo giorno; le vittime erano state fino a quel momento 51. Dei 38 distretti colpiti dal colera, 37 segnalavano un focolaio ancora attivo e gli operatori umanitari impegnati sul campo si dicevano preoccupati anche di un possibile aumento delle malattie trasmesse attraverso l’acqua, come la diarrea e la malaria.
Ciclone e colera
L’Oms ha diffuso un avvertimento che descrive l’attuale epidemia di colera come una pandemia che mette a rischio un miliardo di persone in 43 paesi. Nel complesso, i casi in Africa sono stati circa 80mila in 15 paesi nel 2022 e, a gennaio di quest’anno, erano già 26mila in dieci paesi. Le vittime sono state 1.863 l’anno scorso e 660 quest’anno.
La diffusione del colera sembra a sua volta avere un legame con un precedente fenomeno meteorologico estremo, la tempesta tropicale Ana, che ha colpito il Malawi nel gennaio dell’anno scorso. Janet Kayita, rappresentante dell’Oms a Lilongwe, ha detto alla rivista The Lancet Microbe che «le piogge torrenziali e le inondazioni» causate da quel ciclone, così come «i danni estesi ai sistemi idrici e sanitari e il sovraffollamento, hanno creato le condizioni perfette per un’epidemia di colera»@.
Il colera, infatti, è una malattia provocata da un batterio, il vibrio cholerae (vibrione del colera), che si trasmette attraverso l’ingestione di acqua o cibo contaminati dal materiale fecale di individui infetti.
Scarse condizioni igieniche, assenza di impianti fognari adeguati e mancanza di acqua potabile, dunque, sono elementi che aumentano il rischio di contagio.
Inoltre, nel trattamento della malattia, che ha come principale sintomo la diarrea e provoca una rapida disidratazione, è fondamentale avere accesso ad acqua pulita per permettere la reintegrazione dei liquidi e dei sali persi. Per questo, la distruzione dei sistemi idrici, conseguente a un evento estremo come un ciclone, non solo aumenta le probabilità di contagio ma rende più difficile curare le persone che si sono infettate@.
Quattro cicloni in cinque anni
Freddy è il più recente dei fenomeni estremi che hanno colpito queste zone. Soltanto negli ultimi cinque anni ce ne sono stati una decina, di cui almeno cinque hanno provocato vittime e sfollati e creato danni a edifici e infrastrutture per decine di milioni di dollari.
Nel 2019 i due cicloni Idai e Kenneth hanno causato almeno mille morti e costretto 2,2 milioni di persone a sfollare, risultando così uno dei peggiori disastri naturali in Africa meridionale dall’inizio del secolo.
Nel 2021 ci sono state due tempeste tropicali, Chalane e Eloise, mentre nel 2022 la regione è stata colpita dalla tempesta tropicale Ana approdata in Mozambico il 24 gennaio 2022, e dal ciclone Gombe, a marzo dello stesso anno.
«Anche stavolta c’è bisogno di tutto, cibo compreso», ha detto a marzo monsignor Antunes a proposito degli effetti del ciclone di quest’anno, «ma soprattutto è urgente pensare al dopo e mettere le persone in condizione di avere una seconda stagione di semina: dobbiamo fornire loro sementi il prima possibile, così che possano iniziare a coltivare appena le inondazioni saranno finite».
L’impatto del ciclone Freddy non è ancora stato calcolato in modo definitivo, ma Idai e Kenneth combinati avevano causato danni e perdite per 3 miliardi di dollari e avevano imposto costi di ricostruzione per 4,3 miliardi di dollari, in uno stato il cui prodotto interno lordo nel 2021 era pari a 15,8 miliardi di dollari.
Il Mozambico sta anche affrontando un conflitto nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove dal 2017 una milizia islamista affiliata allo Stato islamico (Isis) sta affrontando l’esercito mozambicano e i suoi alleati nella regione, fra cui Rwanda e Sudafrica. Il conflitto ha finora provocato oltre 4.500 morti e un milione di sfollati e rifugiati.
Chiara Giovetti
Foto da vari autori e testimoni inviate dal vescovo di Tete, monsignor Diamantino Antunes.
3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa
Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’istituzione della giornata mondiale della libertà di stampa, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993 in risposta alla «Dichiarazione di Windhoek». La dichiarazione deve il suo nome alla capitale della Namibia, dove fu adottata il 3 maggio 1991 da un gruppo di giornalisti africani che partecipavano a un seminario dell’Unesco dal titolo: «Promuovere una stampa africana indipendente e pluralista», e due anni dopo il giorno della dichiarazione venne scelto per celebrare la giornata mondiale.
Il tema di quest’anno è: «Shaping a future of rights: freedom of expression as a driver for all other human rights» (Plasmare un futuro di diritti: la libertà di espressione come motore per tutti gli altri diritti umani). Gli eventi principali si svolgono alla sede dell’Onu di New York. Fra questi c’è la consegna del premio internazionale per la libertà di stampa Unesco-Guillermo Cano, dal nome del giornalista colombiano Guillermo Cano Isaza, direttore del giornale El Espectador, assassinato nel 1986 di fronte alla sede del giornale da sicari al servizio del cartello di Medellín guidato dal narcotrafficante Pablo Escobar e dai suoi associati.
Alla data di chiusura di questo articolo non è noto il vincitore del premio, dal valore di 25mila dollari; nel 2022 è stato assegnato all’Associazione dei giornalisti bielorussi come dimostrazione di sostegno ai «giornalisti di tutto il mondo che criticano, si oppongono e smascherano politici e regimi autoritari trasmettendo informazioni veritiere e promuovendo la libertà di espressione», come ha ricordato Alfred Lela, presidente della giuria internazionale del premio. Nel 2021, invece, il premio era andato a Maria Angelita Ressa, giornalista filippina naturalizzata statunitense che nello stesso anno aveva anche vinto, insieme al collega russo Dmitrij Muratov, il premio Nobel per la pace@.
Nel 2021, si legge nel rapporto dell’Unesco Journalism is a public good (Il giornalismo è un bene pubblico), i giornalisti uccisi sono stati 55, in calo rispetto al 2020 (62) e dimezzati rispetto al dato più alto nel periodo considerato (2010- 2021), cioè quello del 2012, quando ne furono assassinati 124. Aumentano invece i giornalisti in carcere, 293, il dato peggiore nei dodici anni presi in esame.
Nel quinquennio dal 2016 al 2020, il paese in cui sono stati uccisi più giornalisti è il Messico (61), seguito da Afghanistan (51), Siria (34), Yemen (24), Iraq e Pakistan (entrambi a 23).
Mentre in Niger (e nel Sahel) la situazione economica e sociale si deteriora, le forze vive della nazione si organizzano e creano lavoro per sé e i loro coetanei.
Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo (secondo i parametri delle Nazioni Unite), ma è diventato anche uno snodo strategico fondamentale, per Europa e Africa. I migranti da Africa dell’Ovest e Africa centrale convergono qui, e tentano l’attraversamento del Sahara passando da Algeria o Libia, diventando merce di traffico per gruppi più o meno armati. In Libia i migranti sono incarcerati e torturati, in Algeria spesso arrestati ed espulsi, abbandonati in pieno deserto, in Niger, appena oltre frontiera.
Il Niger è anche incastrato in un’area a elevata instabilità. Mali, Burkina Faso, Ciad, sono oggi paesi diretti da giunte militari. La Nigeria è il gigante africano più problematico a livello sociale.
In quest’area combattono e occupano porzioni di territorio gruppi armati appartenenti a diverse galassie jihadiste: Al Qaeda, Stato Islamico, Boko Haram (vedi bibliografia sul sito MC). L’Unione europea e i suoi paesi membri firmano accordi con il governo del Niger (un tempo sconosciuto, oggi ben noto a Bruxelles e alle cancellerie occidentali), e inviano truppe, blindati, elicotteri, soldi.
Ma in questo dossier è un’altra la storia che vogliamo raccontare. È quella di giovani africani che, consapevoli di non trovare un impiego nel loro paese, si inventano loro stessi un lavoro. Diventano imprenditori, sovente con un approccio «green» rispettoso dell’ambiente, come solo i giovani sanno fare. Tutti con una grande passione, e un sogno che spinge per realizzarsi. Spesso hanno successo e riescono pure a dare lavoro a loro coetanei. Ci raccontano come sono nate le loro imprese, i primi passi e le difficoltà. E quali sono i loro piani per il futuro.
Che sia questa la via per l’Africa?
Ma.Bel.
Niger: Migranti, militari, jihadisti. la situazione
Il dialogo contro le armi
Crocevia di flussi migratori, terra di scorribande jihadiste, il Niger vede aumentare la presenza di eserciti stranieri (formali e non) sul suo territorio. Paese strategico, cerniera tra l’Africa continentale e gli stati sulla sponda del Mediterraneo, è corteggiato da Unione europea e alcuni suoi paesi membri, tra i quali l’Italia. Ma c’è chi dice: non è l’opzione militare che risolverà la crisi.
Atterriamo a Niamey nel pomeriggio. Per la prima volta, uscendo dall’aereo, non mettiamo il piede direttamente sul suolo africano. L’aeroporto internazionale Diori Hamani, vetrina per il viaggiatore, è oggi completamente nuovo. Una manica chiusa ci porta dall’aereo alla moderna struttura. Manchiamo dal Niger da tre anni e il nuovo edificio ci sorprende. Per fortuna, appena fuori ritroviamo il colore ocra della sabbia e degli edifici, le auto scarburate, gli asini che tirano carretti, e uomini e donne nei vestiti locali a prova di calore. Gli odori e la temperatura ci riportano velocemente a qualcosa di noto.
Il Niger occupa una superficie di 1,2 milioni di chilometri quadrati (quattro volte l’Italia), incastonati tra Sahel e Sahara, dei quali la maggior parte sono prateria arida e deserto. La popolazione, di circa 20 milioni, vive prevalentemente in una fascia a Sud del paese, lungo le frontiere con il Burkina Faso e la Nigeria, e nel tratto in cui scorre il grande fiume Niger.
Secondo l’indice di sviluppo umano del Programma nelle Nazioni Unite per lo sviluppo (che misura speranza di vita, educazione e livello economico), il Niger ha sempre occupato uno degli ultimi tre posti della graduatoria. Nel 2020 era l’ultimo su 191 paesi, l’anno dopo è stato «superato» da Ciad e Sud Sudan, salendo al terzultimo posto. Indici, non assoluti, che però ci danno un’idea grossolana del posizionamento di un paese a livello mondiale.
Sicurezza, sempre meno?
Eppure, in questi anni qualcosa è cambiato, oltre all’aeroporto. I gruppi armati della jihad islamista, che pure erano già sul terreno, oggi sono più vicini alle città e la loro presenza si sente.
Il 9 agosto 2020 in un attacco nei pressi di Kouré, il parco delle giraffe a circa 50 km da Niamey, sono morti sei ragazzi francesi, di età compresa tra i 25 e i 30 anni, operatori dell’Ong Acted, e due nigerini, l’autista di Acted, e il presidente delle guide turistiche. Dopo il massacro, il paese è stato dichiarato «zona rossa» in ambito umanitario, e gli spostamenti via terra sconsigliati o proibiti da ambasciate e Ong.
Oltre questo attacco di livello superiore, in quanto verso stranieri, la situazione si è notevolmente degradata a spese della popolazione locale.
Lungo la strada principale verso il Burkina Faso, a Ovest, si sono verificati diversi attacchi nei confronti dei civili, che fuggono dai villaggi e si radunano in alcune città.
Anche la strada che porta in Mali, a Nord Ovest, nella regione di Tillaberi, è diventata molto insicura perché teatro di frequenti blitz dei terroristi, che sconfinano dai paesi vicini e attaccano posizioni militari e villaggi.
Nell’estremo Est del paese nella regione di Diffa, invece, è sempre attivo il gruppo Boko Haram (cfr MC gennaio 2021), sulla frontiera quadrupla con Nigeria, Ciad e Camerun. Sebbene si sia diviso in più fazioni e abbia perso, al momento, aggressività.
Cosa fa la Chiesa
Ci troviamo nell’arcidiocesi di Niamey che si estende per circa 200 chilometri quadrati nell’Ovest del paese. «Il grande problema che abbiamo nell’arcidiocesi di Niamey sono gli sfollati, la gente che scappa dalla zona di Tillaberi (area detta delle tre frontiere, tra Niger, Mali e Burkina Faso, ndr) e anche da Torodi e Makalondi (lungo la strada verso il Burkina Faso, ndr).
I jihadisti arrivano con le moto, ammazzano, bruciano, e costringono la gente ad andarsene. Così sono migliaia che lasciano i propri villaggi e si raggruppano in luoghi più sicuri cercando di andare verso la capitale. Ad esempio, a Makalondi ce ne sono molti accampati come si può». Chi ci parla è don Giuseppe Noli, missionario fidei donum dell’arcidiocesi di Milano, da otto anni presente nel paese. Lo incontriamo nel cortile della sede diocesana, dove si sta svolgendo una chiassosa festa della minoranza anglofona, in gran parte di origine nigeriana.
«Agli sfollati manca cibo, acqua, e anche la casa. La Chiesa cerca di fare qualcosa, dare un minimo di assistenza e risolvere i bisogni di base. Inoltre c’è il problema delle scuole chiuse, alcune oramai da oltre un anno, sempre a causa degli attacchi. Così la Chiesa organizza dei corsi per i bambini fuggiti dai loro villaggi».
Don Giuseppe ci parla dell’impegno di monsignor Laurent Lompo, arcivescovo di Niamey, noto ai lettori di MC (intervista su MC aprile 2019): «Il vescovo è molto attivo sull’emergenza sfollati, e ha due punti a suo favore: è nigerino, per cui parla molte lingue locali ed è ascoltato; è libero, nel senso che non dipende da fondi statali, ma cerca finanziamenti all’estero per la diocesi. Inoltre, è una persona che parla chiaramente, senza paura».
Don Giuseppe ci esprime il suo sconcerto: «Non si capisce che strategia ci sia dietro il modo di operare dei gruppi armati, è distruttivo e non sembra che porti a qualcosa».
Eserciti stranieri
Intanto si rafforza la presenza militare straniera nel paese. Sono infatti diversi gli eserciti presenti in Niger, con la missione di lottare contro il terrorismo jihadista.
Recentemente, anche il contingente principale della missione francese Barkhane e di quella europea Takuba, di stanza in Mali da 10 anni (la prima, chiamata inizialmente Sérval), si è trasferita in Niger, perché non «gradita» all’attuale giunta militare maliana.
All’aeroporto c’è anche una base dell’esercito Usa, che, tra l’altro, impiega droni pilotati da remoto per combattere contro Boko Haram nell’Est del paese. È presente un contingente tedesco, con uomini e mezzi blindati. E, dal 2018 c’è anche una missione militare italiana, attualmente di circa 200 unità (cfr. MC marzo 2018).
Dal 2012, inoltre, è presente Eucap Sahel Niger, missione civile di esperti delle forze di polizia di paesi europei, con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine allo scopo di combattere il terrorismo. La missione è stata recentemente prolungata fino al settembre 2024. È composta da un centinaio di esperti e ha una dotazione di 72 milioni di euro.
Una nuova missione, l’Eumpm (Missione di partenariato militare della Ue), è stata istituita dal Consiglio europeo il 12 dicembre scorso, nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) «per sostenere il Niger nella lotta contro i gruppi terroristici armati […] rafforzerà la capacità delle forze armate del Niger di contenere la minaccia, proteggere la popolazione e assicurare un ambiente sicuro e protetto, nel rispetto del diritto in materia di diritti umani e del diritto internazionale umanitario», si legge sul comunicato stampa. Il suo mandato durerà tre anni con un budget previsto di 27,3 milioni di euro.
Insomma, un bel po’ di militari stranieri – e di personale dei servizi segreti dei diversi paesi – che capita di incrociare nei locali di Niamey.
Combattere il terrorismo
«Tutti questi eserciti stranieri stanno perdendo il loro tempo e i loro soldi. Farebbero meglio ad andarsene», ci dice Moussa Tchangari, leader della società civile e fondatore di Alternative espaces citoyens, che incontriamo nel suo ufficio di Niamey. «La gente non vede in cosa siano efficaci, perché non hanno dato risultati, infatti i gruppi jihadisti stanno progredendo. La popolazione vede forze militari straniere, ben equipaggiate, ma non vede cosa fanno. Allora può addirittura pensare che i paesi che le inviano siano dietro a tutto quello che sta succedendo. Purtroppo, è un’idea che sta prendendo terreno. Non solo qui, ma anche in Mali e in Burkina Faso.
L’errore fondamentale del governo e dei suoi partner stranieri è di pensare che si possa risolvere il problema del terrorismo con la forza. Partendo da questa idea sbagliata, chi governa ha accettato che venissero eserciti stranieri. Questi sono venuti, perché pensano che la soluzione sia militare, ma anche perché la vedono come un’opportunità. Ma se vieni con uomini e mezzi e non porti risultati, il rischio è un effetto boomerang». Questo è quanto sta succedendo, e si inizia a percepire la diffusione di un sentimento antiimperialista in generale, a fianco di quello antifrancese storico (dovuto alla colonizzazione).
«La colonizzazione stessa è finita perché le grandi potenze non potevano preservare la loro egemonia con la forza delle armi. Sono stati vinti dai popoli colonizzati che non avevano eserciti potenti. L’errore fondamentale è credere che la soluzione sia militare, e trascurare tutte le altre opzioni».
Dialogo, non armi
Secondo Tchangari, i gruppi armati jihadisti sono attori politici, e «il loro obiettivo è prendere il potere». La soluzione per risolvere la crisi, secondo lui, starebbe nel riuscire a intavolare un dialogo con loro: «Se non vuoi la guerra, l’unico modo per risolvere la situazione è la discussione. Si parla con chiunque, quindi si può discutere anche con questi qui, che sono in maggioranza originari di quest’area. In ogni caso, si dovrà arrivare a farlo. Speriamo che, quando si farà, non sia troppo tardi e che non abbiano guadagnato troppo terreno».
Tchangari analizza la situazione sul campo sulla base delle sue informazioni: «D’altronde il popolo discute con loro. Siamo noi delle élite, gente di città, che ha studiato, che abbiamo problemi. La gente dei villaggi fa accordi locali con i gruppi armati. Succede in Mali e in Burkina. Qui capita che un gruppo jihadista controlli un territorio, metta delle tasse, mantenga la sicurezza, permetta agli autobus di circolare». Su questo aspetto abbiamo anche altre testimonianze a conferma: controlli di documenti di passeggeri di minibus, non da parte delle forze dell’ordine, ma di miliziani.
«Pensate che quello che vogliono fare sia un problema per il popolo? Se prendiamo un ladro gli tagliamo un braccio, se vediamo qualcuno che fa adulterio lo lapidiamo, se chiudiamo i bar, se le donne devono portare il velo, e nelle scuole si separano maschi e femmine, tutto questo, per la gente ordinaria fa parte in qualche modo della loro visione. La differenza tra il popolo e i gruppi armati, è che questi ultimi vogliono imporlo con la forza a tutti, mentre il nigerino medio pensa che sia bene, ma non vuole imporlo ai vicini».
Chiediamo allora perché ci sono i massacri e la gente scappa. «Non è sistematico. L’idea dei jihadisti criminali che vanno da un villaggio all’altro uccidendo non è la realtà. Se avessero fatto così, avrebbero fallito da tempo. Sono attori politici, che possono uccidere, ma fanno anche attenzione. In alcuni luoghi hanno commesso violazioni dei diritti, ucciso. Ci sono motivi: presenza di milizie di autodifesa, rifiuto della loro autorità. Quando andate a chiedere alla popolazione: chi vi fa più paura incontrare? L’esercito o i jihadisti? Spesso rispondono: l’esercito».
Strade migranti
La migrazione rimane un tema caldo in Niger, per autorità locali e paesi stranieri. Tchangari ci parla della situazione attuale. Il Niger è ancora il crocevia principale dei flussi dell’Ovest e del Sud, verso Nord: Libia e Algeria, e quindi coste del Mediterraneo. Anche questo è un motivo della presenza militare europea sul suo territorio. «I numeri non sono cambiati negli ultimi anni. Ci sono ancora molte ragioni che spingono la gente a muoversi. Chi viene da Nigeria, Mali o Burkina Faso, parte a causa dell’insicurezza. Ma le motivazioni sono anche altre e i movimenti sono tanti. In generale sono le difficili condizioni economiche o sociali che spingono la gente a partire, ma non è solo materiale la motivazione alla migrazione. C’è gente che si muove perché pensa che sia bene cambiare ambiente, anche culturale. Pure dal paese più ricco la gente migra, va altrove per fare altre cose.
Penso che sia impossibile trovare il modo di tenere la gente a casa loro e fare sì che non parta».
Al momento di salutarci Moussa Tchangari ci accompagna nel cortile della sede di Alternative. Qui vediamo molti giovani indaffarati. Sono ragazzi e ragazze che seguono diverse formazioni, ci spiega il nostro interlocutore: «È bene dare quesat possibilità, ma non basta. Quello che facciamo noi non è niente rispetto alla massa dei giovani che hanno bisogno. Potrebbe diventare un’alternativa solo se si facesse su larga scala».
Marco Bello
Esther: donna, madre, imprenditrice
La regina della moringa
Dopo dieci anni di lavoro per altri, Esther decide di fondare la propra impresa. Si butta sul settore benessere e bio, diventa esperta di erbe e lancia prodotti innovativi. Oggi impiega sette persone e ha aperto un negozio senza aiuti esterni.
Siamo in un quartiere centrale di Niamey, su una strada di terra, non certo commerciale. Arriviamo a una boutique con insegne di colore verde e rosso. A fianco a un logo ben studiato, nel quale appare una figura umana (rossa) accanto a una foglia (verde), c’è scritto: «NutriSat», e sotto «production de produits agroalimentaires pour le bien etre de la famille» (produzione di prodotti agroalimentari per il benessere della famiglia). Un pannello più in basso elenca i prodotti che si possono reperire: «Tisane, infusioni, spezie, succhi naturali, miele puro».
Entriamo. Nel negozietto ci accoglie una giovane donna, vestita in abiti sgargianti di taglio africano e buona fattura. Non porta il velo, come invece la maggior parte delle donne del Niger che hanno superato gli otto, nove anni di età. «Sono Esther Dossa Godo, ho 34 anni e quattro figli. Sono nata e cresciuta a Niamey, ma i miei genitori sono migrati dal Benin. Ho studiato marketing e gestione d’impresa e ho lavorato per 10 anni presso privati, prima di decidere di creare la mia impresa», ci racconta Esther seduta alla sua scrivania, mentre di fronte la sua assistente si occupa della contabilità.
«Il settore che mi è subito interessato è quello della trasformazione agroalimentare di erbe per il benessere, e l’approccio “bio”. In un periodo della mia vita sono stata poco bene, e le tisane di erbe mi hanno molto aiutata. Così nel 2018 ho iniziato a provare la produzione artigianale di tisane, e l’anno successivo ho registrato la mia impresa NutriSat».
Esther ci racconta le difficoltà, avute come donna e come imprenditrice: «Siamo in Sahel, ci sono molti vincoli sociali ed economici sulle donne. Il nostro ruolo è visto come aiuto dell’uomo, in casa per cucinare, occuparsi dei figli. Quando una donna vuole affermarsi come leader o come imprenditrice si deve confrontare con diversi impedimenti a livello sociale. Io ho dovuto impormi, anche con la mia famiglia».
Prodotti naturali
L’elemento base utilizzato da NutriSat è la moringa. Un albero, originario dell’India, che si sta diffondendo rapidamente in Africa, e ha molte proprietà benefiche come integratore alimentare biologico: antiossidante naturale, ricco di vitamine, proteine e calcio. «Trasformiamo le foglie di moringa per farne la polvere che si mette sui cibi, e tisane di diverse qualità. Adesso stiamo studiando un prodotto nuovo da lanciare sul mercato: il succo di moringa.
Realizziamo inoltre prodotti a base di spezie, zenzero, curcuma, polvere di baobab e miele.
NutriSat non ha campi di moringa, ma siamo in partenariato con dei produttori locali e prendiamo da loro la nostra materia prima. Per loro è diventata una fonte sicura di reddito. Attualmente trasformiamo 200 chili di foglie a settimana.
Vorrei far notare che abbiamo portato una rivoluzione nella filiera della moringa. In Niger è un ingrediente di cucina e abitualmente è consumata insieme a un alimento, ma noi l’abbiamo trasformata per presentarla sotto forma di tisana. Questa è stata un’innovazione».
Esther ci tiene a dire che NutriSat punta al riconoscimento bio: «Con i produttori facciamo delle sensibilizzazioni sull’uso dei concimi e i loro effetti indesiderati, e privilegiamo il fatto che i prodotti siano trattati in modo naturale, senza pesticidi chimici. I prodotti sono bio, ma stiamo aspettando una certificazione ecocert».
Generare lavoro
Esther ci spiega che NutriSat impiega oggi sette persone, compresa la fondatrice. Ci sono dei ragazzi che si occupano della trasformazione, e altri che fanno la produzione e vendita. «Sono giovani senza formazione, noi abbiamo insegnato loro un mestiere che gli permette di avere un reddito sicuro.
Oltre a loro, abbiamo dei collaboratori: giovani che vengono a prendere i prodotti per andare a venderli. Alla fine della giornata tornano, ci danno il costo del prodotto venduto e ricavano il loro beneficio. Distribuiamo poi nei negozi che prendono i prodotti e hanno un loro guadagno».
Una finestra di visibilità
«All’inizio non avevamo il nostro punto vendita, e ci siamo chiesti come fare. Montavamo un banchetto allo stadio Seyni Kountché, dove vanno gli sportivi ad allenarsi. Abbiamo offerto delle degustazioni, e così ci siamo creati una clientela. Quindi abbiamo iniziato a vendere sui social
network e abbiamo creato una boutique virtuale, oltre a quella fisica mobile, che allestivamo tutti i giorni allo stadio».
Parte del ricavato ha poi permesso a Esther di costruire la boutique fissa dove ci troviamo: «Interamente fatta reinvestendo fondi dell’impresa – dice con orgoglio -. L’abbiamo lanciata a febbraio 2022».
NutriSat ha anche iniziato a distribuire tramite alcune farmacie partner, che ora sono una decina.
Ci sono poi delle piccole boutique, specializzate nella vendita di prodotti bio o naturali, che ci distribuiscono. «Stiamo andando nei paesi confinanti, e stiamo proponendo i nostri prodotti ad alcuni supermercati. Inoltre, partecipiamo alle fiere internazionali in Africa dell’Ovest, per presentare i nostri prodotti e farli degustare. Quando i clienti apprezzano, indichiamo loro il punto vendita presente nella loro città.
Oltre a questo, facciamo del porta a porta. Con i nostri giovani, andiamo nelle imprese per proporre dei prodotti e spiegarne i benefici».
Chiediamo a Esther un messaggio per i ragazzi che vorrebbero seguire la sua strada: «Non bisogna scegliere di fare gli imprenditori avendo come primo obiettivo i soldi. Se lo fate, non riuscirete. Andate con la passione, fate quello che vi appassiona e a quel punto riuscirete».
Marco Bello
I succhi di Blandine
A rriviamo alla periferia di Niamey. Lungo una strada sterrata ci aspetta una signora ben vestita, davanti a un cancello di metallo. Entriamo in un piccolo cortile con poche piante. Sulla destra uno spazio di pochi metri quadri coperto da una tettoia. Vi vediamo una cucina a gas e alcuni contenitori di metallo.
Ci aspetta una ragazza vestita all’africana, con un sorriso particolare.
«Mi chiamo Blandine Akitan e sono nata a Niamey. Sono la promotrice della micro impresa Yalis succhi naturali», ci dice subito molto soddisfatta. «Mia madre mi ha sempre insegnato che bisogna lavorare duro per prendere in mano la propria vita.
Quando ero piccola, vendevo caramelle in strada, così mi sono subito fatta una mentalità commerciale. Da giovane studentessa, nel tempo libero vendevo succhi prodotti da altri, ma poi ho pensato a diventare io stessa imprenditrice».
Era il 2019 e Blandine aveva 28 anni, quando ha dato forma alla sua idea.
«Si tratta di una start up e, al momento, ci lavoriamo io, mia madre e mio fratello. Trasformiamo tutto quello che è frutta e verdura in succhi naturali. Facciamo anche dei mix tra frutti e verdure diversi. La gente ama queste bevande, prive di conservanti, che fanno bene alla salute. Ma la prima difficoltà che abbiamo incontrato è stata la loro conservazione.
Mia zia è stata in Burkina Faso a seguire alcune formazioni e le hanno insegnato delle tecniche. È così che abbiamo imparato a fare la pastorizzazione. Oggi produciamo i nostri succhi qui e li commercializziamo in tutto il Niger. Li mandiamo in diverse città con gli autobus di linea, ben imballati in casse».
Un’altra problematica è stata l’approvvigionamento dei contenitori: «Le bottigliette sono riciclabili, ma in Niger non le troviamo. Le facciamo arrivare dal Benin. Così anche i tappi a corona. Mentre le etichette si troverebbero, ma costano più care. Ora, alcuni clienti, ci hanno chiesto i tappi a vite, e vediamo come organizzarci».
La Yalis, attualmente, nel piccolo spazio che ha a disposizione, produce tra i 45 e i 60 pacchi da 24 bottiglie ogni settimana. Con il desiderio di aumentare il volume: «I nostri clienti sono alberghi, ristoranti e privati che organizzano cerimonie varie, come matrimoni, battesimi, incontri tra amici e tornei sportivi».
Questa piccola impresa famigliare ha grandi ambizioni: «Vogliamo ingrandirci, produrremo in locali più grandi che stiamo sistemando, li attrezzeremo con strumenti di trasformazione più moderni e acquisteremo un mezzo per le consegne in città. L’idea è poi vendere anche in altri paesi della regione».
Blandine ci lascia un messaggio per i più giovani, che sono interessati a iniziare un’attività: «Questa è una terra vergine per la nuova imprenditoria. Quello che i giovani cercano all’estero, si trova già qui in Niger. C’è la terra da coltivare, ci sono molti prodotti da trasformare. Con molta tenacia e coraggio, insieme cambieremo della nostra società».
Ma.Bel.
Ami e Aicha: dalla tradizione ai supermercati
La via del formaggio
Ami viene da una famiglia di veterinari. Ha studiato diritto e marketing, ma decide di fondare la propria impresa. Sceglie il settore caseario e ha in programma una forte espansione.
Niamey. Arriviamo in un quartiere ai limiti della città, dove si trovano grandi case con ampi cortili e terreni non edificati pieni di immondizia e sacchetti di plastica.
Entriamo in una di queste abitazioni, dove ci accolgono due giovani donne. Siamo nella sede di Amansi, micro impresa produttrice di formaggio.
Le due donne, velate con hijab, ci ricevono con un largo sorriso. La responsabile prende la parola: «Mi chiamo Ami Bickou. Sono nata nel 1990 a Tanout, dove il deserto incontra la savana, nel Niger profondo. La mia è una famiglia di veterinari, per questo motivo conosco gli animali e il latte. Dopo gli studi in diritto e marketing, iniziare a lavorare era complicato. Per questo motivo ho scelto di fare l’imprenditrice e mi sono interessata al settore caseario, nel quale avevo già qualche competenza e alcuni contatti. Ho iniziato nel 2020 e oggi siamo in tre: io, la mia assistente, Aicha, qui presente, e un collaboratore».
Ci raccontano che producono tre tipi di formaggio, dei quali uno fresco, un formaggio peul (etnia di allevatori, ndr) e un altro tradizionale, chiamato «chuku», molto consumato nella zona.
La produzione la fanno in una piccola costruzione con il tetto di lamiera, in un angolo del cortile, nella quale ci sono tutte le attrezzature di Amansi.
Arriva un uomo con un bidone di latte sulla bicicletta e lo passa ad Aicha che lo filtra accuratamente. Poi le due donne iniziano per noi una lavorazione. Fanno bollire il latte, ne misurano temperatura e densità. Intanto Ami ci descrive il processo: «Acquistiamo il latte fresco da gruppi peul oppure da una fattoria moderna non lontano da qui. La prima operazione è filtrarlo e verificarlo con un latto-densimetro per controllarne la qualità».
Sul volume lavorato precisa: «Attualmente trasformiamo 1.400 litri a settimana. Abbiamo molte prenotazioni, ma non possiamo produrre grandi quantità perché non abbiamo spazio in ambienti idonei alla conservazione. Quindi talvolta, facciamo la lavorazione due volte al giorno. Inoltre, durante la stagione calda, ci sono problemi di elettricità, per cui vorremmo mettere dei pannelli solari per alimentare alcuni frigoriferi».
Progetti futuri
Mentre parliamo, Ami e Aicha procedono con la trasformazione, ottenendo del formaggio fresco e del chuku. Per quest’ultimo dispongono delle forme rettangolari sopra una rete per sgocciolare. Il formaggio, alla fine, avrà la forma di fogli sottili.
«Nel nostro business plan è previsto l’acquisto di materiale che ci permetta di lavorare meglio rispetto al processo che utilizziamo ora che è molto artigianale. Vogliamo fare un controllo più completo del latte e produrre maggiori quantità di formaggio. Lo spazio per la lavorazione è piccolo, per cui vogliamo estendere la formaggeria Amansi costruendo nuovi locali. La domanda è molta e i prezzi del prodotto finito stanno aumentando. In tre anni vorremmo essere a regime con la nuova struttura».
Per la distribuzione si appoggiano ad alcuni negozi, ma non solo: «Portiamo i nostri formaggi in diversi negozi di alimentari in centro città e in altri quartieri. Inoltre abbiamo iniziato una vendita online. Abbiamo un sito web dove il cliente può prenotare il prodotto, oppure con Facebook o Whatsapp. Ci indica dove portarlo e paga alla consegna. Stiamo inoltre attivando il sistema di pagamento tramite cellulare».
Chiediamo ad Ami le difficoltà che ha incontrato: «Come donna imprenditrice ci possono essere più ostacoli nella nostra società. Occorre viaggiare, assistere a riunioni. Ma non è così difficile quando la famiglia ti sostiene, e io ho un marito molto comprensivo. Poi ho tre figli maschi e un quarto in arrivo. Spero che sia una bambina!».
Marco Bello
Yogurt, che passione!
«Mi chiamo Arrafat Abdourahamane, ho 32 anni, e nel 2019 lavoravo in un incubatore (società che aiuta le micro imprese, ndr) con altri amici. Accompagnavamo giovani a creare la propria impresa. A un certo punto ci siamo detti: anche noi dovremmo fare gli imprenditori, se vogliamo davvero accompagnare gli altri. Ci è venuta l’idea di lavorare sulla filiera del latte.
All’inizio eravamo in tre. Ci siamo informati e abbiamo fondato la microimpresa Sudu-kossam. Facevamo tutto: raccolta del latte, produzione, consegna. Abbiamo cominciato trasformando 20 litri al giorno, abbiamo sempre incrementato a piccoli passi. Oggi siamo a 300-400 litri, e vogliamo arrivare fino a mille.
Le mie socie sono Saratou Abdou, che si occupa dell’amministrazione, e Adama Mahamadou, responsabile della produzione. Io seguo gli aspetti finanziari. Adesso abbiamo una decina di collaboratori che lavorano nella produzione, pulizia, trasporto e ricerca clienti. Noi associati, per ora, non abbiamo salario. Quando c’è del margine, lo reinvestiamo nell’impresa, per espandere l’attività. Siamo convinti che quando questa decollerà, avremo i nostri benefici.
I n un paese come il nostro ci sono grossi gruppi nel settore del latte. Dovevamo quindi smarcarci da essi. Abbiamo dunque scelto di produrre yougurt al naturale al 100%, e questa è la nostra eccellenza. Stiamo mantenendo questo standard, ma adesso vorremmo fare un salto quantitativo di produzione. Per fare questo dobbiamo anche migliorare la comunicazione.
Per la distribuzione abbiamo ottanta punti vendita in città: supermercati, negozi e anche privati. Usiamo pure Whatsapp per prendere le prenotazioni. Clienti che fanno cerimonie come matrimoni e battesimi ci ordinano i prodotti. Abbiamo anche una strategia di ricerca di nuovi clienti.
Per promuovere la micro imprenditoria, occorre fare un lavoro di fondo con i nostri giovani. Prima di tutto far capire loro l’importanza di essere imprenditori. Chi va a scuola deve sapere che non è detto che qualche azienda lo assumerà.
Poi, nel Sahel, abbiamo un problema di sicurezza. Avere un lavoro è una questione primordiale: chi ha un lavoro non penserà tanto a migrare e neppure a fare il terrorista. Ed essere imprenditore è un’opzione, non semplice, ma percorribile».
Ma.Bel.
Il nutrizionista e l’alga miracolosa
Mister spirulina
Laureato in biochimica e nutrizione e studente di dottorato, Amadou crea prodotti altamente nutritivi per grandi e piccoli. Si basano sulla spirulina, alga che coltiva lui stesso. La sua micro impresa è appoggiata dall’incubatore dell’Università.
Lasciamo il centro di Niamey e inforchiamo il ponte Kennedy, immersi in un traffico di motorini e auto scarburate. Questo ponte fu il primo a collegare le due sponde del fiume Niger nella capitale nel 1970, ed è stato poi seguito da altri due, realizzati con fondi e da imprese cinesi. L’ultimo di questi, chiamato ponte Generale Seyni Kountché, già capo di stato, è stato inaugurato due anni fa.
Sulla sponda destra del fiume si è sviluppata l’Università Abdou Moumouni, ed è lì che ci stiamo dirigendo.
Da alcuni anni è stato creato il Centre incubateur, ovvero un incubatore di microimprese. Il suo motto è «Per l’accompagnamento efficace alla creazione e allo sviluppo di imprese innovative in Niger». Il centro offre servizi a giovani universitari talentuosi che si lanciano nel mondo dell’impresa. Fornisce uno spazio per lavorare con uffici e sale riunioni, una sala computer, formazioni in gestione d’impresa, contabilità e molto altro. Organizza fiere per le imprese innovative.
Qui incontriamo un giovane vestito con una lunga tunica bianca, alla nigerina. È Amadou Abdoul
Razak, 31 anni, laureato in biochimica, con un master in nutrizione e studente di dottorato sullo stesso tema. Amadou, con l’aiuto dell’incubatore, ha fondato la Nutrisev+ una micro impresa che produce integratori alimentari.
Ci porta in un campo vicino, dove un recinto racchiude alberi e arbusti cresciuti su un suolo arido. Qui ci mostra il suo tesoro: una grande vasca di cemento, protetta da un telo dal forte sole saheliano. L’acqua non è limpida, ma verdastra. Amadou ne preleva un po’ con una paletta e vediamo in dettaglio una schiuma verde. Sono alghe: è la famosa spirulina, dalle proprietà sorprendenti.
Un prodotto speciale
«Quest’alga è molto ricca di ferro. Fa molto bene a persone anemiche o con emoglobinopatia. Grazie alle mie ricerche ho sviluppato anche un altro prodotto, oltre alla polvere di spirulina essicata. Si tratta di una farina nutrizionale per bambini da 6 mesi a 5 anni, sia per bimbi malnutriti che per lo svezzamento. È composta da spirulina, mais, soia, e altri elementi nutritivi».
Da queste ricerche è nata appunto Nutrisev+, che produce farine pediatriche e prodotti terapeutici come integratori per donne incinte e per bambini. Ma anche per gli sportivi o chi ha carenze di ferro, vitamine o elementi nutritivi in genere.
Amadou si racconta: «Facevo pratica negli ospedali e nei centri nutrizionali, e ho potuto constatare che i prodotti utilizzati normalmente non raggiungono l’obiettivo del recupero nutrizionale. Da qui l’idea di trovare qualcosa che la gente possa utilizzare senza problemi, e di creare una farina di svezzamento. Era il 2019. Volevo valorizzare il risultato dei miei studi di master in nutrizione. Ho formulato una farina, e l’ho messa a disposizione di alcuni bambini malnutriti all’ospedale, e ha dato dei risultati molto interessanti».
Incubato
Così Amadou ha presentato un progetto d’impresa all’incubatore dell’università, e il suo progetto è stato selezionato tra molti altri. Così viene «incubato»: ha uno spazio per lavorare e riceve formazione per imparare a fare il piano d’affari, i piani strategico di marketing, relazionale e commerciale, lo studio di mercato, su come affrontare il pubblico selezionato per il prodotto e avere feed back sullo stesso.
«Vogliamo valorizzare ancora di più la spirulina producendo delle compresse, per permettere alle persone che non possono usare la farina di assumerla comunque.
Abbiamo fatto lo studio di mercato, il business plan dell’impresa e identificato i prezzi per i prodotti. Oggi siamo in tre a lavorarci, ma in futuro dovremmo essere di più. Penso a operatori per le macchine di essiccazione, un contabile, un guardiano, e alcuni ambulanti che vadano a distribuire il prodotto. Vorremmo, inoltre, mettere chioschi di vendita nei comuni, e creare dei punti di distribuzione nei dispensari e nelle farmacie. Faremo una campagna di sensibilizzazione nutrizionale, per far conoscere questi prodotti. Apriremo un ufficio in centro, lasciando dunque l’incubatore».
Intanto Amadou ci ha condotti in un piccolo stabile dove la spirulina e gli altri prodotti vengono lavorati e dove si realizzano le miscele di farine. Ci mostra alcuni imballaggi, dicendo che sono dimostrativi e che stanno studiando, con una ditta specializzata, quali contenitori utilizzare per il mercato.
Perseverare
Passare dalla ricerca all’impresa è complesso: «Non è facile valorizzare i propri studi. Quando proponiamo la nostra idea a qualcuno, questo inizia a dire che è troppo complicato, non può funzionare, ti servono tutte queste macchine, non hai tutti questi mezzi. Insomma, cercano di distruggere la tua idea. È una prima difficoltà. Alcuni vogliono rubarti il sogno usando parole che ti scoraggiano. Non bisogna lasciarsi abbattere, bisogna perseverare».
E ai giovani nigerini che vedono il loro futuro altrove, Amadou dice: «Tutti i paesi che si sono sviluppati, lo hanno fatto grazie alla gioventù. Il sapere che i giovani hanno acquisito lo hanno materializzato nei loro paesi. Oggi, in Niger, molti studenti finiscono gli studi e hanno il diploma, ma vanno a cercare il lavoro altrove. Lo stato non riesce più a impiegarli, come neppure le imprese e le Ong. Allora perché non valorizzare il loro sapere, producendo qualcosa che si tocca con mano e va a profitto loro e della popolazione?».
Marco Bello
Passata «made in Niger»
«M i chiamo Ramatou Chaibou, sono nata a Niamey nel 1996 e sono la promotrice di Ram’s agrobusiness, un’impresa di trasformazione agroalimentare. La Ram’s trasforma prodotti orticoli con metodi naturali, in particolare la cipolla in polvere e purea, e il pomodoro fresco in passata e polvere.
L’idea è nata dalla constatazione che in Niger si consuma molta cipolla, e si coltiva una varietà particolarmente rinomata, la Violet de Galmi. Quando è tempo di raccolta, il prodotto invade il mercato e i prezzi sono di circa 6mila franchi al sacco (9 euro, ndr). Passato il periodo, le cipolle iniziano a scarseggiare, e quelle che si trovano arrivano a costare fino a 16mila franchi il sacco (24 euro, ndr). Per la gente comune diventa proibitivo continuare e consumare cipolla. La trasformazione ci permette di avere questo prodotto tutto l’anno a prezzi ragionevoli.
Ho avuto l’idea nel 2016, quando ero al primo anno di università. Così ho partecipato a formazioni sulla gestione d’impresa, fornite dalla camera di commercio e varie associazioni. Volevo darmi degli strumenti. Devo dire, inoltre, che fin dal liceo ho gestito piccole attività commerciali. Cucinavo cavallette e le vendevo, insieme a caramelle, biscotti, sigarette.
Nel 2020 sono riuscita a iscrivermi all’incubatore dell’università di Niamey. Qui ci hanno messo a disposizione dei mentori, persone esperte. E la mia è stata Esther Godo (vedi pag. 41).
Intanto, studiavo gestione commerciale e poi ho affrontato un master in gestione dei progetti, con l’ambizione di avere le competenze necessarie per gestire una grande impresa.
Adesso siamo tre: io, la mia assistente, e mio marito che ci dà una mano nell’uso delle macchine. Non vogliamo indugiare troppo sull’aspetto start up ma, in due o tre anni, vorremmo crescere e tessere dei partenariati con grandi strutture di distribuzione, sia a Niamey, sia in altre regioni, e magari in città dei paesi confinanti.
Ma occorre fare degli investimenti. Ci servono attrezzature di trasformazione per aumentare le quantità, avere un punto vendita in centro città, per mostrare e vendere i prodotti e, inoltre, ci serve un mezzo di trasporto per approvvigionamento e distribuzione.
Al momento non abbiamo diffusione nei grandi supermercati. Sono io che porto i prodotti negli uffici e nelle case dei nostri clienti e una parte nei negozi di quartiere.
Devo dire che abbiamo un’attenzione particolare verso i clienti. Chi prova i nostri prodotti riceve un messaggio per sapere se sono di loro gradimento, commentare e dare suggerimenti per migliorare. Stiamo ricevendo apprezzamenti sulla nostra qualità.
Vorrei ricordare ai giovani che la prima cosa è credere in se stessi, in quello che si vuole fare ed essere molto motivati. Perché fare impresa è qualcosa che richiede tanta perseveranza, pazienza e motivazione. Se si hanno queste tre cose, si può riuscire, non si ha bisogno di cercare fortuna altrove».
Ma.Bel.
Il genio dell’automobile
«Sono Abdoul Razak Halidou. Ho studiato ingegneria elettromeccanica a Niamey e, fin da bambino, sono appassionato di automobili. Ho lavorato un po’ nell’energia solare, ma poi ho preferito seguire la mia passione. Ho capito che sarebbe stato necessario andare a fare pratica da un vero meccanico. Qui la meccanica dell’auto si impara sul campo, con un riparatore esperto. Non si studia a scuola.
Ma le auto di oggi hanno anche molta elettronica. Con le mie conoscenze ho capito cosa occorreva sviluppare per migliorare il lavoro, perché a volte i meccanici non riescono a identificare il guasto e cambiano i pezzi un po’ a caso.
Ho anche capito che dovevo formarmi ancora, assumere altre competenze, per poi creare qualcosa di solido. Così ho continuato a seguire corsi di formazione specialistici.
Mi sono associato con un meccanico e abbiamo creato la Sonix, Société nigeriénne d’expertise automobile. Il nostro motto è: «Il genio dell’automobile», una frase che deve incuriosire e attrarre il cliente.
Io verifico il motore con uno strumento collegato a una App del telefono, faccio il diagnostico, indico con esattezza il problema e poi il meccanico lo ripara. Non andiamo più a caso. Inoltre faccio la riprogrammazione delle centraline e altri interventi sulla parte elettronica.
In programma c’è l’acquisto di un apparecchio diagnostico completo e altra strumentazione per migliorare ancora. Adesso non ho abbastanza strumenti per soddisfare tutte le richieste.
Il mio sogno è che tra cinque anni Sonix sia presente in tutto il paese, e poi voglio separare l’area della meccanica da quella dell’elettronica, perché hanno esigenze diverse, di spazio e di pulizia.
Usiamo la comunicazione su Facebook e gruppi Whatsapp per promuoverci. Senza dimenticare il passaparola dei nostri clienti soddisfatti.
Io sono nigerino di Niamey e ho trent’anni. Con il mio socio abbiamo cominciato nel 2019, e funziona».
Si ringraziano:
Filippo Acasto e Issa Yacouba dell’équipe Cisv Niger, Giada Martin raccolta fondi e comunicazione Cisv, e tutti i giovani imprenditori e imprenditrici nigerini che ci hanno dedicato il loro tempo.
Il progetto:
Le microimprese presentate in questo dossier sono sostenute dal progetto «Obiettivo lavoro», realizzato dalle Ong Cisv e Africa70, con il supporto del ministero dell’Interno italiano. www.cisvto.org
Tanzania. Tutte le sfide della presidente
Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?
Dal marzo dello scorso anno, il Tanzania ha una nuova presidente della repubblica, Samia Suluhu Hassan, subentrata d’ufficio al presidente John Magufuli, scomparso improvvisamente il 17 marzo 2021.
Magufuli era stato eletto nel 2015 e, completato un primo mandato presidenziale, era stato rieletto nell’ottobre 2020, quando aveva scelto la Suluhu come vicepresidente. Magufuli aveva gestito male l’emergenza della pandemia da Covid-19, dichiarando eradicata la malattia dal paese già nell’aprile 2020. Quando è morto, a 61 anni, è stato ufficialmente dichiarato deceduto per crisi cardiaca, ma la sua scomparsa, tuttavia, è avvolta nel mistero. Di fatto non appariva in pubblico da oltre due settimane.
Abbiamo parlato del paese con padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata e giornalista (già direttore di MC), che ha vissuto due diversi periodi storici nel paese.
Il peso del presidente
«Il Tanzania è una repubblica presidenziale, e questo vuol dire che il presidente ha un peso enorme. Ad esempio, i governatori delle regioni sono nominati direttamente da lui, che può anche rimuoverli. Così come tutti i ministri. È inoltre capo delle forze armate, garante della Costituzione, e molto altro ancora.
Secondo la carta costituzionale non è facile criticare il presidente. È possibile, ma occorrono elementi sicuri per farlo. Questo sistema può dar adito a un presidente autoritario, addirittura dittatore».
«Da circa un anno abbiamo come nuova presidente Samia Suluhu Hassan, donna, musulmana, terza moglie di un tanzaniano. Si presenta bene, parla bene l’inglese, a differenza di Magufuli, e ha un linguaggio molto accessibile. Quando ha preso il posto di Magufuli ha detto: “Le cose non cambiano, continueremo come prima”. In realtà le cose sono molto cambiate. A cominciare dall’atteggiamento nei confronti del Covid. Una delle prime cose che la presidente ha fatto, è stata di vaccinarsi, invitando tutti i cittadini tanzaniani a fare altrettanto. È stata fatta una campagna con manifesti per le strade. Ma la gente non si vaccina. A differenza del Kenya dove il vaccino si è diffuso».
Padre Francesco sulla misteriosa morte di Magufuli dice che «è stato ammalato per 17 giorni, durante i quali c’è stato un blackout di notizie. Il primo ministro Kassim Majialiwa diceva di non preoccuparsi, non prendere notizie dai social media. Invece Samia, che era vicepresidente, pochi giorni prima che il suo predecessore morisse, ha detto: “Il presidente Magufuli è un uomo come tutti, e come tutti può anche ammalarsi”. La versione ufficiale è che sia morto per problemi cardiaci, ma qualcuno dice che sia morto per Covid, e altri addirittura per avvelenamento, e che ci sia stato un complotto nel quale c’entra Jakaya Kikwete, il presidente suo predecessore. Ma sono solo voci».
La cosa più eclatante è il cambiamento di politica che la nuova presidente ha messo in atto. In uno dei suoi primi interventi, parlando al giudice federale, garante della Costituzione, ha chiesto di elencare tutte le cose che nel paese non funzionavano. Padre Francesco racconta che il giudice ha iniziato l’elenco partendo da alcuni scandali relativi al lavoro: «Magufuli si vantava dei lavori infrastrutturali che si stavano facendo. È vero che ha realizzato diverse azioni di ammodernamento, di sviluppo, come il progetto di ferrovia ad alta velocità da Dar-es-Salaam a Morogoro. Ma si è scoperto che c’erano un migliaio di operai assunti non registrati. Tutti cinesi e coreani».
Austerità e manganello
Il presidente Magufuli aveva imposto un clima di austerità abbastanza rigido, ad esempio aveva proibito a tutti i ministri di viaggiare all’estero. E lui stesso è andato pochissimo in visita ufficiale. Aveva inoltre eliminato alcune feste nazionali, per risparmiare soldi da investire in opere pubbliche, come risistemare e costruire strade. «Era un intervento populista, però era positivo. Lui si proclamava difensore dei poveri, e in un certo senso lo era. D’altro lato però era una persona autoritaria, come lo è anche Suluhu, ma in termini più sfumati. Ad esempio, se parliamo della polizia, non si sa fino a che punto sia autonoma o sia alle dipendenze del presidente.
Per ogni manifestazione di piazza occorre avere il permesso, ma raramente viene concesso; quindi, non ci sono molti scioperi o dimostrazioni e, se si verificano, la polizia può intervenire anche in maniera molto pesante. Se ci sono dei morti, difficilmente la polizia viene inquisita, c’è una certa impunità».
In Tanzania il parlamento ha un ruolo secondario. Ha prerogative di controllo sul presidente, ma in termini molto blandi. Una delle richieste dell’opposizione è di rivedere la Costituzione. Magufuli si era opposto e anche la Suluhu ha rimandato.
«Il parlamento è sovrano, ma non si sa di cosa – afferma padre Francesco -. Le leggi devono essere controfirmate dal presidente. Ci sono poi casi eclatanti di mancanza di giustizia. Ad esempio, quando le opposizioni sono troppo forti o violente, gli interessati vengono presi e poi scompaiono».
Un paese ricco
Il momento attuale, secondo il nostro interlocutore, è segnato da un’impasse grave: «Il Tanzania è un paese ricco, a differenza di quello che diceva il presidente Julius Nyerere i primi tempi del suo mandato (1964-1985). Ha grandi giacimenti di oro, i maggiori dopo Sudafrica, Ghana e Congo. Ha la tanzanite, che si trova solo sul suo territorio. Ha molto gas naturale».
Rispetto a quest’ultimo, è stato valutato che il Tanzania abbia giacimenti offshore di oltre 1.600 miliardi di metri cubi. È stato recentemente firmato un primo accordo tra la Tanzania petroleum development corporation, l’ente statale di gestione, e alcune multinazionali europee e statunitensi per la realizzazione di un impianto di liquefazione di gas naturale che permetterà di trasportare la materia prima, tramite navi, in qualsiasi parte del mondo. L’investimento sarà di circa 30 miliardi di dollari e dovrebbe dare lavoro a circa 5mila persone. L’impianto entrerebbe in funzione tra 4-5 anni e farebbe diventare il Tanzania uno dei maggiori esportatori di gas naturale al mondo. Con la crisi energetica in corso, a causa della guerra in Ucraina, questo tipo di impianti diventa sempre più interessante. Attualmente il paese ha già tre giacimenti in funzione con una produzione di circa tre miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno.
Il paese è inoltre ricco di acqua. È circondato dai grandi laghi: Vittoria, Tanganika, Niassa, e percorso da grandi fiumi.
Potenzialmente è un paese con enormi possibilità agricole, a differenza del Kenya che importa derrate alimentari proprio dal vicino. Non si tratta però di un’agricoltura meccanizzata, ma svolta a livello famigliare, artigianale.
Un’altra risorsa, poi, è rappresentata dalle bellezze naturali che alimentano una florida industria del turismo: «Il Tanzania è il più grande giardino zoologico del mondo», ricorda padre Francesco.
La popolazione
«La ricchezza maggiore del paese è la popolazione – aggiunge padre Francesco -: pacifica, tranquilla scevra da ogni tribalismo, a differenza di tanti paesi africani, come, ad esempio, Kenya, Uganda, Burundi. È un vantaggio, questo, dovuto alla lingua swahili che unisce.
Inoltre, il Tanzania ha avuto il pregio di raggiungere l’indipendenza in maniera pacifica, senza guerre civili.
I primi missionari, i benedettini, hanno insistito sullo swahili. Poi è venuto in presidente Nyerere, che ha dato un grande impulso a questa lingua, anche dal punto di vista religioso. Lui ha tradotto i quattro Vangeli in un suo swahili particolare, molto popolare.
L’aspetto negativo può essere che si sta indebolendo l’inglese, che è parlato pochissimo e male. Questo è un impoverimento. In parlamento si parla swahili, all’università di parla inglese, ma è un inglese molto povero.
Al contrario di quello che sta avvenendo in Kenya, dove lo swahili sta crescendo ed è di buon livello, in Tanzania si sta mischiando con l’inglese e altre lingue. Le lingue locali, che sono tante, non hanno peso. I giovani delle diverse etnie, parlano tutti swahili, non parlano le loro lingue. In particolare a Dar-es-Salaam, città di sei milioni di abitanti, dove non c’è tanzaniano che non vi abbia un parente».
Livello di vita
Padre Francesco ha il privilegio di poter fare il confronto di due periodi su un arco di mezzo secolo: dalla sua prima esperienza alla sua vita nel paese oggi. Ci conferma che in città la vita è molto cambiata, mentre in campagna un po’ meno.
«La prima volta sono arrivato in Tanzania nel 1973 e vi sono rimasto tre anni. Nel ‘74 lavoravo in un villaggio con un altro padre più anziano. Il giudice del luogo ci ha chiamati a osservare un processo. Al termine avevamo capito tutte le parole, ma non l’argomento. Si trattava di una violenza di un padre su una figlia, un caso nuovo per la società di allora. La parola “violentare”, in quei quattro anni non l’ho mai sentita.
Oggi, invece, il tema è all’ordine del giorno, giornali, televisione, radio. Violenza domestica e sessuale sono diffusissime».
Padre Francesco ci dice che sta avvenendo un cambiamento culturale importante, specialmente tra i giovani. Non sopportano più di stare zitti: «Io sono a contatto con ragazzi e ragazze universitari e laureati che dicono: “Non si può andare avanti così, se vedo cose che non vanno, specialmente per quanto riguarda la giustizia, non sto zitto”».
I giovani sono attratti dalla città, perché sperano di divertirsi e di acquisire una certa istruzione, se sono ammessi all’università, cosa che dipende da come si sono qualificati alle superiori. «Molti studiano informatica e marketing. Ma una volta terminati i tre anni, ci sono ragazzi e ragazze che si danno al commercio di strada, per racimolare qualcosa. Oppure fanno i mototaxi, che provocano tanti incidenti. Ma il guadagno è molto povero. Se riescono a ricavare 3-4 euro al giorno va bene. Lo fanno per sopravvivere».
C’è dunque un livello di reddito molto basso, non c’è fame, ma non c’è circolazione di denaro. Se una famiglia ha un’emergenza, cure mediche da affrontare, o andare a un funerale a molti chilometri di distanza, non ha i soldi per affrontarla. «Molto spesso le persone che lavorano con me, a metà mese mi chiedono un anticipo, perché non hanno abbastanza soldi per pagare il trasporto pubblico e venire al lavoro».
La disoccupazione, specie giovanile, è altissima. La gente si arrangia. Ma non c’è la tendenza a migrare, neppure tra i giovani.
Per chi ha un lavoro, il problema grosso sono i salari bassi. Di solito al primo maggio di ogni anno venivano aumentati, ma la presidente l’anno scorso e quest’anno non lo ha fatto. Oggi lo stipendio medio è di circa 80 euro al mese.
Ma tutti i prezzi stanno aumentando, anche a causa della guerra in Ucraina. Non se ne parla molto, ma l’influenza si vede già. Il costo della benzina e dei generi di prima necessità, come la farina, sono aumentati, anche del 70%. Così pure i mezzi di trasporto».
Alle Nazioni Unite, nella mozione di condanna dell’invasione dell’Ucraina, il Tanzania si è astenuto, mentre il Kenya ha votato contro la Russia. C’era una certa alleanza, molti studenti sono passati da Mosca.
Il Tanzania ha relazioni con la Cina sul piano economico, da sempre. Il Tanganyka (il primo nome del paese, ndr) è stato forse il primo paese che ha avuto rapporti con il gigante asiatico. Durante la guerra fredda, Nyerere ha scelto la Cina. I cinesi hanno costruito la ferrovia che collega il Tanzania con lo Zambia. Oggi la grande maggioranza dei prodotti circolanti sul mercato sono cinesi. La gente li compra perché il prezzo è basso, anche se la qualità è scadente. Ci sarebbero anche prodotti buoni: «Una tanzaniana che conosco stava per aprire un’attività commerciale ed è andata in Cina per vedere cosa importare. Mi ha poi raccontato: “In Cina mi hanno fatto una domanda: signora vuole prodotti scadenti, copie o originali? E mi hanno fatto tre prezzi”».
Bambini scomparsi
Un altro fenomeno di cui ci parla padre Bernardi è quello dei bambini che scompaiono. «Si cercano anche con annunci in chiesa. Cosa c’è dietro? Sono bambini che magari non sopportano l’ambiente famigliare. Alcuni scappano. Altri vengono rapiti, specie le ragazze di 10-15 anni.
Una mamma un giorno mi ha detto: “Mia fglia non c’è più. L’ho mandata da una zia che abita a 600 km ed è scomparsa. Potrebbe essere stata rapita, essere al servizio di una signora o del marito di questa”. La mamma voleva andare a vedere ma non aveva i soldi per pagare il viaggio».
«Quando Nyerere divenne presidente, nel 1961, disse: “Il Tanzania ha tre nemici: povertà, ignoranza, malattia”. Si sono fatti dei passi, ma oggi sono ancora i tre nemici principali. E oggi vedo un quarto nemico: la corruzione.
Io personalmente ritengo che il paese farà strada. Ero in Tanzania 50 anni fa e non c’era nulla. Oggi è cambiato, è andato avanti. Ha delle potenzialità. In quei tempi le persone qualificate erano molto poche. Nel ‘61 quando il Tanganika divenne indipendente, c’erano due studenti, uno di medicina e uno di ingegneria. La qualità però è ancora bassa».
Parliamo di terrorismo islamista, ricordando l’attentato del 1998 all’ambasciata Usa. «In Tanzania non c’è. L’unica incertezza è Zanzibar. Ci sono state, negli anni passati, alcune uccisioni, tra cui un prete, e dei ferimenti. Ma il governo centrale ha il pugno di ferro. Quando ci sono giovani sospetti vengono eliminati. È sempre stato così. Dicono che ai primi tempi di Nyerere ci siano stati due tentativi di colpi di stato, sventati dai servizi segreti, che funzionano molto bene».
La Consolata in Tanzania
«Noi missionari della Consolata abbiamo compiuto 100 anni di presenza in Tanzania (cfr. MC gennaio 2019). Arrivammo nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi furono sconfitti e i missionari tedeschi, benedettini, vennero cacciati. A mio parere abbiamo compiuto una grande opera. In particolare, di educazione scolastica: gli stessi figli di Nyerere hanno studiato da noi. Abbiamo costruito missioni con un impegno notevole. Quell’epoca è passata, ora l’Istituto è africanizzato e noi stranieri siamo una minoranza, e siamo anziani.
Oggi abbiamo un’eccellenza che è il centro di Bunju a 35 chilometri da Dar-es-Salaam (cfr. MC luglio 2020). È un centro di formazione culturale missionaria, “un centro per pensare, per far pensare i giovani”. È stato creato per dare una formazione approfondita ai giovani e ai catechisti. Questi sono la forza principale della chiesa.
Allo stesso tempo il centro raccoglie tante persone, di estrazione diversa: i luterani sono i nostri “clienti” migliori, gli anglicani, le Ong vengono a fare incontri. Lo frequentano anche i musulmani, presenti, ad esempio, nei gruppi governativi. E tutti restano molto soddisfatti.
Questo è un punto qualificante che l’Istituto ha in Tanzania oggi. Non è facile portarlo avanti, perché la formazione culturale approfondita non è un’esigenza molto avvertita. Il Tanzania è un paese dove la gente legge pochissimo. Esiste un detto: “Hai un segreto e vuoi che resti tale? Scrivilo, perché nessuno ti legge”. Questo è l’insulto peggiore che possano fare ai tanzaniani! Ma questa è anche la grande sfida: cominciare a far pensare la gente. Io leggo romanzi locali per avere un’idea della società. C’è un abisso tra quello quello che la gente vive nel quotidiano e quello che scrivono i romanzieri, i quali propongono idee anche nuove, magari critiche verso il potere, la tradizione, la cultura. Anche dal punto di vista religioso, non basta avere il rosario al collo, bisogna avere la Bibbia in mano. Leggere e pensare. Come cristiani è la Parola di Dio che deve essere il nostro libro e non i libercoli.
I vescovi tanzaniani, ogni anno, in occasione della Quaresima, scrivono una lettera. Di solito è molto bella, critica. Ma viene ignorata dagli stessi preti. Manca un senso critico verso società, politica, chiesa. Il centro di Bunju vuole preparare la gente a pensare con la propria testa. Per questo motivo abbiamo fondato la rivista Enendeni, che vuol dire Andare, l’unica a carattere missionario, anche un po’ critica. Fa fatica a diffondersi.
Abbiamo poi tante altre opere, come l’ospedale di Ikonda, l’accoglienza dei bambini abbandonati, vicino a Iringa. Ma la novità è questo centro».
Chiediamo a padre Francesco qual è il suo impegno oggi. «Sono ripartito nel 2011 dopo 38 anni a Torino nella redazione di questa rivista. Avevo 68 anni. Ho trovato questo grande paese cambiato. Per prima cosa ho fatto un patto con me stesso: per tre anni non leggere una riga di italiano, non parlarlo, ma solo swahili. E l’ho fatto. Oggi me la cavo. Il mio swahili non è quello della gente, ma più letterario, secondo le regole e la grammatica.
Dopo 11 anni a Bunju, ho preparato il mio successore alla rivista Enendeni, lavorando con lui un anno. Quindi sono andato a fare il viceparroco in una parrocchia di missione, nella parte centrale di Dar. È una zona degradata, una semi favela. Dar ha poche strade di accesso grandi, solo due. Lasci la strada principale, ti metti dentro e sono strade in terra battuta. Vicoli. Ma la gente esce vestita bene».
Marco Bello
Camerun. La speranza è nella scuola
A distanza di tre anni sono ritornato nel paese per documentare una risposta di pace a una situazione di guerra le cui prime vittime sono i bambini. Anche solo una scuola materna diventa segno di speranza in un futuro migliore.
Nel mio viaggio precedente sono stato a Yaoundé, la capitale, e Douala (vedi Mc 04/2020). Questa volta la mia destinazione è il villaggio di Batack nell’Ovest del paese, nella provincia di Bafang, nell’area francofona, a un’altitudine di circa 1.500 metri, in una regione montuosa dalla vegetazione lussureggiante. Andando per qualche chilometro più a Ovest mi sarei addentrato nell’area anglofona della regione, epicentro di conflitti e di violenza etnica. Visitando i villaggi, incontro molte famiglie di lingua inglese, spesso costituite solo da donne e bambini. Fuggite dalle aree di crisi, hanno trovato rifugio nelle province confinanti. Molte di queste madri mi riportano racconti di distruzione dei loro villaggi e di violenze fisiche di cui portano spesso i segni. Segni che per alcune di loro e per i loro bambini, saranno permanenti.
La crisi umanitaria
Nove regioni su dieci del Camerun sono colpite da crisi umanitarie ormai croniche, causate dalle violenze nel bacino del lago Ciad e nelle regioni del Nord Ovest, aggravate delle azioni di Boko Haram, e nel Sud Ovest, dove perdura il conflitto nella zona anglofona.
A complicare tutto questo si aggiunge anche la presenza, nelle regioni orientali del paese, di oltre 300mila profughi provenienti dalla Repubblica Centrafricana. Il tutto aggravato dal deficit di sviluppo strutturale e da vulnerabilità che sfidano costantemente la popolazione.
Anche la pandemia ha contribuito a complicare la situazione colpendo la popolazione con circa 120mila casi confermati e quasi due mila decessi alla fine di maggio 2022. Numeri lontani da quelli a cui siamo abituati in Europa e nel resto del mondo, ma anch’essi influenti sul peggioramento della generale condizione sanitaria del paese.
La Repubblica del Camerun è al 153° posto su 189 nella classifica dei paesi per l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (che misura, oltre al Pil, le disuguaglianze di istruzione, la speranza di vita e altri indicatori).
In questo contesto, il supporto umanitario delle Ong internazionali e, tra esse anche quelle italiane, è determinante.
Natura incontaminata e piste rosse
La difficoltà maggiore nel visitare l’area di Batack è quella degli spostamenti tra i villaggi. Una volta lasciata la strada principale, le uniche vie di comunicazione sono le piste di terra rossa che si snodano nel mezzo della vegetazione. A causa delle piogge intermittenti, queste piste diventano difficili e faticose da percorrere. I nuclei familiari vivono sparsi e isolati in quelli che si definiscono compound (pezzo di terra di proprietà di una famiglia dove sorge la casa, ndr) e quindi visitarli significa percorrere in ogni direzione tutto il versante della montagna. Muoversi con un mezzo diverso da una motocicletta è impensabile. Ringrazio Elysée, uno dei maestri della scuola elementare di Batack, che si è offerto di accompagnarmi con la sua moto.
La scuola materna di Batack
A Batack c’è una scuola materna realizzata grazie alla collaborazione tra la Ong Movimento Sviluppo e Pace e l’organizzazione locale Covideba, il Comitato per lo sviluppo del villaggio di Batack. Il progetto della scuola vuole dare una risposta concreta, anche se parziale e locale, a una situazione di necessità o, meglio, d’emergenza.
Questa situazione è causata principalmente dalla scarsa capacità del sistema scolastico nazionale di creare infrastrutture per l’istruzione e di provvedere insegnanti qualificati sul territorio. Inoltre quelli assegnati dal governo a queste aree disagiate non trovano stimoli né strumenti per svolgere il loro lavoro.
La mancanza di scuole e di insegnanti non aiuta certo i bambini nella loro formazione, anche perché le famiglie spesso non hanno la capacità di sostenere le spese dell’istruzione a causa della povertà. I minori sono esposti all’abbandono scolastico e, di conseguenza, costretti a lavorare per aiutare la famiglia.
I matrimoni precoci, la delinquenza giovanile, il consumo di droga, la prostituzione ne sono alcune delle conseguenze.
La spesa statale per l’istruzione in Camerun è relativamente bassa rispetto ad altri paesi africani, e la situazione di conflitto degli ultimi anni ha portato alla chiusura, alla distruzione o all’abbandono di molte scuole.
Nonostante questi problemi che affliggono la vita dei piccoli camerunesi, c’è speranza. I tassi di iscrizione all’università in Camerun sono aumentati del 22% negli ultimi 20 anni e l’alfabetizzazione media degli adulti è in costante crescita. Ne è un esempio l’Università di Bafang, che ho avuto modo di visitare, nella quale grazie al supporto di alcune Ong, verranno avviati progetti di formazione e innovazione tecnologica e di sviluppo sostenibile in ambiti come agricoltura, sanità, istruzione e formazione.