Il carcere uccide


Il 2024 potrebbe essere l’anno che segna un nuovo record di suicidi nelle carceri italiane. Aumentano le leggi repressive che portano a reati ma mancano gli spazi e le risorse per percorsi dignitosi. Facciamo un approfondimento delle condizioni della detenzione insieme a Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Matteo, Stefano, Alam, Fabrizio, Andrea, Mohmoud. Questi sono alcuni dei nomi delle dodici persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane nel primo mese di questo 2024. Dodici persone che hanno scelto, se di scelta si può parlare, di stringersi un nodo intorno alla gola piuttosto che affrontare la detenzione.

A febbraio sono stati nove i suicidi, a marzo sette, ad aprile cinque. Una lista di nomi che ogni mese diventa più lunga e straziante. Una lista di nomi che, se trasformata in una fredda serie di numeri, ci mostra una statistica che non accenna a migliorare. Il record, negativo, è stato raggiunto nel 2022, con un totale di 85 suicidi; nel 2023 sono stati 70 e i dati del 2024 sembrano tendere a un nuovo primato, tanto che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è sentito in dovere di intervenire per chiedere cambiamenti urgenti sul tema.

L’articolo 27 della nostra Costituzione recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Se il sistema che dovrebbe rieducare le persone incarcerate per reintrodurle nella società migliori di prima le porta, invece, a togliersi la vita con questa frequenza, diventa necessario interrogarci su quanto funzioni e rispetti i diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale.

Celle ad Alcatraz, San Francisco, USA. (© Lisa Blue)

La situazione nelle carceri

A portare avanti la discussione su questo tema c’è in prima linea, dalla fine degli anni Ottanta, l’associazione Antigone.

Fin dalla sua nascita, l’associazione si impegna per i diritti e le garanzie nel sistema penale compiendo ricerche, indagini e promuovendo dibattiti. Il 22 aprile è uscito il suo nuovo rapporto annuale, intitolato «Nodo alla gola», che per questo 2024 mette a fuoco proprio il tema dei suicidi nelle carceri.

Abbiamo intervistato Patrizio Gonnella, giurista e docente universitario che dal 2005 è anche presidente di Antigone, per provare a comprendere più a fondo i problemi che affliggono il carcere e i suoi abitanti.
Gonnella spiega che, prima di tutto, le condizioni di vita nelle carceri sono fortemente condizionate dal numero di persone detenute. Il giorno del nostro incontro di aprile erano 61mila le persone in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 51mila posti, senza contare ulteriori 3.500 chiusi temporaneamente per diverse ragioni.

«Ciò significa che le persone presenti devono dividersi gli spazi residui che rimangono e questo, come si può immaginare, incide sulla qualità delle condizioni di vita», dice Gonnella, spiegando che gli spazi sono innanzitutto quelli fisici delle celle. Queste sono spesso troppo piccole e inospitali e, in alcuni casi, comprendono, senza separazione, anche i servizi igienici, come hanno potuto constatare gli operatori di Antigone durante le loro visite.

Gonnella aggiunge poi che si parla anche di mancanza di spazi dedicati alle attività scolastiche, educative, di cura e socializzazione. Attività fondamentali per costruire un percorso dignitoso che punti davvero al reinserimento nella società.

Persone fragili

«Questa è una condizione generale che, ovviamente, viene aggravata dalla tipologia delle persone presenti, – continua Gonnella -. Molti di loro oggi presentano condizioni pregresse di vulnerabilità sociale, sanitaria o sociosanitaria, problemi di dipendenze, di doppie diagnosi, sia psichiatrica che tossicologica, stranieri che sono già a loro volta esclusi e che finiscono in carcere completando questo percorso di esclusione».

Aggiunge poi che «soprattutto nelle grandi carceri delle metropoli è possibile osservare una vera e propria reclusione di massa di persone che sono i reietti sociali e quindi l’ultimo gradino nella gerarchia delle classi sociali». Sono persone che spesso non hanno gli strumenti per gestire il forte stress della detenzione e che, se non seguite adeguatamente, vanno ad aggravare la situazione di un ambiente già segnato da alta tensione.

Tutto questo si ripercuote sulla psiche delle persone detenute che si ritrovano catapultate in uno stato di isolamento, abbandonate a loro stesse, con pochissime possibilità di essere seguite in una qualche forma di percorso socializzante ed educativo, e a cui sono spesso limitate fortemente le possibilità di contatti verso l’esterno.
Quando sollecitato su come tutto questo influisca sulla loro salute mentale, Patrizio Gonnella fa notare come nella stessa etimologia della parola «pena» sia intrinseca la componente della sofferenza. Spiega poi come il carcere rappresenti di per sé una condizione di disagio e induca patologie. Inoltre le persone che vi entrano, spesso presentano già da prima stati ansiosi e depressivi. Questi possono innescare episodi di tensione, violenza, autolesionismo, o addirittura portare al suicidio.

Filo spinato ai confini con la Russia (© Evgeny Kuklev)

Isolamento letale

Il suicidio è un gesto che va analizzato caso per caso, ogni episodio ha la sua storia e le sue motivazioni. Quando però i casi sono così numerosi è chiaro che ci sono delle condizioni di sistema che influiscono sul fenomeno. Diventa quindi fondamentale studiare la situazione per poter intervenire in maniera puntuale.

Gonnella elenca alcuni ambiti su cui agire. Spiega come sia necessario «far sì che la prima accoglienza sia una delle fasi nelle quali si investano più energie umane ed economiche. La persona quando entra in carcere deve essere presa in carico, in cura, e non messa nei luoghi peggiori dell’istituto, dove le idee suicidarie possono rafforzarsi». Dalle storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere si nota, infatti, come spesso l’atto estremo sia avvenuto nel primo periodo di detenzione.

L’isolamento è sicuramente uno dei fattori centrali nel determinare il deterioramento psicofisico che l’esperienza carceraria induce. «Bisogna aumentare i rapporti con l’esterno – continua Gonnella -, aumentare il numero delle telefonate e la durata delle stesse, aumentare i colloqui e le videochiamate. Bisogna far sentire la persona il meno sola possibile e far sì che ci sia vita all’interno del carcere. Vita significa che girando per le sezioni i detenuti possano sentire di non essere completamente abbandonati, che ci sono opportunità, possibilità di svago, di pensare ad altro e non solo alla propria condizione di recluso. Questo è l’impegno che deve avere l’amministrazione: modernizzare, innovare e umanizzare la pena».

I tassi di recidiva

Non è solo una questione di sacrosanto rispetto della dignità umana dei detenuti. Il sistema penale, infatti, oltre a non garantire un trattamento adeguato alle persone che ha in carico non riesce nemmeno a dare una vera sicurezza al resto della società.

La maggior parte della popolazione detenuta non si trova in carcere per la prima volta, ma per la seconda, terza, quarta o quinta. I tassi di recidiva sono altissimi, secondo alcuni recenti dati diffusi dal Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) circa il 70% degli ex detenuti torna a commettere reati. Emerge in maniera chiara, quindi, che la funzione rieducativa del carcere richiesta dalla nostra Costituzione non è solo un dovere nei confronti della persona che si è macchiata di un reato, ma anche nei confronti della società che si aspetta di poter reintegrare gli ex detenuti.

I dati ci dimostrano che uno degli strumenti più potenti in questa direzione è il lavoro. Gli ex detenuti reintrodotti nel mondo del lavoro tornano a commettere reati solo nel 2% dei casi (sempre secondo i dati diffusi dal Cnel). A riprova che percorsi virtuosi ed efficaci possono esistere e che il carcere, ricevendo persone spesso ai margini della società, deve lavorare per ridare loro dignità e non per alimentarne l’esclusione.

Il presidente di Antigone sottolinea un’altra criticità: i dati in materia di recidiva sono pochissimi. Non ci sono indagini ufficiali per capire quali tipi di percorsi culturali, scolastici, lavorativi o psicologici, possano impattare su questi numeri. Una buona politica criminale dovrebbe, invece, cercare di capire quali percorsi ed elementi possano influire per potenziare determinate aree di intervento.

Populismo penale

Queste storie tragiche e questi numeri dovrebbero indurre a utilizzare la strada della detenzione esclusivamente come ultima spiaggia, quando proprio non c’è alternativa. C’è però una tendenza della politica a utilizzare il carcere come risposta ai problemi di sicurezza del nostro paese, per rassicurare le persone promettendo la via più rapida e scenica, quella di togliere dalle nostre città le persone che potrebbero procurare qualche tipo di disagio.

Anche Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, ha spesso criticato questo approccio durante la sua carriera. Pochi minuti dopo il suo giuramento al Quirinale, avvenuto il 22 ottobre 2022, aveva affermato alla stampa: «La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati. Quindi anche eliminando questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali. Questo non è vero».

Il governo di cui fa parte non sembra però seguire la stessa linea. La squadra guidata da Giorgia Meloni ha, in questi mesi, aumentato e introdotto ulteriori reati per rispondere a diversi fenomeni, più o meno gravi.

«È quello che possiamo chiamare populismo penale -, spiega Gonnella – una tendenza a rassicurare l’opinione pubblica attraverso l’opzione carceraria. È una rassicurazione simbolica, perché in realtà non c’è un legame tra aumento delle pene e aumento della sicurezza collettiva. È una risposta rassicurante che viene data prescindendo dai dati statistici e di realtà e che parla alla pancia delle persone».

Alternative

Discutendo con il nostro interlocutore, infine, su come bisognerebbe agire emerge la necessità di intervenire su due assi: ridurre il numero di reati punibili con il carcere e il numero dei detenuti, e migliorare le condizioni della detenzione.

Patrizio Gonnella sostiene che andrebbero fortemente limitate le fattispecie dei reati che portano alla carcerazione, escludendo da questo ragionamento il crimine organizzato, i delitti contro la persona e alcuni contro il patrimonio. Per tutto il resto invece bisognerebbe sanzionare in modo diverso e più efficace, ad esempio con attività a favore della collettività, sempre con l’attenzione a non limitare le attività lavorative e di istruzione. Il presidente di Antigone afferma con decisione la necessità di «sganciare dal penale tutto ciò che ha a che fare con il disagio, perché il disagio va affrontato con le politiche di welfare». Bisogna infatti evitare di costruire una spirale che escluda sempre di più gli emarginati e favorire azioni che aiutino le persone a superare le difficoltà che le spingono nella criminalità.

L’altro versante è quello del carcere, ambiente che andrebbe fortemente modernizzato e umanizzato. Stare in carcere non deve significare stare in cella, ma piuttosto, ricorda ancora Gonnella, «trascorrere le ore notturne in cella e le ore diurne in attività che possono essere di scuola, lavoro, sport, cultura, intrattenimento e così via. In modo tale che si possano avere a disposizione quelle opportunità che nella vita non si sono ancora avute o che non si sono volute prendere».

Mattia Gisola




Carceri Italia. Tre metri quadrati a testa

 

Inasprire le pene è utile per i consensi elettorali ma inutile per migliorare la convivenza civile. Intanto i carcerati vivono sempre peggio.

Da mesi l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi reati sembra essere diventata la principale risposta (inutile) dello Stato alle «emergenze» sulle quali si focalizza periodicamente la cronaca nazionale: dalla violenza di genere alle gang giovanili, dalle proteste ambientaliste alle rivolte nelle carceri, e così via.

Il populismo penale produce consensi elettorali, ma non aiuta a risolvere i problemi. E ha tra le sue conseguenze la violazione sempre più frequente dei diritti delle persone incarcerate. Queste aumentano di numero senza vedere aumentare gli spazi e migliorare la qualità della vita dietro le sbarre.

Due dati possono dare un’idea delle condizioni disumane nelle quali vivono molti detenuti (e, spesso, anche il personale che nei penitenziari lavora): la densità di popolazione ristretta e il numero di suicidi.

 

Al 31 dicembre 2023, secondo i dati del ministero della Giustizia, la popolazione carceraria era di 60.166 persone. L’associazione Antigone, che si occupa dei diritti delle persone in carcere, indica in un suo breve report che la capienza complessiva effettiva del sistema carcerario è di circa 48mila posti, e sottolinea il fatto che i detenuti abbiano in media meno di 3 metri quadrati a testa a disposizione nelle proprie celle.

Tra le carceri visitate dall’associazione ve ne sono alcune che ospitano il doppio dei detenuti rispetto alla capienza della struttura: a Brescia il 200%, a Foggia il 190%, a Como il 186%, solo per fare alcuni esempi. Questo significa che in uno spazio per due persone vivono in quattro. Celle nelle quali manca troppo spesso il riscaldamento (9% delle strutture monitorate da Antigone), l’acqua calda e la doccia (52,2%), uno spazio separato per il wc (4,5%).

 

Il secondo dato da sottolineare è quello relativo ai suicidi. Nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 68 persone. L’età media era di 40 anni. Quindici tra loro non ne aveva più di 30 (questi e altri dati sono consultabili al questo link).

Se consultiamo il sito del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, troviamo maggiori dettagli, benché gli ultimi dati si riferiscano al 2022: su una popolazione carceraria che in quell’anno contava 55mila detenuti, se n’erano suicidati 85. L’età media era di 40 anni. I più giovani avevano 21 anni. Il più anziano 83. Trentasei erano stranieri, 20 dei quali senza fissa dimora. Fa riflettere il dato riguardante gli stranieri: essi rappresentano il 31,4% della popolazione carceraria, ma il 42% dei suicidi.

In generale è impressionante il confronto tra il numero di suicidi riferito alla popolazione italiana (0,6 ogni 10mila persone) e il numero di quelli riferiti alla popolazione carceraria (15 ogni 10mila nel 2022, 11 ogni 10mila nel 2023: tra le 19 e le 25 volte più frequenti).

Accanto ai dati «grezzi» sui suicidi in carcere, l’Associazione Antigone ne riporta altri che aiutano ulteriormente a comprendere il contesto: «Nel corso del 2023, negli istituti visitati da Antigone, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute». Ci sono state 13 diagnosi psichiatriche gravi ogni cento detenuti, sono stati somministrati farmaci stabilizzatori dell’umore, antipsicotici, antidepressivi a 19,2 detenuti su cento, sedativi e ipnotici a 38,4 su cento.

 

Per dare un volto umano e una storia ad almeno uno dei tanti che per l’opinione pubblica rischiano di rimanere solo numeri, vale la pena riportare alcuni stralci di una lettera datata 9 gennaio 2024, diffusa via newsletter dalla rivista «Ristretti orizzonti», scritta da Manuela Mezzacasa, una professoressa volontaria al carcere Due Palazzi di Padova, sul suicidio di un suo ex studente ventiseienne detenuto da pochi mesi:

L’ultima volta che l’ho intravisto […] camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente […]. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia.
In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi […]. Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…. Già, e lui era un ragazzino molto speciale.

Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno […]. Mai frequentato regolarmente la scuola […]. È stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. […]. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo.
Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. […].
Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. […] Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire?
Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. […] Mi diceva “Non vedo l’ora di avere diciotto anni” “E cosa farai?” Rideva “Torno a Chioggia”.

[…] Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati […]. Abbiamo parlato, dei suoi progetti, la musica, la scrittura. Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. […]. Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche […].

Non l’ho più rivisto».

Luca Lorusso




Giappone: Il prezzo del Mercato


Tra i grandi paradossi dell’era moderna non c’è solamente quello di un mondo diviso tra chi soffre la fame e chi invece ha fatto dello spreco una parte integrante del proprio stile di vita, c’è anche quello di un mondo in cui, mentre molti soffrono per la disoccupazione (il tasso in Grecia è del 28%, in Spagna del 26% e quella giovanile in Italia del 40%), altri soffrono (e muoiono) per troppo lavoro. Emblematico un caso di morte da troppo lavoro a Tokyo che ha scosso la coscienza dell’intero Giappone.

Lei aveva solo ventiquattro anni, lavorava presso una delle più grandi agenzie pubblicitarie del Giappone. A Natale del 2015 si è gettata dal terzo piano, dalla stanza del dormitorio nella quale viveva.

Seppure i morti sul lavoro in Giappone siano all’ordine del giorno, questo suicidio ha avuto una risonanza mediatica senza precedenti.

Matsuri, questo il nome della giovane donna, lavorava per la Dentsu, ovvero il gigante della pubblicità noto proprio per le troppe ore di lavoro a cui sottopone i sui dipendenti e per una gestione del personale spietata. Una delle prime morti per troppo lavoro nella stessa azienda risale addirittura al 1991 quando un uomo, anche lui di ventiquattro anni, si era impiccato in casa. Nel 2000 la più alta corte del Giappone aveva stabilito che quel suicidio era stato causato da insostenibili condizioni di lavoro. In quell’occasione l’azienda aveva concordato con la famiglia della vittima un risarcimento di quasi due milioni di dollari.

Il caso di Matsuri è diventato emblematico perché grazie ai social media su cui lei regolarmente comunicava possiamo ricostruirne passo per passo il lungo calvario: dalla grande euforia iniziale per essere stata assunta da una grande azienda, sino ai messaggi finali, quelli che in rete sono diventati virali. È da questi ultimi che si capisce distintamente lo strazio interiore della giovane: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita», si legge in uno dei suoi tweet.

Una storia di «successo»

Matsuri aveva ventitré anni quando è entrata nell’azienda dopo una laurea presso l’Università di Tokyo (una delle più importanti di tutto il Giappone). Era una ragazza piena di speranza e di ottimismo, così l’hanno descritta i suoi amici.

L’azienda Dentsu aveva ridotto il numero di dipendenti da 14 a sei all’interno della divisione nella quale Matsuri era impiegata. Ma il carico di lavoro non era diminuito. Matsuri aveva iniziato il suo primo lavoro accumulando la bellezza di 100 ore di straordinari al mese. Sul suo micro blog raccontava la crescente fatica di tenere il passo con quei ritmi forsennati: «Il mio capo mi ha detto che i documenti che ho scritto dopo il ritorno dalle vacanze erano spazzatura. Sono mentalmente e fisicamente devastata»; «Ho perso ogni sentimento, tranne il desiderio di dormire»; «Forse la morte è un’opzione molto più felice».

Moltissimi giapponesi si sono commossi quando questi tweet sono stati resi noti e hanno lasciato messaggi di solidarietà. In particolare, numerosi sono stati i messaggi da parte di donne infuriate nel sapere che a Matsuri, sul procinto di crollare mentalmente e fisicamente, veniva richiesto da parte del capo (di sesso maschile) di mostrare un maggior appeal femminile, e di mantenere un aspetto più attraente. Un tipo di richiesta che non è affatto un caso isolato: sono molte le lavoratrici in Giappone che prima o poi ricevono questo tipo di richiesta durante la loro carriera.

La mattina di Natale (2015) la ventiquattrenne ha inviato il suo ultimo messaggio, diretto alla madre che viveva a Shizuoka, non molto distante da Tokyo. Il testo era un laconico: «Grazie di tutto». La madre, presagendo la disgrazia, ha chiamato immediatamente la figlia pregandola di non uccidersi. Ma neppure la voce di sua madre è stata sufficiente a farla desistere.

Karoshi

Certamente il concetto di lavorare troppo non riguarda solo i giapponesi (in molti altri paesi, e non solo dell’Asia, lavoratori sono sottoposti a orari da schiavi senza neppure il beneficio di giusti salari), ma in Giappone la questione è presa molto più seriamente, al punto da coniare un termine ad hoc per parlarne.

Karoshi, (parola composta da tre caratteri kanji, ? ? ?, che significano letteralmente “eccessivo”, “lavoro”, “morte”), è il termine per definire appunto la morte da troppo lavoro.

Le cause di morte possono essere attacchi di cuore o ictus risultato di lunghi periodi di stress. Spesso però il super lavoro porta direttamente al suicidio, fenomeno per il quale esiste un’altra parola specifica, ? ? ??, karojisatsu. E mentre il Giappone sta tentando di aprire ai nuovi migranti (per lo più cinesi e filippini) per bilanciare il declino delle nascite e dunque delle nuove generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro, anche gli stranieri cominciano a tremare per i trattamenti a cui potrebbero essere sottoposti, vedendo quanto è accaduto recentemente a una filippina di ventisette anni che ha fatto karoshi. I suoi straordinari avevano toccato il picco di 123 ore in un mese.

Un fenomeno diffuso

Il primo caso ufficialmente riconosciuto come suicidio per stress da lavoro nel Sol Levante fu registrato nel 1969, ma è solo un decennio più tardi (1978) che venne creato il vocabolo specifico karoshi e solo negli anni ’80 venne riconosciuto come un serio problema sociale, non a caso proprio durante il boom economico.

In quegli anni alcuni dirigenti aziendali di alto livello erano morti senza alcun accenno di malattia pregressa. Queste morti vennero riprese dai media suscitando una crescente preoccupazione. È a questo punto che il governo iniziò la raccolta e la pubblicazione di informazioni sul karoshi come possibile causa di morte.

In un recente sondaggio del governo giapponese – una ricerca mirata a circa 10.000 aziende e 20.000 lavoratori – si è dimostrato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro.

Lo studio ha rilevato che circa il 22 per cento dei dipendenti giapponesi accumula più di 50 ore al mese di straordinari, mentre nel Regno Unito e in Francia le percentuali sono del 10-15 per cento.

Il 22,7 per cento delle imprese ha riferito che alcuni dei loro impiegati producono più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore – circa quattro ore al giorno da aggiungere al normale orario di ufficio – sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di darsi la morte si intensifica in modo drammatico.

Il top delle aziende stacanoviste sarebbe però il 12% del totale, quelle i cui dipendenti toccano la vetta delle 100 ore di straordinari al mese. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore Information Technology e delle comunicazioni, come anche quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto.

Va aggiunto che il lavoro supplementare di ogni impiegato è composto anche da straordinari non dichiarati, detti furoshiki, (nome che deriva dalla tradizionale stoffa giapponese per avvolgere – dunque nascondere – scatole o regali). E tantissime sono le ore di straordinario che non vengono registrate e che quindi non vengono prese in considerazione dalle statistiche.

Ora l’obiettivo del governo giapponese è quello di abbassare la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana per arrivare a una soglia «salutare» del cinque per cento del totale dei lavoratori.

Super lavoro, storia antica

Il mondo del super lavoro in Giappone non è però una realtà recente, risale a prima della seconda guerra mondiale, in un periodo dove le leggi sul lavoro appena esistevano. Quel periodo è stato immortalato sia nel cinema che in letteratura. Su tutti spicca il saggio di Tsuneichi Miyamoto, Nihon zankoku Monogatari (Racconti crudeli dal Giappone). Miyamoto descrive nei minimi dettagli la situazione dei lavoratori sfruttati negli anni precedenti la guerra. In quelle storie ci troviamo di fronte a una realtà brutale in cui uomini e donne, giovani e vecchi, venivano spogliati dei loro diritti e costretti a turni massacranti di 15 ore al giorno.

Erano gli anni ’20, quando si lavorava gomito a gomito all’interno di fabbriche tessili improvvisate in spazi ridottissimi. Non erano rare le epidemie di colera e tubercolosi che decimavano in pochissimo tempo i lavoratori. Chi si ammalava veniva semplicemente abbandonato. In questo sistema di lavoro molti si suicidavano.

Ma il Giappone di oggi non ha apparentemente nulla a che fare con quello di un secolo fa, e i giovani giapponesi non fanno certo i lavori massacranti dei loro antenati, lavori oggi svolti quasi totalmente da immigrati stranieri.

In più il curriculum di Matsuri era invidiabile: laureata nella più importante università del paese, giovanissima, aveva trovato impiego nella più grande agenzia pubblicitaria del Giappone. Nonostante il clamore suscitato dalla sua morte e, conseguentemente, da tutto ciò che di torbido è emerso sulla compagnia per la quale lavorava, sono tantissimi i giovani che ancora oggi ambiscono lavorare per quell’azienda.

Vita e lavoro

Una possibile spiegazione di questo atteggiamento apparentemente irragionevole la si può ricavare da un recente sondaggio. Si è dimostrato come il 90% dei lavoratori giapponesi non comprenda affatto il concetto di equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla vita privata, in quanto per molti il lavoro coincide esattamente con la propria esistenza: quattro su cinque dipendenti sono pronti ad annullare tutti i propri impegni pregressi nel caso venisse chiesto loro di fare degli straordinari.

Lo sa bene Emiko Teranishi, 67 anni, a capo di una rete nazionale di familiari delle vittime di karoshi, la quale ha recentemente raccontato la vicenda di suo marito. Era un manager in un ristorante di soba noodle (tagliatelle giapponesi) nella prefettura di Kyoto, lavorava più di 4000 ore l’anno (oltre 10 ore al giorno nei 365 giorni dell’anno, ndr). Si è suicidato in seguito a una lunga depressione dovuta alla mancanza di sonno causata dal troppo lavoro.

Solo pochi giorni prima della sua morte il marito aveva avuto il coraggio di parlare con il proprio capo circa i propri disturbi di salute: non aveva più appetito, non riusciva a dormire ed era esausto.

Una società gerarchizzata

Ma perché i lavoratori si lasciano convincere così facilmente a compiere straordinari oltre le proprie forze fisiche e mentali? Solo dieci anni fa tutti gli analisti di questo fenomeno avrebbero risposto: per mostrare la fedeltà alla loro azienda. Ma oggi la flessibilità lavorativa è una realtà anche in Giappone, e un impiego a vita per la stessa azienda è un fatto più unico che raro, la risposta va cercata nel rispetto che i subalterni nutrono verso i propri superiori.

Basta pensare che già a partire dalle scuole medie, cioè ad appena 12 anni, si viene educati al valore e al rispetto assoluto della gerarchia sociale: ogni studente infatti deve rivolgersi al proprio compagno/a di età superiore (basta anche un solo anno) con un linguaggio formale (keigo) ovvero mostrando una riverenza implicita già a partire dalla scelta delle parole. Questa formalità viene abbandonata solo nel caso in cui la persona che si trova nella posizione gerarchica superiore ne concede la possibilità.

I giovani a rischio

E non c’è da meravigliarsi che a togliersi la vita siano i più giovani. In Giappone infatti i ragazzi già un anno prima della laurea iniziano a partecipare a dei colloqui di lavoro chiamati shukatsu. Lo shukatsu comporta intensi colloqui con decine di aziende. È un lavoro vero e proprio – ci sono decine di manuali su come prepararsi al meglio per lo shukatsu – che comporta stress elevatissimi.

Ragazzi appena laureati e già in recruit suit (uniforme nera standard che si indossa durante la ricerca di lavoro), affrontano decine di colloqui con la più grande paura: quella di non riuscire a trovare immediatamente un buon lavoro. Ed è per questo che partecipano al maggior numero di colloqui possibile (mediamente sono 60), così da assicurarsi un impiego anche al di là dei propri interessi di studio: ciò che conta è tornare a casa e mostrare ai propri genitori un posto sicuro sul quale poter costruire un futuro.

Un professore di una nota Università giapponese ha recentemente innescato una polemica ribadendo come quella dei ventenni di oggi sia una generazione di sfaticati che rispetto alle vecchie generazioni non avrebbe la stamina sufficiente per compiere il proprio dovere (vedi appunto le decine di ore di straordinari). Molti giovani hanno trovato il coraggio, anche grazie all’anonimato di cui godono nei social media, di far notare a quel professore come al giorno d’oggi è anche abbastanza normale che le ore di lavoro si riducano semplicemente perché gli strumenti tecnologici permettono a un impiegato di produrre molto di più di quanto non avvenisse trent’anni fa.

Riforma del lavoro

In ogni caso dopo l’ultimo scandaloso caso di suicidio per troppo lavoro il governo sembra aver finalmente preso atto della situazione, «La riforma del lavoro non è solo un problema sociale, è di tipo economico», ha detto recentemente il primo ministro Shinzo Abe ai giornalisti, «se rivediamo le regole del lavoro straordinario potremo migliorare l’equilibrio tra tempo dedicato alla vita e al lavoro, rendendo più facile per i dipendenti – tra cui donne e anziani – avere un lavoro sereno».

Cinquanta aziende, tra cui i grandi gruppi Daiwa Securities Group Inc. e Seven & I Holdings Co., hanno firmato un accordo per eliminare addirittura gli straordinari.

La Yahoo Japan Corp. sta prendendo in considerazione la possibilità di introdurre una settimana lavorativa di soli quattro giorni. Perfino il nuovo governatore di Tokyo, Yuriko Koike, ha recentemente messo per iscritto che il personale negli uffici governativi non può restare a lavoro oltre le otto di sera.

Questi sono tutti piccoli segnali ma se messi insieme dicono che forse, gradualmente, le cose in Giappone sul fronte del lavoro, possono davvero migliorare.

Cristian Martini Grimaldi*

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* Scrittore e giornalista. Ha vissuto negli Stati Uniti, India, Corea, Cina. Vive a Tokyo. Collabora con varie testate italiane ed estere, si occupa di cultura, religione, condizione delle minoranze e diritti umani in Asia ed Estremo Oriente (da www.huffingtonpost.com).