Diritto di libertà interiore
La tensione alla libertà interiore, ricercata comunitariamente, è uno dei cardini del sufismo, e anche uno dei motivi per cui è sempre stato considerato pericoloso, sia dal potere teocratico che da quello laicista. Una storia raccontata dal «santo» sufi Jalâl al-Dîn Rûmî, detto Mawlânâ, illustra, come una parabola, la strada per realizzarla.
La purificazione interiore è l’obiettivo verso cui tende il sufi nel suo rapporto con il Dio Altissimo, Onnipotente e Misericordioso (che è lo stesso Dio del musulmano «ordinario»). Raggiungere uno stato di «annientamento», di spoliazione da tutto, dall’individualismo, dall’egoismo, dalle passioni disordinate che possono governare l’uomo, e divenire libero di innalzarsi verso Dio. Si tratta del fanâ’, di quella condizione che talvolta viene confusa con una specie di nirvana. Ma nel nirvana non si sa dove sia l’anima o la creatura, mentre il sufi sa perfettamente dove si trova, anche quando è sospeso tra il cielo e la terra, in quello stato particolare definito «tra i due mondi», la barzakh.
Il sufismo, nella sua tensione verso la purificazione mistica, è un fatto della vita pratica, vissuta: riguarda l’esistenza concreta del fedele. Non si può percepire in profondità cosa sia questa corrente mistica dell’Islam, se non si scende nel concreto della vita, se non si assiste, ad esempio, alla pratica dello zikr, la ripetizione del nome di Dio, se non si partecipa alla danza dei dervisci rotanti. E non si può partecipare della sua forza liberatrice se non si vive comunitariamente: perché quella dei sufi non è una ricerca individualista, ma bensì comunitaria. Ricercano insieme la liberazione interiore. È questo il motivo per cui la loro esistenza fa temere i diversi poteri, tanto quelli religiosi integralisti quanto quelli politici laicisti (cfr MC ago.-sett. e nov. 2015). Il fatto che esistano dei gruppi di ricerca interiore, mette in scacco, da un lato la frammentazione della società voluta dai regimi laicisti, e dall’altro il conformismo uniformante dei regimi teocratici, tra cui quelli musulmani. La ricerca di una spiritualità della libertà interiore può infatti sfociare anche in una ricerca di libertà sociale.
La poesia di Dio
Per comprendere come avviene l’elevazione dell’animo e della persona del sufi, c’è una complessa rete di pratiche rituali che sarebbe utile conoscere. Ma per comprendere il cuore delle aspirazioni mistiche dei sufi, di liberazione interiore, può bastare leggere alcuni dei suoi testi tradizionali.
Il sufismo si esprime eminentemente in poesia, e non è un caso che nei paesi musulmani la poesia sia ancora oggi un mezzo di contestazione sociale. Alcuni mistici trasmettono l’anelito alla libertà interiore e, spesso, a quella civile, proprio tramite la poesia. Lo si intuisce bene da una storia contenuta nel poema Mathnawî di Jalâl al-Dîn Rûmî, quasi una parabola con un pappagallo e il suo padrone come protagonisti, in cui è contenuta tutta la tensione del sufismo verso la purificazione e liberazione.
C’era un mercante che aveva un pappagallo
«C’era un mercante che aveva un pappagallo; un bel pappagallo imprigionato in una gabbia1. Il mercante si preparò per un viaggio: decise di andare in India. Generosamente disse ad ogni schiavo […]: “Che cosa vuoi che ti porti?”. Ognuno gli chiese ciò che più desiderava: il brav’uomo si impegnò con tutti. Poi disse al pappagallo: “Che regalo ti piacerebbe che ti portassi dal paese dell’India?”. Il pappagallo rispose: “Quando laggiù vedrai i pappagalli, spiega loro la mia sventura e dì loro: ‘Il tal pappagallo, che ha nostalgia di voi, per desiderio del Cielo è nella mia prigione. Vi saluta, chiede giustizia, e desidera conoscere da voi un rimedio e un modo per essere ben guidato’. E dice ancora: ‘È bene che, avendo nostalgia di voi, io renda lo spirito e muoia nella separazione? È giusto che mi trovi in una crudele prigionia, mentre voi siete sui teneri arbusti o sugli alberi? È questa la fedeltà degli amici?’”. […] Il mercante accettò quel messaggio e promise di portare il saluto del pappagallo ai suoi simili.
Giunto ai limiti più estremi dell’India, scorse nella pianura un gruppo di pappagalli. Fermò il suo cammello, poi trasmise il saluto, adempiendo così al suo incarico. Ed ecco che uno dei pappagalli si mise a tremare violentemente, il suo respiro si fermò e cadde morto. Il mercante si rammaricò di aver dato quelle notizie, e disse: “Sono venuto a distruggere questa creatura. Certamente era un parente del mio pappagallino […]. Perché ho fatto questo? Perché ho portato quel messaggio? Con una parola stupida ho distrutto questa povera creatura”. […].
Il mercante concluse le sue faccende e toò a casa col cuore lieto. Portò un dono a ogni schiavo, fece un regalo a ogni schiava. “Dov’è il mio regalo? – chiese il pappagallo -. Raccontami ciò che hai detto e che cosa hai visto”. “No – egli rispose – veramente mi pento, torcendomi le mani e mordendomi le dita. Perché mai, per ignoranza e follia, ho portato un messaggio tanto stupido?”. “Padrone – disse il pappagallo – di che cosa ti penti? Che cosa mai ti provoca collera o dolore?”. “Ho riferito i tuoi lamenti – rispose – a un gruppo di pappagalli simili a te. Uno dei pappagalli capì il tuo dolore, che gli spezzò il cuore, tremò e morì. Mi sono addolorato. Pensavo: ‘Perché ho detto ciò?’ Ma a che serve pentirsi dopo aver parlato?” […].
Quando l’uccello udì ciò che quel pappagallo aveva fatto, tremò violentemente, cadde e rimase stecchito. Il mercante, vedendolo cadere così, diede un balzo e gettò in terra il suo berretto; si buttò per terra e si lacerò il vestito […]. Gridava: “Oh, bel pappagallo dalla voce soave! Che cosa ti è successo? Perché sei diventato così? Oh! Ahimé per il mio uccello dalla dolce voce! Oh! Ahimé per il mio amico intimo e mio confidente! Oh, ahimé per il mio uccello melodioso, vino del mio spirito, mio giardino e mio dolce basilico!” […]. Il mercante, logorato dal dolore, dall’angoscia e dalla nostalgia, pronunciava centinaia di frasi, a volte in polemica con se stesso, a volte giustificandosi, a volte supplicando, a volte appassionato di verità, a volte di irrealtà […].
Dopo di ciò, lo buttò fuori dalla gabbia. Il pappagallino volò via fin su un alto ramo. Quel pappagallo morto prese il volo come quando il sole balza in avanti da Oriente. Il mercante rimase stupefatto per ciò che l’uccello aveva fatto; senza capire, improvvisamente intuì i segreti dell’uccello. Alzò il volto e disse: “Oh, fammi la grazia di spiegare questo fatto. Che cosa ha fatto quel pappagallino laggiù perché tu imparassi il modo di preparare questo cocente stratagemma per me?”. Il pappagallo disse: “Con la sua azione, mi ha consigliato: ‘Rinuncia al fascino della tua voce e al tuo affetto, poiché è stata la tua voce che ti ha condotto alla schiavitù’. Esso ha fatto finta di essere morto per darmi questo consiglio intendendo: ‘Tu che sei divenuto un cantore per il fior fiore della società e per la gente comune, per ottenere la libertà muori come faccio io’”. Così il pappagallo gli diede uno o due consigli pieni di saggezza, poi gli rivolse il saluto della separazione. Il mercante gli disse: “Va’, che Dio ti protegga! Adesso mi hai mostrato una nuova via”, e disse a se stesso: “Questo consiglio è per me; seguirò la sua via, poiché quella via è radiosa. La mia anima sarebbe forse inferiore a quella del pappagallo? Ogni anima deve seguire una via così buona”».
Commento al racconto
Si tratta di un testo con intenti performativi: leggendolo si ha l’impressione di crescere nella libertà e si può immaginare il sufi che si lascia portare dalle sue parole aprendosi sempre più a Dio.
Il pappagallo incarna l’anima del sufi, o anche il desiderio umano di vera pace e di vera liberazione. È anche il simbolo dell’essere che ripete senza una vera logica le parole ascoltate: esso ripete, ma senza capire necessariamente i suoni che pronuncia. La storia inizia con la presentazione della situazione: il pappagallo è imprigionato, come l’anima dell’uomo. Il mercante è il suo padrone incontestato. C’è in questo passaggio tutta la visione del sufismo: l’anima profonda e autentica dell’uomo è in gabbia, imprigionata in mille lacci che la tengono legata al mondo. Il mercante è simbolo della più bassa mondanità dell’uomo che viaggia per il mondo in cerca di godimento. La sua logica tiene in scacco tutti, servi e pappagallo: «Cosa vuoi che ti porti dall’India?». Per mantenere i servi asserviti e il pappagallo in gabbia, promette regali. Ma il pappagallo ha un guizzo di profonda intelligenza interiore, e chiede al padrone di portare il suo lamento e la sua domanda di liberazione ai suoi simili.
Il pappagallo è attanagliato dalla domanda più lancinante che abita l’animo umano: la condizione in cui si trova, e che gli sembra naturale, è una condizione che porta alla libertà?
Il pappagallo della storia ci dice che il sufi si domanda in continuazione se quel che sta vivendo è una prigione dell’anima che porta alla libertà, oppure è inganno. Se la gabbia fosse davvero la sua situazione naturale – si potrebbe dire metafisica -, allora perché desiderare uscire di gabbia? Il pappagallo, in fondo, non desidera uscire di prigionia, ma soltanto conoscere la verità. È la verità, in realtà, che rende liberi, e se il pappagallo conoscerà la verità grazie ai suoi amici dell’India, sarà pago e felice.
La storia ci dice inoltre che la verità si conosce anche grazie alla compagnia degli amici. La ricerca, che tende a una spiritualità della libertà interiore, è comunitaria, è possibile solo in gruppo, ha quindi dei risvolti sociali.
Il racconto prosegue con il mercante che si reca in India, e qui trova dei simili del suo animale domestico. Dopo aver comunicato loro il messaggio del suo pappagallo, uno di essi cade morto. Il mercante è assalito dalla tristezza, ma sembra che essa non provenga dalla compassione per la sorte dell’animale, quanto piuttosto dal pensiero della morte in sé, e quindi della propria morte, tant’è vero che poi se ne torna a casa «lieto». Si scoprirà poi che il pappagallo indiano non è morto davvero, ma il mercante non sa andare al di là delle apparenze terrene che lo tengono schiavo.
In contrasto con la stupidità mondana del mercante, il pappagallino sa interpretare correttamente la morte bizzarra del compagno indiano. Egli intuisce immediatamente la comunicazione profonda che il suo simile gli invia tramite il mercante. E applica quanto gli è stato suggerito: fa finta di morire.
Se il pappagallo capisce subito il segreto inviatogli, il mercante invece rimane ingabbiato nel suo più profondo egoismo individualistico: piange e si dispera, ma dalle parole che pronuncia si capisce che non è il pappagallo a interessargli, quanto piuttosto la sua voce soave, e «l’intimo confidente, giardino e dolce basilico». Il suo amore è tutto intriso di motivi individualistici. Nel suo soliloquio si accusa e si giustifica, supplica e chiede di vedere la verità. Il suo agitarsi dipende dal fatto che non accetta che il suo io sia scosso da un fatto apparentemente privo di logica umana: il mercante non sa andare al di là dell’apparenza della morte.
Allora ecco il colpo di scena: il pappagallo «morto» trova la libertà proprio attraverso la morte. Ha appreso ciò che cercava, la verità della sua situazione, cioè che non è libero, che viene tenuto imprigionato dalla sua stessa voce melodiosa. Ha capito che deve morire a se stesso per trovare la totale liberazione. Il sufi ama ripetere la parola del profeta Muhammad: «Morire prima di morire», che significa proprio questo, sopprimere da sé, dal proprio animo, tutto quanto è negativo e impedisce la liberazione e la purificazione.La storia si conclude con le parole del mercante che esprimono la sua nuova consapevolezza: tutto ciò che è successo con il suo pappagallo è un insegnamento per lui, perché anche lui possa trovare la libertà. La libertà interiore infatti è contagiosa, e diffonde libertà attorno a sé.
I sufi grazie al loro intimo anelito alla liberazione totale diffondono quindi un messaggio di libertà, del diritto di ciascuno alla salvezza da tutto ciò che tiene ostaggio l’animo umano.
Alberto Fabio Ambrosio
Note
1 – Per tutta la storia, si veda: Jalâl al-Dîn Rûmî, Mathnawi. Il poema del misticismo universale, Bompiani, Milano 2006, vol. 1, pp. 187-210.