Lo stato e il suo finanziamento


Diritti della persona e beni comuni non possono essere tutelati dal mercato, essendo quest’ultimo uno strumento che esclude chi non può pagare. Soltanto una comunità organizzata in una «casa comune» (come lo stato) può raggiungere lo scopo. Per poter funzionare, la casa comune ha però bisogno di essere finanziata. Le imposte servono a questo.

Siamo abituati a pensare che l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni sia tramite l’acquisto, ma in realtà abbiamo a disposizione anche altri canali, di cui due usati abitualmente. Il primo è «il fai da te», che ci permette di provvedere da soli a ciò che ci serve. Situazione che ricorre, ad esempio, quando cuciniamo, riordiniamo la casa, laviamo i nostri panni, ripariamo la nostra bicicletta. Il secondo canale è «l’azione collettiva» che significa mettersi insieme per raggiungere un obiettivo comune. Le modalità sono tante e vanno dal gruppo di amici che si dividono i compiti per un’attività a beneficio di tutti, agli abitanti di una località che uniscono le forze per un evento comune, fino alle forme più organizzate di servizi pubblici.

L’umanità ha sempre avuto ben chiaro che da soli non si va da nessuna parte e da sempre, a tutte le latitudini, si sono sviluppate forme di organizzazione comunitaria. Non di rado anche di tipo deviato come mostrano le monarchie, il feudalesimo, le dittature e ogni altra forma di gestione del potere statuale basato sul sopruso e la prepotenza. E sono proprio queste forme di degenerazione che spesso ci fanno vivere la dimensione pubblica come un nemico che ci opprime piuttosto che come una comunità che ci accoglie. Ma dobbiamo convincerci che senza dimensione comunitaria la nostra vita è fortemente compromessa soprattutto per ciò che concerne i diritti e i beni comuni. E se in tema di beni comuni sembra esserci un consenso diffuso sulla necessità di tutelarli, rispetto ai diritti si ha la sensazione di trovarci di fronte a un’idea che sta passando di moda. Un risultato forse dovuto all’insinuarsi sempre più in profondità della cultura individualista indotta dal mercantilismo crescente. Ma forse dovuto anche a una insufficiente riflessione sul concetto di diritto che vale la pena rispolverare.

I diritti, la nostra seconda pelle

I diritti non sono un optional. I diritti sono la nostra seconda pelle. Ci appartengono come il nostro nome e cognome. Ci appartengono per il fatto stesso di esistere, perché si riferiscono ai bisogni fondamentali che ciascuno di noi deve poter soddisfare indipendentemente se ricco o povero, maschio o femmina, giovane o vecchio. Nasciamo col diritto a respirare, a nutrirci, a coprirci, a proteggerci, a curarci, a istruirci, a muoverci, a comunicare, a vivere in sicurezza.

Per fortuna non c’è ancora nessuno che affermi che solo i ricchi debbono poter bere o mangiare, il che ci permette di stabilire subito, con certezza, che i diritti non possono appartenere al mercato. E non per pregiudizio ideologico, ma per constatazione pratica. Da un punto di vista dell’offerta il mercato è ineguagliabile, con i suoi milioni di imprese di ogni dimensione e settore. Beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra: non c’è prodotto che il mercato non sia in grado di procurare. Ma la regola base del mercato è la vendita che esclude automaticamente chi non può pagare. Esclusione e diritti sono principi inconciliabili. Per questa unica ragione, il mercato, una macchina organizzata per escludere, non può occuparsi di diritti.

L’ambito naturale dei diritti è la comunità che si organizza per garantirli a tutti in maniera gratuita attraverso un patto di solidarietà. Chiede ad ognuno di contribuire per quanto può, affinché ognuno possa ricevere per quanto ha bisogno. Un principio che non è estraneo ai nostri ordinamenti, ma che oggi è sotto attacco perché toglie spazio al mercato. Eppure, il riconoscimento dei diritti è lo spartiacque tra umanità e animalità. È l’affermazione che la convivenza non va organizzata sulla forza e la prepotenza, ma sul riconoscimento di un livello di uguaglianza e di rispetto per tutti che nessuna forza può oltrepassare. Nella misura in cui questo patto è rispettato, avremo la civiltà, altrimenti sarà la barbarie.

In concreto dovremmo rafforzare e riformare la dimensione comunitaria in modo da costruire una grande casa comune dentro la quale tutti possano trovare rifugio e sicurezza. In tre campi dell’esistenza: in primo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, cibo, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia; poi la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la qualità della nostra esistenza dipende da un ambiente in buono stato; infine, la garanzia di un lavoro affinché tutti possano sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Il finanziamento della «casa comune»

Chiarite le funzioni della dimensione comunitaria, si tratta di capire come farla funzionare. Le soluzioni possono essere varie. Ad esempio, potremmo far funzionare i servizi collettivi, mettendo tutti una parte del nostro tempo a loro disposizione. Oppure potremmo organizzare delle attività produttive per fabbricare, in forma collettiva e monopolistica, dei beni destinati alla vendita e col ricavato finanziare i servizi pubblici.

Per una serie di vicende storiche, la formula che più si è fatta strada è quella della tassazione della ricchezza prodotta individualmente. In pratica ognuno versa allo stato una parte di ciò che guadagna e col ricavato lo stato acquista beni e lavoro, utili a garantire servizi e assistenza. Una modalità di finanziamento semplice come principio, ma complessa nella sua attuazione pratica perché la questione fiscale trascina con sé varie altre problematiche su cui spiccano l’esigenza di efficacia e di equità. Efficacia intesa come capacità reale dello stato di impossessarsi della ricchezza dei cittadini. Equità intesa non solo come tentativo di fare pagare di più a chi più ha, ma anche come tentativo di livellare la ricchezza dei cittadini. Solitamente il primo obiettivo è raggiunto tassando la ricchezza nelle sue varie espressioni, il secondo tramite la progressività. L’analisi della situazione italiana ci può aiutare a capire meglio come funzionano entrambi.

Le imposte in Italia (e il «cuneo fiscale»)

In Italia, la pressione fiscale, ossia la quantità di ricchezza rastrellata dallo stato, ammonta grosso modo al 42% del prodotto interno lordo e fornisce un gettito che, nel 2016, è stato di 717 miliardi di euro. Un ammontare raggiunto attraverso tre vie contributive: contributi sociali per il 31%, imposte dirette per il 35%, imposte indirette per il 34%. I contributi sociali, che gravano in parte sui lavoratori, in parte sui datori di lavoro, sono prelievi effettuati sulle attività produttiva per finanziare la previdenza dei lavoratori. Sommati ad altre forme assicurative obbligatorie (per gli infortuni, per esempio) e alle imposte sui salari, rappresentano il cosiddetto «cuneo fiscale».

Le imposte dirette sono prelievi su ciò che ognuno guadagna (reddito) e sulla ricchezza che ognuno ha accumulato (patrimonio). A seconda della fonte, i redditi si distinguono in redditi da lavoro, redditi da fabbricati (affitti), redditi da capitale (interessi e dividendi), redditi da impresa (utili). L’Irpef è l’imposta sul reddito più conosciuta. Quanto ai patrimoni, si usano distinguere in mobiliari e immobiliari. I mobiliari comprendono depositi bancari, titoli, quote societarie; gli immobiliari: case, palazzi, terreni. L’Imu è l’imposta sul patrimonio più conosciuta.

L’articolo 53: la progressività disattesa

Riuscire ad intercettare tutto ciò che i cittadini guadagnano è impresa piuttosto ardua, perciò accanto alle imposte dirette, che colpiscono la ricchezza quando viene incassata, lo stato ricorre anche alle imposte indirette che colpiscono la ricchezza quando viene consumata. L’Iva è l’imposta indiretta più nota. Come regola si può dire che una forte incidenza delle imposte indirette denota scarsa volontà perequativa da parte dello stato, perché le imposte indirette colpiscono i redditi in forma decrescente. Poiché chi guadagna poco consuma tutto, finisce per pagare imposte indirette sul 100% del proprio reddito. Chi guadagna molto, invece, pur conducendo una vita più agiata, evita di consumare tutto, finendo per pagare tasse indirette solo su una parte del suo reddito. A causa di questo meccanismo, una forte preponderanza di imposte indirette denota che lo stato preferisce colpire gli strati medio bassi piuttosto che quelli ricchi. Il che è contrario allo spirito della Costituzione che all’articolo 53 afferma: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» ed aggiunge che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Tradotto significa che la ricchezza non deve essere tassata tutta allo stesso modo, ma in forma crescente al crescere del reddito. Un modello di progressività è l’imposta differenziata per scaglioni di reddito. Ad esempio, si potrebbe prevedere un’aliquota (quota di tassazione) nulla sulla prima fascia di reddito fino a 10.000 euro all’anno, del 5% sui successivi 5.000 euro, del 7% sui successivi 4.000, del 10% sui successivi 3.000 e avanti di questo passo.

La progressività si basa sulla constatazione che il reddito risponde a bisogni diversi via via che cresce: le quote più basse non possono essere toccate o devono essere toccate poco perché servono per i bisogni fondamentali. Viceversa, le quote che si aggiungono servono per consumi sempre più di lusso, per cui si possono tassare sempre di più senza paura di compromettere la vita delle famiglie, ma anzi migliorandola perché si arricchiscono di servizi pubblici. Ma la progressività serve anche a ridurre le disuguaglianze e ad attivare il principio di solidarietà fra chi ha molto e chi ha poco.

Tuttavia, per essere reale la progressività ha bisogno non solo di aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito, ma anche di cumulabilità dei redditi. Ci sono categorie di persone che hanno una sola fonte di reddito. È il caso della maggior parte dei lavoratori dipendenti. Ma ci sono categorie più benestanti che ottengono redditi da più fonti. Può succedere al libero professionista che oltre ad ottenere redditi da lavoro autonomo, ottiene introiti per affitti, per interessi su depositi bancari e altro. Se ogni tipo di reddito è tassato separatamente, le aliquote più alte non scattano mai e la progressività rimane azzoppata.

Nella prossima puntata esamineremo più in dettaglio alcune caratteristiche del sistema fiscale italiano per capire da che parte sta veramente.

Francesco Gesualdi

 




In un mondo di debiti, tra crescita e austerità


Non è soltanto l’Italia a essere indebitata. Lo è tutto il mondo. Si stima un debito di 30mila dollari a testa, neonati inclusi. Le ricette proposte sono sempre le stesse: per ripagare il debito occorre tagliare sanità, scuola, pensioni. E poi bisogna crescere. Quanto? In che modo? E a che prezzo?

Il debito è motivo di preoccupazione per tutti, ma ciascuno per ragioni diverse: l’Unione europea (Ue) è preoccupata per le ricadute sull’euro, le imprese per le ripercussioni sull’andamento economico, le famiglie per i contraccolpi sociali. E, a seconda del tipo di preoccupazione, cambiano ricette e rimedi.

Il debito secondo l’Ue

L’obiettivo principale dell’Unione europea è rassicurare i mercati, dimostrare agli investitori internazionali che non hanno niente da temere perché i governi europei sono debitori affidabili. Perciò i suoi occhi sono puntati solo sui conti per mantenerli entro parametri rassicuranti per gli investitori: debito complessivo non oltre il 60% del Pil e deficit annuale al di sotto del 3%, meglio se uguale a zero. È il famoso «pareggio di bilancio» in base al quale tutte le spese, compresa quella per interessi, devono essere coperte dalle entrate ordinarie.

L’Europa si è autornimposta un giro di vite a partire dal 2011, quando la situazione debitoria di tutti i paesi europei peggiorò a causa dei salvataggi bancari. E l’Italia, pur non avendo una situazione bancaria così disastrosa, divenne subito un vigilato più sorvegliato degli altri perché aveva un debito pubblico cronicamente elevato. Del resto in quel periodo i titoli di stato italiano continuavano a perdere valore, un chiaro messaggio che, se l’Italia non si fosse attrezzata per dimostrare di essere un debitore fedele, sarebbe stata messa sotto attacco da parte dei mercati. La politica non tardò a battere un colpo: nel novembre 2011 destituì Berlusconi, considerato troppo debole, e lo sostituì con Monti che adottò subito politiche di austerità particolarmente pesanti. L’allora primo ministro aumentò le tasse, fino a portare la pressione fiscale al 44,1% del Pil nel 2013, mentre tagliò pensioni, istruzione, sanità, trasferimenti ai comuni. L’inevitabile conseguenza furono povertà, disuguaglianze e disoccupazione, una decadenza mal sopportata dal popolo italiano che non ha tardato a punire le forze politiche che l’avevano sostenuta.

Il debito secondo le imprese

Se veniamo alle imprese, la loro posizione sul debito non è omogenea, come del resto non lo è su molte altre questioni. Di solito su principi e obiettivi le imprese convergono, ma sulle strategie possono esprimere posizioni diverse a seconda dell’attività svolta, delle dimensioni raggiunte, dei mercati occupati. In tema di debito, le imprese sono tutte concordi nell’affermare che gli impegni vanno onorati, ma sono divise sul tipo di logica da far prevalere. Grosso modo si fronteggiano due schieramenti: il partito dell’estrazione e il partito della produzione. Partigiani del partito dell’estrazione sono le imprese della finanza (banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento) che, vivendo di parassitismo, sognano un sistema economico altamente indebitato totalmente asservito alle esigenze di guadagno dei creditori. Partigiani del partito della produzione sono le imprese dell’economia reale che, vivendo di produzione e commercio, sentono il bisogno di operatori economici sani ad alta capacità di acquisto. Dunque, non troppo dilapidati dai loro creditori. La storia del capitalismo è piena di crisi provocate da un eccesso di debito: l’inceppamento dell’intero sistema dovuto ai fallimenti di imprese, famiglie e governi, sopraffatti da un eccesso di risorse da trasferire ai creditori. Che è esattamente il rischio che corriamo oggi, considerato che il mondo galleggia su 237mila miliardi di dollari di debiti, circa tre volte il prodotto lordo mondiale (Iif, maggio 2018).

Una buona dose di regole, per tenere contemporaneamente a bada gli appetiti degli avvoltorni finanziari e la propensione all’azzardo da parte degli operatori economici, sarebbe il modo migliore per prevenire l’eccesso di debito. Ma poiché le imprese vivono le regole come dita negli occhi, si ostinano a rifiutarle, sostenendo che esiste una ricetta capace di salvare capra e cavoli: l’interesse di chi è parassita a garantirsi alti incassi e l’interesse di chi è parassitato a garantirsi un’alta solidità finanziaria. La ricetta si chiama crescita e si basa sul principio che, se la ricchezza si fa più grande, diventa più facile pagare i debiti con ampia soddisfazione per tutti, sia dei creditori che dei debitori. Applicata ai debiti sovrani, la tesi è che, se cresce la ricchezza prodotta nella nazione, cresce anche il gettito fiscale e quindi la capacità di spesa dei governi che, al tempo stesso, avranno abbastanza risorse per garantire servizi ai cittadini e onorare i propri debiti. In effetti, questa è la sola ricetta che in Europa si va facendo strada in alternativa all’austerità: la propugnava il governo Pd di Renzi e la propugna il governo giallo verde di Di Maio e Salvini. Potrà funzionare?

La favola della crescita

In teoria sì, in pratica presenta molte perplessità. Per cominciare c’è un problema di misura: quanta crescita servirebbe per tirarci fuori dal pantano senza sacrifici? Proviamo a fare due conti. Solo di interessi ci servono una settantina di miliardi l’anno; ma se ci aggiungiamo anche il traguardo di sbarazzarci in venti anni di metà del debito accumulato, che ormai ha oltrepassato i 2.300 miliardi, dovremmo mettere in conto altri 57 miliardi l’anno. Ad oggi farebbero 125 miliardi. Se è vero che andrebbero a scalare via via che passano gli anni, non sbaglieremmo di molto se dicessimo che per i prossimi 10 anni lo stato dovrebbe avere un aumento di gettito di un centinaio di miliardi all’anno. Considerato che oggi la pressione fiscale è al 40%, per ottenere un simile risultato, il primo anno dovremmo avere un aumento di Pil di 250 miliardi. Tradotto in termini percentuali farebbe una crescita del 15%, che è il doppio della crescita media ottenuta dalla Cina nell’ultimo quinquennio. Quella italiana è un’economia matura e, per bene che vada, non può attendersi una crescita del Pil oltre il 2%, 34 miliardi l’anno, un ammontare che – secondo la pressione odierna – potrebbe produrre un gettito aggiuntivo di 13 miliardi: appena l’11% di ciò che servirebbe. Insomma, i numeri ci dicono che quella della crescita è una bella favola che serve a poco per tirarci fuori dai problemi. Ciò nonostante è usata come pretesto per imporci una serie di altre riforme che peggiorano le nostre condizioni di lavoro e attentano al bene comune. Il punto è che la crescita a cui tutti pensano è quella trainata dalle imprese private, che oggi però sono libere di andare a produrre dove vogliono. Il che ha messo tutte le nazioni del mondo in gara fra loro percreare le condizioni più allettanti per gli investimenti. E poiché le imprese prestano attenzione prioritaria al costo del lavoro e alle tasse, tutti i governi si stanno organizzando per ridurle. Tant’è che anche in Italia le parole d’ordine sono flessibilità, libertà di licenziamento e riduzione delle tasse come mostrano il Job’s Act e il fatto che l’imposta sui redditi d’impresa è passata dal 37% nel 1994, al 24% di oggi. E, detto per inciso, a che serve impegnarsi per fare aumentare il Pil, se poi si abbassano le tasse su chi potrebbe pagarle? Ma la fede nella crescita è così radicata che c’è chi chiede di poter fare altro debito per permettere allo stato di investire in opere pubbliche, nella convinzione che la costruzione di strade, ponti e ferrovie stimolerà l’avvio di molte altre attività economiche. In questa direzione sembra voler andare anche l’attuale governo giallo verde che, pur di riuscirci, si dice pronto a superare i paletti fissati in sede europea. È cronaca di questi mesi.

Altri parametri, altre strade da percorrere

È fuor di dubbio che in Italia ci sono molti bisogni insoddisfatti che necessitano di interventi pubblici, ma l’obiettivo non può essere la crescita tout court, bensì il miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tenendo ben presente che c’è anche un’altra condizione fondamentale da rispettare: la salvaguardia ambientale. In questa ottica non sono le grandi opere a dover prevalere, ma il recupero del patrimonio edilizio esistente e la valorizzazione delle tratte stradali e ferroviarie locali. Una scelta che (forse) non farebbe crescere il Pil come auspicato, ma che migliorerebbe la vita dei cittadini senza consumare altro suolo e limita al minimo il consumo di nuove risorse. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il tempo della crescita è finito, mentre deve iniziare quello della riconversione economica: una totale rivisitazione del «cosa, come e per chi» produrre con l’obiettivo di espandere le attività ad alto impatto qualitativo sul piano dei diritti, della serenità personale, dell’inclusione occupazionale, della difesa ambientale, mentre vanno chiuse le attività energivore, insalubri, dissipative, utili solo a creare bisogni artificiali che ci ingolfano di rifiuti e ci condannano a una vita in corsa perenne per guadagnare sempre di più.

Gestire il debito attraverso la crescita è come volersi ingraziare la dea Khali con sacrifici umani: il rimedio peggiore del male.

Progressività, patrimoniale, prestito forzoso

Vanno cercate altre strade. Una soluzione è quella della redistribuzione, che vuol dire fare pagare i più forti. Fino ad ora si sono cercate le risorse a favore del debito tagliando sanità, scuola, assegni sociali, che è come se una famiglia decidesse di pagare le banche riducendo la razione di latte del neonato invece che togliere la bistecca agli adulti. In Italia la ricchezza c’è, ma – per un tacito accordo fra tutte le forze politiche – i potenti nessuno li tocca. Questa ingiustizia deve finire: se il paese è in difficoltà lo sforzo del risanamento va richiesto prima di tutto a chi sguazza nell’opulenza. Un obiettivo che si raggiunge non solo riformando il sistema fiscale in senso fortemente progressivo (come avevamo nel 1974), ma anche imponendo una seria imposta patrimoniale e magari un prestito forzoso sugli alti redditi e patrimoni, ad esempio oltre i 500mila euro. In contemporanea andrebbe attuata una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che ogni anno procurano allo stato una perdita di oltre 100 miliardi. E poiché questi provvedimenti hanno bisogno di tempi lunghi, come misura d’urgenza si dovrebbe pensare di chiedere anche ai creditori di fare la propria parte. I creditori chiedono un tasso di interesse perché corrono un rischio, ma se sono sempre protetti, il rischio dov’è? Una strategia di uscita dal debito potrebbe cominciare proprio dalla decisione di raggiungere il pareggio di bilancio tagliando la spesa per interessi, invece che le spese a vantaggio della collettività. Nel 2017 la quota di interessi che le imposte non sono riuscite a coprire è stata pari a 40 miliardi, lo stato avrebbe potuto congelarli raggiungendo di fatto il pareggio di bilancio. Ma chi sarebbe stato penalizzato da una simile decisione? Non certo le famiglie che detengono appena il 5% dei titoli del debito pubblico italiano. In ordine decrescente ci avrebbero rimesso le banche italiane che ne detengono il 27%, la Banca centrale europea (Bce) che ne possiede il 20%, altre istituzioni finanziarie italiane anch’esse al 20%, la Banca d’Italia al 15%, altri investitori stranieri al 13%. In altre parole, a subire i contraccolpi non sarebbero solo istituzioni private, da cui potremmo aspettarci un atteggiamento ostile, ma anche la Banca centrale europea e la Banca d’Italia dalle quali ci potremmo attendere quanto meno un atteggiamento di non belligeranza dal momento che sono istituzioni private con funzioni pubbliche. Ed è proprio la Banca centrale europea, la grande struttura che, alla fine, dobbiamo riformare perché, se avesse un’altra impostazione, potrebbe liberare tutti i governi dell’eurozona dal fardello dei loro debiti senza troppi scossoni.

Chi ragiona diversamente c’è

Charles Wyplosz, uno dei più noti economisti europei, ha avanzato una proposta in tal senso con un progetto denominato Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone). In pratica l’istituto di Francoforte diventerebbe il nuovo titolare dell’intera massa debitoria degli stati dell’Eurozona e, mentre potrebbe dotarsi di un piano pluriennale per estinguere gradatamente il capitale con denaro di nuova emissione, potrebbe pagare gli interessi in scadenza con i proventi del «signoraggio», ossia con i guadagni ottenuti dal servizio di emissione monetaria. Tutto questo per dire che, da un punto di vista tecnico, le soluzioni ci sarebbero. L’ostacolo è tutto politico ed è rappresentato dal predominio dell’ideologia liberista che vuole gli stati succubi dei mercati. Solo una nuova volontà popolare può aprire la strada a un’altra visione,  ma un nuovo popolo si affermerà solo se capirà che i responsabili dei suoi mali non si annidano fra gli ultimi bensì fra i primi.

Francesco Gesualdi