Corea del Sud. Voglia di armi nucleari

 

«Gli Stati Uniti sarebbero disposti a favorire un programma in grado di dotare la Corea del Sud di sottomarini a propulsione nucleare come fatto con l’Australia?». Primi giorni di giugno, Shangri-La dialogue di Singapore, il massimo vertice sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico. Un delegato di Seul pone questa domanda a Lloyd Austin, il capo del Pentagono, che risponde in maniera evasiva. È il segnale di qualcosa di molto piu ampio: la Corea del Sud sta accarezzando l’idea di dotarsi di armi nucleari.

Un tema tabù, anche per la volontà dichiarata da sempre di Washington di perseguire la denuclearizzazione della penisola. Eppure, dopo anni di continuo innalzamento delle tensioni con la Corea del Nord, l’opinione pubblica e la posizione del governo in materia sta rapidamente mutando. Soprattutto dopo il recente accordo di mutua difesa siglato a Pyongyang tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, che preoccupa non poco Seul.
Un recente sondaggio condotto dal potente think-tank Korea Institute for National Unification, un’entità statale, ha rilevato che il 66% degli intervistati ha espresso «sostegno» o «forte sostegno» per un deterrente nucleare indipendente, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Alla richiesta di scegliere, il numero di intervistati che ha espresso una preferenza per il possesso di armi nucleari proprie da parte di Seul rispetto al ricorso alle truppe statunitensi è aumentato di quasi 11 punti percentuali rispetto al 2023, superando per la prima volta il sostegno alla presenza militare di Washington.

Storicamente, la Corea del Sud si affida all’alleato statunitense per la «deterrenza estesa», con la consapevolezza che Washington è disposta a dispiegare i propri mezzi militari, comprese se necessario le armi nucleari, in difesa di Seul. E gli Stati Uniti si sono sempre opposti fermamente allo sviluppo di un proprio arsenale nucleare da parte della Corea del Sud, per il timore che questo possa far naufragare gli sforzi di non proliferazione globale e dare una scusa alla Corea del Nord (ma anche alla Cina) per giustificare l’accelerazione del rafforzamento del proprio arsenale. Ma molti sudcoreani sono convinti che i tempi siano cambiati e l’approccio classico non basti più a garantire la sicurezza.
Dopo gli incontri di Singapore e Hanoi tra Kim e Donald Trump, dal 2019 il dialogo è naufragato. Nella primavera del 2020 la Corea del Nord ha fatto saltare in aria il centro di collegamento intercoreano di Kaesong e dal 2022 ha aumentato esponenzialmente il ritmo dei test missilistici. Sempre nella primavera del 2022, le tensioni sono aumentate dopo la vittoria alle elezioni presidenziali sudcoreane del conservatore Yoon Suk-yeol, che ha abbandonato la linea dialogante del predecessore Moon Jae-in per adottare una retorica della risposta «colpo su colpo».
Anche a causa della guerra in Ucraina e del timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia, Seul ha rafforzato drasticamente la propria alleanza militare con gli Usa e ha avviato una partnership con la Nato.

Da qualche mese, è stato anche cancellato l’accordo intercoreano del 2018 che aveva ridotto le manovre militari lungo la frontiera. Il tutto in seguito al lancio del primo satellite spia nordcoreano, che secondo la Corea del Sud sarebbe avvenuto con il sostegno di Mosca. Pyongyang ha ricominciato a muoversi nei pressi della zona demilitarizzata, con brevi sconfinamenti di truppe e la costruzione di nuove strutture. Seul ha risposto con una serie di esercitazioni estese con gli Usa. Le due Coree hanno anche dato una svolta a livello politico-retorico. Kim ha fatto emendare la Costituzione per etichettare il Sud come «nemico principale e immutabile». Yoon ha presentato un piano di unificazione che non prevede alcun ruolo per Kim e il sistema politico nordcoreano. Insomma, Nord e Sud iniziano a pensare che la riunificazione possa avvenire solo cancellando l’altra metà.

Rispetto al passato, le capacità sempre più avanzate della Corea del Nord e la revisione della dottrina nucleare del regime per consentire attacchi preventivi in un’ampia gamma di scenari stanno spingendo diversi deputati sudcoreani a chiedere una rivalutazione della politica in materia di armi. Le voci in tal senso potrebbero aumentare di tono qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. In Corea del Sud ricordano bene cosa è successo durante il suo primo mandato, con la richiesta di aumenti monstre delle spese militari per mantenere i circa 29mila militari statunitensi sul territorio del Paese asiatico. Pretese talmente esose da provocare una sospensione delle trattative. Con l’arrivo di Joe Biden, si è invece trovato rapidamente l’accordo per un aumento ridotto al 4% delle spese. Non solo. L’amministrazione democratica ha rafforzato la rete di alleanze in Asia-Pacifico, favorendo il disgelo tra Corea del Sud e Giappone e fornendo nuove e ampliate garanzie sull’ombrello nucleare americano in caso di crisi.
Non a caso, Seul sta provando, sottotraccia, a trattare con la Casa Bianca il rinnovo dell’accordo prima delle elezioni o comunque del cambio della guardia tra Biden e il suo successore, nonostante la scadenza sia nel 2025. La mossa è pensata per evitare di dover trattare nuovamente con Trump, il cui ritorno, al di là degli effetti concreti, potrebbe causare conseguenze psicologiche, con i sudcoreani che presumibilmente si convincerebbero ancora di più che è necessario fare da soli. E che forse è meglio avere un proprio «ombrello», piuttosto che fare affidamento su quello altrui.

Lorenzo Lamperti




Taiwan. Vince Lai, ma perde il parlamento

 

Non è stato un voto radicale. Nonostante le interpretazioni che ne sono state date a livello internazionale, le elezioni presidenziali e legislative di Taiwan di sabato 13 gennaio non hanno segnato un punto di rottura, né una svolta definitiva. Forse, nemmeno decisiva per stabilire il futuro delle relazioni con la Cina continentale.

La vittoria di Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp) è percepita dai taiwanesi come l‘esito di una dinamica prettamente interna, non inclusa dalle cornici retoriche da campagna elettorale scelte dai due partiti principali: scelta tra guidata dal Kuomintang (Kmt) e scelta tra «democrazia e autoritarismo» per il Dpp. La sensazione della maggior parte degli elettori è che, recandosi ai seggi, non stessero per decidere le sorti di un ipotetico conflitto, né stessero favorendo o impedendo una potenziale «unificazione» (o riunificazione come la chiamano a Pechino).

Sarà anche per questo che, in realtà, il risultato non è così netto come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Lai ha vinto, ma raccogliendo il 17% in meno di quanto aveva ottenuto la presidente uscente Tsai Ing-wen alle presidenziali del 2020. In termini specifici, il suo 40% conta 5,5 milioni di voti contro gli oltre otto milioni di quattro anni fa. Abbastanza per battere il candidato del Kmt, l’ex poliziotto e attuale sindaco di Nuova Taipei Hou Yu-ih, che si è fermato al 33%.

A favorire il successo di Lai c’è stata anche la rottura dell’accordo per una candidatura unitaria nell’opposizione, che ha prodotto per la prima volta da tanto tempo una terza opzione forte per gli elettori taiwanesi: Ko Wen-je del Partito popolare di Taiwan (Tpp). Il suo 26% è un risultato più che ragguardevole, considerando che la scena politica taiwanese è tradizionalmente dominata dal bipolarismo tra Dpp e Kmt. In realtà, Ko non ha sottratto voti solo al Kmt, ma anche al Dpp. Soprattutto nel bacino dell’elettorato più giovane, spesso convinto da una proposta elettorale che si è autodefinita Se sulle presidenziali il netto calo del Dpp non si tramuta in problemi concreti, visto che nel sistema elettorale taiwanese per il ramo esecutivo il Tanto che l’ago della bilancia sarà proprio il Tpp di Ko, che coi suoi 8 seggi è l’unica altra forza politica ad aver superato lo sbarramento del 5%. Non ce l’ha fatta nemmeno il New power party, la formazione nata dal Movimento dei girasoli, il grande fenomeno di proteste del 2014 contro l’allora amministrazione Kmt di Ma Ying-jeou, molto dialogante con Pechino. Con il suo «responsabile» e provando a spolpare ulteriormente i partiti tradizionali in vista delle presidenziali del 2028, che, subito dopo la fine dello spoglio del 13 gennaio, Ko ha detto che vincerà sicuramente, di fronte ai suoi sostenitori delusi.

Questo frazionamento interno potrebbe incidere non solo sulle dinamiche politiche taiwanesi, ma anche sulla postura della Cina continentale. È interessante in tal senso un segnale arrivato dal comunicato dell’Ufficio degli Affari di Taiwan di Pechino, poche ore dopo la vittoria di Lai. Oltre a ribadire la storica posizione della ». Un modo per rivendicare una parziale vittoria, ma forse anche per esercitare pazienza nel breve termine, attendendo la nomina del presidente del parlamento (che si insedia il primo febbraio) e ancora di più il discorso di insediamento di Lai, prima di adottare una postura troppo aggressiva o comunque mandando segnali di discontinuità di fronte alla linea della pressione già adottata dal 2016, cioè da quando il Dpp è al potere.

Lai, dal canto suo, ha vinto anche riuscendo a convincere gli elettori che il suo obiettivo è tutelare lo status quo. Dunque niente unificazione ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale. Gli stessi Stati Uniti potrebbero chiedere delle garanzie in tal senso. Washington apprezza molto la leader uscente Tsai per la sua cautela ma anche per la sua prevedibilità. Caratteristica che sembra mancare al focoso Lai, a cui gli Usa potrebbero chiarire di voler mantenere le comunicazioni aperte con Pechino. In attesa quantomeno delle prossime elezioni per la Casa Bianca, l’altra variabile che potrebbe cambiare le regole di un gioco sempre più complicato.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Taiwan. In gioco la stabilità mondiale?

 

Il 13 gennaio è sempre più vicino. Sarà quello il giorno in cui Taiwan deciderà il suo prossimo presidente. Una scelta che non determinerà solo il futuro di quella che la Cina considera una La lunga campagna elettorale ha vissuto il suo culmine sabato 30 dicembre, quando si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto. Si tratta tradizionalmente del momento decisivo, visto che a dieci giorni dalle urne viene imposto il blocco di tutti i sondaggi.

Il dibattito è stato dominato dal tema delle relazioni intrastretto, su cui sono emerse le grandi differenze tra i candidati. Tutti e tre dicono di voler mantenere lo status quo, ma ognuno propone una ricetta diversa per farlo, svelando non solo diverse strategie politiche, ma anche un diverso sentimento identitario sul sottile filo che corre tra il definirsi «cinese» oppure «taiwanese».

Il favorito, Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp, sigla in inglese), ha giocato in difesa. Noto per le sue posizioni a favore dell’indipendenza formale di Taiwan, l’attuale vicepresidente ha provato a porsi in perfetta continuità con la presidente uscente, la moderata Tsai Ing-wen. Durante il dibattito, Lai ha ribadito l’impegno a mantenere la pace e si è detto disposto al dialogo con Pechino, ma senza fare concessioni sulla sovranità e soprattutto sottolineando la necessità del rafforzamento dell’esercito e di nuovi acquisti di armi dagli Stati Uniti. Ha poi attaccato i rivali definendoli «filocinesi», presentando il voto come una «scelta tra democrazia e autoritarismo», e alludendo dunque a un possibile rischio di «inglobamento» in caso di vittoria del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista tradizionalmente più dialogante con Pechino.

Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, ha invece descritto le elezioni come una «proposta» di Xi Jinping: ha infatti reiterato il rifiuto a «un paese, due sistemi», il modello di fatto fallito a Hong Kong che Pechino vorrebbe applicare anche a Taiwan.

Il terzo incomodo, Ko Wen-je, è in realtà apparso a molti come il più convincente dei tre durante il dibattito. Soprattutto dai più giovani che hanno commentato sui social. Ko, ex sindaco di Taipei e leader del Taiwan People’s Party (Tpp), si racconta come l’unica possibile novità nel tradizionale bipolarismo taiwanese. Durante il dibattito ha più volte esaltato il suo Sui rapporti intrastretto descrive il Dpp come «troppo anticinese» e il Kmt «troppo filocinese», proponendosi come depositario della linea di «riduzione del rischio», coniata da Unione europea e Stati Uniti: «Taiwan può diventare un ponte tra Washington e Pechino invece che un punto di tensione», sostiene, anche se non ha elaborato una proposta concreta per riavviare il dialogo.

Il favorito è senza dubbio Lai, che negli ultimi sondaggi disponibili era dato in vantaggio con una forbice che a seconda dei casi variava tra i 3 e i 10 punti. Al secondo posto Hou, con Ko non lontano. L’alleanza tra i due, naufragata a fine novembre, avrebbe con ogni probabilità messo fine al dominio del Dpp che dura dal 2016. Portando a un abbassamento delle tensioni militari con Pechino, ma a un prevedibile aumento del pressing politico per arrivare a un accordo che lo stesso Kmt non può garantire. Nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha ribadito che la «riunificazione è una necessità storica». Un avvertimento che non cambierà i calcoli dei taiwanesi alle urne.

Molto importante poi il risultato delle elezioni legislative. Secondo tutte le proiezioni, nessun partito dovrebbe avere la maggioranza allo yuan legislativo (il parlamento unicamerale). Ciò significa che un’ipotetica presidenza Lai partirebbe azzoppata, con potenziali problemi nel far passare una serie di riforme e provvedimenti, a partire da quelli in materia di difesa. Uno scenario instabile che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe provare a far leva sulle divisioni interne per guadagnare posizioni anche a livello politico.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Una storia americana


I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.

Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.

Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.

Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.

Dipinto raffigurante la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680).

Il mondo è più grande

Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.

I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.

Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere:  la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).

Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.

In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.

Dipinto rappresentante l’uccisione dei missionari gesuiti francesi avvenuta nella Nuova Francia, a metà del 1600, per mano delle popolazioni autoctone.

Evangelizzazione dal Sud al Nord America

Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.

In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.

In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi  che le diedero il nome di New Amsterdam.

L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.

Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.

Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.

L’interno della cattedrale di Notre Dame a Montreal. Foto Timothy I. Brock – Unsplash.

Popoli indigeni e martiri

I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni.  Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.

Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.

Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.

In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».

Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.

È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).

La residenza dei Missionari della Consolata a Montreal. Foto IMC Montreal.

I Missionari della Consolata

Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.

Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.

Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.

A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.

Una veduta della città di Québec, fondata nel 1608 e considerata il primo insediamento urbano nel Nord America. Foto Timothee Geenens – Unsplash.

Gli anni d’oro

L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.

C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.

Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.

La reazione al declino

Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente  negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.

Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.

Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).

Jean Paré*

 * Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.


Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti

Anima missionaria

Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.

Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.

Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.

Ghislaine Crête

 

 

 




Pacifico: Territorio di caccia


Il Pacifico meridionale, con i suoi molteplici stati insulari, non solo è un paradiso terrestre che sta per scomparire a causa della crisi climatica, ma è sempre più teatro di contesa tra le superpotenze mondiali. Cina e Stati Uniti (con i suoi alleati) si sfidano con accordi economici e di sicurezza nell’area.

Cannoni giapponesi e carri armati statunitensi mezzi sepolti dalla sabbia e dall’acqua cristallina del Pacifico. Le coste del piccolo arcipelago di Kiribati portano ancora i segni delle battaglie della Seconda guerra mondiale. Siamo all’estremità orientale della Micronesia, una delle tre aree, insieme a Melanesia e Polinesia, in cui sono raggruppati i paesi dell’Oceania.

Luoghi spesso dimenticati e di cui si parla solo per le spiagge da sogno o per gli effetti nefasti del cambiamento climatico, qui più evidenti che altrove. Lontani dalle luci della ribalta, eppure sempre più nel cuore delle contrapposte strategie delle grandi potenze: il Pacifico meridionale sta diventando teatro della contesa geopolitica fra Stati Uniti e Cina. Non siamo solo nel cosiddetto «giardino» di casa dell’Australia, ma anche dinanzi alla porta d’accesso a quello che Washington e Tokyo amano chiamare Indo Pacifico, definizione che non piace a Pechino che preferisce anteporre «Asia» al nome dell’oceano più grande.

Honolulu, sede della base del comando del Pacifico dell’esercito americano, dista «solo» duemila chilometri da Kiribati. Proprio questo arcipelago di 120mila abitanti è stato l’ultimo «acquisto» della campagna diplomatica messa in atto nell’area dalla Cina. Il gigante asiatico ha, infatti, aperto proprio qui la sua più recente ambasciata nella regione dopo la decisione del governo locale del premier Taneti Maamau di rompere i rapporti con Taiwan, che nelle vicinanze ha tradizionalmente un gruppo sostanzioso di «amici diplomatici».

Era l’autunno del 2019. Poche settimane prima, avevano operato la stessa mossa anche le Isole Salomone, luogo chiave per capire la strategia della Repubblica popolare nel Pacifico meridionale. Nel paese celebre per la battaglia di Guadalcanal, parte della mitologia bellica a stelle e strisce, Pechino ha messo rapidamente radici. Ha costruito una grande ambasciata, strade e stadi in vista dei Pacific games (olimpiadi locali, ndr) del prossimo novembre, appuntamento sfruttato dal premier Manasseh Sogavare per rinviare le elezioni previste quest’anno.

L’avanzata cinese

Come anche altrove, Pechino ha approfittato per anni della sostanziale assenza degli Stati Uniti, distratti da quanto accadeva in Medio Oriente o in Afghanistan. Nonché più interessati a questioni interne, con un protezionismo economico che si è, per qualche tempo, accompagnato a un’introversione strategica.

Secondo i dati dell’australiano Lowy Institute, tra il 2006 e il 2017 la Cina ha speso quasi 1,5 miliardi di dollari in aiuti esteri, un misto di sovvenzioni e prestiti, per le isole del Pacifico. Negli ultimi anni di Covid-19 il flusso è rallentato, ma non verso Kiribati e Isole Salomone, «ricompensati» per la rottura dei rapporti con Taipei (capitale di Taiwan, ndr).

Proprio con le Salomone, nel 2022 sono stati siglati due accordi bilaterali molto significativi. Il primo per la costruzione di 161 torri cellulari di Huawei, il gigante tecnologico di Shenzhen su cui Washington ha emesso una serie di restrizioni già a partire dal 2020.

Il progetto delle torri è frutto di un prestito da oltre 70 milioni di dollari stanziato dalla China harbor engineering company, i cui uffici si trovano nello stesso edificio verde del ministero degli Affari esteri delle Salomone, a riprova di un rapporto a dir poco stretto.

Le reti di telefonia mobile esistenti nelle Isole Salomone coprono almeno il 94% della popolazione, ma la copertura della banda larga mobile è minore al 30%. La Cina corteggiava da anni il governo locale sull’argomento. Nel 2018, l’Australia era intervenuta all’ultimo momento con un progetto alternativo pur di impedire a Huawei di posare un cavo di comunicazione sottomarino fino alla capitale Honiara. Con il progetto delle torri, invece, si è andati fino in fondo e sono in fase di costruzione.

Chinese Foreign Minister Wang Yi (L) and Kiribatiís President Taneti Maamau shake hands during a signing ceremony at the Great Hall of the People in Beijing on January 6, 2020. (Photo by Mark Schiefelbein / POOL / AFP)

Così come nessuno ha fermato un accordo di sicurezza sottoscritto tra i due governi che consente a Pechino di inviare agenti di polizia o navi militari nel paese del Pacifico.

Washington e Canberra (capitale australiana, ndr) temono che possa essere costruita una base dell’esercito cinese in una zona considerata strategica. Le due parti hanno negato, ma dopo aver visto per la prima volta la polizia cinese addestrarsi con gli ufficiali delle Isole Salomone, Sogavare ha dichiarato: «Mi sento più sicuro».

Il suo scopo è quello di tutelarsi di fronte alle forti tensioni sociali e politiche che caratterizzano le Salomone. Nel dicembre del 2021, il governo locale della provincia di Malaita (l’isola più popolosa che si sente storicamente sottorappresentata dalle istituzioni centrali) ha ispirato rivolte di piazza contro il premier che hanno causato diverse violenze, prendendo di mira la Chinatown di Honiara.

Dopo il Covid, d’altronde, Pechino ha diluito investimenti e prestiti, ma prova a proporsi come «garante di stabilità». Tendenza accentuata dalla guerra in Ucraina e in qualche modo favorita dalle piattaforme militari promosse dagli Stati Uniti nel Pacifico, a partire da Aukus, il trattato di sicurezza che riunisce Washington, Londra e Canberra per lo sviluppo (tra le altre cose) di sottomarini nucleari in dotazione alla marina australiana.

La stabilità promessa da Pechino è innanzitutto economica, da attuarsi tramite investimenti e meccanismi di cooperazione commerciale, legati alla strategia della Nuova via della seta (Belt and road initiative), ma si parla anche di stabilità nel senso di sicurezza nazionale. Leggasi Global security initiative, il nuovo progetto multilaterale a guida cinese lanciato da Xi Jinping nel 2022. Dopo i due accordi su digitale e sicurezza, le Isole Salomone sono state ritratte dai media di stato cinesi come un modello di ciò che gli sforzi internazionali della Cina possono realizzare.

L’influenza di Pechino arriva anche altrove. Una società cinese possiede, per esempio, la principale miniera d’oro delle Figi, così come uno dei loro principali siti estrattivi di bauxite. A Palau, uno dei paesi ancora fedeli a Taipei, la Cina ha inviato uomini d’affari che si stanno ritagliando un ruolo sempre più rilevante nella vita economica e politica. Due ex presidenti del piccolo paese, così come altri politici e funzionari, sarebbero vicini ad alcune di queste figure e potrebbero spingere in futuro il riconoscimento diplomatico della Repubblica popolare.

La risposta americana

Dopo anni di avanzata semi incontrastata della Rpc, negli ultimi tempi gli Stati Uniti sono tornati a occuparsi della regione, unendosi agli sforzi dell’Australia che, oltre per i cavi sottomarini, era intervenuta nel 2021 per bloccare l’acquisizione da parte cinese di Digicel, la principale azienda di telecomunicazioni delle isole del Pacifico.

A fine settembre dello scorso anno, la Casa Bianca ha organizzato il primo summit bilaterale con gli stati insulari della regione. Dopo aver ricordato il miliardo e mezzo di dollari già speso nel decennio passato, Washington ha presentato un pacchetto di 810 milioni volto soprattutto ad affrontare il cambiamento climatico, a rafforzare l’assistenza economica, la pesca, il commercio e gli investimenti, e a fornire altro sostegno tangibile alla regione. Il piano prevede anche ulteriori fondi per un programma globale di infrastrutture e investimenti per favorire la ripresa economica delle nazioni insulari colpite dalla pandemia, ad esempio nel campo del turismo.

Se sulla spesa è difficile pareggiare la presenza cinese, gli Usa però hanno battuto qualche colpo anche a livello simbolico e diplomatico. Hanno annunciato la riapertura di una mini ambasciata a Honiara (Isole Salomone, chiusa dal 1993) e il ritorno dei corpi di pace tra Figi, Tonga, Samoa e Vanuatu. Ha nominato anche il primo ambasciatore statunitense al Forum delle isole del Pacifico, il massimo organismo politico regionale.

L’accordo prodotto dal summit è stato firmato (in modo inatteso) anche dalle Salomone, dopo che dal testo finale erano stati stralciati tutti i riferimenti alla Cina. Ai paesi del Pacifico meridionale preme, infatti, evitare di finire invischiati in uno scontro tra superpotenze. La loro intenzione è quella di non dover scegliere da che parte stare, quantomeno fino a quando sarà concesso loro. E soprattutto di ricevere aiuto concreto sulle problematiche che hanno di fronte, a partire dallo sviluppo economico e dalla minaccia sempre più impellente del cambiamento climatico (con l’innalzamento del livello del mare che rischia di sommergere le isole, ndr). Ecco allora che Washington è riuscita a ottenere la firma di Honiara e degli altri governi concentrandosi su questioni come il clima, la crescita economica e i disastri naturali.

Gli interessi dei governi locali

Dall’altra parte, dopo il caso delle Salomone, gli altri stati insulari sembrano aver capito che non conviene sottoscrivere troppo in fretta accordi legati alla sfera della sicurezza con la Cina. Dopo un primo dialogo a livello ministeriale tra Pechino e i capi dei dipartimenti di pubblica sicurezza di diversi paesi della regione, su forze dell’ordine e cooperazione di polizia, qualcosa si è fermato.

A maggio, il tour senza precedenti dell’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi nel Pacifico meridionale ha portato a diversi accordi economici, ma non a un accordo regionale sulla sicurezza che il diplomatico di Pechino aveva sottoposto agli omologhi regionali.

Solo Samoa ha dato il via libera alla costruzione di un laboratorio di impronte digitali della polizia, mentre a Tonga è arrivata luce verde per la fornitura di un laboratorio di polizia e di attrezzature per l’ispezione doganale. Ma l’accordo quadro non è stato sottoscritto. Anzi, c’è chi si è opposto apertamente. In particolare, David Panuelo, presidente degli Stati federati di Micronesia (dotati peraltro di un accordo di sicurezza con gli Usa), che in una lettera ai colleghi aveva paventato il rischio di una sorveglianza di massa cinese nella regione e lo scatenamento di «una nuova era di guerra fredda nel migliore dei casi, e una guerra mondiale nel peggiore».

A inizio 2023, le Figi non hanno rinnovato il memorandum of understading siglato nel 2011 che consentiva scambi di personale di polizia con la Cina. E lo hanno fatto con parole che saranno sembrate musica per le orecchie di Washington. «Il nostro sistema di democrazia e di giustizia è diverso, quindi ci rivolgeremo a chi ha sistemi simili ai nostri», ha affermato il premier Sitiveni Rabuka.

Ciò non significa che diversi governi non siano invece tentati dalla proposta cinese. Tanto che i leader che non hanno sottoscritto l’accordo regionale di sicurezza non hanno escluso di poterlo fare in futuro, adducendo come ragione del mancato via libera il poco tempo messo a disposizione per studiarne dettagli e implicazioni.

Usa e Australia, nel frattempo, si premuniscono. Sulle Salomone sta andando in scena quasi una corsa al rifornimento di armi. Dopo che Canberra ha fornito fucili alle autorità locali, Pechino ha inviato cannoni ad acqua. E gli Stati Uniti preparano l’invio di circa cinquemila marines in più, rispetto a quelli già presenti sull’isola di Guam, territorio americano nel Pacifico e famosa base militare. Obiettivo ufficiale: proteggere le isole del Pacifico e le rotte marittime vitali. Nella speranza che in futuro le spiagge e i mari (sempre più alti) degli stati insulari non debbano accogliere nuovi resti di cannoni e carri armati.

Lorenzo Lamperti

(220526) — HONIARA, May 26, 2022 (Xinhua) — A ground breaking ceremony of the 2023 Pacific Games Stadium Project is held in Honiara, capital of the Solomon Islands, May 5, 2021. (Xinhua) (Photo by XINHUA / XINHUA / Xinhua via AFP)


Nuova Caledonia e Isole Marshall

Quando ti liberi, ricordati di me

La partita incrociata tra Usa e Cina sul Pacifico meridionale si gioca anche su situazioni politiche irrisolte, retaggio della guerra fredda o persino dell’era della colonizzazione occidentale.

La Cina si muove con attenzione anche su quegli arcipelaghi che ancora non sono indipendenti ma che potrebbero in futuro diventarlo. Puntando così a rimpinguare la già folta pattuglia di paesi pronti a sostenere Pechino presso gli organismi internazionali, a oggi composta in particolare dai rappresentanti africani.

Un esempio è la Nuova Caledonia, che fa ancora parte della Francia. I movimenti indipendentisti sono stati sconfitti tre volte nei referendum degli anni passati, ma non si sono ancora del tutto arresi. Essi hanno sovente una comunanza ideologica col Partito comunista cinese, con una particolare affinità creatasi presso le comunità indigene sin dai tempi in cui Mao Zedong promuoveva la Cina come guida del cosiddetto «terzo mondo».

L’arcipelago delle Isole Marshall (paese indipendente, ndr), in Micronesia, è stato invece teatro di una spy story dai connotati particolarmente intriganti. Una coppia di cittadini cinesi è stata arrestata nel 2020 con l’accusa di aver complottato per creare un mini stato indipendente su un remoto atollo delle Marshall. Secondo la giustizia statunitense, i due avrebbero pagato tangenti a parlamentari e funzionari per far sì che le proposte di legge a sostegno della creazione di uno stato indipendente venissero discusse nel parlamento locale a due riprese, nel 2018 e nel 2020. Un argomento sul quale era stato trovato almeno in parte terreno fertile, anche a causa delle ferite mai del tutto rimarginate dovute a circa quattro decenni di amministrazione statunitense, conclusasi nel 1990, durante i quali furono condotti 66 test di armi nucleari, compreso il Castle Bravo, il test atomico più grande mai condotto dalle forze militari americane. Gli abitanti degli atolli limitrofi non furono evacuati, con conseguenze sulla salute dei cittadini esposti alle radiazioni.

La sconfitta alle elezioni del 2020 della presidente uscente Heine, ferma oppositrice del progetto del ministato, sembrava poter favorire l’idea dei due cittadini cinesi. Questi, legati in qualche modo a obiettivi di Pechino, quantomeno secondo la Heine, sono stati poi arrestati in Thailandia.

Anche gli Stati Uniti, con altre modalità, utilizzano alcune divisioni interne ai paesi dell’area per fini strategici. Nelle Isole Salomone continuano per esempio a sovvenzionare il governo locale della provincia di Malaita, che durante la pandemia ha ricevuto anche aiuti sanitari da parte di Taiwan sfidando le disposizioni dell’esecutivo centrale filocinese. Durante il recente summit tra Usa e Stati del Pacifico, la Casa Bianca ha anche annunciato l’intenzione di riconoscere le Isole Cook e Niue come stati sovrani, dopo «appropriate consultazioni». Attualmente Washington riconosce le isole come territori autogestiti.

Lor.Lam.

HONIARA, May 26, 2022 (Xinhua) — Solomon Islands Prime Minister Manasseh Sogavare (R) meets with visiting Chinese State Councilor and Foreign Minister Wang Yi in Honiara, Solomon Islands, May 26, 2022. (Xinhua) (Photo by Guo Lei / XINHUA / Xinhua via AFP)




Stati Uniti. È ancora lunga la strada per il sogno

Dopo la schiavitù, gli Stati Uniti conobbero la segregazione. Un periodo di cento anni segnato dalla lotta di personaggi come Rosa Parks e Martin Luther King. Ancora oggi il razzismo è ben presente nella società americana come hanno evidenziato le vicende avvenute durante la presidenza di Donald Trump.

Per soli bianchi: posti a sedere, sale d’attesa, bagni, cabine telefoniche, fontanelle, ma anche scuole e università. Per quasi un secolo (1865-1964), la scritta «Whites only» fu la dimostrazione tangibile che negli Stati Uniti era terminata la schiavitù, ma non il razzismo.

La pratica aveva il nome di «segregazione razziale». Essa consisteva nella separazione fisica delle persone sulla base della razza o, meglio, visto che il concetto non ha valenza scientifica, della presunta razza. Si dividevano i neri dai bianchi all’interno di strutture pubbliche (scuole, tribunali, ecc.), servizi pubblici (mezzi di trasporto) e privati (ristoranti, barbieri, campi sportivi, servizi igienici, ecc.) e li si segregava in aree residenziali a loro dedicate (ghetti).

La segregazione razziale fu la modalità attraverso cui la società bianca dominante riuscì a circoscrivere e limitare le conseguenze prodotte dall’abolizione legale della schiavitù, avvenuta nel 1865.

Per dirla con l’Enciclopedia Britannica: «La segregazione razziale fornisce un mezzo per mantenere i vantaggi economici e lo status sociale superiore del gruppo politicamente dominante».

L’insegna di una lavanderia che lavora soltanto per bianchi.

«Separati ma eguali»

Durante e, soprattutto, dopo il periodo della ricostruzione postbellica (1865-1877), gli stati del Sud, appartenenti alla ex Confederazione (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee, e North Carolina), e l’Oklahoma, iniziano ad applicare norme discriminatorie nei confronti della minoranza nera.

Queste leggi sono conosciute sotto i nomi generici di «Black codes» (codici per i neri) e «Jim Crows laws» (leggi Jim Crows, dal personaggio interpretato da un attore che si dipinge il viso di nero). Ecco qualche esempio.

A fine 1865, lo stato del Mississippi emana una legge secondo la quale i neri, senza lavoro o che si riuniscano senza permesso, sono considerati vagabondi e, in quanto tali, punibili con una multa o, a discrezione del giudice, con il carcere. Nel caso che il nero condannato non paghi la multa entro cinque giorni, è compito dello sceriffo trovargli un’occupazione fino al pagamento della somma dovuta. La stessa legge punisce i bianchi che si riuniscano con neri o abbiano con essi rapporti.

Negli stati del Sud si susseguono le norme che richiedono la separazione dei bianchi dalle «persone di colore» (colored, così all’epoca vengono chiamate) sui mezzi del trasporto pubblico (tram, autobus e treni). Il principio applicato è conosciuto come quello del «separati ma eguali» (separate but equal). Secondo questo principio, la segregazione razziale è consentita purché sia prevista una pari sistemazione per i passeggeri neri.

Ne è significativo esempio il «Louisiana Separate Car Act», approvato nel luglio 1890. Al fine di «promuovere il comfort dei passeggeri», le ferrovie della Louisiana devono fornire «posti uguali ma separati per le razze bianche e colorate» sulle linee che percorrono lo stato.

Nel 1896, il principio «separati ma eguali» viene confermato anche dalla Corte suprema chiamata a deliberare sul caso «Plessy v. Ferguson».

Homer Plessy è un calzolaio di New Orleans. Proveniente da una famiglia mulatta, Homer è una persona attiva nel sociale. Per protestare contro le leggi sulla segregazione, nel 1892 acquista un biglietto di prima classe sulla East Louisiana Railroad e si siede nello scompartimento per «solo bianchi». Alla richiesta di allontanarsi, Plessy rifiuta e per questo viene fatto scendere dal treno, imprigionato per una notte e rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 500 dollari. Nel processo l’imputato dichiara di aver visto violati i diritti sanciti dal XIII e XIV emendamento della Costituzione, ma il giudice John Howard Ferguson lo dichiara colpevole.

Nel 1986 la causa «Plessy v. Ferguson» (dal nome dei due protagonisti) arriva davanti alla Corte suprema. Questa, con una netta maggioranza (sette contro uno, con un giudice assente), dà torto al ricorrente sostenendo la costituzionalità della segregazione razziale secondo la dottrina del «separati ma uguali».

Avendo dalla loro parte la Corte suprema degli Stati Uniti (composta di nove membri eletti a vita), fino al 1954, gli stati del Sud possono emanare senza problemi leggi di segregazione razziale. Come testimoniano varie sentenze, «la Corte sostanzialmente acconsentì alla “soluzione” del Sud ai problemi delle relazioni razziali» (prof. Melvin Urofsky, Britannica).

In sostanza, queste leggi vengono emanate e sono vigenti pur violando uno o più degli emendamenti della Costituzione americana introdotti dopo la guerra civile: il XIII (che proibisce la schiavitù), il XIV (pari protezione davanti alla legge) e il XV (diritto di voto).

Al Lincoln Memorial una giovane attivista domanda (retoricamente): «Dov’è il sogno?». Foto Victoria Pickering.

Anni cinquanta: la storia cambia

Dopo la Prima guerra mondiale, cambia il clima generale e cambia anche la Corte suprema. Nel 1950, la «Associazione nazionale per il progresso delle persone di colore» (National Association for the Advancement of Colored People, Naacp) chiede a un gruppo di genitori afroamericani tra cui Oliver Brown di Topeka (Kansas) di tentare di iscrivere i propri figli a scuole per soli bianchi (all-white school). Oliver prova a iscrivere la figlia Linda, 9 anni, alla scuola elementare Sumner della cittadina, ma l’iscrizione viene negata in quanto l’istituto non accetta bambini di colore. L’associazione afroamericana raccoglie altri 12 casi e intenta una causa collettiva conosciuta come «Brown contro l’ufficio scolastico» (Brown v. Board of Education of Topeka, Kansas). Nel 1954, la Corte suprema sentenzia che «sistemi d’istruzione separati sono per essenza ineguali. [I ricorrenti], in ragione della segregazione qui contestata, sono stati privati dell’uguale protezione davanti alla legge».

Un anno e mezzo dopo questa storica sentenza accade un altro evento che segnerà la storia dei neri d’America.

Il bus di Rosa Parks

La foto segnaletica di Rosa Parks, l’iniziatrice (1955) della rivolta contro la segregazione sui mezzi pubblici.

Montgomery, Alabama, 1° dicembre 1955. Al termine della sua giornata lavorativa, Rosa Parks, una donna nera di 42 anni, prende l’autobus per tornare a casa sistemandosi sul primo sedile dietro la parte riservata ai bianchi. Le norme della città di Montgomery richiedono infatti che tutti i mezzi di trasporto pubblico abbiano posti separati per bianchi (nella parte anteriore) e neri (in quella posteriore).

Durante il suo percorso l’autobus si riempie e vari passeggeri bianchi rimangono in piedi nel corridoio. L’autista se ne accorge, ferma il mezzo e sposta il cartello che separa le due sezioni indietro di una fila, chiedendo a quattro passeggeri neri di lasciare i loro posti ai bianchi.

Tre di loro obbediscono all’autista, mentre Rosa Parks si rifiuta. «Non credo che debba alzarmi», risponde la donna. A quel punto, l’autista chiama la polizia. Questa arresta la donna per violazione delle norme locali e la porta alla centrale. Verrà rilasciata quella notte dietro cauzione.

Pochi giorni dopo – il 5 dicembre – al processo Rosa Parks viene condannata al pagamento di una multa. La storia della donna fa però nascere tra la comunità afroamericana di Montgomery una protesta civile e pacifica di grande portata: il boicottaggio degli autobus della città. Circa 40mila pendolari afroamericani iniziano a disertare i mezzi pubblici, scegliendo di muoversi a piedi o su taxi da loro stessi organizzati.

La protesta (funestata anche da violenze dei segregazionisti) prosegue per 381 giorni fino al 13 novembre 1956. In quella data la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sui trasporti pubblici.

La prigione di Birmingham

La lotta di Rosa Parks è stata guidata dal giovane e preparato pastore della Dexter Avenue Baptist Church di Montgomery. Il suo nome è Martin Luther King.

Nel 1957, assieme ad altri pastori e leader neri, King fonda ad Atlanta, sua città natale, la Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei dirigenti cristiani del Sud), organizzazione per i diritti civili. Nel 1959, King viaggia in India, dove approfondisce la filosofia nonviolenta di Ghandi. Il suo lavoro di pastore è ad Atlanta, ma la sua attività principale è ormai girare il paese per parlare di razzismo e diritti civili. Inevitabilmente si scontra più volte con le autorità. A Birmingham, Alabama, una città con alti livelli di segregazione, lancia una grande campagna di resistenza, coinvolgendo nella protesta anche ragazzi. Viene arrestato. Nell’aprile 1963 pubblica la «lettera dal carcere di Birmingham» in cui controbatte alle critiche pervenutegli dagli ecclesiastici bianchi della città e spiega la pratica della disobbedienza civile nonviolenta.

«Per oltre due secoli – scrive Martin Luther King – i nostri antenati hanno lavorato in questo paese senza ricevere compenso; hanno fatto del cotone una ricchezza; hanno costruito le case dei loro padroni mentre pativano macroscopiche ingiustizie e vergognose umiliazioni: e tuttavia, grazie a una inesauribile

vitalità, hanno continuato a crescere e a svilupparsi. Se le crudeltà inaudite della schiavitù non sono riuscite a fermarci, l’opposizione con cui oggi abbiamo a che fare dovrà senza dubbio fallire. Noi conquisteremo la nostra libertà».

La protesta dei cittadini neri, la lettera dal carcere e le violenze della polizia di Birmingham hanno una vasta eco portando la questione razziale all’attenzione generale.

Un’insegna nella stazione delle corriere di Durham, in North Carolina, nel 1943, indica la sala d’attesa per i neri («colored»), come prevedono le norme Jim Crow. Foto Jack Delano.

Il sogno di Martin

Pochi mesi dopo, la protesta si sposta a Washington, dove il Congresso sta discutendo il Civil Rights Act, la legge antidiscriminazione presentata dal presidente John Kennedy. Il 28 agosto 1963 Martin Luther King, davanti a una folla di 250mila persone, pronuncia il suo discorso più famoso: I have a dream, ho un sogno.

Il leader afroamericano delinea chiaramente la meta: «In America, non ci sarà né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini». Ma le modalità per raggiungere quest’obiettivo sono, secondo Martin Luther King, precise e inderogabili: «In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. […] Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica». Infine, ecco il sogno: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere».

Il 3 luglio 1964, circa un anno dopo la marcia e il discorso di Washington, il presidente Lyndon Johnson (sostituto dell’assassinato John Kennedy) firma il Civil Rights Act, avendo alle spalle Martin Luther King.

La lotta non conosce pause. Pochi mesi dopo (a marzo 1965), ancora nello stato dell’Alabama, Martin Luther King partecipa alle marce da Selma a Montgomery, la prima delle quali repressa dalla polizia, attuate per reclamare il diritto di voto anche per gli afroamericani. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1965, il presidente Johnson firma il Voting Rights Act, con il quale i neri ottengono finalmente l’accesso al voto.

Martin Luther King non potrà però continuare a perseguire il suo sogno perché viene assassinato a Memphis, in Tenneesee, il 4 aprile 1968, all’età di 39 anni.

«La vera pandemia è il razzismo», un cartello eloquente di una afroamericana. Foto Miki Jourdan.

Da Obama a Trump

Nelle elezioni del novembre 2008 viene eletto Barack Obama, primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti. I problemi razziali del paese non si risolvono però con la sua elezione. Con Obama la condizione dei neri migliora nel campo dell’istruzione e della salute, ma non in quello del lavoro e del reddito.

A dimostrazione del cammino ancora da percorrere, la circostanza che nel 2013, cioè all’inizio del suo secondo mandato, nasce il movimento Black lives matter (le vite dei neri contano).

Il successore alla Casa Bianca è l’imprenditore e miliardario Donald Trump, che mette subito in mostra la sua totale mancanza di scrupoli negando per lungo tempo la nascita americana di Obama.

Le proteste degli afroamericani dilagano nelle città Usa soprattutto durante il secondo mandato di Trump. Con l’ex presidente i «suprematisti bianchi» (cioè coloro che ritengono i bianchi intrinsecamente superiori alle persone di colore) – riuniti in gruppi come The Proud Boys, gli Oath Keepers o i Three Percenters – hanno molta visibilità e libertà d’azione. Nei drammatici eventi del 6 gennaio 2021, i sostenitori di Trump e assalitori del Campidoglio sono nella quasi totalità bianchi.

Due ragazze mostrano cartelli di appoggio al movimento «black lives matter» (le vite dei neri contano). Foto Tom Hilton.

Joe Biden, finalmente

Sono ormai passati 55 anni dalla fine (formale) della segregazione e discriminazione razziali. Tuttavia, ancora oggi la minoranza nera – oltre 48 milioni di persone pari al 14,7 per cento della popolazione statunitense – è fortemente penalizzata. I neri sono discriminati nei rapporti con la polizia e la giustizia (più morti, arrestati e condannati), nell’accesso a buone scuole e ai lavori migliori, nell’assistenza sanitaria (Pew Research Center, Race in America 2019, aprile 2019).

Non sarà facile per il nuovo presidente Joe Biden porre rimedio a ingiustizie razziali sedimentate e acutizzate durante i quattro anni di Trump.

Tuttavia, i suoi passi iniziali sono di buon auspicio. La vice di Joe Biden è Kamala Harris sulle cui spalle ricadono una serie di primati: la prima donna, la prima nera (il padre è giamaicano), la prima tamil (per parte di madre) a diventare vicepresidente degli Stati Uniti. Inoltre, in considerazione delle età di Biden (78 anni) e di Kamala (56), la ex procuratrice della California è una candidata molto accreditata alla prossima presidenza.

Anche il movimento Black lives matter sembra mostrare speranza e fiducia nel cambiamento attraverso una lotta non-violenta. A gennaio, sul proprio sito, ha scritto: «Ogni giorno che passa, facciamo sempre più passi verso la realizzazione dell’America in cui Martin Luther King ha sempre creduto».

Paolo Moiola


Cronologia: 1865-1968

Dalla segregazione a Martin Luther King

  • 1865-1877

    Martin Luther King, leader della causa degli afroamericani, assassinato nel 1968. Foto Library of Congress.

    È il periodo della «ricostruzione» post bellica. Negli stati del Sud inizia a essere applicata la segregazione attraverso norme specifiche denominate «Black codes» e «Jim Crows laws».

  • 1866
    A Pulaski, in Teneessee, nasce il Ku Klux Klan (Kkk), la più violenta tra le organizzazioni di suprematisti bianchi.
  • 1896
    La Corte suprema stabilisce che la segregazione sui vagoni dei treni della Louisiana è costituzionale sostenendo il principio del «separati, ma eguali» (separate but equal).
  • 1909, febbraio
    Nasce la «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti.
  • 1915
    L’Oklahoma entra nella storia Usa come il primo stato a separare le cabine telefoniche pubbliche.
  • 1954, maggio
    Una sentenza della Corte suprema – Brown v. Board of Education (Brown contro l’ufficio scolastico) – dichiara incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
  • 1955, 1 dicembre
    A Montgomery, capitale dell’Alabama, l’attivista Rosa Parks si rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un passeggero bianco. Viene arrestata. Il giorno successivo incomincia il boicottaggio dei mezzi pubblici della città, protesta che dura per 381 giorni.
  • 1964, 3 luglio
    Una legge federale – il «Civil Rights Act» – rende illegale ogni forma di discriminazione razziale, non solamente da parte degli organismi pubblici, federali o locali, ma anche nelle relazioni commerciali e nel lavoro.
  • 1965, 21 febbraio
    A 39 anni, il leader nero Malcolm X viene assassinato con sette colpi di arma da fuoco durante un discorso pubblico ad Harlem.
  • 1965, marzo
    Per il diritto di voto agli afroamericani si svolgono tre marce da Selma a Montgomery.
  • 1965, 6 agosto
    Il presidente Lyndon B. Johnson firma il «Voting Rights Act», una legge progettata per far rispettare i diritti di voto garantiti dal 14.mo e 15.mo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
  • 1968, 4 aprile
    Martin Luther King, leader nero di fama mondiale, viene assassinato a Memphis.

(a cura di Paolo Moiola)


«Sala d’attesa per i colorati»: un’indicazione specifica per i neri nella stazione di Rome, Georgia, nel 1943. Foto Esther Bubley – Library of Congress.

Neri americani*: i numeri (2019)

  • popolazione nera: 48,2 milioni
  • percentuale su totale: 14,7 per cento
  • tasso di povertà: 20,8 per cento (10,1%**)
  • tasso di disoccupazione: 6,1 per cento (3,3%**)
  • educazione superiore (college): 29 per cento (45%**)
  • stati con più neri: New York, California,Texas, Florida e Georgia
  • città Usa con più neri: New York, Chicago, Detroit.

(*) «Black population», «african americans» sono i termini più utilizzati negli Stati Uniti per indicare la popolazione nera. I termini «negro» («negroes», al plurale) e «colored» sono caduti in disuso.
(**) Percentuale per la popolazione «bianca».

Fonti: US Census Bureau (census.gov); US Bureau of Labor Statistics (bls.gov); US Department of Education (ed.gov).

 (Pa.Mo.)


Politica e religione in Usa

Il cattolico Joe Biden

Il nuovo presidente Joe Biden, secondo cattolico (dopo John Kennedy) a ricoprire la massima carica degli Stati Uniti. Foto Matt Johnson.

Joe Biden, dal 20 gennaio 2021 alla guida degli Stati Uniti, è il secondo presidente Usa di fede cattolica. Il primo fu John Fitzgerald Kennedy (dal 1961 al 1963). Si stima che il 3 novembre 2020 circa la metà degli elettori cattolici abbia votato per Biden. L’altra metà si è schierata con l’ex presidente Donald Trump; una buona parte di costoro appartiene alla schiera degli anti Francesco.

Durante il suo mandato, l’ex presidente ha avuto rapporti soprattutto con i cristiani evangelici. Trump aveva l’Evangelical Advisory Board, un organismo composto principalmente da leader di organizzazioni della destra religiosa, predicatori televisivi e pastori conservatori (The Washington Post, 30 agosto 2018). Aveva Paula White, nota televangelista della Florida, come capo consigliere spirituale.

Il primo giugno dello scorso anno, nel pieno delle proteste per l’uccisione di George Floyd, Donald Trump ha camminato dalla Casa Bianca fino alla Chiesa episcopale di San Giovanni. Un centinaio di metri sgombrati dalla polizia con i gas lacrimogeni. Arrivato davanti alla chiesa con il suo stuolo di accompagnatori (peraltro, tutti bianchi e senza mascherine), l’ex presidente si è piazzato davanti all’insegna e ha alzato al cielo la Bibbia che teneva tra le mani. Senza aprirla. Tutto in favore di telecamere e macchine fotografiche.

Per tutto il suo mandato presidenziale, Trump ha usato la religione per i suoi fini politici, un «nazionalismo cristiano» che ha ottenuto molto seguito tra fette consistenti di evangelici e di cattolici.

Ci sono stati politici repubblicani e leader religiosi che hanno parlato apertamente di un intervento di Dio per la sua ascesa al potere. Franklin Graham, noto pastore evangelico, in un’intervista del luglio 2019 ha affermato che «Dio era dietro le ultime elezioni» vinte da Trump.

Anche la frettolosa nomina alla Corte suprema della giudice cattolica Amy Coney Barrett, nominata pochi giorni prima delle elezioni del 3 novembre, rientrava nel disegno politico ed elettorale dell’ex presidente. Questo utilizzo strumentale della fede religiosa da parte di Trump ha contribuito a fomentare un clima fortemente divisivo.

Il 30 agosto 2020, padre James Altman di La Crosse, Wisconsin, è intervenuto nel dibattito con un video pubblicato su YouTube: «Non puoi essere cattolico ed essere democratico […] Pentiti – esorta padre Altman nel suo accattivante filmato – del tuo sostegno a quel partito e alla sua piattaforma o affronterai le fiamme dell’inferno!».

L’opposizione della destra cristiana continua anche dopo la chiara sconfitta del presidente. «Jesus saves» dicevano alcuni cartelli nella manifestazione pro Trump del 6 gennaio 2021 sfociata nell’assalto al Campidoglio. Quei fatti hanno però costretto vari leader religiosi repubblicani (come i pastori Mark Burns, Pat Robertson, ecc.) a prendere apparentemente le distanze dall’ex presidente. Se questi sembra, almeno per il momento, fuori gioco, non lo è però il «trumpismo».

Il giorno seguente all’insediamento del nuovo presidente, il sito del «Falkirk Center» della Liberty University, istituto cristiano (evangelico battista), ha pubblicato un lungo articolo sui «modi in cui tutti noi possiamo glorificare Cristo mentre ci opponiamo alle politiche di Biden».

Nella sua lettera di benvenuto (datata 20 gennaio) al nuovo presidente e alla sua famiglia, l’arcivescovo José Gómez, presidente della Conferenza episcopale statunitense (United States Conference of Catholic Bishops, Usccb), ha scritto che «lavorare con il presidente Biden sarà unico, sarà il nostro primo presidente in 60 anni a professare la fede cattolica». Tuttavia, è facile prevedere che il dialogo non sarà certamente semplice su alcuni temi e, in particolare, sulla questione dell’aborto su cui la lettera dell’arcivescovo si sofferma molto.

Secondo una ricerca del Pew Research Center (4 gennaio), nel 117.mo Congresso degli Stati Uniti la maggioranza assoluta dei parlamentari sarebbe di religione protestante (294 persone, il 55,4 per cento del totale), mentre i cattolici sarebbero 158, pari al 29,8 per cento, più di quanti sono nel paese (20 per cento). Difficilmente i cattolici pro Trump cambieranno idea rispetto al suo successore. È invece molto probabile che, al contrario di Trump, il cattolico Joe Biden non userà la fede religiosa come strumento di lotta politica.

Paolo Moiola

 


Le puntate precedenti:

 




Li chiamavamo «pellerossa»

testo di Paolo Moiola |


A qualcuno potrà sembrare strano, ma gli «indiani d’America» non esistono soltanto nei film. Confinati nelle loro riserve, essi costituiscono una minoranza un tempo oppressa o sterminata, oggi impoverita ed emarginata.

Sono due i motivi per cui, in questi mesi, gli «indiani d’America» (american indians) sono usciti dall’oblio. Il primo è contingente: essi sono stati duramente colpiti dal nuovo coronavirus. Basti ricordare che nella riserva dei Navajo – la più grande e popolata degli Stati Uniti – si sono contati 8.142 casi e 396 morti (al 11 luglio), con un’incidenza dell’infezione maggiore che a New York.

ll secondo motivo riguarda invece una loro condizione esistenziale riemersa a causa della crisi razziale scoppiata a fine maggio con la minoranza nera del paese. Accanto allo slogan Black lives matter, è stato ricordato che Native lives matter. Anzi, i «nativi americani» – come normalmente vengono chiamati i popoli indigeni statunitensi – costituiscono la minoranza più povera ed emarginata dell’intera popolazione Usa.

Per rimanere in tema di rapporti tra popolazione e forze dell’ordine, già nel 2015 un dossier dei Lakota del South Dakota evidenziava l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei nativi. E a supporto citava le considerazioni del Centre of disease control and prevention (Cdc, equivalente al nostro Istituto superiore di sanità): «Il gruppo razziale a maggior rischio di uccisione da parte delle forze dell’ordine è quello dei nativi americani, seguito dagli afro americani, dai latini, dai bianchi e dagli asiatici americani». Inoltre, il numero degli indiani rinchiuso in carceri federali o locali è varie volte più alto di quello di qualsiasi altra etnia. Secondo il rapporto dei Lakota, ciò è dovuto a pratiche discriminatorie indotte dal razzismo delle forze dell’ordine e alla povertà degli accusati che non possono permettersi di pagare un avvocato.

Per rimanere sull’attualità, va ricordata l’arroganza della Casa Bianca rispetto alle questioni che coinvolgono i territori dei nativi. Donald Trump – in lizza per un posto di rilievo nella classifica dei peggiori presidenti della storia Usa – a gennaio 2020 ha sbloccato il progetto del gasdotto Keystone XL, che lui stesso aveva riesumato con un ordine esecutivo nel gennaio 2017, dopo che il suo predecessore Barack Obama lo aveva accantonato.

Il progetto prevede un gasdotto lungo quasi 1.900 chilometri che dovrebbe trasportare il petrolio da Hardisty (Alberta, Canada) a Steel City, nel Nebraska, dopo aver attraversato Montana e South Dakota. Un altro gasdotto, già attivo e molto contestato da ambientalisti e nativi, è il «Dakota access pipeline» che percorre (interrato) il North Dakota, il South Dakota, lo Iowa e l’Illinois. Il petrolio vi scorre da tempo, ma le controversie non si sono mai fermate. Tanto che lo scorso 6 luglio un giudice distrettuale ha sentenziato che è necessaria una valutazione ambientale più accurata e che, nel frattempo, l’oleodotto deve essere chiuso e svuotato del petrolio entro il 5 agosto (New York Times).

A parte le pesanti conseguenze ambientali dei due progetti, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle popolazioni native sui cui territori gli oleodotti si trovano o troveranno a transitare. Assenza di consultazione, rischio di inquinamento delle falde idriche, violazione dei luoghi sacri sono le principali accuse rivolte dai nativi alle autorità. Insomma, si tratti di comportamento della polizia o di sovranità territoriale, oggi come ieri la storia dei popoli nativi degli Stati Uniti continua a ripetersi sempre eguale tra discriminazione ed emarginazione.

Tre Sioux in una foto di Edward Sheriff Curtis (1868-1952), etnologo e fotografo dei popoli nativi nordamericani. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Il cammino delle lacrime

Secondo il censimento del 2010 (quello del 2020 è ancora in corso), negli Stati Uniti ci sono 5,2 milioni di nativi, pari all’1,7 per cento della popolazione totale. Soltanto una piccola parte di essi (il 22 per cento) risiede nelle riserve (reservations, la prima risale al 1758) indiane. Probabilmente perché in esse le condizioni di vita sono «comparabili a quelle del Terzo mondo» (Gallup, 2004) con abitazioni inadeguate, mancanza di lavoro e di servizi.

La storia della sottomissione e del declino dei popoli nativi del Nord America iniziò subito dopo l’arrivo (1492) di Cristoforo Colombo. Con i conquistatori spagnoli che arrivarono in Florida, Juan Ponce de Leon (1513) e Hernando de Soto (1539). Con inglesi e francesi che arrivarono nei territori del Nord (dalle propaggini orientali dell’attuale Canada fino alla baia di New York) sotto la guida di navigatori italiani: nel 1497 Giovanni Caboto (per l’Inghilterra) e nel 1524 Giovanni da Verrazzano (per la Francia). L’invasione era ormai iniziata e, nonostante la resistenza (e molte guerre), per i popoli nativi la sorte era segnata.

Un bando pubblico del 1911 per la vendita di terre indiane: si elencano le caratteristiche delle terre, lo stato dove si trovano, la superficie, il costo medio per acro. Foto Library of Congress.

Uno dei leader statunitensi più risoluti nella lotta contro i popoli nativi fu Andrew Jackson (1767 – 1845), prima come generale e poi come presidente. Come comandante combattè per un biennio (1813-1814) contro i Creek, i quali alla fine dovettero cedere un territorio di oltre nove milioni di ettari (oggi facenti parte dell’Alabama centrale e della Georgia meridionale).

Apprezzato dai governanti di Washington, Jackson rivolse l’attenzione verso la Florida (1818), possedimento spagnolo abitato dai Seminole. Le guerre con questo gruppo proseguirono a lungo, soprattutto dopo che gli Stati Uniti acquistarono la stessa Florida dalla Spagna (1821).

Eletto presidente, Andrew Jackson proseguì la sua politica di segregazione dei popoli nativi. Nel 1830 firmò la «legge di rimozione» (Indian Removal Act), che avrebbe segnato l’esistenza dei popoli nativi per molti decenni. Tra il 1830 e il 1838 migliaia di Creek e di Cherokee furono spinti a lasciare («volontariamente») le loro terre e ricollocarsi in altre, soprattutto in Oklahoma. Questa deportazione è storicamente conosciuta come the Trail of Tears, «il sentiero delle lacrime» (cfr. mappa).

Andrew Jackson è considerato da Donald Trump non soltanto un eroe, ma un esempio da imitare. Oltre a citarlo spesso, il presidente si fa riprendere nello Studio Ovale con un suo ritratto alle spalle. Quando – lo scorso 22 giugno – un gruppo di manifestanti ha tentato di rovesciare la statua equestre di Jackson, posta nel parco Lafayette (a pochi passi dalla Casa Bianca), Trump – presidente «della legge e dell’ordine» – ha reagito con veemenza chiedendo dieci anni di prigione per i colpevoli.

A proposito di simboli, c’è un’immagine che meglio di ogni monumento o di ogni discorso fa capire con quale violenza e arroganza si sia arrivati alla sottomissione e all’emarginazione dei popoli nativi degli Stati Uniti. È un bando pubblico del ministero dell’interno risalente al 1911. L’oggetto dell’avviso è ben chiarito dalla sua intestazione: «Indian land for sale», terra indigena in vendita. Al centro dello stesso una foto di un leader indigeno con attorno e sotto una cospicua serie di dettagli. Si tratta di «ottime terre ad Ovest», irrigate o irrigabili, con pascoli e terre agricole. Pagamenti facilitati e possesso legale in soli 30 giorni. Più sotto l’elenco degli stati interessati e del prezzo medio per acro di terra: si va dai 7,27 dollari del Colorado ai 41,37 di Washington.

Insomma, dopo essere stati cacciati o deportati, i popoli nativi videro il loro diritto alla terra messo in vendita sul mercato. E ciò in base a una legge del 1887 – il Dawes Act (o General Allotment Act) – con la quale il governo centrale voleva assimilare i nativi al resto della popolazione facendo loro accettare i principi del capitalismo e della proprietà privata, inesistenti nelle culture indigene. La norma venne annullata nel 1934, ma ormai i danni materiali e culturali erano fatti. Secondo la Indian Land Tenure Fundation, i popoli nativi persero 364mila chilometri quadrati di terra (un’estensione superiore a quella dell’intero territorio italiano).

Supremazia bianca

La prima seduta del Congresso degli Stati Uniti ebbe luogo nel 1789. In 221 anni sono entrati nel Congresso soltanto 22 nativi. Le prime due donne sono state elette in questa legislatura. Si tratta di Sharice Davids (della tribù degli Ho-Chunk) e Deb Haaland (della tribù dei Puebloans), entrambe appartenenti al partito Democratico.

«L’amministrazione Trump – ha commentato la Haaland in un tweet del 25 giugno – non riconosce l’incredibile storia culturale delle popolazioni indigene in questo continente. La difesa  della supremazia bianca da parte del presidente è incredibilmente offensiva e le sue azioni riflettono la sua mancanza di rispetto per le comunità native».

Per gli indiani d’America «il sentiero delle lacrime» pare non aver mai fine.

Paolo Moiola
(prima puntata – continua)

L’ex presidente Barack Obama, attorniato da membri della propria amministrazione e da leader indiani, firma il Tribal Law and Order Act (29 luglio 2010). Foto Saul Loeb – Afp/Getty – Obama White House Archives.


Ritratto di indiano. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Tab. 1 / Nativi americani*: i numeri

  • numero nativi* al 2010: 5,2 milioni
  • percentuale su popolazione: 1,7 per cento
  • numero nativi ante-Conquista: 10-12 milioni
  • entità tribali* riconosciute: 574
  • riserve indiane: 326
  • nativi residenti nelle riserve: 22 per cento
  • riserva principale: Navajo Nation
  • i 10 popoli principali: Cherokee, Navajo, Choctaw, Sioux,  Chippewa, Apache, Blackfeet, Iroquois, Pueblo, Creek.

(*) «Natives», «native americans», «native american population», «native peoples», «indian tribes», sono i termini utilizzati negli Stati Uniti per «indigeni» e «popoli indigeni». Nel conteggio dei nativi sono inclusi gli indigeni dell’Alaska (100mila circa) ed esclusi quelli delle Hawaii (500mila).

(Pa.Mo.)

Fonti: Census Bureau (census.gov); National Congress of American Indians (ncai.org); Bureau of Indian Affairs (bia.gov).


Cosa dice la scienza

Vulnerabilità indigena

Capo degli Oglala Lakota nel 1899. Foto: Frank A. Rinehart – Boston Public Library.

La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha confermato la maggiore vulnerabilità dei popoli indigeni. Secondo varie ricerche scientifiche, essa ha molte cause:

  • maggiore vulnerabilità alle malattie («virgin soil epidemics»);
  • indicatori sanitari peggiori (mortalità infantile e materna, speranza di vita);
  • più stress epigenetici (oppressione e violenza generazionali);
  • maggiore correlazione con il declino delle risorse ambientali (acqua, terre, foreste, biodiversità);
  • peggiori condizioni esistenziali (abitazioni, vita multigenerazionale, carenza di presidi minimi come l’acqua potabile);
  • carente accesso alle strutture sanitarie.

(a cura di Paolo Moiola)

Fonti: Indigenous populations: left behind in the Covid-19 response, in «Lancet», 6 giugno 2020; Protect Indigenous peoples from Covid-19, in «Science», 17 aprile 2020; Mortality from contact-related epidemics among indigenous populations in Greater Amazonia, in «Nature», settembre 2015.


Tab. 2 / Riserva «Navajo Nation»*

  • superficie: 71.000 km2*
  • stati interessati: Utah, Arizona, New Mexico
  • popolazione: 173.000*
  • presidente: Jonathan Nez
  • tasso di disoccupazione: 40 per cento
  • tasso di povertà: 40 per cento

(*)  La maggiore riserva indiana degli Stati Uniti sia per estensione che per popolazione.

(Pa.Mo.)

Fonti: www.navajo-nsn.gov; www.opvp.navajo-nsn.gov; BBC.


Ritratto di un Cherokee. Foto di Hernan Heyn – Library of Congress.

Tab. 3 / Principali norme di legge (Acts) tra governo Usa e popolazioni native

  • 1830: The Indian Removal Act
  • 1851: The Indian Appropriations Act
  • 1887: The General Allotment (Dawes) Act
  • 1924: The Indian Citizenship (Snyder) Act
  • 1934: The Indian Reorganisation Act (Ira)
  • 1968: The Indian Civil Rights Act (Indian Bill of Rights)
  • 2010: The Tribal Law and Order Act

(Pa.Mo.)

Fonti: www.law.cornell.edu; Andrew Boxer in «History Review», settembre 2009.

Cavalli nella Monument Valley, riserva della Nazione Navajo. Foto di Steen Jepsen – Pixabay.




Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump


Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?

L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.

Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.

Le spiegazioni

In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.

Il neo presidente Donal Trump visita il presidente uscente Obama alla Casa Bianca il 10/11/2016 / AFP PHOTO / JIM WATSON

Contro Obama

Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.

Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.

L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.

Un razzismo sistemico

Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.

Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.

L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)

Il Cardinal Daniel DiNardo. ( Brett Coomer / Houston Chronicle )

L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.

La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).

La politica estera

L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.

La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.

Massimo Faggioli

È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.

  • www1.villanova.edu
    Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.

 


Approfondimento

Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald 

Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.

Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.

Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.

Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.

Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.

Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.

Paolo Moiola