Pillole «Allamano» /10. Prima di tutto santi


Carissimo Padre, buon Natale.
Uso l’appellativo Padre invece di Canonico (oggi un po’ demodé), o di Rettore (troppo accademico), per sottolineare la paternità spirituale che hai avuto e continui ad avere su di noi, missionari e missionarie della Consolata. Grazie per queste pillole di spiritualità che, oggi come ieri, ci aiutano a dare un senso alla nostra vita, per poterne essere i protagonisti e non dei comprimari. I tuoi consigli hanno permesso a missionari e missionarie di camminare diritti e spediti durante tanti anni e in moltissime parti del mondo; crediamo che possano servire anche a noi, nella nostra Europa attuale, per riproporci come persone che hanno a cuore il Regno di Dio, e lo vogliono promuovere lì dove si trovano. In fin dei conti, questo è lo spirito con cui abbiamo provato ad assumerle durante questi mesi e chissà se ci aiuteranno ad alzare un po’ il tiro, iniziando da questo periodo natalizio.

A Natale si dovrebbe essere tutti più buoni o, come forse suggeriresti tu stesso, un pochino più santi. Ti è sempre piaciuta questa parola: santo.  Hai parlato tanto di santità, ma soprattutto hai vissuto in modo da rendere esplicito, visibile, toccabile con mano ciò che cercavi di esprimere a parole. Hai soprattutto cercato di mostrare che la santità è nient’altro che il coronamento di un cammino nella fede «fatto bene», con rispetto del ruolo che si occupa nel mondo, senza pensare di essere Dio, ma soltanto povere creature che cercano di fare al meglio la Sua volontà (a dirla tutta, se c’è qualcosa che veramente contraddice lo spirito del Natale è proprio questa tendenza a credersi dei padreterni; altro che spirito dell’incarnazione!).

La Torino dei tuoi tempi poteva vantare degli esempi di santi mica da ridere: ci si sarebbe potuta fare una squadra di calcio con tanto di riserve contando tutte le persone che hanno dato la loro vita per la causa del Vangelo, e a tale ragione sono assurti alla gloria degli altari. Altri ancora hanno vissuto la loro vita cristiana in maniera più nascosta, o forse meno «eroica», e non vengono ricordati liturgicamente, ma hanno comunque lasciato un segno che rimane vivo ancora oggi, eredità di una vita dedicata a Dio e al servizio dei fratelli. Alcuni parlano di loro come «santi sociali», proprio per sottolineare il loro forte impegno al servizio dei poveri del tempo, fra i giovani, gli operai, i carcerati, gli ammalati…

Molti li hai incontrati tu stesso di persona. In particolare non si può non citare le due figure a te più vicine, non fosse altro per la comune provenienza, visto che eravate tutti originari di Castelnuovo, in provincia di Asti: Giuseppe Cafasso, tuo zio, e Giovanni Bosco. Oggi il tuo paese, adagiato sulle colline del Basso Monferrato astigiano, ha preso il nome di Castelnuovo don Bosco, dal concittadino più famoso, anche se dovrebbe essere battezzato «Castelnuovo dei Santi» perché ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì hanno avuto i loro natali in uno spazio di tempo davvero ristretto.

Santi vicini, santi in famiglia, santi le cui vite si sono sfiorate lasciando segni indelebili sulle altrui esistenze. Sì, diciamo che sei anche stato un po’ fortunato ad avere la possibilità di entrare in contatto con persone di quel calibro. Da loro hai attinto molto, pur conservando una tua precisa personalità, che non si è confusa né con lo spirito, né tantomeno con la missione altrui. Da Giovanni Bosco, anche se soltanto per un breve periodo di tempo, sei andato a scuola nell’Oratorio da lui fondato, luogo da cui poi ti sei allontanato alla chetichella, per non dare un dispiacere a chi ti aveva ospitato fra i suoi ragazzi e che probabilmente, vedendo la pasta di cui eri fatto, aveva iniziato a pensare che un giorno avresti potuto dargli una bella mano. Del resto, non lo hai fatto per capriccio (le persone capricciose non ti sono mai andate troppo a genio e non ti sei stancato di ripeterlo in continuazione a tutti coloro che erano affidati alla tua formazione), ma per seguire quella che a te sembrava essere la tua strada, indirizzandoti verso il Seminario metropolitano di Torino.

A Giuseppe Cafasso devi sicuramente molto di più, pur avendolo personalmente incontrato tutto sommato poche volte. Hai respirato sin da piccolo la sua presenza e hai sempre saputo e creduto di avere un «Santo zio» in famiglia, al punto che quando è stata l’ora ti sei dedicato anima e corpo, fra mille altre cose, anche ai processi di beatificazione e canonizzazione, dando così alla Chiesa intera un modello di prete a cui ispirarsi.

Creazione di David Ongaro per la chiesa di Maria Regina delle Missioni in Torino: san Giuseppe Allamano con i suoi santi. Da sinistra a destra: s. Chiara regge con lui il quadro della Consolata, s. Ignazio di Loyola, s. Caterina da Siena, s. Giovanni Bosco, s. Francesco di Sales, s. Teresa d’Avila, s. Francesco, s. Teresina di Gesù Bambino, s. Fedele da Sigmaringen, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo, s. Francesco Saverio e s. Giuseppe Cafasso, suo zio.

La santità che hai conosciuto tu, di cui hai fatto esperienza diretta vedendola riflessa nelle esistenze degli altri, era la conseguenza di una vita buona, vissuta bene, con sacrificio, determinazione, fede, perseveranza. Dio lancia il seme, e questo cade in una terra più o meno fertile. Nel vostro caso terra fertilissima, perché preparata, lavorata, concimata quotidianamente con la pazienza e anche la fatica del contadino. Niente di eccezionale, verrebbe da dire, una santità alla portata di tutti, fatta di piccoli gesti buoni ripetuti nel tempo. È la santità di tante nostre famiglie, quella che non fa rumore ma permette al bene di incunearsi nel tessuto della società e lo fa scorrere a dispetto di tanti messaggi a esso contrari, segnali di male, morte, disperazione che mettono in pericolo la speranza.

L’eccezionalità sta appunto in questo lavoro costante su di sé, sulla propria crescita umana e spirituale. «Vivere l’ordinario in modo straordinario» è il motto che hai proposto a chi guardava a te come modello di uomo e prete. Lo hai attinto dalla spiritualità di San Giuseppe Cafasso, ma lo hai fatto diventare come parte del tuo stile di vita. Il tuo punto di riferimento era Cristo, ma il tuo terreno di gioco è sempre stato il quotidiano, le ventiquattro ore della giornata, cui dare un senso, giorno dopo giorno, con l’Eucaristia a fare da metronomo: preparazione, celebrazione e ringraziamento; e così via, in una serie continua di istanti in cui la vita dell’uomo si fonde in quella di Dio.

Il santo è la persona che vive in profondità questa unione di Dio con la sua storia passata, presente e futura; è colui o colei che permette a Dio di incarnarsi nel suo vissuto, di vivere nella sua famiglia, di frequentare la stessa scuola o di interessarsi degli stessi problemi di lavoro degli altri. Il santo è la persona della porta accanto, quella capace di praticare iniezioni di bene con la sua presenza discreta e silenziosa, che permette a Dio di essere Dio, e lo fa lasciando che questi entri nella propria vita, concedendogli spazio e diventando a sua volta strumento di salvezza.

Caro don Giuseppe, tu sei stato questo tipo di persona per molti tuoi contemporanei, che istantaneamente hanno riconosciuto in te i segni di una presenza più grande. Il tuo spirito di preghiera, l’amore per l’eucaristia, la relazione cuore a cuore con Maria Consolata. Tuttavia, la tua santità ha assunto dei connotati speciali che restano un’eredità unica per noi missionari e per tutti gli amici che, a vario titolo e in varie occasioni, si sono avvicinati al nostro carisma e ne sono rimasti affascinati.

Innanzitutto, la tua è stata una santità extra large; hai guardato oltre i confini di Torino, dell’Italia, più in là sempre e comunque. Sicuramente più in là dei tuoi comodi – avresti potuto infatti vivere un’esistenza decisamente tranquilla e rilassata invece di perdere pace, salute e soldi nel correre dietro all’ideale missionario – a cui hai però volentieri rinunciato per rispondere all’imperativo che sentivi dentro di te di annunciare a tutti la consolazione del Vangelo. In questo momento storico in cui la chiesa è invitata a uscire, ad andare alle periferie, a essere lì dove la gente si trova, a non perdere la voglia di annunciare, ci offri un modello di santità molto attuale. Dà coraggio pensare che hai vissuto in maniera totale la tua missionarietà senza mai allontanarti, se non per brevi viaggi, dal tuo amato Santuario della Consolata. Sei un invito vivente per tante persone e famiglie che forse non ce la fanno proprio a trovare tempo e risorse per «partire» e vivere la loro vocazione missionaria in terre lontane. C’è chi dona partendo e chi parte donando. Da sempre la missione si è nutrita del dono del tempo, dei beni materiali, della preghiera di tanti benefattori che pur senza oltrepassare l’uscio di casa hanno reso l’attività dei missionari possibile, partecipando a tutti gli effetti, pienamente, della missione della chiesa.

Inoltre la tua è stata una santità «inclusiva», che si è nutrita e arricchita dei contributi di culture nuove e lontane, di cui leggevi attraverso i racconti dei tuoi missionari. Il senso di vicinanza all’altro che hai trasmesso ai tuoi, l’enfasi posta sulla necessità di imparare, e imparare bene, le lingue straniere per meglio comunicare con le persone, la passione di capire l’altro per entrare nel profondo della sua cultura, con rispetto, in punta di piedi… sono elementi che hanno caratterizzato il tuo insegnamento e restano parte di quello spirito che sempre hai voluto trasmettere personalmente ai tuoi missionari. I nostri confratelli che lavorano in Asia sempre ripetono l’importanza di essere sul posto, presenti, sussurrando il Vangelo, con tatto, rispetto e discrezione, senza imporre, ma proponendo coraggiosamente la buona notizia di Gesù.

In questo mondo così controverso e contraddittorio, alla cui tensione verso la globalità rispondono movimenti di chiusura e intolleranza assolutamente non evangelici, la ferma delicatezza della tua parola è garanzia di un messaggio di accoglienza e di fraternità che rincuora e dà coraggio.

Grazie caro Padre per quest’ultima tua pillola che, in fondo, contempla tutte le altre. Siate santi missionari; anzi, «prima santi, poi missionari», come ripetevi instancabilmente allora e continui a ripetere anche a noi oggi. Ai nostri giorni il tuo appello assume una valenza particolarmente pregnante perché immettersi in un cammino di santità significa andare due volte contro corrente. Mentre noi missionari e missionarie della Consolata desideriamo profondamente che tu, già beato, possa essere riconosciuto finalmente santo, tu vuoi soprattutto che siamo noi a santificarci, anche senza riconoscimento ufficiale da parte della chiesa. Ci chiedi soltanto di condurre una vita evangelicamente certificata e di testimoniare con coerenza i valori del Vangelo attraverso il carisma speciale che ci hai lasciato.

Penso che, corroborati da un anno di pillole ricostituenti da te fornite, possiamo tentare di metterci su questo cammino chiedendoti, ancora una volta, di essere padre e guida dei tuoi missionari e degli amici fraterni che ne accompagnano le iniziative apostoliche. Siamo convinti che, diventando più santi, noi spianeremo anche a te la strada per il riconoscimento universale della tua santità. Prendi questo nostro impegno come un piccolo regalo di Natale. E ancora tanti auguri.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole

Per finire con gioia

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Solo e in compagnia (Gv 6,1-59)

Con il sesto capitolo, il Vangelo di Giovanni ci stimola ad accelerare e approfondire il cammino. Lo fa innanzi tutto segnalando che ci troviamo a Pasqua (6,4), osservazione che può sembrare inutile se si dimentica che proprio a Pasqua dell’anno precedente Gesù aveva espresso il suo giudizio sul culto nel tempio (2,13-17) e che in quella dell’anno successivo morirà in croce.

Lo fa anche con un racconto, quello della moltiplicazione dei pani, che, a differenza dei Vangeli sinottici, qui fa da preludio a una riflessione sull’eucaristia che ci saremmo aspettati di trovare più avanti, ossia durante l’ultima cena (dove invece è assente).

Infine, l’evangelista inizia a parlare con insistenza del rapporto di Gesù con il Padre, e per la seconda volta nel suo percorso ricorre a un «Io sono» (6,20) su cui torneremo presto.

Si arriverà a un certo punto nel capitolo a esplicitare che nessuno ha visto Dio e solo Gesù lo può far conoscere (6,46), un tema che percorre sottotraccia tutto il Vangelo fin dall’inizio. Ciò che fa Gesù è ciò che farebbe il Padre. Guardare il Figlio, dunque, significa guardare anche chi lo ha mandato.

Diventa allora significativo il gioco di Gesù che un po’ si ritira in solitudine, un po’ si mostra ai suoi e alle folle.

Il capitolo 6 si apre con Gesù che si ritira con gli apostoli sul monte (6,2-3) per evitare le folle che lo seguono per le sue guarigioni. Ma da lì le vede venire verso di lui, e non solo non le scaccia, ma si chiede come fare a dare loro da mangiare. A quel punto Gesù intuisce che la gente vuole «prenderlo per farlo re» (6,15), quindi si ritira sul monte da solo. Mentre lui è sul monte, i discepoli passano senza di lui dall’altra parte del lago, ma vengono colti da una tempesta. D’improvviso Gesù compare camminando sulle acque, e li porta a destinazione invitandoli a non avere paura (6,16-21).

Infine, Giovanni si avventura in una descrizione abbastanza contorta dello stupore della gente, che cerca Gesù faticando a trovarlo (6,22-25). Il fatto che la descrizione non sia lineare non è un errore dell’evangelista. Anzi, egli, proprio in questo modo attira lì la nostra attenzione, perché ci rendiamo conto ancora una volta che Gesù, che è cercato, potrebbe sottrarsi alla folla, e un po’ lo fa, ma si lascia anche trovare, per commozione e perché vede che gli altri hanno bisogno di lui.

Il volto del Padre

Abbiamo già detto che l’«Io sono» è uno degli elementi che ci suggeriscono un «cambio di marcia» di Giovanni. Il momento è quello in cui Gesù, camminando sulle acque, compare ai discepoli che stanno faticando a gestire la barca nel mare in tempesta. Loro, come è comprensibile, al vederlo si spaventano, ma Gesù li rassicura dicendo «Io sono» (6,20). Si tratta di una formula che potrebbe essere banale, il nostro «sono io», ma già nel Primo Testamento sono parole che richiamano la rivelazione del nome divino a Mosè: «Dirai agli israeliti: “Io sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Nel Vangelo di Giovanni la formula diventa solenne. Gesù, infatti, dice molte volte «io sono»: il pane di vita (nel capitolo 6), la luce del mondo (8,12), la porta delle pecore (10,7.9), il buon pastore (10,11.14), la risurrezione e la vita (11,25), la vera vite (15,1.5). Addirittura, in alcuni casi non aggiunge nulla, ma si limita a dire «Io sono» (8,24.28.58; 13,19), che sicuramente ha un tono solenne e divino.

Già una volta Gesù nel Vangelo aveva usato questa formula, parlando con la samaritana (4,26), ma là poteva sembrare un uso più semplice e «banale»: la donna parla del messia, Gesù le svela «Sono io, che parlo con te». Nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque in tempesta, invece, le stesse cominciano a sembrare qualcosa d’altro, anche perché sono dette da chi sta compiendo un’impresa sovrumana.

In queste righe del Vangelo di Giovanni, Gesù inizia ad alludere alla propria dignità divina, e nello stesso tempo continua a dichiararsi inferiore e in comunione con il Padre, del quale è la visibilità.

Quello che mostra in questo capitolo è allora il volto di un Padre che non avrebbe bisogno della compagnia degli umani, eppure sceglie di mettersi a disposizione, di lasciarsi trovare, sapendo che sono loro ad aver bisogno di lui. Il volto di un Dio che è padrone degli elementi (moltiplica i pani, calma la tempesta facendo arrivare subito a riva), ma non si sostituisce alla libertà e alla fatica degli esseri umani: sfama cinquemila persone, ma a partire non dal nulla, bensì da cinque pani d’orzo e due pesciolini (pasto scarno anche per chi lo aveva portato, ma che intanto deve essere messo a disposizione, deve essere perduto per essere ritrovato), e fa giungere a riva marinai che però intanto avevano provato a remare. Un Dio al servizio degli uomini, ma senza sostituirsi a loro.

Quello che Gesù mostra è un Dio che non usa mai gli elementi di cui è Signore per arrecare un danno, ma sempre e soltanto per il bene.

Un Padre che, come Gesù, sarebbe autosufficiente, ma sceglie di non stare da solo. E un Padre che interviene poco, per salvaguardare la libertà degli umani, ma quando lo fa interviene solo salvando, sfamando, mai punendo.

 

Che cosa dobbiamo fare? (Gv 6,26-35)

Negli Atti degli Apostoli la reazione al primo discorso di Pietro in cui si racconta la vicenda di Gesù è «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Al versetto 28 del capitolo 6 di Giovanni, anche la folla che cerca Gesù sull’altra riva del lago e lo trova, gli domanda: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». È comprensibile, umano e anche ammirevole: di fronte alla scoperta di una interpretazione diversa della nostra vita, chiedersi in che cosa cambiare è generoso e onesto. Gli interlocutori di Gesù, insomma, non sono né superficiali né ipocriti. Ma la risposta di Gesù spiazza, sulla linea di ciò che aveva lasciato intuire nel dialogo con la donna di Samaria (Gv 4,23-24): «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (6,29).

A essere significativi e sorprendenti sono almeno due aspetti. Il primo è che il «da fare» non sia qualcosa che deve essere fatto. Se è vero che le parole senza azioni sono vuote, è però ancora più vero che a essere significative nelle relazioni umane sono le intenzioni: il bambino che vuole aiutare la mamma provando a farle trovare al rientro a casa una pietanza che però è immangiabile non verrà rimproverato, ma probabilmente la farà commuovere. E orientando il rapporto con Dio non nel fare, ma nel credere (pisteuete), nell’affidarsi, nel confidare (questo è il senso profondo di un verbo che resta un po’ ambiguo), Gesù riorienta il rapporto degli esseri umani con Dio sull’unica cosa che conta, ossia la relazione. Vuoi fare l’opera di Dio? Fidati di lui, affidati a lui, vivi in una relazione di amicizia, di affetto, dove a essere decisivo non è ciò che fai, ma l’intenzione con cui vivi. Questo sembra essere per Gesù il cuore della morale religiosa: vivere una relazione autentica, profonda, di affetto con Dio. Quello che si fa, di conseguenza, è frutto di questa relazione.

Ma c’è anche un altro aspetto decisivo, perché in realtà Gesù non invita a credere in Dio, ma «in colui che egli ha mandato», ossia in Gesù stesso. In modo chiaro si afferma ciò che era già stato intuito prima e che ora diventa più esplicito: il Dio invisibile si può vedere e incontrare in Gesù.

Di fronte alla comprensibile perplessità degli interlocutori («Che segno compi perché ti crediamo?»), Gesù, alludendo alla manna del deserto, donata ogni giorno da Dio al suo popolo nel tempo dell’Esodo, parla del pane. Non solo i pani moltiplicati, ma un cibo che possa nutrire. Gesù, cioè, non si limita a dire: «Guarda che miracoli faccio, guarda come sono potente!», ma invita a cogliere che quello che lui fa è al servizio della vita di chi incontra, è destinato a nutrire, a sfamare. Gesù mostra un Padre che non vuole essere adorato e riverito, ma che si dona perché i suoi amici non patiscano fame o sete. Colui che può sfamare e dissetare, sulla linea dell’incontro con la donna samaritana, è Gesù. Poi, dalla dimensione fisica siamo invitati a passare a quella esistenziale, perché non viviamo soltanto di pane, ma di relazioni e senso della vita che sono ciò di cui abbiamo più bisogno.

Non si tratta di qualcosa a cui Gesù arrivi marginalmente o di recupero: «La volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40).

Si parla della risurrezione nell’ultimo giorno, ma se ne parla al presente. Perché Gesù e il Padre vogliono la vita degli esseri umani, e questo desiderio non distinguerà tra il futuro e l’adesso.

Il cristiano non faticherà a capire che qui in fondo si parla dell’eucaristia, ma, persino più che nei sinottici, è chiaro che non la si potrà più intendere semplicemente come rito, bensì come gesto che rimanda a tutta l’esistenza di Dio: l’eucaristia raccoglie in un punto ciò che il Padre e Gesù fanno sempre, donare la vita per far vivere gli esseri viventi.

Figlio di Giuseppe o del Padre? (Gv 6,36-59)

Quello che Gesù afferma è pesante, intenso. Svela un volto di Dio che forse fatichiamo a immaginre: talora abbiamo la tentazione di pensare a un Dio giudice severo che castiga in modo durissimo chi si comporta male (cioè, gli altri). Invece, qui Giovanni ci mostra un Dio amante della vita e pronto a donarsi per nutrire l’umanità. Ma svela anche un Gesù che pretende di far conoscere il Padre, che si pone come tramite indispensabile: «Il pane della vita sono io!» (6,35).

Anche noi avremmo probabilmente reagito come gli interlocutori: «Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?» (6,42). C’è un primo livello di contestazione che capiamo immediatamente: «Chi ti credi di essere? Sappiamo chi sei!». Ma questo tradisce un sottinteso più profondo: ci aspettiamo che Dio sia completamente diverso dall’uomo, non abbia rapporti con la nostra quotidianità. È un pensiero che percorre gran parte dell’umanità, non solo cristiana: vedendosi limitati e imperfetti, gli uomini pensano che Dio sia completamente diverso da loro. Ecco perché ci sembra convincente che Dio non si capisca, parli lingue strane, si nasconda misteriosamente in riti incomprensibili, dietro a muri o fumi di incenso. Quello che Gesù ha suggerito, che il Padre sia visibile in lui, e che Dio sia interessato a fare vivere e nutrire l’umanità, invece, contraddice questa lontananza e divisione.

Gesù mostra un divino che poteva anche rimanere lontano dall’umano, ma che ha voluto abbattere le distanze, è entrato nell’umanità fino in fondo, si occupa degli esseri umani non per farsi servire e riverire ed è pronto a farsi cibo e bevanda, per farli vivere, di bene (6,55-56).

Questo è possibile a Gesù perché a tale scopo è stato inviato dal Padre, di cui è immagine (6,57). Gesù è così perché è il Padre a essere così, pronto a donare se stesso perché gli esseri umani abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza. Non a caso Gesù può dire che chi si nutre di questo cibo, vivrà in eterno (6,58).

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 07- continua)

© Jesus Mafa




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Mille e duecento km a piedi

Gentile Redazione,
siamo tre amici di Cherasco (Cn) che hanno scritto nel 2022 il libro «Padre Giuseppe Alessandria, 1.200 chilometri a piedi», di 156 pagine, corredato di fotografie.

Padre Giuseppe è stato un missionario della Consolata che ha dedicato la sua vita alle missioni in Mozambico, a propagare la fede e a fornire aiuto, non solo spirituale, agli abitanti di quelle terre.

Molti sono i motivi che ci hanno spinti a scrivere il libro, tra i quali uno molto importante e insolito: nella famiglia di padre Giuseppe ci sono state ben 16 vocazioni religiose: nove sacerdoti, sei suore e una terziaria francescana.

Il testo contiene materiale che il nipote Giovanni aveva ricevuto da padre Giuseppe prima di partire per l’ultima volta per il Mozambico: due album fotografici e alcuni scritti, tra cui un diario giornaliero dei primi sei mesi di vita sacerdotale, del suo viaggio in Portogallo per imparare il portoghese e del viaggio che lo ha condotto a Maputo, capitale del Mozambico, dove è stato missionario per 13 anni, fino al drammatico racconto del sequestro.

Padre Giuseppe è stato ordinato sacerdote nel 1964 e qualche anno dopo, nel 1969, è stato inviato in Mozambico, dove nel luglio del 1982 è stato fatto prigioniero dai guerriglieri della Frelimo, dai quali è stato costretto a percorrere 1.200 chilometri a piedi attraverso la savana, con quattro suore e un altro confratello, e liberati solo dopo quattro mesi di prigionia.

Tornato in Italia, la sua volontà sarebbe stata di ripartire al più presto per tornare a «casa sua», come chiamava la terra di missione. Dopo varie richieste, riuscì a ripartire per il Mozambico solo nel 1996, dove rimase per poco tempo a causa di un incidente stradale che provocò la sua morte, il 30 luglio 1998.

Con il nostro scritto desideriamo ricordarlo a 25 anni dalla sua morte e far conoscere la dura realtà dei missionari che spendono tutta la loro vita per gli altri.

Padre Alessandria è stato un missionario autentico, un lavoratore instancabile e generoso, sia in terra di missione, che in Italia e in Portogallo, con tutti quelli che lo hanno conosciuto e amato.

Giovanni Tarabra, Giuseppe Capra e Agostino Borra
Cherasco, 21/01/2023


Nomadelfia è in Tanzania

Egregio direttore,
mi presento subito: sono Mina di Nomadelfia.

Le riviste missionarie sono sempre state attraenti e interessanti ma, da un po’ di tempo, è più viva la mia curiosità di sapere di più della Tanzania sul cui territorio sta muovendo i primi passi Nomadelfia. Abbiamo letto con interesse la pagina di padre Bernardi sulla rivista di luglio 2022 in cui parla la presidente del Tanzania. Le notizie che ci riferiva fanno capire che c’è tanto bisogno di una presenza costruttiva di vita vera fraterna e lieta.

Nomadelfia è a Mvimwa, nelle vicinanze del monastero benedettino.

I rapporti con i benedettini di questo monastero sono iniziati nel 2016 con l’abate Denis Udomba in visita a Nomadelfia. Rimasto fortemente colpito dall’esperienza vissuta con noi, ha invitato i nomadelfi ad una collaborazione fattiva con i monaci per portare la proposta di una vita fraterna tra le famiglie legate al monastero.

Spero tanto che, tramite la rivista Missioni Consolata, venga conosciuto questo piccolo popolo di volontari cattolici che papa Francesco ha definito «una realtà profetica» e che san Giovanni Paolo II ha dichiarato: «Un seme piccolo che deve crescere e diventare grande e forse formare la civiltà del mondo futuro. Se siamo vocati ad essere figli di Dio e tra noi fratelli, allora la regola che si chiama Nomadelfia (nomos + adelfos = legge di fraternità) è un preavviso, un preannuncio di questo mondo futuro dove siamo chiamati tutti».

Sempre nella stessa rivista del luglio 2022, il giornalista Marco Labbate parla, nell’articolo «Tu non uccidere», di don Milani, di don Primo Mazzolari, di Aldo Capitini, di La Pira, padre Ernesto Balducci, don Bosco … mi aspettavo che parlasse anche di don Zeno (Saltini, fondatore di Nomadelfia, ndr) che con i figli ha buttato giù i muri del campo di concentramento di Fossoli (frazione di Carpi, Modena).

Caro direttore, preghiamo che lo Spirito Santo ci illumini nel nostro apostolato. La Madonna ci sia vicina, ci insegni a muoverci con delicatezza e costanza.

Gesù non può lasciarci soli, in fondo è lui che deve fare con noi.

Grazie per le informazioni che ci date dei nostri fratelli vicini e lontani.

Mina di Nomadelfia
23/12/2022


Complimenti

Gentilissimi,
mi è gradito trasmettervi questa breve nota.

Nel numero 10, ottobre 2022 di Missioni Consolata: leggo la nota di un lettore (a pag. 7) sul decaduto interesse per la carta e per la rivista. Ne rimango allibito: MC è a mio avviso una delle poche riviste che affronta seriamente temi molto attuali di varia natura con una visione di sintesi, ma anche etica e sovente, sulla base dell’esperienza diretta su territori poco vissuti da noi «benestanti del mondo», ne derivano articoli di rara qualità e reperibilità. Sono invece, diversamente da tale lettore, molto positivamente colpito dalla capacità degli autori di MC di affrontare temi anche tecnici, presumibilmente non facenti parte delle loro quotidianità (penso ad uno recente sui veicoli elettrici, ad idrogeno, ecc.), con una limpidezza ed intelligenza, oltre che cuore, assai ardui da trovare negli scritti e nelle persone «moderne». Un lettore che non apprezzi tutto ciò merita comprensione, possibilmente per altri stati di disagio che non quello di sfogliare una rivista stampata, il cui eventuale danno ambientale è veramente tutto da provare.

Complimenti per il Vs. operato.

Bruno dalla Chiara
22/02/2023


Una lettera dal passato

Carissimi,
mi è tornata tra le mani questa lettera, inviata alla mia nonna, nel lontano 1931 dalla missione di Kaheti dalla vostra suora missionaria suor Luigia, con tanto di numero di protocollo n. 908.

La suora ringraziava per un’offerta inviata dalla mia nonna Rossetti Grosso Maria e raccontava del battesimo effettuato a un uomo in punto di morte, con il nome di Luigi Francesco, che era quello del figlio ventunenne (mio padre),

Dai racconti della famiglia, sapevo che mio padre, nel gennaio del 1931, era scampato dalla tragedia che aveva coinvolto gli Alpini in servizio militare nell’alta Valle di Susa, e precisamente nel Vallone di Rochemolles. C’erano stati una ventina di morti (esattamente 21, ndr) travolti dalla valanga e alcuni anche del mio paese (Cumiana). Penso quindi che mia nonna, devota della Madonna Consolata, abbia voluto ringraziare Maria per il ritorno sano e salvo del proprio figlio.

È un ricordo che volevo condividere con Voi con tutta la stima per quanto continuate a fare in terra di missione. Con stima

Eva Rossetti
23/01/2023

Ecco il testo di quella preziosa lettera nell’italiano del tempo.

Pregiatissima Signora,
capitò, ieri, qui un uomo sulla cinquantina, il quale giunto nel bel prato adiacente alla nostra Missione cadde a terra. Fu visto da alcuni pastori di greggi e venne avvicinato, ma non gli poterono recare alcun aiuto poiché non dava alcun segno di vita. Alcuni di questi fanciulli corsero ad avvertirci del caso e mi portai colà. Lo sollevarono, gli diedi a bere un po’ di cordiale e dopo poco parve riaversi, ma ricadde al suolo dicendo lasciatemi dormire. Dopo un quarto d’ora si destò e ci diede sue notizie.

Egli tornava dalla vicina Regione del Meru ove s’era recato per comperare un bue, ma poi al ritorno fu assalito da certo malore che non sapeva definire accompagnato da vomiti di sangue nerastro. (I Neri dicono che egli sia stato avvelenato, poiché quei popoli sono avvelenatori astuti assai). Il bue, si sa, gli sfuggì e non poté rincorrerlo perché assalito appunto in quel momento da eccessivo vomito. Poveretto!

Diceva questo e fu riappreso dal più grave eccesso di vomito sanguigno ed in meno di un quarto d’ora era ridotto in fin di vita. Visto il caso disperato lo disposi a ricevere la grande grazia del S. Battesimo. Accettò di gran cuore e quasi subito dopo spirava. Ora il nostro Luigi Francesco è già in cielo a pregare per lei. Gradisca i miei riconoscenti ossequi

Dev. Suor Luigia,
 M. d. Consolata
Kaheti 06/08/1931

 

Grazie per questa condivisione di vita di altri tempi. Il racconto di suor Luigia è di una vivezza speciale, e in me, che nei miei primi giorni di missione ho dovuto seppellire una adolescente che era stata avvelenata, suscita un’emozione profonda.


Devozione ai piedi di Gesù

Carissimo padre Gigi,
ti mando questo materiale, caso mai riuscissi a fare un po’ di pubblicità. Avevo già provato a pubblicare un libro, ma era stato come vendere verdure in un negozio di fiori. Adesso ho trovato un editore. Per me è la prima volta che pubblico un libro. Pensa che ho venduto la bellezza di … 39 copie. Insomma, io ti butto tutto addosso ma tu fa come vuoi. L’importante è che Gesù faccia bella figura. Ciao e buona festa del Fondatore.

Ecco qui una breve presentazione del libro che ho appena pubblicato.

«Chi non conosce Maria Maddalena? La grande santa, la grande apostola, la grande convertita. Ma lo sapevate che è anche una grande maestra di vita spirituale? Con il cammino finora inesplorato della devozione ai piedi di Gesù, Maria di Magdala ci aiuta a crescere nella fede. Ogni volta che nei Vangeli incontriamo questa grande donna in relazione con i piedi di Gesù, entriamo in una scuola di vita e di spiritualità. Una scuola che, più che da una lunga riflessione, nasce dall’esperienza concreta e immediata dell’incontro tra l’umanità peccatrice e il Cristo Salvatore!

Sulla rivista «Testimoni» di giugno 2022, a pagina 33, c’è un articolo di Elsa Antoniazzi. Riguarda una mostra d’arte a Forlì. L’autrice sottolinea come le rappresentazioni della Maddalena vanno dalla «Penitente» alla «sessualità redenta», alla sequela ma ancora con l’accento sul fascino della femminilità. Se questo fosse vero anche per la produzione letteraria, allora questo libro sulla «Devozione ai piedi di Gesù» potrebbe essere il primo caso in cui la Maddalena viene rappresentata come maestra di spiritualità, come discepola e apostola per sé, senza sottolineare altri elementi, che pur rilevanti, rischiano di adombrare il grande cammino ed esempio di fede di questa donna. Se qualcuno ci mostra la strada per arrivare a Dio, non importa il sesso, la nazionalità, l’età, lo stato sociale. Dio importa. E non sono molti quelli che ci hanno “dato” Dio come ha fatto la nostra Maria».

padre Gian Paolo Lamberto
Daejeon, Corea, 16/02/2023


Qui la situazione è dura

Carissimo padre,
ieri, 2 marzo 2023, sono andata nel villaggio di Longetei, non molto distante da Baragoi, Kenya, dove vivo. Ho dato una mano a cucinare una specie di porridge per i bambini che vedi nella foto. Qui la situazione è molto dura e la siccità è grande, sono diverse stagioni che non piove. Questo ha anche aumentato le tensioni tra le diverse comunità, e le razzie e gli scontri armati sono cosa ordinaria. Più di una volta sono stata svegliata dagli spari nella notte. Che il Signore e la Consolata ci aiutino.

Alishe E.
Baragoi, Kenya, 02/03/2023
(sintesi di messaggi Whatsapp)