Con cuore grande, facendo del bene

a cura di Sergio Frassetto |


Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.

Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.

Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!

L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.

Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.

padre Francesco Pavese

Devoto figlio di Giuseppe Allamano

Ricordo di padre Francesco Pavese

Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.

Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.

Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.

Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.

Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.

Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.

Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.

(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)


Non voglio morire «sfaccendato»

Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.

Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.

Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.

E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.

Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.

Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.

A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:

  1. essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
  2. essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
  3. essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.

E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.

E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.

Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.

Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.

Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».

A cura di Sergio Frassetto


Il tesoro dello scriba

Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.

Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.

E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.

Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.

Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…

Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».

Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!

Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.

Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:

  • – Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
  • – Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
  • – L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
  • – Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
  • – Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.

Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.

Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.

padre Piero Trabucco

 




Il grande discorso di Atene (At 17,16-34)

testo di Angelo Fracchia |


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli avevamo lasciato Paolo nel bel mezzo del suo secondo viaggio apostolico. Dopo aver attraversato l’odierna Turchia, era approdato in quella che anche oggi chiamiamo Grecia, dove aveva aperto strade nuove al Vangelo. Dovendo però fuggire da Filippi e da Tessalonica, era giunto, da solo, ad Atene, dove aveva atteso di essere raggiunto da Sila e Timoteo (At 17,15).

Atene era stata il grande faro della filosofia, dell’arte, dell’economia, del potere politico della Grecia nei secoli precedenti. Si trattava di una «nobile decaduta», ormai tagliata fuori dal potere politico (da due secoli passato a Roma, che l’aveva strappato non ad Atene ma ai macedoni), economico (le grandi vie commerciali passavano via terra dal Nord, ossia da Tessalonica e Filippi, oppure via mare dal Aud, da Corinto) e persino culturale. I centri di riferimento importanti erano ormai molti e, con la lingua greca diffusa in tutto il Mediterraneo orientale, il fulcro della cultura greca era ormai diventata Alessandria d’Egitto. Con tutto ciò, la fama antica continuava a illuminare la città, e l’Acropoli era sempre lì a dominarla, con la sua imponenza che colpisce ancora oggi.

È lì che Paolo tiene il suo discorso più completo ai «greci», ossia a coloro che non appartenevano all’ebraismo e che anzi si riconoscevano in un’impostazione religiosa «pagana». Non staremo a chiederci quanto davvero sia credibile che Paolo abbia tenuto quel discorso e se lo abbia fatto proprio come lo leggiamo. Per capire, lasciamoci accompagnare da Luca, da quanto dice, da ciò che tace… e, ancora una volta, anche da quanto ci dicono le lettere di Paolo.

Il contesto (At 17,16-21)

Paolo ad Atene si vede circondato da segni pagani, e questo lo irrita profondamente (At 17,16). In realtà avrebbe dovuto esserci abituato, perché il mondo in cui viveva era dominato da religioni politeiste che spesso si influenzavano a vicenda. Ma in effetti Atene esibiva una quantità eccessiva di questi segni, eredità dei secoli precedenti; una ricchezza che era espressa in un’abbondanza di edifici, statue e probabilmente dipinti e mosaici a tema religioso in ogni angolo.

Paolo sale sulla collina dell’Areopago, situata tra l’Acropoli e l’agorà della città, luogo di incontro e di liberi dibattiti, e lì parla del Vangelo, ma i passanti immaginano che intenda presentare una nuova coppia divina, «Dio e la Risurrezione», come se fossero Zeus ed Era. E gli danno anche appuntamento perché ne parli ancora con maggiori particolari.

Questo è il primo passo sbagliato. Chi si accinge ad ascoltare Paolo, infatti, non lo fa perché prova dentro di sé la sete di interpretare in modo profondo e proficuo la propria vita, di trovarvi il senso (come diremmo noi) o di essere salvati (come dicevano gli ebrei di quel tempo). «Tutti gli ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). La motivazione è semplicemente la curiosità, il passatempo.

Come il pane e l’acqua possono sembrare insipidi a chi non ha fame e sete, il Vangelo fatica a lasciarsi ridurre a passatempo.

Ciononostante, Paolo ritiene che valga in ogni caso la pena di provare.

Sintonizzarsi con l’ascoltatore (At 17,22-28)

Che cosa intenderà trasmetterci Luca nello scrivere il discorso di Paolo? Finora i discorsi di evangelizzazione che ci ha restituito negli Atti degli Apostoli partivano dai profeti, per mostrare la coerenza dell’azione di Dio fino a Gesù, definitiva offerta di comunione tra il divino e l’umano. Ma come avrebbe potuto partire dai profeti con persone che evidentemente non potevano conoscerli? Chissà, forse questo discorso di Paolo potrebbe costituire un modello di annuncio in contesti religiosi che non hanno nulla a che fare con la tradizione biblica. Ossia, in contesti che assomigliano di più a quello in cui viviamo spesso anche noi.

La prima cosa che si può notare è che Paolo segue le convenzioni retoriche del suo tempo. Queste prevedevano di iniziare rivolgendosi in modo piacevole e convincente all’uditorio, per guadagnarsene l’approvazione, così da giungere poi al tema centrale a piccoli passi, seguendo percorsi familiari per chi ascoltava. E Paolo si adatta a chi ha davanti: se non può partire dai profeti, prende l’avvio da quella retorica che ad Atene si insegnava.

E inizia proprio dimostrando
di apprezzare le persone che ha davanti: le definisce religiosissime, in quanto ha trovato, lungo la strada che porta all’Acropoli, anche un altare dedicato «al dio ignoto». Proprio il dio che egli intende svelare agli ateniesi. Paolo dimostra insomma di essersi guardato intorno con attenzione, di aver dominato la sua irritazione e di non voler iniziare mortificando gli ascoltatori, che anzi loda.

Se volessimo estrapolare dal discorso di Paolo delle indicazioni per il nostro annuncio di oggi, potremmo dire che occorre partire dall’analisi della realtà, valorizzandone i punti buoni.

L’apostolo passa poi a spiegare che non possiamo pensare a un dio che abbia bisogno dell’uomo per le proprie necessità. Dio ha fatto il mondo e non si aspetta certo che siamo noi a fargli una casa in cui stare. Piuttosto, il Dio che ha dato a tutti la vita, ha concesso a tutti i popoli uno spazio e un luogo affinché possano, in effetti, rintracciarlo guardando come è strutturato il mondo, anche se si tratta di una ricerca fatta a tentoni, come se ci aggirassimo al buio in una casa che non è nostra. Non impossibile, ma certo abbastanza faticoso e incerto.

In questa fase Paolo riprende in realtà la polemica ebraica contro gli idoli e allude a tanti brani dell’Antico Testamento, in un modo però da non renderli riconoscibili a chi non li conosca già, ma senza renderne necessaria la conoscenza per capire il messaggio. Il discorso scorre, ha una sua logica e, alla fine, risulterà particolarmente affascinante soprattutto per chi ammette che ciò che vediamo non è l’unica realtà autentica. Molti tra gli ascoltatori platonici o stoici probabilmente si sono trovati, per così dire, «a casa propria». Se poi qualcuno degli ascoltatori avesse conosciuto un po’ di Antico Testamento, avrebbe sorriso tra sé e sé riconoscendo le citazioni e potendo confermare che funzionavano bene.

Ciliegina sulla torta, Paolo riesce a concludere questa tappa del suo ragionamento («Non siamo noi a dare qualcosa a Dio, ma lui a farci vivere») citando un poeta greco. Questa volta può permettersi di richiamare l’attenzione sulla citazione (che in realtà è abbastanza breve e forse non così significativa) proprio per ribadire che in fondo non stava annunciando nulla di inaudito o inverosimile. Una lisciatina di pelo agli ascoltatori, con la quale Paolo dimostra di conoscere e apprezzare la letteratura che si insegnava nelle scuole di retorica.

Ciò che ha fatto Paolo fino a questo punto è stato di condurre gli ascoltatori ad ammettere che la realtà autentica di Dio è spirituale. Verità su cui molti di coloro che sono di fronte a lui probabilmente erano già d’accordo.

Lo snodo decisivo (At 17,30-32)

Non è un caso che non siamo ancora arrivati a sentire nulla di autenticamente cristiano. Paolo vuole arrivare lì. Forse però, stavolta ci arriva un po’ di corsa.

Fa notare che Dio ha deciso che non si cerchi più di incontrarlo come cercandolo al buio in una casa sconosciuta, ma si è svelato. Ha stabilito anzi un criterio tramite il quale «giudicare» il mondo. È probabile che gli ascoltatori pensino non tanto a un giudizio quanto a un vaglio (un setaccio, uno screening diremmo oggi), fatto da qualcuno che faccia comprendere che cosa nell’umanità è valido e che cosa no.

In ogni caso, Paolo deve arrivare a Gesù, peraltro non citandolo per nome. Di Gesù identifica soprattutto due cose. Quel «vaglio», quel setaccio che fa emergere quello che nella vita umana è degno di attenzione e rispetto e quello che non lo è, è un uomo. Non è per niente scontato. Si poteva pensare a una visione divina, al dono di un mistero svelato per scritto, a qualche miracolo. Invece no, è una vita umana, sicuramente particolare e straordinaria, ma pur sempre umana, soggetta a tutti i condizionamenti umani, dal nascere da una donna (Gal 4,4), al dover imparare a vivere, al sottostare a norme e convenzioni. È la sorpresa dell’incarnazione, dello scoprire che per Dio l’uomo è tanto importante che l’unico «metro» adeguato per dire quale possa essere una vita umana dignitosa è esattamente mostrarla in un uomo. Perché solo un Dio che non si vergogna dell’umanità può spiegare all’uomo come vivere bene.

Il secondo dato identificante è la risurrezione. Il che, a pensarci, è davvero coerente, perché se questa vita è il meglio che Dio possa pensare per l’uomo, non può darcela solo per pochi anni. Ma ciò andava contro i pregiudizi filosofici per cui nell’essere umano a contare è lo spirito, la mente, mentre il corpo è, nel migliore dei casi, insignificante e, nei peggiori, un ostacolo.

E quegli ascoltatori che avevano colto il messaggio di Paolo come un semplice passatempo, non sono disposti a lasciarsi mettere in discussione. Il discorso va contro i loro pregiudizi, per questo lo scherniscono e aggiornano la seduta a data da destinare. Un ascolto superficiale, disinteressato, per ammazzare il tempo, non cambierà mai la vita, e non farà mai andare in profondità. Non aiuterà certo a rendersi conto di aver perso un’occasione unica.

Esiti e bilancio (At 17,33-34)

Onestamente, non si può dire che sia andata bene. Ce lo fa capire Luca, che fa ripartire Paolo immediatamente da Atene, e stavolta senza che sia stato neppure perseguitato. Non ce n’è bisogno. Pare che questa superba sghignazzata degli ateniesi sia persino peggio dell’opposizione violenta che Paolo aveva già riscontrato tante volte.

Paolo ha dato sfoggio di un discorso sicuramente ben preparato e sapiente. Ma ha ottenuto solo una presa in giro. Da Atene se ne va a Corinto, ai cui abitanti, qualche anno dopo, scriverà che i greci cercano dei bei discorsi intelligenti, ma Gesù non si piega neppure a questi. Ecco perché nella comunità dei cristiani non ci sono tanti dotti o umanamente sapienti (1 Cor 1,20-31). «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2), stupido per coloro che cercano una divinità alla moda e fragile per chi cerca un Dio potente (1 Cor 1,22-23). Verrebbe da dire che Paolo ha imparato la lezione, e non ripeterà più un discorso come quello dell’Areopago.

Se vogliamo, anche questo è un frutto positivo: l’evangelizzatore ha imparato che conviene andare al cuore delle cose. Inoltre, nonostante il discutibile approccio di Paolo, le sue parole hanno fatto breccia in alcuni ascoltatori che hanno accolto il Vangelo: tra di essi una persona influente nell’Areopago, Dionigi, e una donna, Damaris (At 17,34). D’altronde, se Luca avesse pensato che questo discorso fosse stato completamente fuori luogo, non lo avrebbe riportato.

Sembra invece che l’autore degli Atti voglia suggerirci che è giusto e buono provare a sintonizzarsi con lo stile e i temi cari all’uditorio, ma senza aspettarsi troppo, cercando di non allontanarsi mai da quello che è comunque il cuore del Vangelo. E sapendo che, comunque, anche nei contesti meno adeguati ad accoglierlo, il Vangelo continua a parlare al cuore delle persone, e che alcune risponderanno.

Angelo Fracchia
(16-continua)




Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)

testo di Angelo Fracchia |


Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.

Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.

Nuovi collaboratori (At 16,1-5)

A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.

Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).

Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.

Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22).  Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.

Un viaggio tormentato (At 16,6-10)

Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.

Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).

Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.

Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».

Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.

In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.

Filippi (At 16,12-40)

Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.

Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).

Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.

Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.

Lidia e le altre donne

Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.

Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.

Frustati per Cristo

A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.

I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).

Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.

Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.

Altre tribolazioni

Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.

Angelo Fracchia
(15-continua)




La porta stretta

«Pregate bene, soprattutto adesso dopo la guarigione; guardate un po’, quasi tutte le comunità, qui a Torino, hanno avuto morti, da noi nessuno. Ringraziamo il Signore!».

Giuseppe Allamano


«Siamo in pieno sviluppo d’una malattia che non sanno né definire, né curare, ma fa, solo in Torino, centinaia di vittime al giorno. In altre città è peggio ancora… All’Istituto, con più di 100 persone, è quasi un miracolo che nessuno ne sia colpito, all’infuori di un sacerdote missionario che guarisce e partirà presto per l’Africa. Di comunità non colpite finora, come la nostra, il numero in Torino si conta tutto sulle dita di una sola mano.
Ringraziamo il Signore!».

È Giacomo Camisassa, primo collaboratore e amico del fondatore, a informare una missionaria della Consolata in Kenya, il 28 settembre 1918, sulle conseguenze a Torino dell’influenza «spagnola», che, tra il 1918 e 1920, uccderà decine di milioni di persone nel mondo.

Non vogliamo qui allinearci ai notiziari che ci bombardano ogni giorno con notizie sul coronavirus e le strategie per difenderci. Più semplicemente, vorremmo aggrapparci al ricordo del nostro fondatore che ha sperimentato, assieme ai suoi missionari e missionarie, la tragedia di una guerra «mondiale» e di un’epidemia che hanno scombussolato non poco il lavoro apostolico dei suoi due giovani istituti missionari. Le sue esortazioni a «pregare bene» e anche a «ringraziare il Signore», ci aiutano a ricordare alcune cose importanti, forse da noi sottovalutate. Per esempio, quella di «fermarci di fronte a Lui» (Sal 45, 11-12), riconoscendo che la presenza di Dio riempie ogni nostro istante e quindi soddisfa il nostro cuore, in qualsiasi circostanza o condizione ci troviamo. O che le vicende di questi mesi dovrebbero renderci più sensibili alle tante altre prove degli «altri» (popoli) che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza.

Ci ha scritto anche padre Stefano, successore dell’Allamano: «La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento, noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo, alla luce della Parola di Dio».

Riprendiamo, allora, il nostro faticoso cammino, smarriti o guariti, con coraggio, fiducia e… «Avanti, sempre, in Domino»!

Padre  Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Luigi Orione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Il rapporto tra il beato Giuseppe Allamano e san Luigi Orione (1872-1940) sembra che sia iniziato presto. Con tutta probabilità don Orione conobbe il nostro fondatore, rettore del santuario della Consolata, quando era allievo a Valdocco, presso i Salesiani, negli anni 1886-1889. Si sa che, in quel periodo, il giovane Orione si recava spesso al santuario della Consolata.

Reciproca collaborazione. Un’occasione importante per il rapporto tra i due uomini di Dio fu il terribile terremoto, che la mattina del 28 dicembre 1908 rase al suolo Messina. Avendo già una sua fondazione a Noto (Siracusa), don Orione andò subito in Sicilia e, a Messina, prestò una generosa opera di assistenza materiale e spirituale, tanto da essere nominato Vicario generale della diocesidal papa Pio X. Una sua iniziativa fu quella di costruire, davanti al cimitero, una chiesetta di lamiere dedicata alla Consolata, in suffragio delle 80mila vittime del terremoto. Per questa chiesa ottenne dall’Allamano il quadro della Madonna. Ecco come ne parla don Giuseppe Pollarolo in un articolo apparso sul bollettino del Santuario, in occasione della beatificazione di don Orione, dal titolo «Tre santi [Orione, Allamano, Pio X] e un quadro della Consolata»: «Il dramma di Messina diventava sempre più tragico. Cosa fare per confortare gli afflitti e per giovare ai morti? La sua mente corse a Torino, alle frequenti visite che faceva al santuario della Consolata quando era giovane allievo di don Bosco, ai conforti esperimentati ai piedi della Madonna e si persuase che Lei, soltanto Lei, la Madonna, la Consolata, poteva lenire tanto dolore e asciugare tante lacrime!

Era allora rettore del santuario della Consolata il beato canonico Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, nipote del venerabile, poi santo Giuseppe Cafasso. Don Orione si rivolse a lui pieno di fiducia (i santi fan presto ad intendersi), con la speranza di ottenere un quadro del tutto simile a quello in venerazione nel santuario di Torino. Il beato canonico Allamano lo accontentò subito mettendogli a disposizione il quadro richiesto». Questo quadro fu poi benedetto dal papa Pio X.

Il pensiero dell’Allamano sull’Orione.

Quello che Giuseppe Allamano pensava su don Orione si comprende chiaramente da ciò che disse dopo il primo vero incontro, di cui si ha notizia, documentato dal canonico Giuseppe Cappella sia al processo per la beatificazione di Allamano, sia nella relazione inviata in seguito agli Orionini in vista della beatificazione del loro fondatore: «Nei primordi del diffondersi del nome di don Orione negli ambienti della carità e delle moderne istituzioni religiose, un mattino si presenta nella sacrestia del nostro santuario della Consolata un sacerdote che, al primo aspetto, dà l’impressione di persona modesta e veneranda, non tanto per l’età ma pel portamento. Sentito il desiderio suo di parlare col rettore del santuario, il canonico Allamano, mi faccio premura di accompagnarvelo. Appena il rettore intese il nome del visitatore, ne fu come sorpreso, come di chi si trova improvvisamente avanti la persona di riguardo e di cui forse da tempo desiderava l’incontro. Il colloquio tra i due fondatori fu assai lungo.

E, siccome di don Orione già se ne era parlato tra noi sacerdoti del santuario, appena ci trovammo insieme raccolti nell’ora della refezione, mi presi la libertà di interrogare il nostro rettore quale impressione avesse riportata dalla visita di don Orione. Ed egli, quasi premuroso di farci conoscere un santo sacerdote, già tanto benemerito della Chiesa, subito rispose: “Don Orione mi ha fatto subito l’impressione di un uomo di Dio, investito del dono, della prerogativa di un vero ed autentico fondatore di un ordine religioso, che farà del gran bene nella Chiesa. Avendomi poi accennato don Orione a difficoltà, insorte già fin dai primordi della fondazione dell’opera sua, cercai di incoraggiarlo a continuare… ché, le difficoltà, le contraddizioni ed anche qualche incomprensione dei buoni, erano e saranno sempre il marchio delle opere di Dio. Tiriamo avanti, caro don Orione – gli dissi – nell’opera intrapresa, sicuri che il Signore, che ce l’ha affidata, non mancherà del suo aiuto, e avanti con la vicendevole promessa di preghiere per noi e per i nostri congregati, fidenti nella Divina Provvidenza e nell’aiuto della santissima Vergine, di poter fare un po’ di bene”».

Il pensiero di Orione su Allamano

La stima che don Orione aveva per il canonico Allamano la possiamo arguire da una minuta di lettera che lui stesso gli scrisse, o intendeva scrivergli, dopo la partenza dei primi missionari della Consolata per il Kenya (1902), in un momento molto critico della sua esperienza di fondatore: «Veneratissimo Signore e fratello nel nostro caro Padre e Signore Gesù Crocifisso, facciamo una cosa sola la casa della Consolata per le sante missioni e questa povera baracca? Perché mi pare che questa cosa sarà una consolazione per la Madonna, e così alcuni buoni soggetti e qualche buon chierico desideroso di andare alle missioni, ci andrebbe per mano della Madonna, e così io starei anche più tranquillo ed essi sicuri di andare bene. Dunque, o mio buon fratello, vi prego di pregare un po’ davanti alla Madonna e se vi pare che questa cosa sia nei disegni…». Non è certo se l’Orione abbia spedito questa lettera e neppure se intendesse fare una proposta di fusione o di collaborazione tra i due istituti. Unica cosa sicura che emerge dalla minuta della lettera è l’apprezzamento di don Orione per il nostro fondatore.

Concludo con quanto scrisse don Carlo Pensa, secondo successore di don Orione, nel 1954, nella lettera postulatoria per la beatificazione di Allamano: «I documenti provano che il rifiorire dell’ideale missionario del nostro fondatore don Orione risale al periodo in cui egli poté avvicinare a lungo il can. Allamano». Non c’è dubbio che san Luigi Orione abbia ammirato lo spirito missionario del beato Allamano e che da esso abbia ricevuto un impulso per sé e per la sua congregazione.

padre Francesco Pavese*

(*) Domenica 3 maggio, padre Francesco Pavese ci ha lasciati per il Paradiso. Con la sua predicazione e i suoi scritti, per lunghi anni ci ha fatto conoscere e amare il beato Allamano. Dal cielo, assieme al nostro fondatore, ha promesso di benedirci tutti. E, come lui desiderava, cantiamo il Magnificat in ringraziamento al Signore per la sua vita consacrata al servizio dell’Istituto e della Chiesa intera.


Giuseppe Allamano: ha fatto della sua vita un dono

Il 14 febbraio 2020, nel secondo giorno del triduo in preparazione alla festa del beatoGiuseppe Allamano, Loredana Mondo, laica missionaria della Consolata, insegnante elementare,
ha offerto la sua testimonianza sul significato della presenza dell’Allamano nella sua vita.

Anni fa, quando ho conosciuto le missionarie e poi i missionari della Consolata, mi sono chiesta che cosa ci fosse in loro che mi attirava e, in modo forse un po’ semplicistico, mi sono risposta l’accoglienza ricevuta e il sentirmi «casa» con loro.

In realtà, in questi anni di cammino di condivisione del carisma, mi sono resa conto che quegli aspetti che inizialmente mi avevano colpito, avevano delle radici molto più profonde della semplice cortesia. Il conoscere e il cercare di approfondire l’origine di tutto ciò, mi ha portata a scoprire la figura di un uomo che, ricevuto un grande dono dallo Spirito, ha fatto della sua vita un dono per gli altri.

È difficile riuscire a dare una definizione su chi sia per me il beato Allamano poiché, come uomo di Dio, racchiude in sé un grande tesoro che in questi anni mi si è rivelato un po’ per volta e che scopro sempre di più ogni volta che ho occasione di leggere qualcosa su di lui o posso sentire testimonianze di chi lo ha conosciuto o di chi vive il suo carisma.

Ci sono tre aspetti che mi colpiscono in modo particolare:

  • – lo sguardo sempre fisso in Dio
  • – l’accoglienza della persona e la capacità di agire
  • – lo spirito di famiglia.

Per il fondatore, il rapporto con Dio, con la Parola e con la Consolata erano centrali nella sua vita: questa sua grande confidenza e certezza che la sua vita fosse costantemente accompagnata e che l’Eucarestia fosse il suo punto di partenza e di arrivo per ogni cosa, era ciò che dava la giusta dimensione ad ogni suo atteggiamento, ad ogni sua scelta.  La sua familiarità con la Consolata poi era tale da coinvolgere la Madre di Dio in ogni sua scelta, anche quelle apparentemente più insignificanti, proprio come un figlio fa con una madre.

È dal suo sguardo sempre fisso in Dio, dal suo sentirsi consolato che nasce l’urgenza di portare l’annuncio di Cristo Figlio missionario del Padre, fino agli estremi confini della terra, con quello zelo di prima qualità per la salvezza delle anime che, come dice lui «viene dall’amore di Dio e solo dall’amore di Dio».

L’accoglienza della persona e la capacità di agire

Il beato Allamano sapeva lasciare nella memoria e nel cuore di chi lo incontrava un segno: una parola, un consiglio, un gesto, un sorriso, uno sguardo. Sapeva essere attento alla persona in tutti i suoi aspetti, sia quelli materiali che quelli spirituali. La stessa delicatezza che voleva dai suoi missionari era la stessa con cui lui si rapportava con le persone sia che fossero semplici lavoratori, sia che fossero persone con incarichi importanti.

Sapeva guardare le persone con gli stessi occhi con cui lui si sentiva guardato da Dio.

Prima di prendere una decisione, di dare un consiglio, di iniziare un progetto, ponderava tutto seriamente. «In tutti i momenti più decisivi della sua vita…, la norma seguita era questa: riflettere, pregare, consultare e poi agire con illimitata fiducia nel divino aiuto» (Lorenzo Sales).

Lo spirito di famiglia

Questo è un aspetto al quale il fondatore teneva molto e per il quale ha spesso speso parole molto concrete perché una comunità che vive lo spirito di famiglia è testimone credibile di quello che annuncia.

Come cristiani e ancor più come missionari, siamo chiamati ad annunciare il Vangelo con la nostra vita anche attraverso quei piccoli gesti di carità che sono segno dell’attenzione all’altro nella sua unicità.

Come dice San Paolo, siamo chiamati a vivere, a comportarci in maniera degna della nostra vocazione, come consacrati e come laici, cercando di conservare l’unità nello spirito perché una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione.

Tenere lo sguardo fisso in Dio, cercare sempre e solo la sua volontà, fare bene il bene senza rumore, l’attenzione particolare agli ultimi, sono alcuni degli aspetti che più mi colpiscono del carisma del fondatore e che cerco di vivere guardando all’esempio che lui mi ha dato con la sua vita.

Mi rendo sempre più conto che il mio lavoro di insegnante mi mette in una posizione in cui le relazioni umane sono predominanti e che in ogni situazione sono chiamata a dare una testimonianza coerente di ciò in cui credo. Non è sempre facile accogliere l’altro per ciò che è, ma il beato Allamano, come padre, mi insegna che attraverso quella premura e quell’attenzione verso l’altro posso rivelare l’amore di Dio.

In questo momento sento che il lavoro è la mia «terra di missione» principale, ma sento anche la necessità di vivere con uno sguardo attento alle realtà che a volte sembrano più lontane, ma che sono ormai sempre più vicine e interrogano il nostro stile di vita.

Loredana Mondo
(laica missionaria)




La grande decisione (At 15): diversi nella continuità

testo di Angelo Fracchia |


Luca ha preparato il terreno fin dall’inizio degli Atti degli Apostoli: Gesù si era mosso quasi solo all’interno dell’ebraismo, ma il cristianesimo è diventato ben presto qualcosa di diverso.

Di fronte alle accuse che sia stato Paolo a stravolgere la Chiesa, Luca s’impegna a dimostrare che fin da subito si sono oltrepassate le barriere religiose: eunuchi (At 8,27-38), samaritani (At 8,5-13), un centurione romano per opera di Pietro (At 10), fino ad arrivare ad Antiochia, dove l’annuncio del Vangelo era tanto indiscriminato da rendere evidente che quello cristiano era un movimento nuovo (At 11). I primi episodi narrati, erano casi eccezionali, quella di Antiochia era, invece, una situazione ordinaria, ma fino ad allora non ci si era ancora detti in modo esplicito quale strada prendere: se rimanere nell’ambito dell’ebraismo, oppure aprire la Chiesa a fedeli provenienti dal paganesimo.

L’occasione

Come spesso accade, la questione era già chiara da tempo, ma non si è affrontata finché non si è arrivati a litigare. C’erano, infatti, ad Antiochia, alcune persone provenienti da Gerusalemme (ossia dalla chiesa «madre»), che insegnavano che «se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati» (At 15,1). Non si trattava, ovviamente, solo di un «segno nella carne» che, per quanto fastidioso, si sarebbe comunque potuto anche sopportare, ma di un’adesione piena alla legge di Mosè, tradotta in quei 613 precetti che toccavano la morale, l’alimentazione, la preghiera e la vita sociale dei buoni ebrei (è possibile che al tempo non fossero ancora pienamente codificati in questo modo e in questo numero, ma l’approccio di fondo era già questo).

Il ragionamento di queste persone era comprensibile: Gesù era ebreo (circonciso), ha sostanzialmente rispettato la legge ebraica, soprattutto non ha mai detto di volerla abrogare (cfr. Mt 5,17), e se quella legge ora non restasse valida, significherebbe che tante generazioni di credenti ebrei avrebbero vissuto invano la propria fede. Se Gesù si è innestato nella tradizione dell’Antico Testamento, se non ha sconfessato la tradizione, quella era Parola di Dio e restava valida.

In fondo, altri gruppi ebrei pensavano che nessun pagano potesse entrare a far parte del popolo eletto, per cui la posizione di questi cristiani provenienti dall’ebraismo era già più aperta, in quanto ammettevano che, con la circoncisione e rispettando per intero la Legge, quei confini fossero porosi.

Chiarezza e novità

Paolo e Barnaba però hanno reagito violentemente (At 15,2): non si poteva chiedere la circoncisione a chi diventava cristiano. Le motivazioni sarebbero state espresse più chiaramente dalle lettere di Paolo, soprattutto ai Galati e ai Romani. Possiamo riassumerle così: in Gesù, Dio si è mostrato intenzionato a cercare la comunione con l’essere umano a qualunque costo, fosse anche a costo della propria vita e della propria rispettabilità (normalmente i crocifissi erano considerati maledetti da Dio). Le singole persone potranno rifiutare l’offerta di Dio, che rimane però definitiva. Affermare che sia necessario qualcos’altro perché quella comunione sia efficace, significa sostenere che l’intenzione di Dio, accolta dagli uomini, non è sufficiente. Ma se non basta quella, non c’è niente che basti! Dio invece ha donato gratuitamente questa salvezza all’essere umano, e l’unica reazione possibile da parte dell’uomo è fidarsi e accoglierla (Rom 3,20-24, ad esempio).

È chiaro che lo scontro emerso ad Antiochia era radicale, e non toccava soltanto l’organizzazione della Chiesa, come era accaduto a Gerusalemme con le vedove degli ellenisti (At 6,1-6), ma la sua stessa essenza teologica. La Chiesa doveva decidere che cosa essere: se uno dei tanti movimenti ebrei, o qualcosa di radicalmente nuovo, nato dal darsi di Dio in Gesù.

Sicuramente Paolo aveva presente la gravità del momento, ma con tutta probabilità questo valeva anche per i suoi «avversari».

Esterno del Cenacolo – foto AfMC

Discernimento nello Spirito

Luca non si limita a dirci che cosa è accaduto in quel momento storico così centrale per l’identità della Chiesa, quando Paolo e Barnaba sono andati a Gerusalemme per discutere della questione con i Dodici, ma probabilmente vuole anche suggerirci come si dovrebbe fare il discernimento nello Spirito.

Nella discussione, i protagonisti sono partiti dall’osservazione di ciò che lo Spirito aveva suscitato tra i non ebrei (At 15,4). Di fronte alla contestazione di «alcuni della setta dei farisei» (At 15,5: scopriamo così che si può continuare a essere innanzitutto farisei, prima che cristiani), la discussione, come prevedibile, si è fatta rovente, finché non è intervenuto Pietro.

A Gerusalemme, dove Pietro viveva, la guida della chiesa era Giacomo, «fratello del Signore» (cfr. At 12,17; Gal 1,19), ma Pietro era pur sempre la guida dei Dodici. Sembra proprio che Pietro sia intervenuto come «autorità morale», quasi come chi, senza detenere un grande potere, ha però un’autorevolezza rafforzata proprio dall’essere fuori dalle stanze che contano.

Il suo discorso è stato essenziale ed è andato dritto al punto: Dio ha dato lo Spirito Santo a tutti, in più, noi per primi non siamo stati capaci di rispettare la legge, quindi perché imporla agli altri, visto che non è indispensabile (At 15,7-11)?

A quel punto si è tornati a osservare le imprese compiute da Dio tra i «greci».

Infine Giacomo, il verosimile capo dell’ala «conservatrice», ha avanzato la proposta concreta di chiedere ai nuovi cristiani provenienti dal paganesimo non la circoncisione, ma il rispetto di quattro astensioni: dagli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue.

Una decisione difficile

In realtà, se il cuore della decisione è chiaro, i dettagli lo sono molto meno, cosa dimostrata dal fatto che questo medesimo episodio è narrato anche da Paolo in Gal 2,1-10, ma con particolari diversi.

Paolo racconta che «da parte delle persone più autorevoli – quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non guarda in faccia a nessuno [sbagliamo a cogliere un po’ di astio? nda] – non mi fu imposto nulla. […] Ci pregarono solo di ricordarci dei poveri» (Gal 2,6.10). Sappiamo, e lo vedremo nella lettura di Atti, che le relazioni di Paolo con la chiesa di Gerusalemme, chiaramente guidata da Giacomo, non sarebbero state idilliache neppure in seguito. Forse Paolo si aspettava che la guida della chiesa, e quindi anche di quell’incontro, spettasse a Pietro e non al «fratello del Signore», ma può essere più onesto dire che il tono irritato di Paolo si coglie pur non essendone esplicitamente chiaro il motivo.

È più interessante notare che quanto raccontato da Luca in Atti 15 non coincide con ciò che dice Paolo in Galati 2. La proposta di Giacomo riportata in Atti 15, infatti, non cita i poveri e parla però delle quattro condizioni negative, dei quattro «non si deve» che abbiamo citato sopra (cfr. At 15,20).

Le quattro condizioni

Per analizzare le quattro condizioni imposte da Giacomo ai nuovi cristiani, partiamo dalla quarta. Secondo l’Antico Testamento, il sangue è la sede della vita. Anche dopo che il creatore aveva concesso agli uomini e ad alcuni animali di cibarsi di carne per nutrirsi (Gen 9,1-4), aveva vietato però d’ingerire sangue, per mantenere la consapevolezza che ci si alimenta, sì, con carne di animali, ma non si diventa padroni della loro vita, che continua ad appartenere a Dio. Per questo motivo la modalità pura di uccisione di un animale era (e rimane per ebrei e islamici) di versare il sangue a terra, la quale appartiene a Dio: ciò che è di Dio, torna a Dio.

Possiamo forse spiegarlo così: ai cristiani non provenienti dall’ebraismo Giacomo chiede di tenersi lontano almeno da ciò che era particolarmente fastidioso per gli ebrei e che era facile da rispettare. Vivere da fratelli cristiani insieme, infatti, voleva anche dire condividere la mensa (eucaristica, che comprendeva anche un vero pasto).

L’astensione dagli animali soffocati si può spiegare con il fatto che essi, evidentemente, avevano ancora il sangue al loro interno, quindi ricadiamo nel primo caso dell’astensione dal sangue, anche se potremmo già obiettare che non era necessariamente e sempre semplice capire come era stato ucciso un animale.

Che cosa sia l’«impudicizia» (porneia, vedi Mt 19,9) non è chiaro: c’è chi spiega che erano alcuni comportamenti sessuali, oppure particolari legami matrimoniali (cfr. 1Cor 5,1), o forse altro ancora. Accontentiamoci di riconoscere che c’era un vincolo in più.

Conosciamo invece gli idolotiti (la carne rimasta dai sacrifici agli idoli, ndr). La grandissima maggioranza delle forme religiose del mondo antico (compreso l’ebraismo) prevedevano di sacrificare animali agli dei. Di solito la carne sacrificata veniva in parte bruciata sull’altare, in parte mangiata da chi la offriva (come banchetto di comunione con la divinità), in parte lasciata ai sacerdoti. Questi ne consumavano un po’, ma ovviamente ne avanzavano, e non aveva senso conservarla, dal momento che il giorno dopo altri avrebbero offerto sacrifici. Di solito, quindi, la rivendevano: il ricavato veniva utilizzato per le necessità del tempio pagano, in più, essendo carne arrivata in dono, poteva essere rivenduta anche a prezzi bassi. Ecco che chi viveva o passava da quelle parti poteva comprare questa carne, di buona qualità, a basso prezzo e, in più, in qualche modo «santificata» dal passaggio nel tempio. Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, nota che quella era solo carne (gustosa ed economica), ma che alcuni «deboli nella fede» potevano pensare che i cristiani più istruiti, comprando quella carne, volessero «tenersi buoni» anche gli dèi che pure dicevano non esistere. Se c’è il rischio che alcuni cristiani più consapevoli, i quali sanno che non c’è differenza tra la carne sacrificata a dèi che non esistono e carne normale, provochino confusione nei cristiani più semplici mangiando carni sacrificate, afferma l’apostolo, piuttosto si astengano del tutto da tale carne (1 Cor 8).

Una volta approfonditi i quattro divieti, capiamo che il cuore della decisione presa dalla Chiesa a Gerusalemme non sono essi, ma il fatto che chiunque può diventare cristiano senza prima diventare ebreo, senza la circoncisione, senza rispettare la legge di Mosè. Restano dei vincoli, più che altro formali, ma l’ostacolo principale è rimosso.

La decisione e le sue ragioni (teologiche e no)

Luca è talmente sicuro della centralità di questa decisione che ne fa il punto di svolta degli Atti, a metà circa della sua opera: da qui in poi, infatti, sembra dimenticarsi della chiesa di Gerusalemme. Citerà Giacomo ancora in Atti 21,18, ma senza parlare più di Pietro né dei Dodici. A questa svolta tendeva tutta la costruzione della narrazione fin qui, da qui si riparte. D’altronde, se la chiesa non avesse intrapreso questa strada, sarebbe rimasta uno dei tanti gruppi, più o meno aperti, numerosi e significativi, che facevano parte del mondo ebraico. E si era trattato di una decisione che Gesù non sembrava aver suggerito, perlomeno non esplicitamente. Si era davvero mosso lo Spirito Santo.

In questa decisione centrale per la vita della chiesa, peraltro, lo Spirito non ha violato la libertà degli uomini. I capi della chiesa, Paolo, Barnaba, gli anziani, sono stati chiamati a collaborare, ad aprire gli occhi, a capire (persino nella fatica e nei litigi…). Senza l’azione dell’uomo, Dio non può agire. Tanto che il «decreto» firmato da Giacomo afferma, non per orgoglio, ma in verità, «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…» (At 15,28): lo Spirito non decide senza l’uomo.

Ma proprio perché si tratta di uomini che pensano, e poiché gli uomini sono condizionati dalla propria storia, cultura e caratteri, Giacomo fa una mossa finissima: non si limita a dire che i frutti dello Spirito hanno già mostrato che Dio vuole questa apertura, ma aggiunge una citazione di Am 9,11-12 (in At 15,15-18), in cui si lega la ricostituzione della tenda d’Israele con l’omaggio a Dio da parte dei non ebrei. Non è un caso che gli ebrei solitamente dicessero che gli «altri» dovessero rispettare solo i comandamenti «di Noè», che sostanzialmente si incentravano sul rispetto della vita. I quattro precetti imposti ai cristiani «greci» ricordano quelli che si chiedeva di rispettare ai «forestieri», a coloro che, in tempi antichi, risiedevano nel territorio d’Israele. Giacomo, insomma, strizza l’occhio anche ai suoi di Gerusalemme, ai cristiani provenienti dall’ebraismo, suggerendo che l’apertura nei confronti dei convertiti dal paganesimo mantiene al centro il mondo ebraico rendendolo soltanto più ampio e ricco.

Noi intanto scopriamo che tensioni, persino scontri, e addirittura limiti e trucchi, fanno parte della Chiesa fin dagli inizi, e non impediscono allo Spirito Santo di agire.

Angelo Fracchia
 (14-continua)




Promessa di presenza


Ti sei mostrato a noi vivo. Dopo la tua passione e morte, ci sei apparso per quaranta giorni (At 1,1-11). Ci hai visitati mentre eravamo in quarantena, per debellare insieme a noi il virus dell’angoscia della morte. E ci parlavi delle cose del Regno. Non del regno che noi speravamo, un regno giusto e sapiente, ma umano, e quindi effimero, instabile. Ci parlavi del Regno di Dio. Quello della vita eccedente, dell’acqua che zampilla in eterno, della luce che disperde le tenebre, dell’amore che è più forte della morte.

L’ultimo giorno, quando noi ci sentivamo di nuovo in forze, pronti a riprendere la strada con te, come prima, tu ti sei seduto a tavola, come avevi fatto nell’ultima cena prima del tuo arresto, e ci hai chiesto di non muoverci da Gerusalemme. Almeno finché non fossimo stati battezzati in Spirito Santo. Solo allora, infatti, la tua presenza in corpo, legata a un luogo, si sarebbe tramutata in presenza in spirito, legata alle nostre vite capaci di spargersi nel mondo. Solo allora la nostra forza riacquistata sarebbe stata di aiuto, e non di ostacolo, alla nostra debolezza, vero veicolo della tua salvezza per tutti «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».

Mentre ci parlavi così, sei stato elevato in alto, e una nube ti ha sottratto ai nostri occhi. Ed ecco che due uomini in bianche vesti ci hanno scossi: «Perché state a guardare il cielo? Gesù tornerà e troverà la fede sulla terra grazie a voi».

Ci siamo messi in attesa, pronti a lasciarci riempire di Spirito, e a realizzare con Lui, in ogni luogo e in ogni tempo, la Tua promessa di presenza: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Buon tempo di Pasqua, da amico

Luca Lorusso

Titoli dei pezzi in Amico

  • Chi è il missionario (Biabbia on the road)
  • La Parola, unica speranza (Parole di corsa)
  • Querida amazonia. Un sogno sociale (Amico mondo)
  • Comunità missionaria di Villaregia (Amico mondo)
  • Modjo per chi ha bisogno (Progetto Etiopia)

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Sognando e annunciando

Inserto a cura di Sergio Frassetto |


Originale, poetica e… breve! Così si presenta l’Esortazione apostolica post sinodale «Querida Amazonia», che ci fa intravedere i quattro «sogni» di papa Francesco sull’amata Amazzonia. Leggendo e gustandone gli appassionati paragrafi, colpiscono alcune affermazioni che, pur rivolte ai popoli della grande foresta, insaporiscono – rinvigorendola – la vocazione missionaria di tutta la Chiesa.

Così, ad esempio: «Di fronte a tanti bisogni e tante angosce che gridano dal cuore dell’Amazzonia… come cristiani non rinunciamo alla proposta di fede, che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti, fianco a fianco, non ci vergogniamo di Gesù Cristo. Per coloro che lo hanno incontrato, vivono nella sua amicizia e si identificano con il suo messaggio, è inevitabile parlare di Lui e portare agli altri la sua proposta di vita nuova» (n. 62).

Se diamo la nostra vita per gli altri, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio che li ama infinitamente. «Senza questo annuncio appassionato, ogni struttura ecclesiale diventerà un’altra Ong, e quindi non risponderemo alla richiesta di Gesù Cristo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura”» (n. 64).

Il papa, poi, invita a non «bollare con troppa fretta come paganesimo o superstizione, alcune espressioni religiose che nascono spontaneamente dalla vita della gente».

Il beato Giuseppe Allamano lo aveva anticipato di «qualche anno», quando ai suoi primi missionari in Kenya, un po’ troppo zelanti a condannare danze e riti indigeni, scriveva: «Letto il diario, vedo che il missionario si scagliò contro i goma (balli)… Per carità, si vada adagio, come qui tra noi per il ballo, sebbene sia più cattivo. Dobbiamo dissimulare il male, perché è impossibile ora vincere la cosa e sarebbe di pregiudizio alla conversione il combatterlo di fronte».

Sarà proprio grazie all’inculturazione del Vangelo, fatta con rispetto e senza fretta, che «potranno nascere testimonianze di santità con volto amazzonico, che non siano copie di modelli da altri luoghi; santità fatta di incontro e dedizione, di contemplazione e di servizio, di solitudine accogliente e di vita comune, di gioiosa sobrietà e di lotta per la giustizia… Immaginiamo una santità dai lineamenti amazzonici, chiamata a interpellare la Chiesa universale» (n. 77).

Avanti, allora, su questa strada come cristiani, tanto più come missionari: sarebbe triste che i poveri e i dimenticati non ricevessero da noi «il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto».

padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e G. Alberione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Tra Giuseppe Allamano e Giacomo Alberione (1884-1971), il fondatore delle Famiglie Paoline, nonostante una differenza di 33 anni di età, sorse una buona intesa sacerdotale. Espressamente ne parla anche padre Candido Bona, missionario della Consolata e storico riconosciuto: «I suoi contatti con l’Allamano, di persona e per lettera, non si limitarono a casi sporadici, per quanto di particolare importanza, ma rivestirono il carattere di vera direzione, dalla quale attingeva lumi soprannaturali, conforto e direttive. La cosa desta ammirazione, se si tiene presente che l’Alberione risiedeva ad Alba e non a Torino».

Reciproca collaborazione. Probabilmente la collaborazione tra i due uomini di Dio si espresse soprattutto negli incoraggiamenti dell’Allamano all’Alberione per la fondazione della Pia Società di S. Paolo. Fu una collaborazione speciale, che dimostrò la stima e la fiducia reciproche. Non c’è dubbio che l’Allamano si fosse reso subito conto che il progetto dell’Alberione era una vera ispirazione che proveniva da Dio. Fu lo stesso Alberione, parlando in terza persona, a confidare come l’Allamano lo avesse incoraggiato fin dall’inizio. In una bella testimonianza inviata da Alba il 29 gennaio 1933, in vista della prima biografia che si stava scrivendo sull’Allamano, scrisse: «So di un sacerdote [non c’è dubbio che si tratti dell’Alberione stesso] che ricorse al can. Allamano prima di ritirarsi dalla santa opera di zelo a cui stava intento [in quel periodo era direttore spirituale del seminario], per consacrarsi ad altre opere cui un interno movimento di grazia sembrava invitarlo [cioè la comunicazione sociale attraverso la stampa]. L’Allamano sentì e pregò: poi rispose con poche, ma decisive parole. Il caso era difficilissimo, ma le prove di una ventina d’anni gli diedero del tutto ragione. Eppure, bisogna dire che in quel momento erano molti i pareri contrari». Questa testimonianza è confermata dallo stesso Alberione in un incontro con padre Giuseppe Caffaratto: «Lei è della Consolata, dell’Istituto del canonico Allamano. Io conservo sempre tanta riconoscenza al canonico Allamano perché agli inizi della mia congregazione, mentre quasi tutti i sacerdoti mi erano contrari e mi dicevano: “Pianta lì, con i tuoi giornali e la tua stampa!”, lui mi diceva: “Vai avanti, vai avanti!”. E mi fu di grande incoraggiamento».

Il pensiero dell’Allamano sull’Alberione.

Non si possiede documentazione scritta su questo punto, ma è facile intuire la stima dell’Allamano per l’Alberione dal fatto, come si è detto, che fu uno dei pochi a sostenerlo per la fondazione dei Paolini. Dai frequenti incontri a Torino, quando l’Alberione veniva appositamente da Alba per consultarlo, certamente l’Allamano si rese conto del valore di quel giovane sacerdote. Ecco perché lo sostenne sempre e lo incoraggiò, dandogli opportuni consigli. È lo stesso Alberione a rivelare quanto l’Allamano gli suggeriva.

Il pensiero dell’Alberione sull’Allamano.

Sulla stima che l’Alberione aveva per l’Allamano non ci sono dubbi. In un’omelia ai chierici ad Alba nell’autunno del 1924 disse: «Volete incontrare dei santi viventi? Andate a Torino e visitate il canonico Allamano e don Rinaldi; andate in Liguria e troverete padre Seteria; spingetevi in Sicilia e ancora potete incontrare il canonico Di Francia». Sapeva individuare i santi senza sbagliarsi.

Così inizia la testimonianza, citata sopra, del 29 gennaio 1933: «Stimavo e stimo come santo il can. Allamano; seguii il suo consiglio in momenti importanti e me ne trovo contento; anzi ai chierici io riporto spesso il suo esempio, nelle esortazioni e meditazioni».

L’Alberione si dilunga a riportare diverse espressioni dell’Allamano, da lui ascoltate, che lo hanno impressionato per la loro semplicità e concretezza.

Eccone alcune: «Diceva ad un giovane sacerdote: “Lavorare al confessionale, nella predicazione, nella scuola; ma prima riservare il tempo necessario per l’anima propria. Vi sono persone che si rendono inutili, per sé e per gli altri, col troppo fare per gli altri, trascurando se stessi; spesso mi vidi costretto a chiudere la stanza e non rispondere, e declinare inviti ad opere buone… per riservare il tempo per la preghiera, lo studio…”. Al superiore di un Istituto religioso diceva: “Se volete gli istituti religiosi fiorenti, fate una porticina per entrarvi, un portone per uscire; cioè assicuratevi bene della vocazione vera prima di accettare; quando poi non danno prove chiare, licenziate con coraggio”.

Era ammirabile il suo intuito e la sicurezza del suo giudizio; quando andavo da lui non mi lasciava finire di parlare, gli bastavano poche parole, rispondeva con semplicità, brevità e sicurezza tali che infondeva coraggio ad operare e pace di spirito. Avevo sempre l’impressione che in lui fosse qualche cosa di più che l’ordinario lume; tanto più che sempre vidi nella pratica essere stato buono il suo consiglio. Ciò parecchie volte si è ripetuto.

Lo osservavo con diligenza tutte le volte che ebbi occasione di avvicinarlo: ritenendo prezioso ogni momento che potessi vederlo: la sua presenza mi sembrava un libro parlante, una regola; mi pareva spargesse un po’ di quella grazia che certamente portava nel cuore, perché mi pareva che ogni suo atto, ogni sua parola, persino gli atteggiamenti e i movimenti più trascurabili fossero ispirati a quello spirito soprannaturale, tanto Egli viveva di fede e sempre padrone di tutto se stesso: parole, disposizioni, sensi, azioni.

Il can. Allamano parlava con semplicità; non si turbava se altri diceva diversamente e anche se il suo consiglio veniva messo da parte, lasciando la cura di tutto alla Provvidenza. Come parlava per motivo di carità, così per motivo di carità taceva: conservando l’indifferenza dei santi anche riguardo le cose più delicate, o che toccavano più direttamente la sua persona».

In data 4 marzo 1943, dieci anni dopo avere mandato la sua prima testimonianza, l’Alberione scrisse al postulatore della causa di beatificazione dell’Allamano che lo aveva nuovamente interpellato: «Ho ancora esaminato diligentemente l’attestazione scritta da me e data a suo tempo. Non ho da togliere o da aggiungere altro».

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su «Missioni Consolata» di gennaio. In questo numero ne pubblichiamo la seconda e ultima parte.

Il quarto capitolo è la «perla» della tesi sull’Allamano, scritta con passione dalla signora Emanuela Costamagna, e va considerato come una spinta in avanti.

L’autrice esamina dal punto di vista teologico alcuni degli aspetti più importanti individuati nei primi tre capitoli e fa emergere che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico.

Tuttavia, pensando che il suo scopo era formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario, ha insistito su alcuni aspetti particolari portando delle sue originalità che potrebbero racchiudersi nelle sue stesse parole: «amare e farsi santi è la stessa cosa».

Alla fine della tesi c’è un’interessante conclusione. Ecco qualche tratto ripreso alla lettera: «Al termine del percorso che mi ha portato alla stesura di questa tesi, posso dire che, sebbene già conoscessi la figura del beato Allamano e alcuni missionari e suore della Consolata, ho avuto la possibilità di approfondirne il carisma e il pensiero.

Nel corso della tesi ho avuto modo di analizzare come maturò il suo carisma ricevuto dallo Spirito e quali novità introdusse con le sue riflessioni. Anzitutto si può constatare che l’Allamano fondava il suo pensiero su solide basi: da una parte il messaggio del Vangelo con il suo annuncio della salvezza portata da Cristo e del ruolo di corredentrice di Maria e dall’altra una importante attenzione al prossimo, mettendo insieme il comando di Cristo “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19) con quello di “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,38).

L’Allamano trasferì la sua grande attenzione per il prossimo nello spirito dei missionari. La sensibilità che richiedeva verso gli indigeni era molto particolare, portava avanti delle istanze che al suo tempo non erano sempre comprese da tutti. Sicuramente la fede che richiedeva doveva essere vissuta pienamente nella vita pratica attraverso le opere, perché era conscio che in missione una scuola, un ospedale, un orfanotrofio avrebbero fatto del bene agli indigeni e preparato la strada alla conversione. Ecco perché insisteva sulla necessità di elevare l’ambiente.

Anche la valorizzazione dei sacerdoti e dei catechisti locali, da lui fortemente sostenuta, ebbe come base la necessità di far crescere una Chiesa con pastori e collaboratori originari del luogo, il che è uno dei fini della missione e, oggi, di estrema attualità.

Come si è visto, l’Allamano pur non essendo un innovatore, sicuramente fece delle riflessioni e diede delle direttive ragguardevoli e talvolta coraggiose per il suo tempo e che, ancora oggi, costituiscono lo spirito dei membri dei due istituti. Iniziando da quel piccolo gruppo di due sacerdoti e due fratelli coadiutori partiti per il Kenya nel 1902, ora i missionari e le missionarie della Consolata operano in Europa, Africa, Asia ed America.

Ciò che ho potuto constatare, avendo anche visitato parecchie loro missioni in Africa e in America Latina ed avendo vissuto un anno e mezzo in una missione in Etiopia, è che lo spirito e gli insegnamenti che l’Allamano impartiva sono ancora attuali e seguiti».

L’autrice della tesi, oltre che per la serietà dello studio, va lodata per la stima e la fiducia nell’Allamano. Questa è la confidenza fatta al missionario cui si riferiva, all’inizio del lavoro: «La mia tesi sarà buona perché fatta con rispetto verso l’Allamano che a me ha dato tanto! Potevo avvicinarmi ad altri istituti, per andare in missione. Ma il mio cuore ha scelto la casa madre di corso Ferrucci e l’Allamano. Per cui glielo devo al caro Beato, e mi impegno a fare meglio che posso la tesi su di lui». Un particolare molto significativo: durante la discussione della tesi la signora Emanuela, ogni volta che nominava l’Allamano, lo chiamava sempre «Fondatore», manifestando, forse senza accorgersene, il suo sincero legame con lui.

Il piccolo gruppo che ha accompagnato la signora Emanuela durante la discussione era formato dal marito Fabio e due figlie (Elia,
il bimbo di un anno e mezzo è rimasto con i nonni), dai genitori, alcuni amici e missionari. Al termine della difesa, rientrati nella sala, si attendeva l’esito con curiosità, non disgiunta da comprensibile apprensione. Il presidente ha pronunciato queste parole:
«Il giudizio unanime della commissione
è che la tesi ha le seguenti qualità: accuratezza, profondità, ampiezza. Votazione: 30 lode!». L’applauso felice e fragoroso è scoppiato istantaneo. (Fine)




Santi nella “Casa comune”


Nel Sinodo per l’Amazzonia, celebrato lo scorso ottobre e i cui echi arrivano ancora fino a noi in questo inizio d’anno, la riflessione per la preghiera di lunedì 14 ottobre, è stata proposta dall’arcivescovo di Florencia (Colombia), mons. Omar de Jesús Mejía, sul tema: «La nostra missione: essere santi».

All’inizio del suo discorso, il vescovo ha ricordato che, il 3 ottobre, visitando la tomba del beato Giuseppe Allamano, a Torino, era rimasto colpito dalla scritta: «Prima santi e poi missionari». Rientrato a Roma, era poi stato invitato a commentare la Parola di Dio: «Sii santo per me, perché Io sono santo, sono il Signore, che ti ha separato dagli altri per essere mio» (Lv 20, 26).

In quel contesto di preghiera sinodale, Mejía ha spiegato: «Siamo qui, perché vogliamo discernere l’attività missionaria della Chiesa, in Amazzonia. Chiediamo la forza dall’alto per capire che, senza la grazia di Dio, ciò che facciamo sarà inutile o innocuo, mentre la grazia è sempre edificante e salutare. Dio ci ha scelti per essere qui, in questo “momento vitale”, per essere luce e speranza oggi, in Amazzonia e, da lì, nel mondo. Come chiesa missionaria, siamo in Amazzonia non a scopo di lucro, né per devastarla e goderne le ricchezze, ma per condurre lo stile di vita di Gesù, per “guarire i cuori affranti”. È normale essere criticati, perché molte persone non capiscono la nostra missione. Come persone consacrate dobbiamo essere la terra di Dio e questo ci insegna a rifiutare la vita senza Dio. Come missionari, dobbiamo compiere la nostra opera con un senso di eternità. Non lavoriamo, non ci stanchiamo, non diamo la nostra intelligenza e volontà a Dio per essere applauditi, ma per la cura della “casa comune”, l’Amazzonia, e come “servitori inutili”. Alla Beata Vergine Maria, Madre della Speranza – ha concluso l’arcivescovo – affidiamo questa nuova settimana di discernimento nel Sinodo e ricordando: “Prima santi e poi missionari”» (Beato Giuseppe Allamano).

Che bello è stato sentir risuonare, nella variegata e poliglotta assemblea sinodale, il nome e le parole più caratteristiche del nostro beato fondatore, ricordate da un vescovo dell’Amazzonia, amico dei missionari della Consolata. Parole di augurio e di speranza, per questo anno di grazia che abbiamo appena iniziato…

Padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e L. Murialdo:

l’amicizia tra sacerdoti santi

L’Allamano ebbe la fortuna di vivere in un periodo in cui, nella diocesi di Torino e in altre del Piemonte, fiorirono diversi sacerdoti dei quali oggi la Chiesa  riconosce ufficialmente la santità con l’onore degli altari o la cui causa di beatificazione è già avanzata.

L’Allamano ebbe contatti, a volte vera amicizia, con molti di loro ed è interessante constatare che tutti, senza eccezione, dimostrarono una profonda stima per l’Allamano, riconoscendo in lui un vero uomo di Dio.

Stessa profonda stima era ricambiata dall’Allamano per ognuno di essi. Qualcuno disse che i santi riescono a individuarsi anche da lontano, ed è vero.

In questa rubrica, durante il 2020, riporto i giudizi o i gesti di apprezzamento reciproci tra l’Allamano e alcuni santi sacerdoti.

Leonardo Murialdo

Inizio questa carrellata con San Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore dei Giuseppini. Tra lui e l’Allamano c’era una buona conoscenza come pure una sincera stima, nonostante la differenza di 23 anni di età. Qualche biografo del Murialdo pone l’Allamano addirittura nell’elenco dei suoi «amici».

Il pensiero dell’Allamano sul Murialdo

Durante il Congresso Mariano (8-12 settembre 1898), celebrato a Torino, erano presenti e attivi sia il Murialdo che l’Allamano. Fa piacere sapere che, per alcuni giorni, questi due uomini di Dio, abbiano lavorato assieme per promuovere il culto di Maria SS. Forse di lì iniziò una più profonda conoscenza e un certo rapporto di stima tra i due.

Non c’è dubbio che l’Allamano ritenesse il Murialdo un santo. Ciò risulta soprattutto dal fatto che fu lui a incoraggiare i Giuseppini a iniziare la causa canonica per la beatificazione del loro fondatore, come attesta il suo secondo successore don Eugenio Reffo: «Il canonico Giuseppe Allamano confortando alcuni dei nostri confratelli nella dolorosissima perdita, espresse un suo intimo pensiero, che al teologo Murialdo si sarebbe col tempo fatto il processo ed esortò a raccogliere con diligenza tutte le memorie che si possono avere di lui, compendiando in una sola frase il suo elogio, con dire di lui quello che si disse di don Giuseppe Cafasso: era uomo straordinario nell’ordinario».

Nella prima sessione del Capitolo generale del 1906, lo stesso don Reffo, dopo avere affermato che la tomba del Murialdo era visitata dai Giuseppini, aggiunse: «Ci andarono una volta i missionari della Consolata, e ricordo con filiale orgoglio che quel venerando uomo che è il canonico Giuseppe Allamano disse a quel prode drappello di apostoli: “Un giorno questa salma uscirà da questa tomba per essere venerata!”».

Nelle sue memorie autobiografiche, don Reffo illustrò meglio l’esortazione dell’Allamano per iniziare la causa del Murialdo: «Me ne spiegò il modo, le pratiche da farsi, la facilità dell’impresa, e tanto seppe dire e farmi premure, che io compresi essere ormai volontà di Dio che ci mettessimo all’opera, e subito, tornato a casa, ne parlai col mio superiore don Giulio Costantino, che aderì pienamente, e acconsentì che si muovessero le prime pedine».

Il pensiero del Murialdo sull’Allamano

Non c’è dubbio che anche il Murialdo abbia molto apprezzato l’Allamano. Lo dimostrano alcune sue parole pronunciate in situazioni particolari. Anzitutto riguardo il giornale diocesano, che sorse a Torino nel 1876, intitolato «Unioni Operaie Cattoliche» per iniziativa di un gruppo di laici, sostenuti dal teologo Leonardo Murialdo, che di questioni operaie era molto esperto. Il giornale doveva essere il collegamento delle varie Unioni operaie cattoliche, ed essere non solo per gli operai, ma anche redatto da un operaio. Questo redattore fu il sig. Domenico Giraud (1846-1901), cattolico fervente, che era segretario della conceria del sig. Pietro De Luca. Con il tempo, però, il Giraud non fu più in grado di impegnarsi nel giornale, soprattutto per il lavoro pressante come segretario della conceria. Quando il Giraud sembrava deciso a chiudere, il Murialdo, secondo il suo biografo Armando Castellani, prima lo incoraggiò e, in seguito, come sotto una particolare ispirazione, si aggrappò ad un’ancora di salvataggio dicendo: «Perché non sentire il consiglio del canonico Allamano?». Lo stesso Castellani ne spiega così la ragione: «Era l’Allamano, rettore del santuario della Consolata, un fervido sostenitore della buona stampa, delle Associazioni operaie cattoliche. Egli godeva della più alta stima tra i cattolici torinesi», concludendo: «L’intervento dell’Allamano e l’interesse continuo e vigilante del Murialdo salvarono “in extremis” il giornale».

Questo provvidenziale intervento dell’Allamano fu così spiegato dal can. Giuseppe Cappella suo stretto collaboratore al santuario della Consolata: «Al fondatore del giornale sig. Giraud, che nel mese di novembre (1889) gli annunciava di dover egli sospendere la pubblicazione del giornale, perché soverchiamente occupato nella direzione della Conceria De Luca, l’Allamano disse di ripassare la sera del sabato seguente. Ritornò infatti il Sig. Giraud. L’Allamano intanto aveva dato convegno anche al sig. Giacomo De Luca, e quando li ebbe tutti e due insieme, disse al proprietario: “Qui il sig. Giraud si lamenta di dover cessare la pubblicazione del giornale, perché troppo occupato nella conceria; faccia così: metta un segretario per la conceria che lo aiuti nelle sue mansioni, e il sig. Giraud pubblicherà il giornale, invece che ogni quindici giorni, ogni settimana”. E così fu fatto». Il Murialdo non si sbagliò suggerendo di ricorrere all’Allamano.

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano:

fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

Di tesi sull’Allamano l’istituto ne possiede molte fatte da missionari o missionarie della Consolata. Questa è la prima e, per ora, l’unica presentata da una persona laica. Per di più, da una mamma che, all’inizio del lavoro della tesi, era in attesa del terzo figlio. Tenuto conto di tutto ciò, la tesi assume un significato particolare.

Per comprendere il motivo che ha spinto la signora Emanuela ad affrontare un tema di questo genere, basta ascoltare come lei stessa si è presentata alla commissione dei professori il giorno della difesa: «Questo elaborato è nato da un mio forte desiderio, coltivato negli anni, per la missione “universale”. Già nell’elaborato per la tesi triennale avevo sviluppato questo tema, concentrandomi su un piccolo aspetto del pensiero del beato Giuseppe Allamano.

Questo vivo interesse per la missione è nato in giovane età e mi ha portato a vivere esperienze nelle missioni dei missionari della Consolata. La più lunga è durata un anno e mezzo ed è stata vissuta con mio marito presso la missione di Gambo, in Etiopia, dove abbiamo avuto la gioia di vivere al fianco dei missionari e delle suore e condividere lo spirito del fondatore, sentendoci come in famiglia.

Lo scopo della mia tesi magistrale è stato provare ad analizzare come si è formato il carisma dell’Allamano e il suo pensiero teologico missionario, da quali fonti può aver attinto, a chi si è ispirato, in che modo le sue idee siano state influenzate dal contesto storico sociale da lui vissuto e in particolare come le sue idee siano state trasmesse ai suoi missionari. Questo tipo di studio non è stato ancora effettuato nell’istituto per cui rappresenta un po’ una novità.

«Non ho analizzato lo sviluppo storico del suo pensiero, ma identificato e affrontato alcune tematiche per lui importanti. Per poter fare questa attività, ho preferito utilizzare e valorizzare principalmente le fonti primarie: le conferenze ai missionari e alle suore missionarie, che sono durate dall’inizio della fondazione dei due istituti fino alla sua morte; quelle ai sacerdoti convittori, le lettere che inviava e riceveva dalle missioni e i diari che i missionari erano tenuti a scrivere e consegnare all’Allamano. Sicuramente la possibilità di utilizzare le fonti primarie mi ha permesso di andare al cuore del suo pensiero, di poter lavorare direttamente sulle sue parole, cosa che non sarebbe stato possibile utilizzando fonti secondarie, anche se non sono mancate».

La tesi, dopo l’introduzione, è divisa in quattro capitoli. Nel primo è analizzato il rapporto dell’Allamano con il magistero della Chiesa, sia con i sommi pontefici che con i suoi vescovi. Rapporto di comunione, fedeltà e obbedienza. Questa parte è stata fondamentale per conoscere la personalità dell’Allamano.

Il secondo capitolo sposta lo sguardo verso l’apertura dell’Allamano all’universalità della salvezza. Come la vita di un sacerdote diocesano, vissuto sempre all’ombra del santuario della Consolata, sia stato capace di guardare al di là dei confini della propria diocesi. Si è potuto analizzare quali fossero i punti fermi dell’Allamano sulla missione: l’annuncio del Vangelo, la formazione di chiese locali, e la promozione umana, in vista della salvezza delle anime.

Nel terzo capitolo viene precisata l’identità dei missionari secondo l’Allamano, esaminando e dando una risposta a domande come queste: qual era il suo pensiero sulla vocazione sacerdotale e vocazione missionaria? Perché considerava la vocazione missionaria come “la migliore?”. C’erano differenze tra la vocazione missionaria dei sacerdoti, delle suore, dei fratelli coadiutori? Quale identità missionaria voleva trasmettere? E come la trasmetteva? Perché dava un senso mariano all’evangelizzazione? Qual era la sua idea di santità per un missionario?

Nei primi tre capitoli, fondamentali per inquadrare storicamente e analizzare bene il suo pensiero, è anche effettuata una prima analisi teologica, ma è poi nel quarto capitolo che, sulla base dei primi tre, sono considerati alcuni degli aspetti più importanti e si sono esaminati dal punto di vista teologico. Ne emerge che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché egli viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico. Ha portato sicuramente delle sue originalità, ha insistito su alcuni particolari aspetti, pensando che il suo scopo fosse formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario. Il suo pensiero si potrebbe racchiudere nelle sue stesse parole: «Amare e farsi santi è la stessa cosa».

Fine della prima parte


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Il sapore dell’amore di Dio


L’inserto di questo numero è completamente dedicato alla cara memoria di padre Gottardo Pasqualetti, scomparso il 20 ottobre scorso, postulatore delle cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani. È un piccolo segno di gratitudine a un missionario che, con Sapienza e passione, ha arricchito la nostra conoscenza e il nostro amore per il nostro beato fondatore. Come abbiamo fatto già altre volte in passato, anche in questo numero ospitiamo alcune
sue parole.

Il sapore dell’amore di Dio

Per Giuseppe Allamano, la dolcezza e la mansuetudine sono virtù indispensabili per tutti coloro che devono trattare con il prossimo; e vi ritorna spesso nelle sue lettere ed esortazioni ai missionari e missionarie. Così, tra i ricordi ai partenti, raccomandava sempre la «mansuetudine», unica virtù di cui Gesù dice specificamente di imitarlo, invitando a farne un proposito da rinnovare ogni mattina. Per lui, la dolcezza e la mansuetudine sono indispensabili per tutti coloro che operano con la gente, soprattutto con i poveri, i piccoli, i «diversi». Questo ha poi una ricaduta nell’attività apostolica, perché quella del missionario è una spiritualità di presenza, con rapporti personali e attenzione all’altro, in totale disponibilità e spirito di condivisione.

Alle missionarie diceva che dovevano avere «un cuore largo verso i fratelli», «cuore magnanimo per ogni miseria umana», «cuore pieno di amore per Dio». Ad alcune, in partenza per l’Africa, raccomandava: «Lasciate il sapore dell’amore di Dio dovunque andrete, ma ancor più del prossimo».

È anche una delle caratteristiche della beata suor Irene, e mirabile è la sua dedizione caritatevole verso tutti, soprattutto i più bisognosi, dedicandosi agli altri con affetto materno, con bei modi, rispetto, delicatezza, dolcezza e affabilità, senza fare distinzioni.

I missionari e missionarie cresciuti a fianco dell’Allamano, hanno conservato scolpito nel cuore il suo ricordo, perché avevano viva coscienza di aver trovato in lui «un vero padre, tutto amore per i figli», «un amato, amatissimo padre», così da avere per lui stima, confidenza piena, totale apertura di cuore, fiducia incondizionata, ritenendo la sua parola espressione della volontà di Dio.

Ma per riassumere «in pillole» tutto ciò, occorre ricordare almeno tre must (come si chiamerebbero oggi), da lui indicati: «Sincerità e confidenza; dolcezza e bontà; contatti personali». Mentre per l’impegno personale di ognuno, vi è un’altra sintesi, stilata da suor Irene: «Spirito di carità operosa, di pietà e di dolcezza. Ecco tutto!».

Un tutto che è il «nostro distintivo», «lo stampo».

padre Gottardo Pasqualetti


«Speciale, frizzante, libero»

Aveva 84 anni, padre Gottardo Pasqualetti, quando ci ha lasciati, il 20 ottobre scorso. Diventato missionario della Consolata con la prima professione religiosa nel 1957, fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1962.

Realizzò la sua vocazione missionaria sempre in Italia e quasi sempre a Roma, dove fu membro della Congregazione vaticana per il Culto Divino, insegnante di liturgia, per 40 anni, alla pontificia Università urbaniana, segretario generale dell’Istituto, formatore e superiore delle nostre comunità in Italia.

Ma fu soprattutto postulatore per le cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani.

La sua vita e il suo intenso lavoro lasciano una traccia profonda nella comprensione del carisma missionario dei nostri due Istituti, con un dilatarsi di «conoscenza e riconoscenza» verso colui che ci è padre e maestro di vita.

Frammenti di una vita

Prof. Erich Schmid,
decano della Facoltà di Teologia

Roma, 1° maggio 1992Reverendissimo Superiore Generale, sto cercando un nuovo docente per la liturgia latina. Avendo scoperto che p. Gottardo Pasqualetti, membro del Suo benemerito istituto missionario, ha le qualifiche necessarie per poter insegnare in una facoltà teologica S. Liturgia, vorrei oggi rivolgermi fiduciosamente a Lei e chiederLe di aiutarci, permettendo al suddetto padre di far parte del corpo docente della nostra facoltà. Siccome padre Pasqualetti ha studiato alla Puu e sta già insegnando nel Corso di aggiornamento alla medesima università, e conosce quindi già bene il nostro ambiente «urbaniano» che accoglie studenti da tutte le parti del mondo, ed essendo membro di un Istituto missionario, il Rettore magnifico, p. Daniele Acharuparambil, e il sottoscritto lo riterrebbero proprio adatto per tale incarico…


padre Gottardo Pasqualetti

Carissimi missionari della Regione Italia, giunto al termine del mio mandato, pensavo di chiudere in silenzio, cosa che più si avvicina all’atteggiamento di Maria. Ma da Lei apprendo pure che occorre avere cuore riconoscente. Ed è uno dei sentimenti che mi accompagnano in questi giorni. Con semplicità, ma sincerità, desidero esprimere il mio ringraziamento. Anzitutto, per l’accoglienza.

Sono venuto nella Regione nove anni fa, in modo assolutamente inaspettato e per me sorprendente, senza conoscere direttamente la situazione, e forse con qualche preconcetto e, pure per questo, con tremore. Ho incontrato subito una fiducia che mi ha rincuorato e continuo a conservarne un grato ricordo, anche se soltanto ora lo esprimo.

Il contatto più diretto con la realtà viva dell’Istituto ha fatto crescere in me la convinzione sul valore e l’attualità dei principi ispiratori e degli insegnamenti del nostro Padre Allamano. Capisco quanto sia pertinente la sua intuizione carismatica di un Istituto che abbia per principio la «unità di intenti» e quanto sia vero che si lavora invano se si va per conto proprio, costruendo sé stessi, più che un progetto di Istituto e di Missione. È il mio augurio e la mia preghiera.


Alessandro e Orazio
(parrocchia di Onigo -Tv) per i 40 anni di vita sacerdotale

Nell’itinerario della vita di padre Gottardo, emerge con forza e da sempre la sua grinta gioviale, vivace, profonda e intensa… Il suo pensiero teologico e pastorale ha la profondità e la ricchezza dei grandi Padri. Professore di materie liturgiche nelle facoltà pontificie di Roma, non ha fatto di questa sapienza l’unico centro di una vita, ma ha saputo andare oltre, immergendosi nelle più svariate competenze di pastore, superiore, formatore, postulatore con la propria famiglia religiosa e non solo; senza mai staccarsi dall’impegno e nella donazione verso i fratelli con una solida e costante preghiera. Con tutto questo sa costruire il braccio orizzontale della sua croce nel servizio missionario, quel saper fare organizzativo che serve a fare il bene… bene! Come il suo maestro il beato Giuseppe Allamano ha tramandato.

La capacità di p. Gottardo è quella di saper dosare e usare con particolare armonia ed equilibrio voluminosi libri, calici preziosi, preghiere profonde, uniti ad una capacità insolita di ascoltare e farsi ascoltare, con la saggezza di un «vero maestro di vita». Questo modo di essere lo rende un personaggio speciale, frizzante, libero, con la battuta sempre pronta e soprattutto sempre disponibile in ogni emergenza, sapendo donare fiducia e facendo aumentare la speranza nell’ambiente in cui si trova, in un vero abbandono alla grazia e alla volontà di Dio, senza riserve.

Auguri P. Gottardo, ti siamo tutti vicini con il cuore e la preghiera.


padre Piero Demaria
(ai funerali del 23 ottobre 2020)

Nel ricordo, nel pensiero, nell’affetto, chi è già partito per l’aldilà continua a vivere. Mi dicevano che p. Gottardo, quando celebrava qui, nel suo paese, la sua voce tuonava in chiesa ed era bello ascoltarlo, perché sapeva andare all’essenziale. Il nostro fondatore era solito dire, parlando ai giovani in formazione, battendo quattro dita sulla fronte: «datemi questo!». I più lo interpretavano come: «Datemi la vostra volontà e accettate l’obbedienza», ma qualcuno, più acuto, interpretava quel gesto come: «Datemi la vostra intelligenza, cioè mettete la vostra testa a servizio della missione, non usatela per diventare ricchi e potenti, ma mettetela a servizio dei popoli del mondo»… E questo, p. Gottardo lo ha fatto. È stato un grande missionario perché ha saputo amare le persone e il suo lavoro. Normalmente, siamo abituati ad associare alla parola «missione» la partenza per terre lontane, la condivisione della vita con i popoli; p. Gottardo è vissuto quasi sempre in Italia; eppure la sua attività, la sua passione, il suo insegnamento hanno lasciato un segno. Giovane studente all’università Urbaniana, era stato chiamato per lavorare alla riforma liturgica, dopo il Concilio, e aveva sostenuto la necessità di tradurre i testi liturgici, in modo che la gente potesse ascoltare il Vangelo nella propria lingua. Ma tutto ciò non era scontato, anzi, molti si erano anche opposti, eppure, p. Gottardo e gli altri che lavoravano con lui sono andati avanti, senza paura. Per 40 anni ha insegnato all’università Urbaniana a studenti provenienti dai cinque Continenti. Con il suo impegno, senza lasciare l’Italia, ha fatto del bene a tutti…

«Influencer» di santità

E così, anche padre Gottardo Pasqualetti ci ha lasciati improvvisamente in questo infelice tempo del coronavirus che ci aveva portato via, pochi mesi fa, un altro «esperto» dell’Allamano, padre Francesco Pavese (che abbiamo salutato proprio da queste pagine). Se ne è andato in punta di piedi, lasciando col cuore gonfio di tristezza la famiglia dei missionari e missionarie della Consolata, che ne rimpiangono l’intensa vita, tutta dedicata alla Liturgia e all’insegnamento, ma soprattutto alla postulazione della causa del nostro padre fondatore e della nostra sorella Irene Stefani.

E, avendo celebrato, proprio il 7 ottobre scorso, il trentesimo anniversario della beatificazione dell’Allamano, sfogliando l’album di quella festa di famiglia del 1990, non possiamo, ora, non soffermarci, con nostalgia, su una immagine nella quale padre Gottardo, proprio in veste di postulatore, salutava e ringraziava, a nome nostro, il santo papa Giovanni Paolo II.

Postulatore, o meglio, «Influencer»

Brillante nella sua intelligenza, padre Pasqualetti (Dino, per gli amici) era riuscito a svolgere numerosi e importanti incarichi di responsabilità, che sembravano ritagliati su misura proprio per lui; incarichi che lui caratterizzò con la sua straordinaria capacità di lavoro e da doti non comuni: professore di vasta e profonda cultura liturgica; oratore capace di incantare con la sua travolgente parola; «segretario» o presidente di assemblee, che riusciva a disincagliare dalle secche della discussione con la sua capacità di sintesi, «colorata» da un’ironia furba e mirata; missionario (ahimè, solo in patria) dallo sguardo lungimirante e realista al tempo stesso…

Doti e doni profusi soprattutto nel suo incarico di «Postulatore generale», anche se pochi, forse, sanno chi sia e cosa faccia un postulatore. Per usare, allora, un termine più alla moda (in inglese, come sempre!), potremmo definire padre Pasqualetti come «Influencer» (!), cioè «un professionista dotato di carisma, autorevolezza, competenza, capace di “influenzare” e convincere il suo pubblico» (così si legge nel dizionario delle «nuove professioni»). Per capirci: il giovane Carlo Acutis, beatificato pochi mesi fa, ad Assisi, è stato definito, in alcuni titoli di giornale, «L’influencer di Dio».

E chi, meglio di padre Pasqualetti, con tutto il suo bagaglio di straordinarie doti potrebbe essere ricordato come «influencer di santità»? Colui che ha saputo «scaldare il cuore» di tanti, in un settore di cui era diventato specialista: quello della santità, o meglio, di «santi e beati» concreti, come l’Allamano, Irene Stefani, o gli altri quattro «servi di Dio», candidati alla gloria degli altari e di cui seguiva la causa.

Trasformato… dai santi

Fu, dunque, postulatore in due differenti periodi (1989-2002 e 2014-2016), quando riuscì a offrire ai missionari e missionarie della Consolata l’immensa gioia della beatificazione del loro fondatore, che egli non solo ammirava con amore appassionato, ma di cui aveva talmente assorbito le sfumature di santità, da saperle trasfondere agli altri, raccontando e scrivendo di lui in mille modi e nelle occasioni più diverse. Un discepolo, trasformato e arricchito dalla frequentazione quotidiana di colui che aveva scelto come maestro e padre.

La stessa cosa avvenne con l’avvicinamento, la scoperta e lo studio di suor Irene Stefani (beatificata in Kenya, il 23 maggio 2015), come ci ha raccontato madre Simona, superiora generale delle missionarie della Consolata, alla notizia della scomparsa di padre Pasqualetti: «Aveva svolto questo compito di postulatore non solo con competenza, precisione, attenzione, costanza e dedizione, ma con vero amore, passione e tanta, tanta fraternità. Ha aiutato i due istituti a riscoprire e valorizzare la figura di Irene e l’espressione del nostro carisma in lei, con tratti così propri e originali. Ha non solo studiato Irene, ma ha camminato con lei, l’ha incontrata e da lei si è lasciato trasformare. Era evidente la relazione di autentica prossimità tra padre Pasqualetti e suor Irene: quando lui la nominava, si illuminava, si appassionava e non avrebbe mai finito di parlarne. La fede, la tenacia, la convinzione di padre Pasqualetti hanno contribuito grandemente e in modo decisivo al riconoscimento sia delle virtù eroiche della beata Irene, sia dell’autenticità del miracolo di Nipepe, che ha aperto la porta alla sua beatificazione. Lo abbiamo visto, padre Pasqualetti, durante la beatificazione, a Nyeri: felice, radioso, commosso, grato… contagiava gioia a chi lo incontrava!

Quando già la malattia faceva sentire i suoi effetti, ricordo un incontro con lui in Casa generalizia Imc a Roma: al nominargli suor Irene, padre Gottardo si animava tutto, cominciava a parlarne, a ricordarne le parole, i gesti, l’evento della beatificazione… e lo faceva con viva partecipazione e gioia: Irene era nel suo cuore e lui, certamente, nel cuore di Irene!».

Il traguardo

È bello, allora, continuare a ricordare padre Pasqualetti che, affascinato dalla santità di Giuseppe Allamano e di suor Irene, ne fu così trasformato, da diventarne un vero influencer, presentandoli come un grande dono che Dio ha fatto alla sua Chiesa, alla missione e ai popoli del mondo.

E ora che i suoi occhi hanno cominciato a scoprire, senza più bisogno di meticolose ricerche o processi canonici, il volto sorridente dell’Allamano, non mancherà, senz’altro, di chiedergli una piccola spinta, «un aiutino», perché dalla «penultima tappa» del suo lungo e sofferto cammino verso la santità, possiamo presto arrivare all’ultima, al traguardo, perché lui, il nostro amato Fondatore, possa entrare nella gloria (ufficialmente riconosciuta) dei santi del cielo.

padre Giacomo Mazzotti

 




La parabola del Malcapitato


Quando mi sono alzato per metterti alla prova, non pensavo che la prova sarebbe stata più mia che tua. «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?», ti ho chiesto (cfr Lc 10,25-37). Tu hai girato la domanda a me, e io ho sfoggiato la mia sapienza: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto te stesso, e il tuo prossimo».

Volevo mostrare a tutti chi fosse il vero maestro tra me e te, ma tu non ti sei difeso dal mio attacco e, anzi, mi hai elogiato.

Hai ribaltato i nostri ruoli con la tua mitezza. Mi hai disarmato con la tua accoglienza.

Quando poi ti ho chiesto, per giustificarmi, «e chi è mio prossimo?», e tu hai iniziato a raccontare la storia del
Samaritano che aiuta l’uomo malmenato dai briganti,
sapevo già dove volevi arrivare: il mio prossimo è il malcapitato.

Per ereditare la vita eterna, quindi, devo amare il Signore Dio mio e aiutare i malcapitati, gli ultimi, le vedove, gli oppressi, i malati.

Niente di nuovo sotto il sole. Lo faccio già.

Ma quando sei arrivato alla fine del racconto, mi hai spiazzato: mi hai chiesto di mettermi nei panni dell’uomo malcapitato e di dirti chi fosse, secondo me, il suo prossimo. Non chi fosse il prossimo del Samaritano, ma dell’aggredito. Hai ribaltato di nuovo i ruoli, hai messo sotto sopra le prospettive.

Ed ecco la vertigine: per ereditare la vita eterna amerò il Signore e il mio prossimo mettendomi nella prospettiva del malcapitato, dell’uomo insufficiente, non del benefattore, di quello che basta a se stesso. In questa prospettiva amare l’altro e amare Dio non è mia iniziativa, ma risposta alla loro presenza. Da malcapitato posso riconoscere che non nasco da me stesso e non mi curo da solo, ma è l’altro che mi fa essere e mi fa vivere; che non vengo da me stesso e non mi salvo da solo, ma posso accogliere e vivere un amore che mi precede e che forma il mio orizzonte.


In questi mesi estivi di incontri, campi missionari, vacanze, immersione nel creato, preghiera, mettiamoci nella prospettiva giusta.

Buon cammino, da amico

Luca Lorusso


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