Quando quel giorno ti sei fatto vicino, e mi hai condotta nel deserto, ho avuto paura.
Ti servivo da tempo e mi consumavo per te, ma tu sapevi che io servivo anche altri.
E io sapevo che tu eri geloso.
Mi hai portata nel punto più arido e lontano dalla vita, dove nessuno mi avrebbe cercata.
Lì la desolazione mi avrebbe uccisa prima della sete.
Lì ti sei fatto più vicino, e hai parlato al mio cuore (cfr. Osea 2,16-25).
Mi hai sedotta. Inaspettatamente. Mi hai sviata, portata via dalla mia strada, e mi hai mostrato che quel deserto attorno a me, era in me. Ero io.
Avevo temuto che mi avresti abbandonata alla sete, signore oscuro e dagli umori imprevedibili, ma in quel deserto mi hai riportata alla vita, mi hai riportata a me. A te.
Ti chiamavo padrone, e mi sono insabbiata in un deserto privo di punti di riferimento.
Ora tu mi chiamavi «mia sposa» e desideravi sentirti chiamato «marito mio, mio sposo».
Ti credevo lontano, ti cercavo come una serva il suo padrone, in attesa di retribuzione, ma tu hai superato le mie barriere, hai ritrovato i sentieri che io avevo confuso perché nessuno mi raggiungesse, e ora i miei frutti abbondano.
Hai sposato la mia vita, Signore, la mia condizione. Sei nato uomo come me, e hai rivelato che ogni uomo è degno di te.
Hai sussurrato al mio cuore con il vagito di una voce di bimbo, con il respiro affannato di un uomo morente e, inerme, mi hai sedotta con la tua inermità. Amante, mi hai rivelato la tua presenza di salvezza in ogni situazione, anche la più lontana da te.
Mi hai liberato dalla condizione servile e hai rinnovato per sempre la nostra alleanza d’amore. Ora ogni uomo potrà smettere di firmarsi Non-amato, Non-popolo-tuo. Ora ciascuno può sentire la tua voce chiamarlo: Mio amato, Popolo mio.
Ho ritrovato la mia identità. E tu sei mio Dio.
Nel deserto di questo tempo, zampillante d’acqua viva, buon cammino di Avvento, buon Natale e buon anno nuovo da amico
Luca Lorusso
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Paolo il romano (At 22,22-26,32)
Testo di Angelo Fracchia |
Ogni scrittore vuole intrattenerci ma soprattutto comunicarci qualcosa. Un saggista lo farà con argomenti, un romanziere, se è bravo, lo farà con suggestioni.
Luca è un bravo scrittore. Solo che nel Vangelo e nei primi due capitoli degli Atti aveva tenuto quasi sempre un po’ imbrigliato il suo genio, rinchiudendosi in formule e in uno stile narrativo che alle orecchie dei lettori non poteva che ricordare il mondo ebraico. Aveva infatti copiato lo stile con cui era stata tradotta in greco la Bibbia. Dal terzo capitolo degli Atti in poi, però, la sua lingua ha iniziato a essere più elegante, raffinata, e il racconto a farsi più articolato, avvincente. Più greco. Poco alla volta, Gerusalemme, che era diventata centrale alla fine del Vangelo e lo era rimasta all’inizio degli Atti, è diventata sempre più marginale, è stata citata sempre meno.
Luca, infatti, voleva comunicarci soprattutto due idee, peraltro collegate tra loro: che il movimento cristiano si era aperto ai non ebrei su stimolo dello Spirito Santo (e non per invenzione di Paolo), e che, pur nascendo da un mondo biblico che non avrebbe mai rinnegato, era però slanciato per raggiungere i confini del mondo (Lc 24,47; At 7,8). La prima parte della tesi Luca l’ha chiarita nei primi 14 capitoli degli Atti. Dal capitolo 15 in poi, quello che sembrava semplicemente una conseguenza (l’annuncio di Paolo ai non ebrei), ha preso sempre più il centro della scena. E ormai, al capitolo 22, è chiaro che Paolo resterà il protagonista fino alla fine.
Colpo di scena (At 22,22-30)
Siccome Luca sa scrivere bene, e ha una cultura greco latina che ci assomiglia più di quanto ci assomigli quella semita, alcuni dei suoi «allestimenti scenici» non sfigurerebbero nel nostro stile narrativo cinematografico.
Avevamo lasciato Paolo nel tempio, accusato ingiustamente di blasfemia e salvato dalla guarnigione romana, il cui centurione aveva già deciso di trattarlo come un qualunque agitatore di popolo, interrogandolo sotto tortura per sapere che cosa avesse combinato (At 22,24). La flagellazione era pena pesante, ma usata normalmente negli interrogatori dei potenziali «terroristi». Paolo ha però un asso nella manica. A sorpresa, svela di essere cittadino romano.
Durante il primo secolo d.C., la cittadinanza romana era appannaggio non solo degli italici (dall’89 a.C.) ma anche degli abitanti di alcune città privilegiate, di chi aveva prestato per vent’anni il servizio militare, o aveva aiutato lo stato romano in qualche modo. La cittadinanza, ereditaria, permetteva di essere trattati molto meglio di altri. La flagellazione, ad esempio, come la crocifissione, era una punizione che non si poteva infliggere a cittadini romani. E chi avesse imposto una punizione ingiusta, avrebbe subito la medesima punizione.
Si capisce, quindi, la paura del centurione e del comandante, quando Paolo svela di essere cittadino romano, e fin dalla nascita (22,25-28).
Paolo, d’un tratto, guadagna importanza e attenzione, che spiegano i privilegi di questo prigioniero speciale.
Il colpo di scena cambia anche la nostra attenzione su Paolo. Lo avevamo conosciuto ebreo persecutore di cristiani (8,1), abbiamo assistito alla trasformazione del suo nome (13,7: «Saulo, detto anche Paolo»), ora scopriamo che quel nome latino non era un soprannome casuale. Senza accorgercene, voltiamo le spalle a Gerusalemme e guardiamo al Tevere.
Drammatica sfida giudiziaria (At 23,1-11)
Ciò che Luca racconta sulla vicenda di Paolo suona a volte imprevisto ma sempre verosimile. La prima mossa di un comandante romano di fronte a un possibile agitatore politico, in effetti, sarebbe stata di interrogarlo (con tortura, era normale). Paolo si svela cittadino romano, e questo complica il quadro, anche perché le accuse sono di tipo religioso. Tendenzialmente i romani si disinteressavano di religione, a meno che avesse ricadute politiche. Ma per capire se in questo caso ce ne sono, devono sentire i capi del tempio. Ed è ciò che il comandante fa: interroga Paolo (senza tortura, il prigioniero è speciale) davanti al sinedrio.
E qui Paolo compie un gesto di rottura che, prima di lui, con la stessa gravità, era stato osato soltanto da Stefano con il suo discorso contro il tempio (At 7). Rimprovera infatti il sommo sacerdote (23,2-3), scusandosi per il fatto di non sapere chi sia (sarcasmo aggravante). Paolo infatti ammette che secondo la legge non bisogna insultare il capo del popolo (23,5), ma è chiaro che in questo contesto a guidare il popolo è Anania, anche qualora Paolo non lo conosca (il che pare improbabile). Questa risposta che sembra di scuse, in verità, sottintende che Paolo non riconoce Anania come guida, rompendo quindi nettamente con quella tradizione giudaica con cui fino al giorno prima Paolo sembrava voler scendere a patti. Ormai l’apostolo è difeso dai soldati romani, e, dopo aver tentato per anni di accordarsi con l’autorità religiosa ebraica, se ne distacca.
Complotti e fuga (At 23,12-33)
La reazione ebraica, cioè il complotto per uccidere a tradimento Paolo, ci può sembrare eccessiva, ma probabilmente non lo è. Un uomo di grande carisma, con un’ottima preparazione teologica, ha appena contestato in modo radicale l’autorità del sinedrio. Dal punto di vista ebraico, merita la morte, ma sono i romani a detenerlo, e il sinedrio non può quindi fare niente, se non cercare di ucciderlo a tradimento durante un trasferimento. Se morissero anche dei romani, dimostrandosi tra l’altro inaffidabili, tanto meglio.
A questo punto Luca inserisce un altro colpo di scena. Scopriamo infatti che Paolo a Gerusalemme ha una sorella, il cui figlio viene a sapere della congiura. Non è raro che Luca inserisca le informazioni solo quando servono. I bravi narratori riescono a farlo senza che sembri una forzatura (i narratori meno abili ci offrono tutte le informazioni all’inizio, e quando servono non ce le ricordiamo più). È sicuramente a motivo della cittadinanza romana che Paolo può ricevere in carcere dei familiari, mandarli dal centurione ed essere immediatamente trasferito a Cesarea Marittima, insieme a metà della forza armata disponibile ai romani. Il comandante ha capito che per questo personaggio il sinedrio è disposto a rischiare, ma non ha ancora capito perché, e quindi decide di proteggerlo. Inoltre, i soldati inviati a Cesarea possono essere di ritorno in due giorni.
A margine e implicitamente, Luca può suggerirci un sorriso e una lacrima. Quaranta ebrei giurano di non mangiare né bere finché non avranno ucciso Paolo… che però a sorpresa è fornito di una scorta insuperabile: non si saranno per caso condannati a morire per non aver saputo infliggere una morte? L’altra annotazione è un silenzio abbastanza sorprendente. Paolo gode di condizioni di detenzione evidentemente morbide, eppure non si dice mai che sia visitato da qualche fratello cristiano, come invece accadrà a Roma (At 28,30-31). Luca non calca la mano sulle mancanze dei credenti, ma è pronto a lasciarle intuire. Offre il quadro ideale di una chiesa, ma sa bene che imperfezioni e difetti restano sempre presenti. Sembra quasi dire anche a noi di puntare a una chiesa perfetta, ma senza pretenderla: neppure quella degli apostoli lo era!
A corte a Cesarea (At 23,34-24,27)
Non stupisca che si parli di corte. Certo, i governatori romani non erano re, rendevano conto all’imperatore e potevano essere deposti da un momento all’altro. Ma intanto, vivevano una vita quotidiana non molto diversa da quella di un re orientale, come Luca ci fa intuire tratteggiando i vari personaggi in tinte coerenti con ciò che ne dicono gli scrittori antichi.
Si parte dal governatore Felice, che abbozza non tanto un processo, quanto un’audizione informale per capire se avviare un procedimento vero e proprio. Ad accusare Paolo arriva un tale Tertullo (il nome è latino: cosa si diceva sull’intento di far dimenticare Gerusalemme?), apparentemente avvocato di mestiere, che inizia lodando Felice, per poi tentare un’accusa abbastanza mal concepita; la replica di Paolo procede liscia finché il suo discorso, da storico e filosofico, arriva a chiedere impegno da parte di chi ascolta (24,25). A quel punto Felice lo ferma. È un governatore che anche le altre fonti antiche ritengono inaffidabile: infatti, secondo Luca, il processo a Paolo non viene avviato né l’apostolo viene liberato perché Felice spera in qualche mazzetta per lasciarlo andare (24,26). Sappiamo che al termine del suo mandato, verrà poi chiamato a Roma per spiegare diversi difetti della sua gestione, ma alcuni giudei intercederanno per lui e non verrà punito. Forse l’annotazione perfida di Luca (24,27) non è campata in aria.
L’ultimo re giudeo (25-26)
A Felice succede il nuovo governatore, Festo, il quale cerca innanzi tutto di sciogliere i casi che si sono accumulati, e per questo ascolta Paolo. Evidentemente non trova nessun fondamento per le accuse politiche (altrimenti i romani non avrebbero avuto scrupoli a punirlo) e, sentendo che le dispute sono religiose, vorrebbe rimandarlo a Gerusalemme (25,9), anche come gesto di lusinga nei confronti degli ebrei che è appena arrivato a gestire. Di fronte al pericolo del viaggio e di un nuovo processo a Gerusalemme, Paolo taglia definitivamente i ponti e si appella al tribunale di Cesare. È un privilegio degli ebrei, quello di poter essere giudicati da tribunali ebrei, ma per Paolo sarebbe un rischio; i cittadini romani, a loro volta, possono in ogni momento appellarsi a Cesare, così da essere processati a Roma, dove i giochi di potere delle province non contano nulla. Non ci si può ritirare da un appello del genere: i romani sono particolarmente severi nei confronti di chi muove accuse e poi le lascia cadere. A Roma, quindi, Paolo andrà.
Non prima, però, di incontrare Agrippa e Berenice. Erode Agrippa II è un nipote di Erode il Grande, cresciuto a Roma e tenuto dai romani in un’alta considerazione che pare si sia abbondantemente meritata. C’è chi dice che se non fosse nato troppo tardi avrebbe potuto riprendere in mano lui la provincia di Giudea, evitando la rivolta del 66. Luca ce ne offre un ritratto altrettanto lusinghiero (26,3, ad esempio). Benché anche lui abbia sposato sua sorella, dopo che lei era già stata moglie di un altro (e più tardi avrebbe avuto un terzo marito), e sebbene il loro arrivo (25,23) ricordi per sfarzo e contesto il banchetto nel quale si decise la sorte di Giovanni Battista (Mc 6,21-22), Agrippa e Berenice ascoltano con attenzione l’ultima delle grandi autodifese di Paolo. Se Festo, digiuno di cose ebraiche, alla fine del discorso esplode in un «Sei pazzo, Paolo: la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24), Agrippa non si espone, come si conviene a un politico, ed è molto più rispettoso. Paolo, in realtà, tenta di coinvolgerlo con una domanda volta a fargli prendere posizione, dal momento che Agrippa conosce bene i profeti e può valutare la bontà del suo discorso (26,25-27). La risposta del re è una battuta diplomatica: «Ancora un poco e mi convinci a diventare cristiano!» (anche se l’interpretazione di questa frase abbastanza difficile potrebbe essere un po’ diversa). Così dicendo però ammette implicitamente che il discorso di Paolo ha senso, coerenza e correttezza.
E l’ultima parola registrata negli Atti da parte di un governante in Palestina è chiara: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare» (26,32). Con una narrazione avvincente e facilmente leggibile, Luca ribadisce che Paolo non è colpevole, e chiarisce che ormai la prossima tappa sarà Roma.
Angelo Fracchia (19-continua)
Botta e risposta
È ormai passato anche il mese di ottobre, un mese missionario vissuto e celebrato in questo strano e confuso tempo di pandemia non ancora debellata, che ha scombussolato la vita non soltanto di qualche gruppo umano più sfortunato, ma di tutto il mondo. E capire che cosa Dio ci sta dicendo in questo tempo prolungato di disagio diventa una sfida anche per la Missione della Chiesa.
Nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020, papa Francesco scriveva: «La malattia, la sofferenza, la paura, l’isolamento ci interpellano. La povertà di chi muore solo, di chi è abbandonato a sé stesso, di chi perde il lavoro e il salario, di chi non ha casa e cibo ci interroga… E siamo invitati a riscoprire che abbiamo bisogno delle relazioni sociali, e anche della relazione comunitaria con Dio. Lungi dall’aumentare la diffidenza e l’indifferenza, questa condizione dovrebbe renderci più attenti al nostro modo di relazionarci con gli altri. E la preghiera, in cui Dio tocca e muove il nostro cuore, ci apre ai bisogni di amore, di dignità e di libertà dei nostri fratelli, come pure alla cura per tutto il creato».
In questo contesto, ritorna allora, provocante, la domanda che Dio ci rivolge: «Chi manderò?», e che attende, ovviamente, una risposta generosa e convinta: «Eccomi, manda me!» (Is 6, 8). Dio sembra non stancarsi di cercare chi inviare alle genti «per testimoniare il suo amore, la sua salvezza dal peccato e dalla morte, la sua liberazione dal male».
La chiamata alla missione diventa, allora, più incalzante in questo tempo e, mentre ci spinge a farci carico della sofferenza e della paura di tanti nostri fratelli, «guarisce» anche noi, «facendoci passare dall’io pauroso e chiuso, all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé». Il Beato Giuseppe Allamano era talmente entusiasta della vocazione missionaria, da farlo quasi «straparlare», quando diceva ai suoi missionari: «Considerate pure le varie vocazioni con cui una creatura può legarsi a Dio e non ne troverete una più perfetta della vostra. Il Signore per voi ha come esaurito il suo infinito amore in fatto di vocazione. Non saprebbe e non potrebbe darvene una più eccellente, perché vi ha dato la sua stessa missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. L’identica missione che Gesù ricevette dal Padre è da Lui trasmessa a voi».
Più chiaro di così…
padre Giacomo Mazzotti
Giuseppe Allamano e Francesco Paleari
L’amicizia tra sacerdoti santi
Che l’Allamano abbia avuto un rapporto speciale con lo spirito e l’opera del Cottolengo è risaputo. Tra lui e Francesco Paleari (1863-1939), sacerdote del Cottolengo, maturò una buona amicizia sacerdotale. A questo riguardo sono significative le parole del missionario padre Alfredo Ponti: «Ma il vincolo di amicizia fra i Missionari della Consolata ed il Cottolengo si fece maggiormente vivo, maggiormente sentito nella stima grandissima e nella profonda amicizia che legava quei due santi uomini. Don Paleari e il Can. Allamano che sapevano comprendersi magnificamente, sapevano stimarsi, lavorare concordi per la gloria di Dio. Poche volte ebbi il piacere di scorgerli assieme, ma era sempre bello vederli parlare fra loro, discutere, sorridere e ridere anche, usando fra loro quella famigliarità ed anche quella franchezza che solo le grandi amicizie possono permettersi».
Reciproca collaborazione. La collaborazione tra questi due uomini di Dio fu abbastanza ampia. L’Allamano si servì molto del Paleari per le sue opere, a Torino, nel Convitto Ecclesiastico e nella Casa Madre dell’Istituto missionario, come pure al Santuario di Sant’Ignazio per gli esercizi spirituali ai sacerdoti.
Il primo biografo del Paleari, Ettore Bechis, parla di collaborazione riferendosi alle lezioni di filosofia che erano dettate nel seminario dell’Istituto. Ecco le sue parole: «Insegnò filosofia nel nascente Istituto della Consolata per le missioni estere, fondato dal Can. Allamano in Torino. La collaborazione di Don Paleari fu di molto conforto in quegli inizi e la serena calma dell’amico illuminò più che la scienza, i primi ardimenti missionari: tra i due sacerdoti correva una mutua e fraterna emulazione di virtù».
Che il Paleari collaborasse volentieri è confermato dal fatto che continuò finché gli fu possibile in questo servizio di insegnamento, anche dopo la morte dell’Allamano. Quando proprio non poté più, perché nominato Provicario generale, espresse così il suo rammarico a p. Gabriele Berruto: «Il mio rincrescimento è forse più grande del vostro, poiché sono affezionato ai missionari della Consolata e con questa piccola fatica mi sdebitavo alquanto verso la cara Madonna Consolata».
Il pensiero dell’Allamano sul Paleari.
Non c’è dubbio che per l’Allamano il Paleari era un sacerdote “speciale”. Il suo apprezzamento per il “pretino del Cottolengo” (come era chiamato il Paleari) è confermato anche da diverse sue espressioni. Per esempio, per quanto riguarda le lezioni di filosofia tenute dal Paleari agli allievi missionari, l’Allamano compiaciuto per i buoni risultati scolastici, disse: «È una grande fortuna per noi avere la filosofia da don Paleari».
Anche per la predicazione di esercizi spirituali nella comunità dell’Istituto il Paleari fu molto apprezzato. L’Allamano lo invitò a predicare il corso del 1919, subito dopo il rientro dei missionari che erano stati sotto le armi. L’Allamano dava somma importanza a questi esercizi, perché dovevano essere come un rilancio della vita di comunità. Ecco perché li affidò all’animazione del Paleari. La sua aspettativa non fu delusa, perché tutti furono grandemente soddisfatti.
Dopo un altro corso di esercizi, quando non era più lui a scegliere i predicatori, percependo tra i giovani una certa insoddisfazione, fece questo commento: «Hanno un bel cercare persone rinomate… ma uomini come Don Paleari non fanno forse tanta figura, c’è però lo spirito di Dio che parla in loro, ed è ciò che si sente e fa bene». «Di Don Paleari, a Torino, ce n’è uno solo».
La stima dell’Allamano per il Paleari è confermata anche da questo fatto: richiesto da Roma di indicare un nome per l’ufficio di direttore spirituale al Collegio Urbano “de Propaganda Fide”, l’Allamano pensò subito al Paleari. Egli, però, obbediente come sempre, gli disse: «Si rivolga al Signor Padre». Il Superiore della Piccola Casa fu di altro parere e così il Paleari fortunatamente rimase a Torino.
Il pensiero del Paleari sull’Allamano.
Per conoscere quanto il Paleari pensava dell’Allamano, basta leggere integralmente la testimonianza da lui inviata al P. L. Sales, quando stava scrivendo la biografia. Eccone qualche tratto: «Del Venerato Canonico Giuseppe Allamano io conservo tutt’ora viva e santa memoria. Da quando Lo conobbi, frequentando la Scuola di Morale al Convitto Ecclesiastico sino alla preziosa Sua morte, ebbi sempre per Lui grande stima ed affezione quasi filiale, tanta era la riverenza e la confidenza che m’ispirava la Sua Persona.
Nel 1893 Egli m’invitò a confessare i Sacerdoti Moralisti, e, sentendo la mia ritrosia, mi confortò dicendomi: “Quello che non saprà fare lei, lo farà la Provvidenza”. E incontrandomi qualche volta in sacrestia: “Ebbene, mi diceva con tutta familiarità, ebbene come va?” – “Mah!” rispondevo io. Ed Egli: “Avanti in Domino, come diceva il vostro Cottolengo”. Ed io prendevo quell’incoraggiamento come datomi da Dio, tant’era la mia fiducia in quell’Uomo di Dio.
Dieci anni dopo, m’invitò a predicare le Meditazioni al Santuario di S. Ignazio; e ricordo benissimo con quanta prudenza, vigilanza e affabilità dirigeva colà i SS. Spirituali Esercizi […].
Taccio le altre benemerenze nella ricorrenza del Centenario e allargamento del Santuario, nella fondazione dell’Istituto dei Missionari della Consolata, nella Beatificazione del suo Zio, il Cafasso, ecc. In una parola fu un vero Sacerdote, Sacerdote dell’Altissimo».
Che il Paleari si fidasse ciecamente dell’Allamano è sicuro. Lo dimostra anche questo semplice fatto con il quale concludo: quando, dopo la partenza dei primi quattro missionari, gli altri giovani, per diversi motivi, lasciarono l’Istituto, creando una situazione dolorosa e difficile per l’Allamano, il Paleari, pochi giorni dopo, volle accompagnare personalmente sette giovani Tommasini alla Consolatina, di modo che la vita della comunità riprendesse subito senza interruzione. Al vederli l’Allamano esclamò felice: «Oh! Bravi! La Provvidenza, di cui io ero sicuro, stavolta viene proprio dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza, quasi per conformarmi sempre più ad essa. Bravi, bravi! Andiamo a ringraziare la Consolata tutti assieme».
padre Francesco Pavese
Seconda conversione
Dal 25 gennaio al 29 febbraio, si è svolto a Roma un corso di formazione permanente a cui hanno partecipato 26 missionari della Consolata che compivano 25 anni di sacerdozio o di professione religiosa. Padre Ramón Lázaro Esnaola, spagnolo, racconta come ha vissuto quest’esperienza.
Riassumerei questo tempo di formazione in due parole: «Seconda conversione». Se finora ho vissuto innanzi tutto dei miei progetti, dei miei sogni, dei miei ideali e della forza che il buon Dio mi ha dato, ora mi sento chiamato a vivere soprattutto «di fede», a vivere cioè con un atteggiamento più teologico, più gratuito e contemplativo la missione, convinto che tutto è grazia e che i successi o i fallimenti possono essere assunti nella fede senza grandi alti e bassi, con la serenità di chi si riconosce chiamato e inviato, discepolo e missionario.
Durante il corso, ogni partecipante è stato invitato a scrivere la propria autobiografia come attestazione della storia salvifica di Dio nei suoi confronti e come esercizio di accettazione e assunzione di ciò che gli è stato donato: la famiglia, l’educazione e la cultura di origine; e di ciò che ha tessuto sul telaio della vita con le scelte compiute. Questa rilettura della vita mi ha fatto prendere coscienza delle mie debolezze e fragilità non come pericoli o tentazioni, ma come momenti di grazia, perché come dice San Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi: «Se sono debole, allora sono forte» (12,10).
In un secondo momento, alcuni biblisti ci hanno provocato con le esperienze dei profeti, del Cantico dei Cantici, del Vangelo e di san Paolo. Le loro conferenze sono state motivo di riflessione personale e poi di condivisione in gruppo e in assemblea.
Il terzo momento della nostra formazione è consistito nella visita ai luoghi originari dell’Istituto: Castelnuovo, il santuario della Consolata e Casa madre. La maggior parte di noi non era più tornata a Castelnuovo da quasi trent’anni e molti non avevamo visto la ristrutturazione della Casa madre avvenuta negli ultimi tempi.
Ho apprezzato molto la presenza di una comunità Imc accanto alla casa natale del beato Fondatore e l’attenzione e la cura con cui i missionari accompagnano i gruppi che vi si recano così come al luogo di nascita di san Giuseppe Cafasso. Suggestiva mi è parsa la cappellina allestita in quella che fu la stalla di casa Allamano: unione tra il Fondatore e l’Incarnazione che parla di uno stile missionario tutto nostro e che può essere descritto con parole come silenzio, semplicità, precarietà, vicinanza, opzione per l’umanità e la Casa comune.
Anche l’aggiornamento missionario che ha avuto luogo nella casa del Fondatore mi è sembrato molto suggestivo perché il suo carisma si è sviluppato nel corso degli anni a partire da qui e sono stati i suoi missionari che, come strumenti di Dio, l’hanno dispiegato facendolo diventare una ricchezza per la Chiesa e per il mondo.
Accanto alla casa natale del beato Allamano, significativa è anche la presenza delle Suore missionarie della Consolata che svolgono un servizio come centro di spiritualità e formazione per tutte le missionarie del loro Istituto.
Mi è piaciuta anche la visita alla casa natale di san Giuseppe Cafasso, zio materno del nostro Fondatore. La casa è stata completamente ristrutturata con gusto e, in questo, ho visto la scelta precisa dell’Istituto di voler valorizzare la figura del Cafasso, il quale ha rappresentato la principale fonte di ispirazione da cui Giuseppe Allamano ha bevuto e che si può riassumere in quel «Fare bene il bene e senza rumore» che permea tutta la sua spiritualità.
La visita al Santuario della Consolata è stato un momento carismatico, perché è lì che il beato Allamano ha ricevuto l’ispirazione di fondare i due Istituti. La condivisione dell’attuale Rettore del santuario ci ha fatto tornare al clima di santità che si viveva a Torino nel XIX secolo e ci ha reso consapevoli dell’influenza che il Fondatore ha avuto sulla formazione del clero nella diocesi di Torino.
Certamente, conoscere la sua stanza, il luogo dove ogni giorno parlava con Giacomo Camissasa e gli oggetti che gli appartenevano, così come quelli che appartenevano a san Giuseppe Cafasso, è stata una grazia per ognuno di noi.
Avere avuto l’opportunità di pregare ogni giorno e persino di celebrare l’Eucaristia sul sepolcro del Fondatore trasformato in altare, è stata occasione per ringraziarlo per il dono che ha fatto al mondo, alla Chiesa e a ciascuno di noi.
Contemplare l’icona della Consolata di fronte alla quale pregava; vedere l’urna del canonico Giacomo Camissasa che ha saputo vivere «la beatitudine di essere il secondo», e rimanere in silenzio davanti ai ritratti di quei missionari che hanno versato il loro sangue per la missione, è stata un’esperienza che ci ha riportato alle origini della nostra chiamata alla missione infondendoci coraggio e determinazione.
Ora è giunto il momento di attuare quella «seconda conversione» alla quale il Signore ci chiama nella vita quotidiana, vivendo con passione, semplicità e gioia il carisma del nostro beato Fondatore.
padre Ramón Lázaro Esnaola
Verso la fine (At 20,1-22,21)
testo di Angelo Fracchia |
Luca, negli Atti degli Apostoli, ci ha portati a scoprire che cosa è accaduto nei primi tempi della Chiesa, ma ci ha indicato anche che cosa, dentro quel cammino, era da preferire, e soprattutto ci ha indicato che la guida di quei passi era lo Spirito Santo.
Luca ha poi progressivamente messo al centro della scena Saulo di Tarso, un fariseo che, dopo aver perseguitato i cristiani, era diventato uno di loro e, più tardi, aveva iniziato a farsi chiamare Paolo, insistendo per aprire la porta della Chiesa ai non ebrei.
Ci sono state persecuzioni e intoppi, ma dentro a un cammino globale di crescita.
Da lettori potremmo esserci anche dimenticati che il progetto di testimoniare Gesù fino ai confini della terra (At 1,8) non è ancora realizzato. Ma ci aspetteremmo di essere condotti verso un lieto fine. E invece Luca ha ancora sorprese in serbo.
Non ce lo aveva detto
Il percorso della Chiesa dei primi decenni non è stato trionfale. Certo, un lettore distratto potrebbe vedervi soltanto successi, ma Luca ha lasciato intuire che, nonostante le persecuzioni risolte con liberazioni inattese (At 5,17-40), ci sono anche state vittime (Stefano: At 7,57-60; Giacomo: At 12,2) e profughi (At 8,1). Lo stesso lettore potrebbe vantarsi della condivisione di tutti i beni (At 4,32-35), ma non tutti la rispettavano (At 5,1-10), e alcuni cristiani venivano discriminati persino da altri credenti (At 6,1). In quanto a Paolo, egli è il grande campione dell’annuncio ai non ebrei, ma oltre alle molte persecuzioni da parte di giudei, ha dovuto anche affrontare tensioni importanti all’interno della comunità (At 15,1-2). Su queste ultime, peraltro, Luca glissa.
Nel punto in cui racconta del ritorno di Paolo dal terzo viaggio, però, Luca fa intuire che sta per accadere qualcosa di pesante. Senza le lettere di Paolo, forse non capiremmo fino in fondo che cosa è davvero successo, ma grazie soprattutto alla lettera ai Galati (in particolare Gal 1,6-8; 5,1-14), riusciamo a ricostruire un quadro meno ideale di quello che Luca ci mostra.
La questione dei «Gentili»
In ogni grande società esistono inevitabilmente più anime, che a volte faticano a dialogare e ad andare al nucleo che le ha fondate. È capitato persino nella prima comunità cristiana. Il mondo in cui il cristianesimo è nato, separava nettamente gli ebrei dai «gentili», ossia da tutti gli altri, «le genti». Gli ebrei si distinguevano per il rispetto della legge di Mosè, sintetizzata simbolicamente nella circoncisione.
Una delle prime scelte di fondo che i cristiani si sono trovati a dover prendere, ha proprio riguardato la sorte dei non ebrei: potevano essere inseriti nella comunità cristiana? E a che condizioni? Solo dopo essersi fatti circoncidere?
È il problema affrontato da Luca in Atti 15, quando racconta la decisione presa a Gerusalemme di ammettere nella comunità anche i non circoncisi; salvo che, a quanto pare, quella soluzione non aveva accontentato tutti. E alcuni avevano iniziato a tallonare Paolo nei suoi viaggi apostolici, quasi a correggerne le scelte, spiegando che Gesù era un ebreo, e che per vivere come Gesù bisognava diventare ebrei, rispettando tutta la legge di Mosè.
Paolo aveva intuito che se la decisione divina, accolta dall’uomo, non fosse stata sufficiente in mancanza di un gesto esteriore (come la circoncisione), allora nulla sarebbe mai bastato. Per dirlo con le parole di Paolo, la circoncisione è inutile (Gal 5,2), altrimenti Cristo è morto invano e la sua esistenza è inefficace (Gal 2,21). È chiaro che non si è trattato di piccole dispute di regolamento interno.
Ma è chiaro anche che gli avversari di Paolo non hanno lasciato perdere, e hanno iniziato a denigrarlo, affermando che volesse abbattere la legge di Mosè (At 21,20).
La colletta
Forse per questo Paolo (e qui siamo al punto dove ci siamo lasciati lo scorso numero) torna a Gerusalemme portando una imponente elemosina per i poveri (cristiani) di quella città. Luca, in realtà, ci ha parlato della colletta già prima (At 11,29-30), ma sembra un modo per confonderci. Una delegazione imponente come quella che parte per Gerusalemme (At 20,4: sette persone elencate, più Paolo e probabilmente Luca, che si include nel viaggio dal versetto 5), era costosa, e aveva senso se si doveva portare qualcosa di pesante, come una grande somma di monete, dal momento che gli assegni e i bonifici bancari non esistevano. Più persone garantivano una migliore protezione della somma e solo una somma importante poteva giustificare (e mantenere) una delegazione così numerosa.
Una prova
Luca, peraltro, spiega che a Gerusalemme chiedono a Paolo di finanziare il rito di scioglimento di un voto per quattro persone (At 21,21-24), per (di)mostrarsi un buon ebreo. Perché Luca ci racconta la vicenda in questi termini?
Un buon narratore ha come obiettivo di far capire ai lettori gli avvenimenti e di muovere alle emozioni che ritiene giuste, non necessariamente di riferire solo i particolari storici precisi. Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù: se però ci aiutano a capire meglio quello che Gesù diceva, non importa che, materialmente, siano «invenzione» degli evangelisti. Anche un romanzo storico scritto bene può non essere accurato in tutti i particolari, ma farci intuire un contesto e delle vicende storiche persino meglio di opere più precise.
Luca vuole presentarci il quadro ideale di una Chiesa senza tensioni, se non magari occasionali (perché non può certo negarle tutte). Ma se dicesse esplicitamente che Paolo aveva coordinato una colletta così grande, quindi gestita durante lunghi mesi, farebbe intuire che le tensioni andavano avanti da tanto tempo, il che è storicamente molto probabile, rischiando di spaventare o scoraggiare i credenti.
Meglio allora parlare della colletta collocandola in un altro momento della storia e poi inserire Paolo nel rito tradizionale del voto, anche se, in realtà, vi era stato coinvolto per caso solo all’ultimo momento.
Luca, però, sa bene che la situazione è pericolosa e ce lo fa capire chiaramente quando riferisce gli ammonimenti di discepoli e profeti che predicano per Paolo un tempo difficile (At 20,23; 21,4.10-13), e scrivendo uno dei brani più toccanti degli Atti degli Apostoli.
Agli anziani di Efeso (At 20,17-38)
A Efeso, Paolo aveva lavorato per almeno due anni (At 19,10), ma forse di più. Passando per Mileto, diretto a Gerusalemme, l’apostolo convoca gli «anziani» di Efeso, città distante circa 80 km. Sono due particolari curiosi, difficili da inventare. Paolo – nelle sue lettere – non chiama mai «anziani» i responsabili delle sue comunità (è un modo molto ebraico di esprimersi); viene da pensare che, in fondo, anche le sue chiese avessero un consiglio di persone più sagge ed esperte che fungeva da organo di dirigenza, come sarebbe accaduto in seguito e altrove, e come quindi poteva già essere vero anche al tempo di Paolo. Lui convoca solo costoro e li fa venire a Mileto. Evidentemente la nave di Paolo non faceva scalo a Efeso, o forse (o in più) lui temeva che fermarsi in quella città, dove aveva così tante conoscenze, lo avrebbe fatto tardare troppo. Meglio incontrarsi in un luogo neutro.
A questi anziani Paolo rivolge un vero e proprio discorso d’addio, incentrato soprattutto su tre temi.
Intanto, rivendica di aver predicato Gesù in modo trasparente e generoso. È il punto di partenza essenziale e cruciale. Non si mette a fare l’elenco delle proprie imprese o di ciò che ha patito (come fa invece in 2 Cor 11,22-29), ma si concentra sull’essenziale.
Poi, ribadisce di averlo fatto gratuitamente, senza farsi mantenere, senza chiedere nulla. Anche l’evangelizzazione, allora, diventa più chiaramente un dono generoso fatto ad altri, un «soccorrere i deboli» (At 20,33-35).
In mezzo, avvisa che sarebbero arrivate persone (chiamate «lupi rapaci») che avrebbero provato a inquinare l’annuncio del vangelo. Non sarebbero stati, evidentemente, degli estranei, ma dei cristiani. Luca si mostra ancora una volta consapevole che nella chiesa non tutto è bello e buono. Ma le parole di Paolo sono edificanti: di fronte ai «lupi rapaci», c’è semplicemente da stare in guardia, continuando a vivere generosamente per gli altri, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Paolo, qui, non invoca maledizioni o punizioni sugli avversari (come fa invece in Gal 5,12), ma affida semplicemente i credenti allo Spirito.
Per chi vuole capire, Luca, a partire dall’esperienza di Paolo, ci ricorda che fallimenti e persecuzioni ci saranno, nell’esperienza dei cristiani, e che potrebbero partire addirittura da dentro. Ma l’unico modo cristiano di reagire è quello di Gesù, ossia confidando nell’opera di Dio e cancellando in sé qualunque desiderio di vendetta. Dio non abbandonerà i suoi, nonostante il quadro non sia senza nubi fosche.
Incompreso
Paolo, quindi, arriva a Gerusalemme. Luca non può nascondere che l’accoglienza degli altri credenti è piuttosto fredda (At 21,20-25). La comunità consiglia a Paolo di mostrarsi osservante della legge per non irritare i fratelli povenienti dal giudaismo, e lo invitano a pagare le spese per lo scioglimento del voto di nazireato di quattro uomini. Il voto consisteva nel non tagliarsi i capelli per un certo tempo per offrirli poi al tempio insieme a un sacrificio. C’erano persone di buona volontà (e portafogli) che pagavano ad altri le spese per questo rito, schierandosi in qualche modo a fianco di chi lo aveva celebrato. Si tratta di una consuetudine antica, molto «ebraica», più tipica degli ambienti tradizionalisti. Paolo si adegua. Evidentemente il suo scopo non è quello di cancellare la tradizione ebraica, ma di contestarla solo quando mettesse in questione la centralità di Gesù. Se si salva l’essenziale, che Gesù è l’unico mediatore per la nostra comunione con Dio, il resto si può accettare.
Una parola per oggi
Ancora una volta, quasi senza averne l’aria, Luca ci offre criteri per vivere la dimensione ecclesiale della fede ancora oggi. Siamo anche noi, infatti, a non sapere ancora bene dove mettere i confini di ciò che «non si può accettare», e continuiamo ad accusarci reciprocamente di essere tradizionalisti o modernisti. Negli Atti degli apostoli non troviamo un’indicazione precisa di ciò che dobbiamo fare o evitare, ma un criterio di fondo: la salvezza, ossia la comunione con Dio, passa da Gesù. Questo è indiscutibile, e siccome ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare. Ma su tutto il resto, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
Questa attenzione e questo sforzo, però, non sono una garanzia di successo. O meglio, non garantiscono il successo se lo misuriamo con i nostri criteri consueti, di vittorie, conquiste e numeri consolanti.
Da Gerusalemme a Roma
Di fatto Paolo, che ha accettato di scendere a patti con le frange più conservatrici della chiesa ebraico-cristiana, viene accusato ingiustamente di aver profanato il tempio. Come Gesù, anche Paolo viene incolpato di blasfemia sulla base di tradizioni secondarie e discutibili, proprio perché intende invece rendere a Dio la sua piena gloria.
Anche questa accusa e arresto diventano però l’occasione per ampliare la platea degli ascoltatori: stupendo l’uno e gli altri, Paolo parla in greco al centurione (At 21,37-39) e in «ebraico» (in realtà doveva essere aramaico, ma i greci del tempo di Luca, di solito, non coglievano la differenza tra le due lingue) al popolo radunato nel tempio (At 21,40). Di nuovo, Paolo si fa «tutto a tutti», condividendo una volta ancora la propria vicenda (At 22,3-21).
Il punto d’arrivo, su cui, come per Gesù, si invoca la sua morte (22,22) è l’annuncio alle nazioni lontane. Luca ci porterà fin là, anche lungo un percorso più accidentato, faticoso e tormentato di quanto non sia stato fino a questo momento.
Angelo Fracchia (18 – continua)
Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)
testo di Angelo Fracchia |
Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.
In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.
Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.
Uno storico accurato
Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.
Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.
Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.
Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.
I collaboratori
Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.
Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.
Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.
A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.
Formazioni incomplete
Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.
In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.
Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.
Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.
Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.
Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.
Rapporto con i poteri
Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.
In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.
Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).
Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.
E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.
Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.
Angelo Fracchia
(17-continua)
Con cuore grande, facendo del bene
a cura di Sergio Frassetto |
Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.
Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.
Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!
L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.
Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.
padre Francesco Pavese
Devoto figlio di Giuseppe Allamano
Ricordo di padre Francesco Pavese
Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.
Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.
Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.
Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.
Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.
Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.
Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.
(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)
Non voglio morire «sfaccendato»
Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.
Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.
Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.
E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.
Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.
Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.
A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:
essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.
E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.
E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.
Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.
Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.
Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».
A cura di Sergio Frassetto
Il tesoro dello scriba
Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.
Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.
E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.
Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.
Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.
Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…
Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».
Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!
Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.
Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:
– Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
– Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
– L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
– Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
– Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.
Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.
Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.
padre Piero Trabucco
Il grande discorso di Atene (At 17,16-34)
testo di Angelo Fracchia |
Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli avevamo lasciato Paolo nel bel mezzo del suo secondo viaggio apostolico. Dopo aver attraversato l’odierna Turchia, era approdato in quella che anche oggi chiamiamo Grecia, dove aveva aperto strade nuove al Vangelo. Dovendo però fuggire da Filippi e da Tessalonica, era giunto, da solo, ad Atene, dove aveva atteso di essere raggiunto da Sila e Timoteo (At 17,15).
Atene era stata il grande faro della filosofia, dell’arte, dell’economia, del potere politico della Grecia nei secoli precedenti. Si trattava di una «nobile decaduta», ormai tagliata fuori dal potere politico (da due secoli passato a Roma, che l’aveva strappato non ad Atene ma ai macedoni), economico (le grandi vie commerciali passavano via terra dal Nord, ossia da Tessalonica e Filippi, oppure via mare dal Aud, da Corinto) e persino culturale. I centri di riferimento importanti erano ormai molti e, con la lingua greca diffusa in tutto il Mediterraneo orientale, il fulcro della cultura greca era ormai diventata Alessandria d’Egitto. Con tutto ciò, la fama antica continuava a illuminare la città, e l’Acropoli era sempre lì a dominarla, con la sua imponenza che colpisce ancora oggi.
È lì che Paolo tiene il suo discorso più completo ai «greci», ossia a coloro che non appartenevano all’ebraismo e che anzi si riconoscevano in un’impostazione religiosa «pagana». Non staremo a chiederci quanto davvero sia credibile che Paolo abbia tenuto quel discorso e se lo abbia fatto proprio come lo leggiamo. Per capire, lasciamoci accompagnare da Luca, da quanto dice, da ciò che tace… e, ancora una volta, anche da quanto ci dicono le lettere di Paolo.
Il contesto (At 17,16-21)
Paolo ad Atene si vede circondato da segni pagani, e questo lo irrita profondamente (At 17,16). In realtà avrebbe dovuto esserci abituato, perché il mondo in cui viveva era dominato da religioni politeiste che spesso si influenzavano a vicenda. Ma in effetti Atene esibiva una quantità eccessiva di questi segni, eredità dei secoli precedenti; una ricchezza che era espressa in un’abbondanza di edifici, statue e probabilmente dipinti e mosaici a tema religioso in ogni angolo.
Paolo sale sulla collina dell’Areopago, situata tra l’Acropoli e l’agorà della città, luogo di incontro e di liberi dibattiti, e lì parla del Vangelo, ma i passanti immaginano che intenda presentare una nuova coppia divina, «Dio e la Risurrezione», come se fossero Zeus ed Era. E gli danno anche appuntamento perché ne parli ancora con maggiori particolari.
Questo è il primo passo sbagliato. Chi si accinge ad ascoltare Paolo, infatti, non lo fa perché prova dentro di sé la sete di interpretare in modo profondo e proficuo la propria vita, di trovarvi il senso (come diremmo noi) o di essere salvati (come dicevano gli ebrei di quel tempo). «Tutti gli ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). La motivazione è semplicemente la curiosità, il passatempo.
Come il pane e l’acqua possono sembrare insipidi a chi non ha fame e sete, il Vangelo fatica a lasciarsi ridurre a passatempo.
Ciononostante, Paolo ritiene che valga in ogni caso la pena di provare.
Sintonizzarsi con l’ascoltatore (At 17,22-28)
Che cosa intenderà trasmetterci Luca nello scrivere il discorso di Paolo? Finora i discorsi di evangelizzazione che ci ha restituito negli Atti degli Apostoli partivano dai profeti, per mostrare la coerenza dell’azione di Dio fino a Gesù, definitiva offerta di comunione tra il divino e l’umano. Ma come avrebbe potuto partire dai profeti con persone che evidentemente non potevano conoscerli? Chissà, forse questo discorso di Paolo potrebbe costituire un modello di annuncio in contesti religiosi che non hanno nulla a che fare con la tradizione biblica. Ossia, in contesti che assomigliano di più a quello in cui viviamo spesso anche noi.
La prima cosa che si può notare è che Paolo segue le convenzioni retoriche del suo tempo. Queste prevedevano di iniziare rivolgendosi in modo piacevole e convincente all’uditorio, per guadagnarsene l’approvazione, così da giungere poi al tema centrale a piccoli passi, seguendo percorsi familiari per chi ascoltava. E Paolo si adatta a chi ha davanti: se non può partire dai profeti, prende l’avvio da quella retorica che ad Atene si insegnava.
E inizia proprio dimostrando
di apprezzare le persone che ha davanti: le definisce religiosissime, in quanto ha trovato, lungo la strada che porta all’Acropoli, anche un altare dedicato «al dio ignoto». Proprio il dio che egli intende svelare agli ateniesi. Paolo dimostra insomma di essersi guardato intorno con attenzione, di aver dominato la sua irritazione e di non voler iniziare mortificando gli ascoltatori, che anzi loda.
Se volessimo estrapolare dal discorso di Paolo delle indicazioni per il nostro annuncio di oggi, potremmo dire che occorre partire dall’analisi della realtà, valorizzandone i punti buoni.
L’apostolo passa poi a spiegare che non possiamo pensare a un dio che abbia bisogno dell’uomo per le proprie necessità. Dio ha fatto il mondo e non si aspetta certo che siamo noi a fargli una casa in cui stare. Piuttosto, il Dio che ha dato a tutti la vita, ha concesso a tutti i popoli uno spazio e un luogo affinché possano, in effetti, rintracciarlo guardando come è strutturato il mondo, anche se si tratta di una ricerca fatta a tentoni, come se ci aggirassimo al buio in una casa che non è nostra. Non impossibile, ma certo abbastanza faticoso e incerto.
In questa fase Paolo riprende in realtà la polemica ebraica contro gli idoli e allude a tanti brani dell’Antico Testamento, in un modo però da non renderli riconoscibili a chi non li conosca già, ma senza renderne necessaria la conoscenza per capire il messaggio. Il discorso scorre, ha una sua logica e, alla fine, risulterà particolarmente affascinante soprattutto per chi ammette che ciò che vediamo non è l’unica realtà autentica. Molti tra gli ascoltatori platonici o stoici probabilmente si sono trovati, per così dire, «a casa propria». Se poi qualcuno degli ascoltatori avesse conosciuto un po’ di Antico Testamento, avrebbe sorriso tra sé e sé riconoscendo le citazioni e potendo confermare che funzionavano bene.
Ciliegina sulla torta, Paolo riesce a concludere questa tappa del suo ragionamento («Non siamo noi a dare qualcosa a Dio, ma lui a farci vivere») citando un poeta greco. Questa volta può permettersi di richiamare l’attenzione sulla citazione (che in realtà è abbastanza breve e forse non così significativa) proprio per ribadire che in fondo non stava annunciando nulla di inaudito o inverosimile. Una lisciatina di pelo agli ascoltatori, con la quale Paolo dimostra di conoscere e apprezzare la letteratura che si insegnava nelle scuole di retorica.
Ciò che ha fatto Paolo fino a questo punto è stato di condurre gli ascoltatori ad ammettere che la realtà autentica di Dio è spirituale. Verità su cui molti di coloro che sono di fronte a lui probabilmente erano già d’accordo.
Lo snodo decisivo (At 17,30-32)
Non è un caso che non siamo ancora arrivati a sentire nulla di autenticamente cristiano. Paolo vuole arrivare lì. Forse però, stavolta ci arriva un po’ di corsa.
Fa notare che Dio ha deciso che non si cerchi più di incontrarlo come cercandolo al buio in una casa sconosciuta, ma si è svelato. Ha stabilito anzi un criterio tramite il quale «giudicare» il mondo. È probabile che gli ascoltatori pensino non tanto a un giudizio quanto a un vaglio (un setaccio, uno screening diremmo oggi), fatto da qualcuno che faccia comprendere che cosa nell’umanità è valido e che cosa no.
In ogni caso, Paolo deve arrivare a Gesù, peraltro non citandolo per nome. Di Gesù identifica soprattutto due cose. Quel «vaglio», quel setaccio che fa emergere quello che nella vita umana è degno di attenzione e rispetto e quello che non lo è, è un uomo. Non è per niente scontato. Si poteva pensare a una visione divina, al dono di un mistero svelato per scritto, a qualche miracolo. Invece no, è una vita umana, sicuramente particolare e straordinaria, ma pur sempre umana, soggetta a tutti i condizionamenti umani, dal nascere da una donna (Gal 4,4), al dover imparare a vivere, al sottostare a norme e convenzioni. È la sorpresa dell’incarnazione, dello scoprire che per Dio l’uomo è tanto importante che l’unico «metro» adeguato per dire quale possa essere una vita umana dignitosa è esattamente mostrarla in un uomo. Perché solo un Dio che non si vergogna dell’umanità può spiegare all’uomo come vivere bene.
Il secondo dato identificante è la risurrezione. Il che, a pensarci, è davvero coerente, perché se questa vita è il meglio che Dio possa pensare per l’uomo, non può darcela solo per pochi anni. Ma ciò andava contro i pregiudizi filosofici per cui nell’essere umano a contare è lo spirito, la mente, mentre il corpo è, nel migliore dei casi, insignificante e, nei peggiori, un ostacolo.
E quegli ascoltatori che avevano colto il messaggio di Paolo come un semplice passatempo, non sono disposti a lasciarsi mettere in discussione. Il discorso va contro i loro pregiudizi, per questo lo scherniscono e aggiornano la seduta a data da destinare. Un ascolto superficiale, disinteressato, per ammazzare il tempo, non cambierà mai la vita, e non farà mai andare in profondità. Non aiuterà certo a rendersi conto di aver perso un’occasione unica.
Esiti e bilancio (At 17,33-34)
Onestamente, non si può dire che sia andata bene. Ce lo fa capire Luca, che fa ripartire Paolo immediatamente da Atene, e stavolta senza che sia stato neppure perseguitato. Non ce n’è bisogno. Pare che questa superba sghignazzata degli ateniesi sia persino peggio dell’opposizione violenta che Paolo aveva già riscontrato tante volte.
Paolo ha dato sfoggio di un discorso sicuramente ben preparato e sapiente. Ma ha ottenuto solo una presa in giro. Da Atene se ne va a Corinto, ai cui abitanti, qualche anno dopo, scriverà che i greci cercano dei bei discorsi intelligenti, ma Gesù non si piega neppure a questi. Ecco perché nella comunità dei cristiani non ci sono tanti dotti o umanamente sapienti (1 Cor 1,20-31). «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2), stupido per coloro che cercano una divinità alla moda e fragile per chi cerca un Dio potente (1 Cor 1,22-23). Verrebbe da dire che Paolo ha imparato la lezione, e non ripeterà più un discorso come quello dell’Areopago.
Se vogliamo, anche questo è un frutto positivo: l’evangelizzatore ha imparato che conviene andare al cuore delle cose. Inoltre, nonostante il discutibile approccio di Paolo, le sue parole hanno fatto breccia in alcuni ascoltatori che hanno accolto il Vangelo: tra di essi una persona influente nell’Areopago, Dionigi, e una donna, Damaris (At 17,34). D’altronde, se Luca avesse pensato che questo discorso fosse stato completamente fuori luogo, non lo avrebbe riportato.
Sembra invece che l’autore degli Atti voglia suggerirci che è giusto e buono provare a sintonizzarsi con lo stile e i temi cari all’uditorio, ma senza aspettarsi troppo, cercando di non allontanarsi mai da quello che è comunque il cuore del Vangelo. E sapendo che, comunque, anche nei contesti meno adeguati ad accoglierlo, il Vangelo continua a parlare al cuore delle persone, e che alcune risponderanno.
Angelo Fracchia (16-continua)
Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)
testo di Angelo Fracchia |
Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.
Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.
Nuovi collaboratori (At 16,1-5)
A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.
Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).
Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.
Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22). Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.
Un viaggio tormentato (At 16,6-10)
Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.
Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).
Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.
Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».
Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.
In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.
Filippi (At 16,12-40)
Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.
Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).
Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.
Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.
Lidia e le altre donne
Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.
Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.
Frustati per Cristo
A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.
I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).
Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.
Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.
Altre tribolazioni
Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.
Angelo Fracchia
(15-continua)
La porta stretta
«Pregate bene, soprattutto adesso dopo la guarigione; guardate un po’, quasi tutte le comunità, qui a Torino, hanno avuto morti, da noi nessuno. Ringraziamo il Signore!».
Giuseppe Allamano
«Siamo in pieno sviluppo d’una malattia che non sanno né definire, né curare, ma fa, solo in Torino, centinaia di vittime al giorno. In altre città è peggio ancora… All’Istituto, con più di 100 persone, è quasi un miracolo che nessuno ne sia colpito, all’infuori di un sacerdote missionario che guarisce e partirà presto per l’Africa. Di comunità non colpite finora, come la nostra, il numero in Torino si conta tutto sulle dita di una sola mano.
Ringraziamo il Signore!».
È Giacomo Camisassa, primo collaboratore e amico del fondatore, a informare una missionaria della Consolata in Kenya, il 28 settembre 1918, sulle conseguenze a Torino dell’influenza «spagnola», che, tra il 1918 e 1920, uccderà decine di milioni di persone nel mondo.
Non vogliamo qui allinearci ai notiziari che ci bombardano ogni giorno con notizie sul coronavirus e le strategie per difenderci. Più semplicemente, vorremmo aggrapparci al ricordo del nostro fondatore che ha sperimentato, assieme ai suoi missionari e missionarie, la tragedia di una guerra «mondiale» e di un’epidemia che hanno scombussolato non poco il lavoro apostolico dei suoi due giovani istituti missionari. Le sue esortazioni a «pregare bene» e anche a «ringraziare il Signore», ci aiutano a ricordare alcune cose importanti, forse da noi sottovalutate. Per esempio, quella di «fermarci di fronte a Lui» (Sal 45, 11-12), riconoscendo che la presenza di Dio riempie ogni nostro istante e quindi soddisfa il nostro cuore, in qualsiasi circostanza o condizione ci troviamo. O che le vicende di questi mesi dovrebbero renderci più sensibili alle tante altre prove degli «altri» (popoli) che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza.
Ci ha scritto anche padre Stefano, successore dell’Allamano: «La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento, noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo, alla luce della Parola di Dio».
Riprendiamo, allora, il nostro faticoso cammino, smarriti o guariti, con coraggio, fiducia e… «Avanti, sempre, in Domino»!
Padre Giacomo Mazzotti
Giuseppe Allamano e Luigi Orione
L’amicizia tra sacerdoti santi
Il rapporto tra il beato Giuseppe Allamano e san Luigi Orione (1872-1940) sembra che sia iniziato presto. Con tutta probabilità don Orione conobbe il nostro fondatore, rettore del santuario della Consolata, quando era allievo a Valdocco, presso i Salesiani, negli anni 1886-1889. Si sa che, in quel periodo, il giovane Orione si recava spesso al santuario della Consolata.
Reciproca collaborazione. Un’occasione importante per il rapporto tra i due uomini di Dio fu il terribile terremoto, che la mattina del 28 dicembre 1908 rase al suolo Messina. Avendo già una sua fondazione a Noto (Siracusa), don Orione andò subito in Sicilia e, a Messina, prestò una generosa opera di assistenza materiale e spirituale, tanto da essere nominato Vicario generale della diocesidal papa Pio X. Una sua iniziativa fu quella di costruire, davanti al cimitero, una chiesetta di lamiere dedicata alla Consolata, in suffragio delle 80mila vittime del terremoto. Per questa chiesa ottenne dall’Allamano il quadro della Madonna. Ecco come ne parla don Giuseppe Pollarolo in un articolo apparso sul bollettino del Santuario, in occasione della beatificazione di don Orione, dal titolo «Tre santi [Orione, Allamano, Pio X] e un quadro della Consolata»: «Il dramma di Messina diventava sempre più tragico. Cosa fare per confortare gli afflitti e per giovare ai morti? La sua mente corse a Torino, alle frequenti visite che faceva al santuario della Consolata quando era giovane allievo di don Bosco, ai conforti esperimentati ai piedi della Madonna e si persuase che Lei, soltanto Lei, la Madonna, la Consolata, poteva lenire tanto dolore e asciugare tante lacrime!
Era allora rettore del santuario della Consolata il beato canonico Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, nipote del venerabile, poi santo Giuseppe Cafasso. Don Orione si rivolse a lui pieno di fiducia (i santi fan presto ad intendersi), con la speranza di ottenere un quadro del tutto simile a quello in venerazione nel santuario di Torino. Il beato canonico Allamano lo accontentò subito mettendogli a disposizione il quadro richiesto». Questo quadro fu poi benedetto dal papa Pio X.
Il pensiero dell’Allamano sull’Orione.
Quello che Giuseppe Allamano pensava su don Orione si comprende chiaramente da ciò che disse dopo il primo vero incontro, di cui si ha notizia, documentato dal canonico Giuseppe Cappella sia al processo per la beatificazione di Allamano, sia nella relazione inviata in seguito agli Orionini in vista della beatificazione del loro fondatore: «Nei primordi del diffondersi del nome di don Orione negli ambienti della carità e delle moderne istituzioni religiose, un mattino si presenta nella sacrestia del nostro santuario della Consolata un sacerdote che, al primo aspetto, dà l’impressione di persona modesta e veneranda, non tanto per l’età ma pel portamento. Sentito il desiderio suo di parlare col rettore del santuario, il canonico Allamano, mi faccio premura di accompagnarvelo. Appena il rettore intese il nome del visitatore, ne fu come sorpreso, come di chi si trova improvvisamente avanti la persona di riguardo e di cui forse da tempo desiderava l’incontro. Il colloquio tra i due fondatori fu assai lungo.
E, siccome di don Orione già se ne era parlato tra noi sacerdoti del santuario, appena ci trovammo insieme raccolti nell’ora della refezione, mi presi la libertà di interrogare il nostro rettore quale impressione avesse riportata dalla visita di don Orione. Ed egli, quasi premuroso di farci conoscere un santo sacerdote, già tanto benemerito della Chiesa, subito rispose: “Don Orione mi ha fatto subito l’impressione di un uomo di Dio, investito del dono, della prerogativa di un vero ed autentico fondatore di un ordine religioso, che farà del gran bene nella Chiesa. Avendomi poi accennato don Orione a difficoltà, insorte già fin dai primordi della fondazione dell’opera sua, cercai di incoraggiarlo a continuare… ché, le difficoltà, le contraddizioni ed anche qualche incomprensione dei buoni, erano e saranno sempre il marchio delle opere di Dio. Tiriamo avanti, caro don Orione – gli dissi – nell’opera intrapresa, sicuri che il Signore, che ce l’ha affidata, non mancherà del suo aiuto, e avanti con la vicendevole promessa di preghiere per noi e per i nostri congregati, fidenti nella Divina Provvidenza e nell’aiuto della santissima Vergine, di poter fare un po’ di bene”».
Il pensiero di Orione su Allamano
La stima che don Orione aveva per il canonico Allamano la possiamo arguire da una minuta di lettera che lui stesso gli scrisse, o intendeva scrivergli, dopo la partenza dei primi missionari della Consolata per il Kenya (1902), in un momento molto critico della sua esperienza di fondatore: «Veneratissimo Signore e fratello nel nostro caro Padre e Signore Gesù Crocifisso, facciamo una cosa sola la casa della Consolata per le sante missioni e questa povera baracca? Perché mi pare che questa cosa sarà una consolazione per la Madonna, e così alcuni buoni soggetti e qualche buon chierico desideroso di andare alle missioni, ci andrebbe per mano della Madonna, e così io starei anche più tranquillo ed essi sicuri di andare bene. Dunque, o mio buon fratello, vi prego di pregare un po’ davanti alla Madonna e se vi pare che questa cosa sia nei disegni…». Non è certo se l’Orione abbia spedito questa lettera e neppure se intendesse fare una proposta di fusione o di collaborazione tra i due istituti. Unica cosa sicura che emerge dalla minuta della lettera è l’apprezzamento di don Orione per il nostro fondatore.
Concludo con quanto scrisse don Carlo Pensa, secondo successore di don Orione, nel 1954, nella lettera postulatoria per la beatificazione di Allamano: «I documenti provano che il rifiorire dell’ideale missionario del nostro fondatore don Orione risale al periodo in cui egli poté avvicinare a lungo il can. Allamano». Non c’è dubbio che san Luigi Orione abbia ammirato lo spirito missionario del beato Allamano e che da esso abbia ricevuto un impulso per sé e per la sua congregazione.
padre Francesco Pavese*
(*) Domenica 3 maggio, padre Francesco Pavese ci ha lasciati per il Paradiso. Con la sua predicazione e i suoi scritti, per lunghi anni ci ha fatto conoscere e amare il beato Allamano. Dal cielo, assieme al nostro fondatore, ha promesso di benedirci tutti. E, come lui desiderava, cantiamo il Magnificat in ringraziamento al Signore per la sua vita consacrata al servizio dell’Istituto e della Chiesa intera.
Giuseppe Allamano: ha fatto della sua vita un dono
Il 14 febbraio 2020, nel secondo giorno del triduo in preparazione alla festa del beatoGiuseppe Allamano, Loredana Mondo, laica missionaria della Consolata, insegnante elementare,
ha offerto la sua testimonianza sul significato della presenza dell’Allamano nella sua vita.
Anni fa, quando ho conosciuto le missionarie e poi i missionari della Consolata, mi sono chiesta che cosa ci fosse in loro che mi attirava e, in modo forse un po’ semplicistico, mi sono risposta l’accoglienza ricevuta e il sentirmi «casa» con loro.
In realtà, in questi anni di cammino di condivisione del carisma, mi sono resa conto che quegli aspetti che inizialmente mi avevano colpito, avevano delle radici molto più profonde della semplice cortesia. Il conoscere e il cercare di approfondire l’origine di tutto ciò, mi ha portata a scoprire la figura di un uomo che, ricevuto un grande dono dallo Spirito, ha fatto della sua vita un dono per gli altri.
È difficile riuscire a dare una definizione su chi sia per me il beato Allamano poiché, come uomo di Dio, racchiude in sé un grande tesoro che in questi anni mi si è rivelato un po’ per volta e che scopro sempre di più ogni volta che ho occasione di leggere qualcosa su di lui o posso sentire testimonianze di chi lo ha conosciuto o di chi vive il suo carisma.
Ci sono tre aspetti che mi colpiscono in modo particolare:
– lo sguardo sempre fisso in Dio
– l’accoglienza della persona e la capacità di agire
– lo spirito di famiglia.
Per il fondatore, il rapporto con Dio, con la Parola e con la Consolata erano centrali nella sua vita: questa sua grande confidenza e certezza che la sua vita fosse costantemente accompagnata e che l’Eucarestia fosse il suo punto di partenza e di arrivo per ogni cosa, era ciò che dava la giusta dimensione ad ogni suo atteggiamento, ad ogni sua scelta. La sua familiarità con la Consolata poi era tale da coinvolgere la Madre di Dio in ogni sua scelta, anche quelle apparentemente più insignificanti, proprio come un figlio fa con una madre.
È dal suo sguardo sempre fisso in Dio, dal suo sentirsi consolato che nasce l’urgenza di portare l’annuncio di Cristo Figlio missionario del Padre, fino agli estremi confini della terra, con quello zelo di prima qualità per la salvezza delle anime che, come dice lui «viene dall’amore di Dio e solo dall’amore di Dio».
L’accoglienza della persona e la capacità di agire
Il beato Allamano sapeva lasciare nella memoria e nel cuore di chi lo incontrava un segno: una parola, un consiglio, un gesto, un sorriso, uno sguardo. Sapeva essere attento alla persona in tutti i suoi aspetti, sia quelli materiali che quelli spirituali. La stessa delicatezza che voleva dai suoi missionari era la stessa con cui lui si rapportava con le persone sia che fossero semplici lavoratori, sia che fossero persone con incarichi importanti.
Sapeva guardare le persone con gli stessi occhi con cui lui si sentiva guardato da Dio.
Prima di prendere una decisione, di dare un consiglio, di iniziare un progetto, ponderava tutto seriamente. «In tutti i momenti più decisivi della sua vita…, la norma seguita era questa: riflettere, pregare, consultare e poi agire con illimitata fiducia nel divino aiuto» (Lorenzo Sales).
Lo spirito di famiglia
Questo è un aspetto al quale il fondatore teneva molto e per il quale ha spesso speso parole molto concrete perché una comunità che vive lo spirito di famiglia è testimone credibile di quello che annuncia.
Come cristiani e ancor più come missionari, siamo chiamati ad annunciare il Vangelo con la nostra vita anche attraverso quei piccoli gesti di carità che sono segno dell’attenzione all’altro nella sua unicità.
Come dice San Paolo, siamo chiamati a vivere, a comportarci in maniera degna della nostra vocazione, come consacrati e come laici, cercando di conservare l’unità nello spirito perché una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione.
Tenere lo sguardo fisso in Dio, cercare sempre e solo la sua volontà, fare bene il bene senza rumore, l’attenzione particolare agli ultimi, sono alcuni degli aspetti che più mi colpiscono del carisma del fondatore e che cerco di vivere guardando all’esempio che lui mi ha dato con la sua vita.
Mi rendo sempre più conto che il mio lavoro di insegnante mi mette in una posizione in cui le relazioni umane sono predominanti e che in ogni situazione sono chiamata a dare una testimonianza coerente di ciò in cui credo. Non è sempre facile accogliere l’altro per ciò che è, ma il beato Allamano, come padre, mi insegna che attraverso quella premura e quell’attenzione verso l’altro posso rivelare l’amore di Dio.
In questo momento sento che il lavoro è la mia «terra di missione» principale, ma sento anche la necessità di vivere con uno sguardo attento alle realtà che a volte sembrano più lontane, ma che sono ormai sempre più vicine e interrogano il nostro stile di vita.
Loredana Mondo (laica missionaria)
La grande decisione (At 15): diversi nella continuità
testo di Angelo Fracchia |
Luca ha preparato il terreno fin dall’inizio degli Atti degli Apostoli: Gesù si era mosso quasi solo all’interno dell’ebraismo, ma il cristianesimo è diventato ben presto qualcosa di diverso.
Di fronte alle accuse che sia stato Paolo a stravolgere la Chiesa, Luca s’impegna a dimostrare che fin da subito si sono oltrepassate le barriere religiose: eunuchi (At 8,27-38), samaritani (At 8,5-13), un centurione romano per opera di Pietro (At 10), fino ad arrivare ad Antiochia, dove l’annuncio del Vangelo era tanto indiscriminato da rendere evidente che quello cristiano era un movimento nuovo (At 11). I primi episodi narrati, erano casi eccezionali, quella di Antiochia era, invece, una situazione ordinaria, ma fino ad allora non ci si era ancora detti in modo esplicito quale strada prendere: se rimanere nell’ambito dell’ebraismo, oppure aprire la Chiesa a fedeli provenienti dal paganesimo.
L’occasione
Come spesso accade, la questione era già chiara da tempo, ma non si è affrontata finché non si è arrivati a litigare. C’erano, infatti, ad Antiochia, alcune persone provenienti da Gerusalemme (ossia dalla chiesa «madre»), che insegnavano che «se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati» (At 15,1). Non si trattava, ovviamente, solo di un «segno nella carne» che, per quanto fastidioso, si sarebbe comunque potuto anche sopportare, ma di un’adesione piena alla legge di Mosè, tradotta in quei 613 precetti che toccavano la morale, l’alimentazione, la preghiera e la vita sociale dei buoni ebrei (è possibile che al tempo non fossero ancora pienamente codificati in questo modo e in questo numero, ma l’approccio di fondo era già questo).
Il ragionamento di queste persone era comprensibile: Gesù era ebreo (circonciso), ha sostanzialmente rispettato la legge ebraica, soprattutto non ha mai detto di volerla abrogare (cfr. Mt 5,17), e se quella legge ora non restasse valida, significherebbe che tante generazioni di credenti ebrei avrebbero vissuto invano la propria fede. Se Gesù si è innestato nella tradizione dell’Antico Testamento, se non ha sconfessato la tradizione, quella era Parola di Dio e restava valida.
In fondo, altri gruppi ebrei pensavano che nessun pagano potesse entrare a far parte del popolo eletto, per cui la posizione di questi cristiani provenienti dall’ebraismo era già più aperta, in quanto ammettevano che, con la circoncisione e rispettando per intero la Legge, quei confini fossero porosi.
Chiarezza e novità
Paolo e Barnaba però hanno reagito violentemente (At 15,2): non si poteva chiedere la circoncisione a chi diventava cristiano. Le motivazioni sarebbero state espresse più chiaramente dalle lettere di Paolo, soprattutto ai Galati e ai Romani. Possiamo riassumerle così: in Gesù, Dio si è mostrato intenzionato a cercare la comunione con l’essere umano a qualunque costo, fosse anche a costo della propria vita e della propria rispettabilità (normalmente i crocifissi erano considerati maledetti da Dio). Le singole persone potranno rifiutare l’offerta di Dio, che rimane però definitiva. Affermare che sia necessario qualcos’altro perché quella comunione sia efficace, significa sostenere che l’intenzione di Dio, accolta dagli uomini, non è sufficiente. Ma se non basta quella, non c’è niente che basti! Dio invece ha donato gratuitamente questa salvezza all’essere umano, e l’unica reazione possibile da parte dell’uomo è fidarsi e accoglierla (Rom 3,20-24, ad esempio).
È chiaro che lo scontro emerso ad Antiochia era radicale, e non toccava soltanto l’organizzazione della Chiesa, come era accaduto a Gerusalemme con le vedove degli ellenisti (At 6,1-6), ma la sua stessa essenza teologica. La Chiesa doveva decidere che cosa essere: se uno dei tanti movimenti ebrei, o qualcosa di radicalmente nuovo, nato dal darsi di Dio in Gesù.
Sicuramente Paolo aveva presente la gravità del momento, ma con tutta probabilità questo valeva anche per i suoi «avversari».
Discernimento nello Spirito
Luca non si limita a dirci che cosa è accaduto in quel momento storico così centrale per l’identità della Chiesa, quando Paolo e Barnaba sono andati a Gerusalemme per discutere della questione con i Dodici, ma probabilmente vuole anche suggerirci come si dovrebbe fare il discernimento nello Spirito.
Nella discussione, i protagonisti sono partiti dall’osservazione di ciò che lo Spirito aveva suscitato tra i non ebrei (At 15,4). Di fronte alla contestazione di «alcuni della setta dei farisei» (At 15,5: scopriamo così che si può continuare a essere innanzitutto farisei, prima che cristiani), la discussione, come prevedibile, si è fatta rovente, finché non è intervenuto Pietro.
A Gerusalemme, dove Pietro viveva, la guida della chiesa era Giacomo, «fratello del Signore» (cfr. At 12,17; Gal 1,19), ma Pietro era pur sempre la guida dei Dodici. Sembra proprio che Pietro sia intervenuto come «autorità morale», quasi come chi, senza detenere un grande potere, ha però un’autorevolezza rafforzata proprio dall’essere fuori dalle stanze che contano.
Il suo discorso è stato essenziale ed è andato dritto al punto: Dio ha dato lo Spirito Santo a tutti, in più, noi per primi non siamo stati capaci di rispettare la legge, quindi perché imporla agli altri, visto che non è indispensabile (At 15,7-11)?
A quel punto si è tornati a osservare le imprese compiute da Dio tra i «greci».
Infine Giacomo, il verosimile capo dell’ala «conservatrice», ha avanzato la proposta concreta di chiedere ai nuovi cristiani provenienti dal paganesimo non la circoncisione, ma il rispetto di quattro astensioni: dagli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue.
Una decisione difficile
In realtà, se il cuore della decisione è chiaro, i dettagli lo sono molto meno, cosa dimostrata dal fatto che questo medesimo episodio è narrato anche da Paolo in Gal 2,1-10, ma con particolari diversi.
Paolo racconta che «da parte delle persone più autorevoli – quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non guarda in faccia a nessuno [sbagliamo a cogliere un po’ di astio? nda] – non mi fu imposto nulla. […] Ci pregarono solo di ricordarci dei poveri» (Gal 2,6.10). Sappiamo, e lo vedremo nella lettura di Atti, che le relazioni di Paolo con la chiesa di Gerusalemme, chiaramente guidata da Giacomo, non sarebbero state idilliache neppure in seguito. Forse Paolo si aspettava che la guida della chiesa, e quindi anche di quell’incontro, spettasse a Pietro e non al «fratello del Signore», ma può essere più onesto dire che il tono irritato di Paolo si coglie pur non essendone esplicitamente chiaro il motivo.
È più interessante notare che quanto raccontato da Luca in Atti 15 non coincide con ciò che dice Paolo in Galati 2. La proposta di Giacomo riportata in Atti 15, infatti, non cita i poveri e parla però delle quattro condizioni negative, dei quattro «non si deve» che abbiamo citato sopra (cfr. At 15,20).
Le quattro condizioni
Per analizzare le quattro condizioni imposte da Giacomo ai nuovi cristiani, partiamo dalla quarta. Secondo l’Antico Testamento, il sangue è la sede della vita. Anche dopo che il creatore aveva concesso agli uomini e ad alcuni animali di cibarsi di carne per nutrirsi (Gen 9,1-4), aveva vietato però d’ingerire sangue, per mantenere la consapevolezza che ci si alimenta, sì, con carne di animali, ma non si diventa padroni della loro vita, che continua ad appartenere a Dio. Per questo motivo la modalità pura di uccisione di un animale era (e rimane per ebrei e islamici) di versare il sangue a terra, la quale appartiene a Dio: ciò che è di Dio, torna a Dio.
Possiamo forse spiegarlo così: ai cristiani non provenienti dall’ebraismo Giacomo chiede di tenersi lontano almeno da ciò che era particolarmente fastidioso per gli ebrei e che era facile da rispettare. Vivere da fratelli cristiani insieme, infatti, voleva anche dire condividere la mensa (eucaristica, che comprendeva anche un vero pasto).
L’astensione dagli animali soffocati si può spiegare con il fatto che essi, evidentemente, avevano ancora il sangue al loro interno, quindi ricadiamo nel primo caso dell’astensione dal sangue, anche se potremmo già obiettare che non era necessariamente e sempre semplice capire come era stato ucciso un animale.
Che cosa sia l’«impudicizia» (porneia, vedi Mt 19,9) non è chiaro: c’è chi spiega che erano alcuni comportamenti sessuali, oppure particolari legami matrimoniali (cfr. 1Cor 5,1), o forse altro ancora. Accontentiamoci di riconoscere che c’era un vincolo in più.
Conosciamo invece gli idolotiti (la carne rimasta dai sacrifici agli idoli, ndr). La grandissima maggioranza delle forme religiose del mondo antico (compreso l’ebraismo) prevedevano di sacrificare animali agli dei. Di solito la carne sacrificata veniva in parte bruciata sull’altare, in parte mangiata da chi la offriva (come banchetto di comunione con la divinità), in parte lasciata ai sacerdoti. Questi ne consumavano un po’, ma ovviamente ne avanzavano, e non aveva senso conservarla, dal momento che il giorno dopo altri avrebbero offerto sacrifici. Di solito, quindi, la rivendevano: il ricavato veniva utilizzato per le necessità del tempio pagano, in più, essendo carne arrivata in dono, poteva essere rivenduta anche a prezzi bassi. Ecco che chi viveva o passava da quelle parti poteva comprare questa carne, di buona qualità, a basso prezzo e, in più, in qualche modo «santificata» dal passaggio nel tempio. Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, nota che quella era solo carne (gustosa ed economica), ma che alcuni «deboli nella fede» potevano pensare che i cristiani più istruiti, comprando quella carne, volessero «tenersi buoni» anche gli dèi che pure dicevano non esistere. Se c’è il rischio che alcuni cristiani più consapevoli, i quali sanno che non c’è differenza tra la carne sacrificata a dèi che non esistono e carne normale, provochino confusione nei cristiani più semplici mangiando carni sacrificate, afferma l’apostolo, piuttosto si astengano del tutto da tale carne (1 Cor 8).
Una volta approfonditi i quattro divieti, capiamo che il cuore della decisione presa dalla Chiesa a Gerusalemme non sono essi, ma il fatto che chiunque può diventare cristiano senza prima diventare ebreo, senza la circoncisione, senza rispettare la legge di Mosè. Restano dei vincoli, più che altro formali, ma l’ostacolo principale è rimosso.
La decisione e le sue ragioni (teologiche e no)
Luca è talmente sicuro della centralità di questa decisione che ne fa il punto di svolta degli Atti, a metà circa della sua opera: da qui in poi, infatti, sembra dimenticarsi della chiesa di Gerusalemme. Citerà Giacomo ancora in Atti 21,18, ma senza parlare più di Pietro né dei Dodici. A questa svolta tendeva tutta la costruzione della narrazione fin qui, da qui si riparte. D’altronde, se la chiesa non avesse intrapreso questa strada, sarebbe rimasta uno dei tanti gruppi, più o meno aperti, numerosi e significativi, che facevano parte del mondo ebraico. E si era trattato di una decisione che Gesù non sembrava aver suggerito, perlomeno non esplicitamente. Si era davvero mosso lo Spirito Santo.
In questa decisione centrale per la vita della chiesa, peraltro, lo Spirito non ha violato la libertà degli uomini. I capi della chiesa, Paolo, Barnaba, gli anziani, sono stati chiamati a collaborare, ad aprire gli occhi, a capire (persino nella fatica e nei litigi…). Senza l’azione dell’uomo, Dio non può agire. Tanto che il «decreto» firmato da Giacomo afferma, non per orgoglio, ma in verità, «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…» (At 15,28): lo Spirito non decide senza l’uomo.
Ma proprio perché si tratta di uomini che pensano, e poiché gli uomini sono condizionati dalla propria storia, cultura e caratteri, Giacomo fa una mossa finissima: non si limita a dire che i frutti dello Spirito hanno già mostrato che Dio vuole questa apertura, ma aggiunge una citazione di Am 9,11-12 (in At 15,15-18), in cui si lega la ricostituzione della tenda d’Israele con l’omaggio a Dio da parte dei non ebrei. Non è un caso che gli ebrei solitamente dicessero che gli «altri» dovessero rispettare solo i comandamenti «di Noè», che sostanzialmente si incentravano sul rispetto della vita. I quattro precetti imposti ai cristiani «greci» ricordano quelli che si chiedeva di rispettare ai «forestieri», a coloro che, in tempi antichi, risiedevano nel territorio d’Israele. Giacomo, insomma, strizza l’occhio anche ai suoi di Gerusalemme, ai cristiani provenienti dall’ebraismo, suggerendo che l’apertura nei confronti dei convertiti dal paganesimo mantiene al centro il mondo ebraico rendendolo soltanto più ampio e ricco.
Noi intanto scopriamo che tensioni, persino scontri, e addirittura limiti e trucchi, fanno parte della Chiesa fin dagli inizi, e non impediscono allo Spirito Santo di agire.