Collaborare (Es 18) nella «normalità»


Il popolo d’Israele è libero, al di là del mare, fuori dalla casa di schiavitù. Ha già sperimentato la nostalgia del passato e il sostegno di Dio (con la manna, l’acqua e persino con un dono che sembra parlare dell’eccezionalità di una festa, le quaglie). Tutto sembrerebbe risolto, ma il percorso in realtà non è finito.

Ora, l’attenzione si sposta su Mosè, chiamato a fare un altro passo, questa volta nella direzione della gestione del quotidiano. Alcune situazioni sono vissute prima da lui, poi vengono vissute in modo simile dall’intero popolo. Tocca ora alla guida di Israele aggiungere un altro mattone.

Una famiglia (18,1-12)

Quando in Esodo 2,15-22 abbiamo incontrato Ietro, il sacerdote madianita divenuto suocero di Mosè, pensavamo che servisse semplicemente a introdurre la moglie, o forse addirittura il figlio. Ma Ietro ora ritorna in scena, imprevisto, e si comporta come se si trovasse di fronte a un popolo stanziale. Infatti si reca in visita dal genero, riportandogli moglie e figli.

In questa veloce annotazione ci sono molti particolari che ci stupiscono. Intanto, non sapevamo che a Mosè fosse nato un secondo figlio, Elièzer. Poi, se Sipporà e i suoi figli vengono condotti nell’accampamento ebraico, significa che non erano con Mosè in Egitto.

Noi lettori sappiamo diverse cose sulle vicende vissute da Mosè e dal suo popolo. Come quest’ultimo avesse dapprima assistito allo scontro con il faraone quasi da spettatore, ma poi aveva dovuto prendere posizione e ogni famiglia aveva dovuto esplicitare la sua identità ebrea (Es 12,7), partire in fretta di notte con carri e bestiame, anziani e bambini, lasciandosi alle spalle gli egiziani in lutto per la morte dei primogeniti. Sappiamo anche che gli egiziani li hanno inseguiti con un esercito veloce e agguerrito. Non sappiamo però quanto tempo trascorre dal primo scontro tra Mosè e il faraone e l’uscita di Israele dall’Egitto. Potrebbero essere trascorsi mesi, oppure poche settimane o addirittura giorni.

In quel tempo Mosè ha rischiato la propria vita esponendosi in prima persona. Il testo ci dice tutte queste cose. Ma che Mosè non avesse portato con sé in Egitto moglie e figli non ce lo dice, e in effetti non ce lo aspettavamo. Li ha lasciati fuori dall’Egitto per precauzione? Come garanzia per il suo ritorno fuori dall’Egitto?

Enigmi

Colpisce, poi, che l’Esodo narri l’accoglienza calorosa che Mosè riserva a Ietro, ma non dica niente riguardo a come abbia ricevuto la moglie e i figli. Certo, possiamo spiegarci questa cosa con il fatto che il mondo culturale da cui il libro dell’Esodo proviene e, ancor di più, quello che intende storicamente narrare, erano contesti fortemente patriarcali e maschilisti, dove inoltre i figli rappresentavano semplicemente la garanzia di continuità del clan, ma non erano valorizzati in sé. È però vero che, nonostante questo retroterra, spesso, nei racconti biblici, le donne vengono presentate con fisionomie nette, con progetti, sogni e frustrazioni proprie, come autentiche protagoniste delle storie che coinvolgono i loro mariti. E nel caso di Sipporà questo non succede.

La figlia del sacerdote madianita aveva agito autonomamente, salvando Mosè, nell’enigmatico episodio in cui, mentre tornavano verso l’Egitto dopo la chiamata divina, aveva salvato la vita del marito circoncidendo il figlio (Es 4,24-26). Ma quel racconto, nel quale peraltro pare che la coppia avesse un figlio solo e che stesse andando in Egitto unita, è l’unico nel quale Esodo parla di Sipporà in modo significativo. E ora, invece, veniamo a sapere che non è stata in Egitto con il marito.

Ciò potrebbe significare che dopo la circoncisione del primogenito Gersom, Mosè ha rimandato alla casa paterna la propria famiglia. Però l’assenza, in quel contesto, del secondo figlio (il cui nome, Elièzer, in Es 18,4, è spiegato alludendo alla liberazione dal faraone) può lasciare intendere che solo dopo un periodo in Egitto, moglie e figli sarebbero stati fatti tornare. Se così fosse, le vicende dello scontro con il faraone sarebbero durate molto più a lungo di quanto il racconto spieghi.

Non lo sappiamo. Come succede spesso nei racconti biblici, ci troviamo di fronte a molte meno informazioni di quelle che noi riterremmo necessarie. Ma, proprio per questo, le notizie che troviamo sono significative. È come se l’autore ci dicesse che non è importante il perché Mosè avesse mandato via la propria famiglia, ma il fatto che ora vi si riunisce.

Una vita normale?

Dopo le vicende epiche dell’uscita dall’Egitto, e le cadute vergognose del deserto, ora Mosè, come il suo popolo, riprende una vita normale. La famiglia è simbolo di ordinarietà, anche per chi in una famiglia non vive (e magari se la ricrea con abitudini, animali o piante «di casa»).

Questa ordinarietà ci restituisce un Mosè non perfetto. Abramo, Elkana (1 Sam 1, il padre di Samuele, più grande profeta-sacerdote d’Israele), lo stesso Giacobbe, avevano avuto con le mogli una relazione intensa, di scambio e di affetto. Mosè, invece, no. O almeno, il testo dell’Esodo non ce ne parla. Sembrerebbe ricadere nel più scontato cliché patriarcale. Esso fa da sfondo ai racconti biblici, ma non è il modello da imitare. Ancora una volta, come nei casi dell’uccisione della guardia egizia (Es 2,12), del matrimonio con una madianita o delle incertezze davanti alla chiamata divina (Es 3-4), la vicenda umana di Mosè sembra perfettibile.

I più grandi modelli di cammino con Dio non sono necessariamente persone del tutto esemplari. A contare non è la loro perfezione, ma la relazione con l’Altissimo. Questo parla, di rimbalzo, anche a noi oggi: la «normalità», la banalità, e, spesso, anche l’imperfezione della vita di ognuno di noi, non sono un impedimento a una relazione intensissima e profonda con Dio.

Nessun integralismo

La stessa sensazione di imperfezione e, in fondo, di normale vita umana, è sucitata anche da un altro particolare: Ietro riconosce le grandi opere compiute dal Signore (chiamato JHWH, il «nome proprio» del Dio d’Israele: Es 18,9), ma poi lo celebra facendo «olocausto e sacrifici a Elohim», chiamando Dio con il suo «nome comune». Siamo sicuri che sia un sacrificio al «Dio giusto»?

Ancora una volta, non siamo certi di nulla. Si può immaginare e sostenere che, dopo aver lodato il Dio d’Israele, Ietro lo onori con il suo sacrificio. Ma d’altra parte non possiamo dimenticare che lui è un sacerdote madianita, incaricato di sacrificare ai suoi dèi, e che non ha ancora una conoscenza profonda del Dio di Mosè.

D’altra parte, Elohim, grammaticalmente, è un plurale. Se è vero che molto spesso nella Bibbia ebraica indica genericamente «Dio», in una forma plurale che è di onore, quello resta comunque un nome generico, che potrebbe anche indicare un sacrificio non a un dio singolo, ma a diverse divinità. Come spesso accade in questo racconto così centrale per la fede ebraica e cristiana, dobbiamo sopportare l’ambiguità.

Alcuni elementi sono tuttavia chiari: la Bibbia, nonostante alcune apparenze e qualche passaggio diverso, non è integralista, e infiltra in molti brani l’impressione di un culto, una morale e una vita che non sono proprio immacolati e limpidi: se restano esemplari è perché si pongono sempre in relazione con Dio, non perché rispettino alla lettera norme e regole.

Un popolo (Es 18,13-27)

Il suocero di Mosè non ha però finito di immischiarsi nell’opera del genero. Si ferma qualche giorno da ospite e, nel frattempo, guarda che cosa succede. Vede che ogni mattina tanta gente va da Mosè per regolare le proprie questioni. La guida del popolo ascolta, valuta, fa capire quale sia la volontà di Dio e passa al caso successivo. Ietro scuote il capo, e spiega al genero che non approva: «Così non va bene! Hai un popolo numeroso, non puoi pensare di provvedere a tutto tu! Stabilisci invece degli anziani che giudichino le questioni ordinarie, e lascia che ti inoltrino soltanto quelle più difficili!» (Es 18,17-23).

Un consiglio di buon senso, semplice da elaborare, a cui Mosè, ci viene da pensare, sarebbe potuto arrivare anche da solo. Eppure, c’è bisogno che glielo fornisca il suocero, sacerdote di quei madianiti con cui gli ebrei avrebbero in futuro fatto più volte la guerra (cfr. Nm 25; Gdc 6-7; ricordiamo che erano madianiti anche i mercanti a cui Giuseppe fu venduto dai propri fratelli: Gen 37,28-36).

Il capo del popolo liberato dall’Egitto, l’uomo che parlava faccia a faccia con Dio (Es 33,11), ha bisogno del consiglio, peraltro non particolarmente geniale, del suocero, per imparare a gestire convenientemente il proprio popolo. E deve imparare a delegare, a farsi da parte, a lasciare che altri lavorino al posto suo, a non avere tutto sotto controllo.

Quale insegnamento per noi?

Noi siamo abituati a spiegazioni didattiche o morali molto esplicite, capaci di dirci con parole chiare che cosa fare e non fare, cosa è bene e cosa è male. In fondo, cerchiamo questo (magari persino per contestarlo) in tutte le tradizioni religiose o legali. Ma le forme religiose, soprattutto quelle più antiche, preferiscono raccontare, e comunicare contenuti attraverso narrazioni e storie.

Il Primo Testamento, per lo più, non fa eccezione: nella storia di Abramo è in realtà contenuta la spiegazione del modo ideale con cui rapportarsi con Dio, così come i primi tre capitoli di Genesi, che apparentemente sono una storiella carina e senza pretese, sono un condensato intensissimo della concezione dell’essere umano, e così via. Non fa eccezione l’Esodo, dove il racconto chiarisce il modo con cui relazionarsi con il Dio d’Israele attraverso un percorso lungo e articolato, nel quale all’iniziale interesse e stupore (Es 3-4) segue l’attento contemplare e soppesare dell’opera di Dio (Es 7-10), fino al momento in cui occorre prendere posizione (Es 11) e addirittura decidere di buttarsi, rischiando la propria vita sulla fiducia di una semplice promessa (Es 14).

Ci si poteva forse immaginare che il percorso fosse finito qui, ma in realtà si tratta ancora di investire fiducia e ascolto in una promessa che non si presenta con manifestazioni eccezionali ma passa attraverso le fatiche e i rimpianti della vita «normale» (Es 15-17).

Questo capitolo ci lancia verso un contesto ancora nuovo. Possiamo essere tentati di ridurre il cammino con Dio alle occasioni eccezionali, eroiche, ma queste sono soltanto un momento, un’introduzione o una svolta, di un percorso che passa dalla vita consueta, quotidiana, fatta di incertezze, tentazioni, ritorni indietro, e anche di mediazioni, di suggerimenti magari banali, di percezione del proprio limite e trucchi per superarlo, persino di piccole o grandi miserie e fragilità.

Nel cammino con il Dio d’Israele non è richiesta l’eccezionalità o la perfezione, ma solo di mettersi in cammino.

Angelo Fracchia
(Esodo 10 – continua)




Mangiare e bere (Es 15,22-17,16)

testo di Angelo Fracchia


Il popolo oppresso è stato liberato, ed è fuori dall’Egitto, vivo, mentre il faraone e il suo esercito sono stati coperti dal mare. L’impresa eroica è stata compiuta (da Dio), la storia può chiudersi sulla sigla finale. O almeno, è ciò che vedremmo in un film.

Gli autori del libro dell’Esodo, però, non volevano raccontarci una bella avventura di cui inorgoglirsi. Il loro obiettivo ultimo era di indicare ai lettori un percorso di fede nel quale avventurarsi: un percorso che cresce sempre, di fiducia in fiducia, di affidamento in affidamento, fino a un passaggio che può essere lancinante, che sembra minacciare la promessa stessa di vita che sta dietro e dentro alla relazione con Dio. Eppure quel passaggio, attraverso ciò che pare indicare la morte, conduce alla libertà.

E poi? La vita è finita? «Vissero tutti felici e contenti»? No, e chi ha scritto il libro sa che la vita è poi fatta di quotidianità banale e insieme faticosa, anche svilente rispetto a quei grandi sogni simboleggiati dal passaggio del mare. Una vita in cui ci si può persino chiedere se quello che abbiamo vissuto non ce lo siamo inventato, o se non abbiamo sbagliato tutto. E in cui ci sembra che a prometterci gioia e vita sia la nostalgia, il passato e il voltarci indietro a guardare ai tempi nei quali (ci sembra) non stavamo poi così male.

Le fatiche e le mormorazioni

E davvero questo libro antico si mostra più intelligente, profondo e acuto di tante nostre produzioni moderne. All’entusiasmo del «cavallo e cavaliere gettati nel mare!» (Es 15,21) segue il racconto di tre giorni di cammino nel deserto, senza acqua. Quando poi la si trova, è imbevibile (15,22-24). Quando poi, dissetati da acque risanate e rifocillati da una nuova oasi finalmente ricca, il popolo si rimette in cammino, arriva il rimpianto per la schiavitù: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (16,3).

È la fragilità umana che tende ad abbellire i ricordi e a far sedere nel rimpianto, anziché camminare in avanti. In questa prospettiva, le pagine dell’Esodo parlano anche a noi e alle situazioni che viviamo, quelle nelle quali ci succede qualcosa di straordinario (la decisione di intraprendere un percorso di formazione, una vita diversa, una relazione profonda), ma il nostro entusiasmo iniziale lascia un po’ per volta spazio alla fatica del quotidiano, alla noia del lavoro arido e pesante, alle sofferenze del cammino di tutti i giorni. E subentra la nostalgia del passato, di quando ci sembrava di essere più liberi, con più possibilità davanti.

Ogni episodio del cammino di Israele nel deserto, quindi, è anche un suggerimento e un’istruzione per noi e per il nostro cammino di fede (fede in Dio, ma anche fiducia nelle persone che abbiamo accanto e persino in noi e nelle nostre scelte).

La «Amara» (Es 15,22-27)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, ad accompagnare il popolo è la sete. Quando finalmente si giunge a un’oasi, la sua acqua è però amara, non bevibile. Il testo insiste talmente tanto sull’amarezza del posto (chiamato proprio così: «Mara», che in ebraico significa «Amara») che non può trattarsi di un caso.

Abbiamo faticato per prendere la decisione di fidarci, ci siamo buttati, ci aspettavamo di essere trascinati solo dall’entusiasmo e siamo invece presi dalla sete, dalla fatica, e vediamo che i nostri sforzi non sembrano portare frutto. Subentra lo sconforto di chi sta male e pensa di essersi ingannato. L’acqua è imbevibile.

Mosè si rivolge a Dio, il quale gli fa gettare nell’acqua un legno. Questa scena fa ricordare il bastone steso sulle acque del mare per dividerle. Questa volta viene divisa l’acqua sana, che fa vivere, dall’amaro che conteneva. Potrebbe quasi sembrare un gesto con echi magici. Dobbiamo però ricordarci che le realtà più profonde e autentiche che viviamo, più spirituali, hanno bisogno di segni materiali per essere espresse: l’amore che lega due persone si incarna in regole di vita insieme ed è simboleggiato da un anello, la dedizione agli altri, magari, si incasella dentro norme protocollari e si esprime in una divisa da inferniere, da vigile del fuoco, e così via. Anche la religione non sfugge a questa dinamica: l’intento è di dirsi e pensarsi in comunione con Dio, e per farlo passiamo attraverso formule, gesti e riti che, a prima vista, parrebbero la negazione di una vita spontanea.

E il rischio c’è. Il bacio, che univa una coppia all’inizio del loro percorso in una promessa quotidiana, può diventare semplice routine, come quella di prendere chiavi di casa e portafogli prima di uscire. Il rischio esiste anche nella religione, e non è un caso che il gesto di Mosè sia preceduto dall’appello a Dio, dalla richiesta e risposta divina, che si fa gesto rituale (il legno sulle acque) e norme («il Signore impose al popolo una legge e un diritto»: 15,25).

Viviamo dentro a riti e regole, che restano autentici e vitali finché si mantengono collegati a ciò che esprimono, a una relazione vitalizzante con colui che ci libera sempre, non solo all’inizio. Il senso del rito, in fondo, è questo: rimandarci a un’esperienza di relazione che si è dimostrata affidabile, per trovare la forza di fidarci ancora.

E può essere confortante, per quanto marginale, l’annotazione di Esodo che, dopo la Amara (divenuta però dolce), ci sarà ad accogliere il popolo un’altra oasi, con ben dodici sorgenti (15,27): il cammino è faticoso e duro, ma non privo di sorprese anche positive, di inattesi (e non promessi) squarci di respiro.

Quaglie e manna (Es 16)

Dall’oasi paradisiaca bisogna però ripartire, e presto si fanno sentire di nuovo la fame e la sete, insieme alla paura di soffrirne, che forse è persino peggio. E allora, di nuovo, spunta la nostalgia per le «cipolle d’Egitto».

La risposta divina è particolare. Dio si lamenta della sua durezza di cuore e della poca fiducia del suo popolo, ma intanto si prende cura di lui, fa cadere a terra, nell’accampamento, quaglie da mangiare (16,13). In più, al mattino, è presente una «cosa fine e granulosa» che lascia perplessi gli Israeliti (secondo l’autore biblico la domanda «che cos’è? – man hu?», avrebbe portato al nome di «manna»). Sarà il loro cibo per quaranta anni, un cibo dalle caratteristiche molto speciali.

Si forma intorno all’accampamento ogni mattina. Chi si fa prendere dall’ansia e dall’accaparramento e ne raccoglie più di quanto gli serve, ne riempie comunque solo un omer, una misura prestabilita (non ci è neppure chiaro a quanto equivalga), mentre chi non riesce a raccoglierne tanta, ne avrà comunque un omer (16,16-18). Chi poi, preoccupandosi che forse il giorno dopo non ne avrebbe trovata, ha deciso di tenerne un po’ da parte, la trova marcita (16,20). Solo al sabato la manna non si presenta, ma quella del venerdì, raccolta in quantità doppia, non marcisce il giorno dopo (16,22-27). Infine, quella che non era raccolta al mattino presto, con il crescere della temperatura svanisce (16,21).

Da sempre i commentatori ebrei hanno pensato che una descrizione così particolareggiata intendesse parlare anche d’altro, del nutrimento che gli esseri umani possono cercare e ottenere in Dio, quello che potremmo definire la forza di affrontare il quotidiano, la prospettiva di speranza, le riserve di serenità e gioia.

Niente di tutto ciò può essere accumulato: non mi è possibile oggi raccogliere il doppio di amore allo scopo di averne anche per domani. Non mi basta la fiducia e la serenità che avevo ieri per vivere oggi. Ogni giorno ha bisogno del suo nutrimento, occorre sempre pensare al momento presente, rimandando al futuro ciò che accadrà.

E questo è anche il senso della preghiera di Gesù, che nell’invitare i discepoli a chiedere al Padre il proprio pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3) sembra ricollegarsi alla manna invitando a invocare il nutrimento per l’adesso, per il giorno presente, confidando che Dio ne donerà ancora per i giorni a venire.

Scoprire che il nutrimento fondamentale per la nostra vita non può essere accumulato, ci predispone di nuovo all’atteggiamento ideale da tenere non solo verso Dio, ma in fondo anche verso tutto ciò che ci fa vivere e sorridere: tenersi lontani dall’accaparramento ci spinge alla fiducia, al confidare nel fatto che verra anche domani quello che ci è stato garantito oggi. Ciò che nella vita più conta, e che non è certo il cibo, non può essere chiuso in una dispensa: bisogna sperare e confidare che ci verrà donato giorno dopo giorno.

I nemici in battaglia (Es 17)

Il senso profondo di questi episodi è richiamato dall’ultimo in elenco, la battaglia contro Amalék, che potrebbe sembrare il meno prodigioso e miracoloso. Capita che nel Sinai le quaglie in transito cadano al suolo. Il fatto che passino così vicine e ne cadano così tante da sfamare un popolo proprio quando questo chiede da mangiare, sembra una coincidenza miracolosa. La descrizione della manna fa pensare alla resina della tamerice o a una secrezione di alcuni insetti che vi vivono sopra, ma la sua quantità e regolarità possono stupire.

Meno miracolosa appare la vittoria sui nemici. Che nel deserto vivano tribù di seminomadi, combattive ma poco numerose, infatti, non è mai stata una novità, e un popolo così numeroso come quello ebraico poteva immaginare di batterle senza problemi.

Ma proprio qui si svela che a fare sopravvivere il popolo non è la sua stessa forza, il suo numero o la sua capacità, bensì la presenza di Dio. Lo si ribadisce in un modo che potremmo definire quasi ingenuo e «magico», perché Israele, nella battaglia contro Amalék, ha la meglio solo fino a quando Mosè riesce a impetrare da Dio la salvezza tenendo le braccia sollevate al cielo, e perde quando Mosè, stanco, abbassa le braccia. Finché non arrivano Aronne e Cur a tenergliele sollevate, fino alla vittoria (17,12).

La nostra sensibilità resta infastidita da tali scene di battaglia, spesso condite dallo sterminio dei sopravvissuti (17,13), ma dobbiamo ricordarci che qui è ampia la nostra distanza culturale da chi ha scritto e leggeva queste pagine. Quel mondo era abituato a vedere e subire crudeltà e violenza, e probabilmente percepiva che nello sterminio finale c’era più cliché e narrazione stereotipata che descrizione storica di un massacro realmente avvenuto.

A essere significativo e centrale, nel racconto non è tanto la vittoria del popolo, ma come essa avvenga, cioè grazie all’intervento di Dio. In fondo questa scena chiarisce, in modo molto visivo e apparentemente un po’ ingenuo, quello che nel corso del libro si dice regolarmente, ossia che a far vivere gli ebrei non è l’intelligenza o la forza umana, ma la relazione con un Signore che li ha liberati e, in più, non cessa mai di prendersene cura, offrendo acqua, cibo, sopravvivenza e sicurezza.

E che in cambio chiede solo di fidarsi di lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 9 – continua)




L’estate del nostro scontento

Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».

Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».

Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».

Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.

padre Giacomo Mazzotti


Prima santi, poi missionari

Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.

Missionari santi

Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.

Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».

Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».

Prima l’essere, poi l’operare

L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».

Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».

Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».

Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».

È lo Spirito che converte

La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».

Così ragionano i santi

I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!

È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!

Padre  Francesco Pavese

 




Il mare (Es 14,1-15,21)

testo di Angelo Fracchia |


All’inizio del quattordicesimo capitolo del libro dell’Esodo troviamo il popolo ebraico in una situazione scomodissima: durante la tragica notte in cui sono morti i primogeniti egiziani e si è celebrata la prima pasqua, tutti sono partiti per fuggire dalla «terra di schiavitù». Tutti: uomini, donne, bambini, anziani, bestiame… non può certo trattarsi di una carovana veloce. Sappiamo soltanto che, dopo quella che potrebbe sembrare una peregrinazione senza meta (Es 14,2-3), il popolo si trova stretto tra due minacce: davanti il mare, alle spalle il faraone, che si è pentito di averli lasciati partire e ha deciso di inseguirli per ricondurli in schiavitù o sterminarli.

Non sembra esserci via di scampo.

Senza scampo?

Conosciamo bene questa pagina, che si risolverà con l’apertura delle acque del mare da parte di Mosè, con il popolo che attraversa i suoi fondali all’asciutto e con l’esercito egizio che, mentre insegue, viene travolto dalle acque che tornano al loro posto.

È una scena grandiosa, epica, anche crudele, che non a caso conclude quasi sempre le presentazioni «cinematografiche» della vicenda di Mosè.

Il fatto però che, giunti a questo punto della vicenda, il libro dell’Esodo non sia ancora arrivato a metà, suggerisce che il ragionamento biblico è probabilmente più complesso e meno superficiale, e prende in considerazione che la libertà miracolosamente donata non è e non può essere l’ultima parola.

Ma su questo torneremo più avanti. Intanto leggiamo come avviene l’evento poderoso.

Che cosa accadde davvero?

Tanto poderoso e solenne che non può che far sorgere la domanda su che cosa sia davvero, storicamente, accaduto.

Davvero possono essere fuggite dall’Egitto e aver peregrinato nel deserto per quaranta anni seicentomila persone (Es 12,37: e senza contare i bambini)?

Facile per gli archeologi far notare che avrebbero dovuto lasciare qualche traccia in una terra che, con la poca pioggia che riceve, cancella solo molto lentamente i segni di ciò che subisce.

Davvero possono essersi aperte le acque di un mare profondo, per far passare un intero, numeroso (e lento) popolo, mentre l’esercito che lo inseguiva vi moriva? C’è chi giustamente segnala che quello che noi traduciamo come «Mar Rosso» è in ebraico «Mare delle canne», il che farebbe pensare piuttosto a qualche acquitrino poco profondo.

Non sarebbe impossibile immaginare, a quel punto, che il «forte vento da oriente» (Es 14,21) possa essere lo khamsin, una specie di scirocco caldo e secco che in Egitto si alza tra marzo e giugno. In questo caso, però, a essere poco probabile è l’annegamento dell’esercito egiziano.

Come succede per il percorso esatto seguito dagli ebrei nel deserto e nel Sinai, o per la localizzazione precisa del Sinai stesso, dobbiamo accontentarci di ipotesi, alcune delle quali più convincenti, ma che devono essere tutte subordinate alla convinzione che, per chi ha scritto il libro, non era importante cosa era accaduto storicamente e come, ma il senso della vicenda.

A questo punto, possiamo anche continuare a leggere ipotesi e argomentazioni (alcune molto interessanti), ma sapendo che, per interpretare correttamente il libro, dobbiamo fare attenzione a ben altro.

L’ora decisiva

Il libro dell’Esodo racconta questa vicenda come centrale per il popolo d’Israele, ma non la narra al solo scopo di far conoscere a Israele il suo passato, piuttosto per mostrare che la dinamica di quello che avvenne nell’uscita dall’Egitto è vera sempre, nella vita di ogni credente. Verrebbe da pensare, addirittura, che sia una dinamica vera non solo per i credenti nel Dio biblico, ma per chiunque si fidi di qualcuno o qualcosa.

Il popolo ebreo ha assistito, dapprima quasi da spettatore, alle vicende di Mosè. Certo, era dalla sua parte, non era un pubblico neutrale, però sostanzialmente non aveva neppure offerto a Mosè un grande sostegno.

Nella notte di pasqua aveva, invece, dovuto prendere una decisione. Dapprima più «leggera», radunandosi a celebrare la pasqua spargendo il sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte, denunciandosi così come quegli schiavi che si stavano preparando ad abbandonare il paese. E poi una più «pesante», con la scelta di partire, di abbandonare la «casa di schiavitù».

Ognuna di queste scelte richiede fiducia, non alla cieca, ma sulla base dell’affidabilità divina, «dimostrata» dalle decisioni precedenti. Ogni scelta, però, non diventa materiale di «prova», ma solo conferma di un’affidabilità. Non si esce mai dalla fiducia, fino alla fine. Anzi, pare che ogni scelta di fidarsi rilanci verso un’altra ancora più grande.

Fino a quella definitiva, decisiva. Perché quella parola che invitava a fidarsi chiede di entrare nel mare. Che si è aperto, è vero, ma quanto può essere affidabile o pericoloso?

Mare, mondo del caos

Aggiungiamoci ancora che, per il mondo semita in genere, il mare è il mondo del caos, del disordine, del male, della morte. Secondo la tradizione ebraica Dio, nella creazione, mette ordine, divide le acque tra di loro, e poi dalla terra (Gen 1,6-10).

Nella struttura ideale ebraica, riprendendo antiche costruzioni mentali sumere, chi divide garantisce la vita. Anche nell’organizzazione del popolo ebraico, Israele è separato dalle genti, e al suo interno una tribù, quella di Levi, è distinta dalle altre (non possiede terra) e una delle sue famiglie (quella dei discendenti di Aronne) è ulteriormente separata allo scopo di servire con il sacerdozio.

Ma il mare è il luogo in cui non si possono tracciare confini, righe, divisioni. Ecco perché è sempre stato ritenuto il luogo più minaccioso tra tutti quelli naturali.

E Dio chiede di entrarvi, di addentrarsi in ciò che più si teme, nella paura anche irrazionale. Non offre garanzie, assicurazioni. C’è solo una parola a chiamare alla libertà al di là del mare.

 Fidarsi

Arriva un momento in cui la chiamata al bene, alla vita, sembra assumere la forma di ciò che la nega: sarà il matrimonio per due innamorati, la consacrazione per altri, ma anche la scelta definitiva e irrevocabile in una professione, e altro ancora, saranno tutte quelle sfide e scelte che ognuno di noi conosce e che a volte sfuggono persino a chi ci è vicino.

Su tutto ciò, Esodo ribadisce in modo netto che ci sarà bisogno di dare fiducia a ciò che (e a chi) ci promette vita. Non abbiamo garanzie o assicurazioni. E questa certezza, che già non sarebbe poco, si accompagna al chiarimento di altre coordinate che parlano di che cosa succede al credente di ogni tempo quando si avventura nella relazione con Dio, ma in fondo spiegano anche che cosa accade a chiunque si fidi.

Fidarsi resta l’avventura più straordinaria e umanizzante delle vicende di tutti.

Il senso della pasqua

Proviamo a mettere un po’ in ordine queste coordinate, così come scaturiscono dal racconto.

  1. a) Attraversare, non aggirare. Il mare che ci sfida, che ci minaccia, che pare negare la promessa, può essere vinto soltanto attraversandolo. Non aggirandolo, evitandolo, venendo miracolosamente attratti da un’altra parte. L’abisso si vince guardandolo negli occhi. Gesù verrà liberato dalla morte morendo.
  2. b) Chiamata e relazione. Si può decidere di attraversare questo mare solo perché chiamati da una voce a passare all’altra sponda. Non è frutto di calcolo (nessuna delle questioni importanti della nostra vita può essere semplicemente calcolata, esigono tutte che ci fidiamo), ma neppure di solo senso del dovere. C’è una relazione personale alla base. Chi si sposa, non lo fa per difendere il matrimonio, ma per amare quella persona lì; il genitore che si sacrifica in un lavoro lontano da casa, non lo fa perché è doveroso mantenere i figli, ma perché quei figli hanno dei nomi e delle storie. Non è la mappa a portare al di là del mare, è il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» a invitare a fidarsi e a passare di là.
  3. c) La salvezza, la libertà, la vita, non consistono nel tornare indietro. Tornare indietro è la tentazione del popolo nel deserto, ed è molto spesso la nostra tentazione: quella di voltare le spalle alla meta, di vivere di nostalgia e di rimpianti. La vita autentica non sta nel passato, ma può essere raggiunta solo andando avanti, procedendo. Il passato può essere conferma di affidabilità di chi chiama o consapevolezza di schiavitù, ma non può tornare.
  4. d) Davanti c’è una promessa. Non una garanzia, un progetto, ma una parola personale che chiama. Il futuro resta incerto e ambiguo, ma non lo vivremo da soli.
  5. e) Una bozza, non un progetto definitivo. Nulla è già inserito in un piano dettagliato. Anche nella storia religiosa spesso lo si è immaginato, sognato. Le apocalissi ritenevano che Dio avesse già deciso tutto il piano del suo intervento. Nel percorso di Esodo, però, tanti passaggi sembrano casuali, imprevisti e imprevedibili. Ma tutti si svolgono alla presenza di Dio, che non ha progettato tutto, eppure garantisce che non abbandonerà nessuno. Già all’inizio della storia, quando Mosè aveva chiesto a Dio di presentarsi, non aveva risposto con una definizione o un progetto, ma con l’assicurazione che non sarebbe sparito (Es 3,14).
  6. f) Un paradosso: scelta di amore e libertà. Questo pone il credente nel Dio della Bibbia in una posizione apparentemente paradossale. La storia non è già scritta, Dio non l’ha già in mano e non conosce il futuro. Se così fosse, l’uomo non sarebbe libero. Una delle caratteristiche costanti di tutta la Bibbia (e tantissimo di Esodo), invece, è che Dio ricerca la relazione con l’uomo, una relazione di affetto e libera. Quindi, una relazione che esige la piena libertà dell’altro. Non può esistere affetto senza libertà: anche chi vorrebbe legare l’amato per non farlo andar via, in realtà vorrebbe che l’amato, pur potendosene andare, non lo voglia fare. Dio è così, rispetta la libertà umana e quindi non sa che cosa risponderà l’uomo.

Un «senso» da scoprire

Dio ha tutto in mano e rende pieno di senso il percorso di ogni uomo; ma, nello stesso tempo, decide di ritrarsi, per lasciare piena libertà a ogni singolo essere umano. In tal modo, Dio perde la possibilità di indirizzare la storia su binari sensati. Questo, di cui spesso ci lamentiamo («Oh, se solo Dio punisse i malvagi! Ma perché permette tutto questo?»), è il segreto della piena libertà e dignità nostra. Dio non ci tratta da bambini piccoli, ma da adulti che possono responsabilmente e autonomamente decidere. Ciò restituisce alle vicende storiche tutta la loro incertezza.

No, non tutto è sensato, nella grande storia dell’umanità e nella nostra personale, ma Dio promette che tutto verrà raccolto, alla fine, in un grande quadro di senso e di vita piena.

Per una volta, lasciamo che a chiudere la riflessione sul passaggio del mare siano le parole di un bravo biblista, Paolo De Benedetti, parole pesate e precisissime, che già hanno ispirato molto di quello che c’è scritto in queste pagine: «Il senso dell’Esodo è che la terra promessa c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, probabilmente non ce l’ha, ma (è questo il paradosso del credente) le verrà dato».

Angelo Fracchia
(Esodo 08 – continua)




Il Passaggio (Es 12-13)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Nelle narrazioni, così come nelle nostre vite, ci sono interi periodi che si possono riassumere in un pugno di frasi, e ci sono singoli eventi che richiedono ampi racconti. Si possono descrivere, ad esempio, quarant’anni in pochissime parole e, allo stesso tempo, essere costretti a narrare una sola notte in diversi capitoli. È ciò che succede con la narrazione della notte di Pasqua. Ci sono momenti che non hanno lo stesso peso degli altri, e meritano di essere affrontati con ampiezza.

Il mese scorso abbiamo già mostrato come confluiscano nella tradizione pasquale e nel suo racconto tre tipi di festa (una pastorale, una agricola e una storica), e abbiamo affrontato lo spinoso tema del male inflitto da Dio agli Egizi. Qui ci concentriamo su quello che il racconto dice, cercando di evidenziarne alcuni contenuti.

La prima pasqua

Le modalità che il Signore indica a Mosè per celebrare la festa di Pasqua sono una legge vera e propria, con suggerimenti precisi che indicano il senso di ciò che si dovrà celebrare. Il Signore affida questa legge a Mosè, ma non solo a lui, anche ad Aronne (12,1), e la offre loro «nella terra d’Egitto». Quasi tutte le leggi citate nell’Esodo vengono consegnate da Dio a Mosè sul Sinai. Tra le eccezioni c’è la circoncisione, che però era già stata praticata da Abramo, apparentemente dimenticata e poi recuperata (sembra) tramite il curioso e inquietante racconto di Es 4,24-26.

La circoncisione e la Pasqua sono norme radicali, fondamentali. La prima è un segno di alleanza che era stato affidato a uomini che non sapevano dove avrebbero dormito, chi li avrebbe tutelati, dove sarebbero stati sepolti. È un gesto di fiducia nella presenza di un Dio-persona che non abbandona.

La Pasqua nasce in un ambiente straniero, ostile, da cui si sta per fuggire. Non c’è più l’inquietudine di chi teme pericoli per sé e per i propri cari, ma la consapevolezza di chi sa che i pericoli esistono, li ha già subiti e ne vede di più grandi all’orizzonte. Non è la paura un po’ vaga dei bambini, è la consapevolezza degli adulti che decidono di fidarsi pur sapendo che in tal modo perderanno comunque qualcosa, che la scelta è rischiosa, che in palio c’è la libertà, ma anche il rischio della morte.

In entrambi i casi, la fiducia non dipende dalle proprie capacità o da un’assicurazione scritta, bensì da una parola di promessa, una relazione. Prima di tutte le leggi, nella Bibbia, c’è il rapporto con Dio. Fuori da questo, le leggi non hanno senso.

L’invito fatto dal Signore per celebrare la Pasqua è ad allestire una cena. I nostri pasti non servono mai soltanto a nutrirci.

Diverso è mangiare con tutta la famiglia riunita, nelle sue varie generazioni, magari cucinando piatti tradizionali, antichi, con calma, al modo con cui si facevano una volta, insegnandoli ai nipoti (dando un enorme rilievo alla continuità nella e della famiglia – e non a caso sono pochi i pasti di questo tipo -), oppure andare con gli amici nel locale più alla moda, o nel quale ci servono più in fretta oppure si possono gustare piatti nuovi (anche questa non è una scelta neutra: è decidere di concentrarsi nel presente, a volte rifiutando volutamente il passato).

Una cosa è lasciare che ognuno si prenda una scatola di biscotti e si rifugi nella propria camera, un’altra è cucinare insieme una grigliata in cui non ci sono posti fissi e tutti gli invitati portano qualcosa.

Ogni stile di pasto comunica qualcosa, sottintende qualcosa. Il problema dei sottintesi però è che possono essere fraintesi, e se fraintesi, possono far nascere sentimenti ancora più forti e violenti di quelli che nascerebbero dalle parole.

Non a caso, quando nelle famiglie si litiga, tutto il rituale che sottintende armonia (pensiamo al tempo di Natale) diventa faticoso e logorante, perché diventa falso, comunica ciò che non si vive.

Lo stile della festa

Agli ebrei Dio indica lo stile della festa: ognuno si troverà in una famiglia che sia autosufficiente, che riesca a mangiare uno o più agnelli per intero. Una famiglia, ossia un ambiente umano al cuore del quale ci sono le relazioni, non l’età o la professione o le idee. Ma non il nucleo ristretto fatto di padre, madre e figli: le indicazioni esplicitano che nei nuclei singoli si è troppo pochi, ci si deve unire ad altri. Un gruppo umano legato dalla parentela, ma abbastanza grande da consumare almeno un agnello intero, e non così piccolo da essere facilmente spazzato via.

Il cibo ricorda la provvisorietà della vita dei pastori: non bisogna avanzare niente, si cuocerà l’agnello alla brace (il modo più semplice, per chi è in cammino, senza stoviglie, senza condimenti speciali…), lo si accompagnerà con pane non lievitato (quello usato allora era il lievito madre, messo da parte dalla massa e tenuto per la volta dopo, con la necessità di tempi lunghi di lievitazione e dispense fresche e buie) ed erbe amare (cioè quelle che crescono spontaneamente nei campi, e non quelle coltivate, più dolci). In più, l’allestimento, soprattutto guardando al dettaglio dell’agnello «maschio, perfetto, nato nell’anno», da cuocere arrosto, sembra rimandare ai sacrifici: ciò che accadrà questa notte coinvolge Dio.

Se non bastasse il menù, si precisa che bisogna mangiarlo con i sandali ai piedi e la cintura ai fianchi, come se si fosse pronti a partire, e «in fretta», con una parola che non viene quasi mai usata nella Bibbia, e che, quando viene usata (in Dt 16,3 e Is 52,12), succede in due brani che parlano della Pasqua. Esprime una trepidazione unica, peculiare, che non può confondersi con nessun’altra. È l’ansia dello studente prima dell’esame di maturità, di due sposi la sera prima del matrimonio: paura, mescolata a speranza, insieme alla consapevolezza che da domani nulla sarà più come prima.

Il sangue alle porte

Insieme agli elementi che rimandano a un rito, che sia più pastorale (l’agnello) o agricolo (gli azzimi), ce ne sono altri che rinviano alla storia, ad esempio l’invito a bagnare col sangue dell’agnello gli stipiti delle porte.

In questo invito particolare, possiamo intravedere, mescolati tra loro, almeno quattro messaggi che il testo probabilmente vuole trasmetterci.

1) Il sangue è la sede della vita. La vita è di Dio. Non è un caso che agli ebrei resterà vietato cibarsi di sangue, perché significherebbe oltrepassare i propri confini e mettersi al posto di Dio, quasi si fosse signori della vita (cfr. Lv 17,12-14). L’aspersione con il sangue non è soltanto un gesto apotropaico, ossia un gesto che vuole scaramanticamente tenere lontano il male evocandolo (come quando ci auguriamo «in bocca al lupo»): è Dio stesso che si pone sulle porte. Dio è coinvolto, e non è neutrale.

2) L’aspersione è un gesto antichissimo, «copia» un rito già esistente. Nella tradizione vicino orientale, le porte della casa, il luogo di comunicazione con l’esterno e quindi il più fragile, il più esposto anche al malocchio, deve essere difeso da amuleti. Il sangue può essere uno di questi. Non è un rito ebraico. Nessuno di noi, però, viene dal nulla, siamo sempre figli di tradizioni e abitudini che risalgono a prima di noi e ci condizionano. A volte i «puristi» (e ogni tanto lo siamo stati tutti) vorrebbero eliminare dalle tradizioni ciò che le precede, perché siano senza mescolanze. Ma nulla nella vita umana è totalmente puro. Quando Dio si incarna, non si vergogna di questa «mescolanza», che è la normale condizione umana, e vi entra anche lui, la accoglie, la fa sua. Anche se non a ogni costo e in ogni caso. In quel rito di aspersione, che esisteva già prima degli ebrei, solitamente si difendevano tutti i lati del passaggio (i tre stipiti e la soglia), e quindi anche la soglia (nella nostra tradizione, a volte, la soglia di casa non si deve calpestare: eredità superstiziose antichissime). In Esodo, Dio invita a non prenderla in considerazione. Come a dire che la relazione con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe resta aperta all’incertezza, al non tutto deciso, quindi alla fiducia.

3) Il sangue sugli stipiti, poi, è anche un segno visibile all’esterno. Chi passa per strada può riconoscere che lì dentro ci sono ebrei, ed ebrei che hanno deciso di ascoltare la voce di Dio. Finora, nello scontro tra Mosè (o Dio) e il faraone, il popolo sembra quasi essersi messo da parte, come uno spettatore. Viene però un momento in cui non si può più rimanere fuori, occorre mettersi in gioco, decidere da che parte stare. È questo il momento.

Una tradizione intrecciata

4) L’ultimo aspetto merita di essere trattato un po’ più a fondo, perché riguarda tutto il Primo Testamento. Nel capitolo 12 di Esodo troviamo accenni alla Pasqua «pastorale», alla Pasqua «agricola» e alla Pasqua «storica» (questa emerge con più chiarezza negli stipiti bagnati di sangue ma fa anche da cornice a tutto il racconto).

I tre aspetti vengono intrecciati, mescolati, quasi confusi, anche a costo di perdere un po’ in coerenza narrativa. Ma è l’approccio normale della Bibbia.

Noi uomini del nostro tempo tendiamo a distinguere, separare e analizzare. Il mondo biblico sa che la vita umana è interconnessa, intricata, persino confusa. E chi scrive, anche se si trova davanti tre tradizioni diverse, distinte e separate, le unisce come nella vita. In tal modo «costringe» ognuno a riconoscere dignità anche alle tradizioni diverse. Il contadino che ha sempre celebrato la Pasqua come festa stagionale, con gli azzimi e la mietitura dell’orzo, riconosce Es 12 come brano fondamentale per comprendere la propria festa. Quel passo, però, è anche centrale e fondamentale per il pastore che celebra la pasqua dell’agnello, delle erbe amare e dei sandali ai piedi. Anche il cittadino riconosce in quella tradizione soprattutto la storia del popolo. Ognuno ritrova le altre tradizioni nel «proprio» testo e impara ad accoglierle e rispettarle come affidabili, autentiche. E capisce che non è semplicemente un mettere insieme solo ciò che è comune, ma un unire e ampliare le tradizioni di ognuno. Ciascuno, quindi, non solo si ritrova a casa propria, ma anche insieme a dei compagni di casa che forse non immaginava di avere.

Un’unica storia

Chi parte dall’Egitto porta con sé un bottino (Es 12,34-36), quasi fosse un esercito vincitore. Ma questo esercito, che si rassegna a prendere la strada più lunga, per non far scoraggiare nessuno di fronte ai pericoli (13,17-18), è composto da carri, vecchi, bambini, donne incinte, bestiame, e si ritrova in una marcia che non può che essere lenta e fragile.

Gli Ebrei portano con sé le ossa di Giuseppe, per non lasciare nulla in Egitto: i ponti con la «casa di schiavitù» saranno tagliati in modo definitivo. E si guarda già avanti, alla celebrazione del «memoriale»: non un semplice ricordo, ma la ragione delle proprie scelte in ogni tempo, anche oggi (Es 13), come due sposi che rivivano insieme la memoria di come si sono conosciuti sessanta anni prima.

Il numero di coloro che abbandonano l’Egitto è fissato in seicentomila uomini adulti (12,37), cifra assolutamente inverosimile, secondo alcuni raggiunta forse nel momento di massimo splendore dei regni di Israele. L’idea è che in quella schiera che fugge sono già raccolti tutti i futuri credenti, i quali infatti saranno chiamati a riconoscersi nel Dio
d’Israele rievocando quel «passaggio» fatto di fiducia in una parola di promessa divina.

Non è un caso che l’etimologia della parola «Pasqua», abbastanza oscura, venga fatta risalire volentieri, dalla Bibbia e dalla tradizione ebraica, a «passaggio». L’angelo della morte «passa» attraverso l’Egitto, «passando oltre» le case degli ebrei, ma loro stessi sono chiamati a «passare fuori» dall’Egitto, decidendo, finalmente, di «passare» dalla parte di Dio. Non c’è nulla di statico, nulla di assicurato, è una vita in corso, fatta di promesse e fiducia.

Dio, in cambio, sarà per loro colonna di nubi che guida durante il giorno, e colonna di fuoco che protegge dalle incognite del buio durante la notte (13,21-22).

La storia non è finita, il popolo non è salvo. Ma ha preso una decisione. E, anche se questa verrà rimpianta e contestata, resta un primo passo deciso nella direzione della fiducia in Dio.

Angelo Fracchia
(Esodo 07 – continua)




L’angelo della morte (Es 11)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Il racconto della Pasqua è il centro del libro dell’Esodo, di cui copre direttamente quattro capitoli. Essi a volte si fanno un po’ contorti, anche perché non sono solo delle narrazioni, ma il fondamento della vita liturgica e della preghiera di Israele. In particolare, fondano liturgicamente una festa assolutamente centrale, che nel tempo ha raccolto in sé diverse celebrazioni nate precedentemente in tempi e luoghi differenti.

Le tre feste

  1. La Pasqua nomade.

Da una parte c’è una festa che si celebra in un giorno preciso dell’anno, il 14 del mese di Nisan. I mesi ebraici sono basati sui ritmi della luna: il primo giorno del mese coincide con il novilunio, per cui a metà mese splende la luna piena. Per evitare che, col tempo (e come accade con il calendario lunare islamico), i mesi finiscano con lo scivolare fuori dal loro contesto stagionale, il calendario ebraico riadatta la scansione lunare a quella solare tramite un complesso sistema di integrazioni, un po’ come succede con i nostri anni bisestili.

Questa festa «a data» (anche se sembra che in origine potesse essere celebrata solo quando la luna piena effettivamente si vedeva, cioè con cielo sereno) segnava per i pastori l’uscita dagli accampamenti invernali, più sicuri ma ormai sporchi e con poco cibo. Era il momento di partire in transumanza, confidando che nei pascoli del «deserto» fosse piovuto e ci fosse quindi speranza di vita ed erba fresca. Era un passaggio segnato dall’incertezza e dalla paura di brutte sorprese lungo il viaggio e all’arrivo. Spesso l’umanità esorcizza la paura anticipandola, quasi pagando un prezzo alla sfortuna. Per questo, prima di partire, i pastori sacrificavano un agnello nato nell’anno, simbolo della speranza di vita, quasi a garantirsi di aver pagato il conto con la morte. E poi consumavano il pasto che avrebbero mangiato per mesi da nomadi: senza comodità, finendo tutto quello che cucinavano, con erbe «amare» (cioè selvatiche, non coltivate), pronti a ripartire subito.

  1. La Pasqua sedentaria.

I contadini celebravano una festa diversa, al momento della mietitura dell’orzo. L’orzo nel Vicino Oriente matura tra marzo e inizio aprile, dipende molto dalle piogge invernali ma non viene minacciato dal calore dell’estate. È il primo cereale a spezzare il digiuno invernale. Non garantisce cibo per tutto l’anno (per quello diventa prezioso il grano di maggio-giugno), ma costituisce in qualche modo la promessa che il cibo ci sarà. Ecco perché in primavera la consuetudine è di purificare le madie, gettando tutti i cereali e le farine vecchie, per evitare che vi si annidino funghi e germi pericolosi per la salute. Ecco la celebrazione degli «azzimi».

Anche i contadini sono coscienti che questo buttare il cibo vecchio, che pure è passaggio di sanificazione doveroso, è un gesto rischioso, che chiede fiducia nel futuro. La festa col primo raccolto è già reale, ma rimanda a una festa maggiore, che si compirà, più o meno, cinquanta giorni più tardi, alla mietitura del nuovo frumento.

  1. La Pasqua storica.

In questo contesto si inserisce un terzo ricordo festoso, che non richiama i cicli della natura, ma un evento storico nel quale almeno alcuni gruppi di ebrei avevano vissuto un’esperienza di liberazione da un’oppressione mortale, dalla quale erano stati liberati dovendosi fidare di una promessa che li invitava ad attraversare i rischi della morte per approdare alla libertà. È il racconto principale dell’Esodo, che raccoglie intorno a sé, come sintesi, anche le altre esperienze.

Queste, che erano da tempo celebrate in autonomia, a un certo punto inizieranno a essere festeggiate insieme alla terza, con una certa forzatura da parte di tutte, ma anche con un reciproco riconoscimento: cioè che la logica di fondo restava la stessa, quella di una fiducia oltre i timori, in vista di un «di più» di vita. Chi le ha unite ha colto che, nella varietà delle esperienze che testimoniavano, condividevano lo stesso approccio di fiducia in una parola che chiamava a vivere.

L’ombra della morte

Su tutto questo si affaccia la presenza particolarmente inquietante e fastidiosa della morte. Non solo della morte che colpisce i nemici della vita, ma anche della morte degli innocenti.

Ancora una volta, e prima di avere qualche indicazione interpretativa in più, dobbiamo ricordarci che leggiamo testi che vengono da culture lontane dalla nostra.

Tutte le generazioni umane, da che ne abbiamo memoria, lamentano la decadenza dei tempi e la degenerazione dei costumi, rimpiangendo quando si era giovani e il mondo andava molto meglio. È una lamentela che troviamo già su manoscritti di cinquemila anni fa. Chi però guarda la storia umana un po’ più dall’alto, deve ammettere che questo pessimismo è sufficientemente infondato. Il nostro tempo è gonfio di ingiustizie, di violenze, di sopraffazioni, di morti innocenti e di ingiustizie non sanate. Ma parole come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non accetta distinzioni per ragioni di sesso, di etnia, di età, di formazione, di convinzioni, sono parole che non erano state mai scritte fino a pochi decenni fa. Un tribunale internazionale che processi crimini contro l’umanità (anche nel rispetto delle leggi del proprio stato) è esperienza storicamente recente. Nel Vicino Oriente antico, chi veniva sconfitto sapeva di non avere nessuna legge internazionale a cui appellarsi, neanche solo a livello teorico. A livello aneddotico, una lingua povera di termini come l’ebraico biblico (circa 6.000 vocaboli) ha una ventina di sinonimi che indicano l’«avere paura». La presenza della morte era incombente sempre, ed era anche più facile da accettare nei confronti dei «nemici». Anche il percorso dei credenti ha faticato e ha avuto bisogno di tempo per cogliere che Dio non poteva amare solo una parte di umanità.

Il confronto tra Mosè e il faraone (ma sarebbe meglio dire tra il Dio d’Israele e il presunto dio in terra degli egizi) si presenta anche come uno scontro militare, e già all’inizio Dio aveva promesso agli ebrei che ne avrebbero riportato un bottino (Es 3,21-22), e così sarà (11,1-3).

Ma c’è una ragione in più che giustifica la morte dei primogeniti d’Egitto, agli occhi antichi.

Un mondo culturale diverso

Mentre leggiamo questi testi antichi, che pretendono di avere valore ancora per noi oggi, non dobbiamo mai dimenticarci che siamo costretti a fare ricorso a delle traduzioni. Non solo nel senso che quei testi sono scritti in una lingua che la maggior parte di noi non riesce a leggere, ma anche nel senso che vengono da un mondo culturale che non è il nostro. Pensiamoci: noi italiani siamo in grado di leggere la Divina Commedia senza traduzioni. Ma per lo più non la capiamo. Comprendiamo le parole, intendiamo le frasi, ma per penetrarne il senso abbiamo bisogno di note che ci spieghino quale modello teologico avesse presente Dante, a quali riferimenti letterari e simbolici si rifacesse, a quali sottintesi politici e contemporanei alludesse, solo allora possiamo cogliere meglio che cosa dica. Anche se parliamo la stessa lingua, non condividiamo più la stessa cultura, e questo rende la comprensione faticosa.

Il nostro approccio culturale, anche quando parliamo di spirito e di anima, è tendenzialmente razionale. Abbiamo bisogno di ragioni, di argomenti, magari anche di prove. Intuiamo che non tutto si esaurisce nella razionalità (abbiamo passioni, timori, speranze, e sappiamo che muovono gran parte di noi), ma il nostro approccio di fondo resta razionale. I più profondi tra noi riescono a mantenere, dentro a un’impostazione razionale e logica, lo sguardo di chi mira in alto, e ci affascinano; altri, che perdono il contatto con la concretezza, li pensiamo sognatori… o anche un po’ pazzi.

Il mondo del Vicino Oriente antico ragiona invece per simboli, per quadri ideali, per grandi sistemi. Le spiegazioni razionali lo lasciano freddo, se non si inseriscono in un contesto simbolico coerente.

Non siamo sbagliati noi o loro. Siamo diversi. E, per poterci capire, dobbiamo renderci conto che parliamo lingue culturali diverse. Il vero errore sarebbe pensare che quegli autori antichi scrivano come scriveremmo noi.

Ebbene, in quel contesto simbolico, la questione dei primogeniti assume un valore diverso.

Dio libera tutti?

Uno dei principi che attraversa il Primo Testamento è la consapevolezza che la vita è dono di Dio. L’uomo non ne ha il dominio. Ecco perché, quando all’umanità venne concesso di uccidere per nutrirsi (a partire da Gen 9), Dio stabilì che, simbolicamente, ci si dovesse astenere dal cibarsi di sangue, ritenuto la sede della vita (cfr. Lv 17,10-14; Dt 12,15-16). Un altro elemento simbolico che ricordava che Dio era il Signore della vita era il richiamo che ogni primizia, delle piante o degli animali, apparteneva a Dio. Per questo i primi frutti dell’anno erano dati in offerta a Dio (ad es. Nm 15,20-21; Dt 26,2) e anche i primogeniti degli animali, i quali potevano essere offerti in sacrificio o, a seconda della specie, essere riscattati con altri doni (ad es. Es 13,12-13). Solo l’uomo doveva obbligatoriamente essere riscattato, perché la sua vita è sacra.

Il riscatto comportava l’idea di entrare in una sorta di scambio di favori. Il primogenito avrebbe dovuto essere di Dio, che però lo lasciava vivere in cambio di un’offerta più piccola che in qualche modo manteneva il beneficiato in una condizione di privilegio. È il segreto dello scambio commerciale vicinorientale, nel quale la compravendita è soltanto una parte della relazione personale che si viene a creare. Pagare completamente un commerciante significherebbe concludere lo scambio, decidere di chiudere la relazione e di non avere più nulla a che fare con lui.

È questo il modo con cui un lettore vicinorientale antico avrebbe colto la morte dei primogeniti d’Egitto: certo, è un atto di guerra, crudele come in tutte le guerre. Ma è anche l’atto con cui Dio riconosce all’Egitto la sua libertà di regolamentarsi senza Dio. Il Dio d’Israele se ne va dall’Egitto senza lasciare debiti né crediti, prendendosi semplicemente il suo. E il suo è rappresentato dai primogeniti. Con la loro morte, Dio riconosce di non avere più conti aperti, l’Egitto è libero di fare la sua vita senza di lui.

A noi suona una crudeltà inutile, alle menti antiche risuonava come una forma, magari cruda, con cui Dio riconosceva la libertà degli altri, e non imponeva loro la sua presenza. Persino ai nemici.

Angelo Fracchia
(Esodo 06 – continua)




La chiamata (Es 3,1-4,17)

Testo di  Angelo Fracchia |


Con il terzo capitolo dell’Esodo entriamo nel cuore della vicenda di Mosè. Inizia un’avventura unica, che sarà fondamentale per la relazione tra il Dio d’Israele e il suo popolo, ma che si lascia anche interpretare come modello ideale di un percorso di fede. Nella nostra lettura, cercheremo di evidenziare entrambe le dimensioni di questo itinerario.

Ci troviamo di fronte a Mosè, salvato miracolosamente da bambino, cresciuto alla corte del faraone, fuggito per aver difeso un ebreo (uccidendo un egiziano). Diventato genero di un sacerdote di Madian, un personaggio rilevante ma che appartiene a un popolo disprezzato e, in più, non certo ricco, dato che si trova a dover mandare le proprie figlie a pascolare le sue greggi. Mosè diventa parte di quella famiglia e si prende cura di pascolarne il gregge.

L’incontro all’Oreb

Il territorio che dalla Giudea arriva all’Egitto è un deserto, ma non dobbiamo pensare a una distesa di dune di sabbia. È punteggiato da oasi, e se lo si attraversa in quei rarissimi momenti in cui piove, lo si trova addirittura trasformato in un prato fiorito e pieno d’erba nutriente e gustosa per le greggi. Al di là del deserto, ci dice il libro dell’Esodo (3,1), Mosè raggiunge il monte di Dio. Molto si è discusso e molto si discuterà sull’identificazione di questo monte, come su altre domande riguardanti la geografia dell’Esodo: in questo nostro percorso eviteremo di occuparci di tali questioni, che sono assolutamente interessanti, ma non hanno né una risposta sicura né ricadute sul messaggio religioso del libro. A noi interessa di più l’esperienza di Mosè e capire come percepisce quanto gli succede.

Mosè vede bruciare un rovo senza che si consumi e decide di avvicinarsi per capire meglio.

Per Mosè, come per noi, e per qualunque percorso di crescita umana, il punto di partenza necessario è la voglia di capire, di vedere, di conoscere. La disponibilità a mettersi in gioco, a non starsene in disparte da spettatori. Se Dio non avesse posto sulla strada di Mosè quel segno curioso, Mosè non si sarebbe fermato; ma se Mosè non avesse voluto andare a vedere che cosa accadeva, la sua vita sarebbe stata più semplice, sicuramente più vuota, e noi non avremmo mai sentito parlare di lui. E chi avrebbe condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto?

Un Dio coinvolto

Dopo essersi avvicinato al roveto ardente, Mosè sente una voce che lo invita a togliersi i calzari, perché si trova in un luogo santo.

Chi tra i lettori ha già sentito la voce di Dio? Magari dal crocifisso, come capitava nei film di don Camillo. Forse nessuno. O forse qualcuno racconterebbe di aver percepito la voce di Dio in momenti delicati della vita: nel consiglio di un amico, in un’intuizione improvvisa, nella serenità giunta come dono, nel coraggio di affrontare una certa scelta. Noi preferiamo essere più razionali nel presentare queste esperienze, mentre l’antichità si fa più facilmente prendere dal gusto del racconto e parla di una voce da un roveto. Forse davvero c’è stato qualche evento sovrannaturale, ma può anche darsi che si tratti solo di un modo di esprimersi metaforico, come anche noi oggi possiamo parlare di una guerra tra la testa e il cuore, senza davvero pensare che i sentimenti stiano nel petto e non nel cervello. Non possiamo sapere di preciso che cosa abbia sperimentato Mosè, ma in ogni caso si è sentito destinatario di un messaggio, partecipe a una conversazione.

E il senso di questa conversazione è chiaro: «Il mio popolo è davvero afflitto, l’ho visto, e ho deciso di scendere ad aiutarlo» (Es 3,7-8).

Non è una presentazione banale, ed è densa di sottintesi. Il libro dell’Esodo aveva già ammesso l’oppressione del popolo, che aveva alzato grida di lamento (Es 2,23). Queste grida però non sembravano essere rivolte in particolare a Dio. È invece Dio a essersi mosso per primo, perché non si è dimenticato di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 2,24; 3,6).

Il popolo afflitto resta il popolo suo. Lungo i secoli non era intervenuto a ricordare la propria esistenza, ma ora non può più tenersi lontano. Dio non si muove per farsi servire e adorare, ma quando l’uomo ha bisogno, si identifica con l’umanità sofferente, si mette al suo fianco. Mosè diventerà chi sappiamo perché ha accettato di mettersi in gioco, ma anche Dio si è messo in gioco: non se ne sta sulle nubi a guardare distaccato la storia, ma si sente coinvolto. E si sente coinvolto dalla sofferenza. Non per compiacersene, ma per guarirla, per toglierla: «Fammi scendere a liberarlo» (3,8).

Il nome di Dio

Comincia qui un lungo botta e risposta tra Dio e Mosè. Nella Bibbia non mancano personaggi che si offrono generosamente per collaborare con l’Altissimo (pensiamo ad esempio a Isaia: «Eccomi, manda me!»
(Is 6,8). Non tutti, però, si offrono senza indugi. Mosè, il più grande, colui che parlava faccia a faccia con Dio (Dt 34,10), l’intermediario per la liberazione dall’Egitto e per il dono della legge, non solo era un assassino fuggiasco e pavido, ma osa anche dire di no a Dio.

Una delle prime obiezioni che muove è che non sa chi ha davanti: «Ecco, io vado dai figli d’Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? Che cosa dirò loro?» (Es 3,13).

Dio in realtà si era già presentato, rimandando ad Abramo, Isacco e Giacobbe (i «vostri padri», appunto: Mosè si era distratto). Ma questo rimando poteva suonare generico: nelle vite dei padri erano successe tante cose, alcune delle quali incoerenti tra di loro. Non sarebbe stato meglio una presentazione più dettagliata, precisa? Quando ci offrono un lavoro, pretendiamo di sapere con che contratto saremo assunti, qual è la retribuzione, quante ferie ci spettano, con quali garanzie. Ma quello che Dio offre non è un lavoro.

Ci sentiremmo molto in imbarazzo (speriamo) se un simile discorso si facesse all’inizio di un’amicizia o di un amore.

Anche Dio sembra perplesso di fronte alla domanda, come se non se l’aspettasse. Poi esce in un «Sono ciò che sono» (3,14), che potrebbe essere tradotto anche come «Sarò ciò che sarò» o «Continuerò ad essere ciò che sono». E prosegue, quasi convinto da una trovata che sembrerebbe estemporanea: «Dirai così agli israeliti: Sarò/sono/continuo a essere mi ha mandato a voi». Potremmo addirittura renderlo con «Ci sarò». Mosè ha chiesto un nome, una definizione, un’identità precisa e un perimetro della missione chiaro; ma di fronte a questa richiesta, che sembra quasi prospettare un lavoro, Dio risponde con la più alta e coraggiosa promessa: «Io ci sarò, io sarò con voi». Se ci pensiamo, noi sappiamo essere molto generosi nelle nostre promesse, le quali spesso si fanno grandi come le nostre speranze o desideri, anche se non siamo padroni del nostro futuro. Possiamo però garantire che non scapperemo, che non ci tireremo fuori. E che cosa accadrà, si vedrà strada facendo.

Manda un altro

Le obiezioni di Mosè non si fermano qui. «Non conto niente» (3,11), «non mi crederanno» (4,1), «non so parlare» (4,10), fino a una frase che le nostre traduzioni, giustamente, ci restituiscono alla lettera, ma di cui rischiamo di perdere il senso profondo e l’improvvisa reazione irritata di Dio. Quando, parlando in italiano, diciamo che Andrea esce da tre mesi con la stampella o esce da tre mesi con Lucia, non intendiamo dire la stessa cosa: nel secondo caso parliamo di una relazione profonda, di affetto reciproco, quanto meno iniziale. Se sentiamo dire che una certa offerta è «per molti», capiamo che non è per tutti, anche se questo di per sé non è stato detto.

Quando Mosè dice: «Signore, manda chi vuoi mandare» (4,13), a noi può sembrare una faticosa assunzione del proprio incarico (che Dio voglia mandare Mosè è chiaro, sta cercando di convincerlo da un quarto d’ora…). Ma nel modo di parlare ebraico quella frase sottintende «tranne me». Come se Mosè dicesse a Dio: «Mi hai convinto, il progetto è veramente affascinante. Ma non contare su di me. Trovati un altro, e sarà un successo». Ecco perché Dio perde un po’ la pazienza.

Anche se non può costringere Mosè. Come con un amico che può anche spazientirsi, ma vuole la collaborazione, non può forzarlo e non farà nulla senza di lui.

Qualche insegnamento

Possiamo provare a tirare un po’ le fila di questa tappa, cogliendo anche che cosa possa voler dire a noi.

L’inizio del libro dell’Esodo ci presenta un Dio che si sente coinvolto con l’umanità. Soprattutto con quella che soffre. Non è il motore immobile dei filosofi, che se ne sta nei cieli a guardare un po’ severo ciò che succede sulla terra. È piuttosto un padre che soffre per i suoi figli, finché non ce la fa più a resistere, e scende sull’Oreb.

E non è un Dio che voglia agire senza gli uomini. Con Mosè insiste, discute, prova a convincere, si arrabbia… ma non si muoverà senza di lui. Il Dio della Bibbia prende totalmente sul serio l’uomo, non lo tratta da burattino. Se Mosè dicesse di no, sarebbe no. Ecco perché Dio si prende il fastidio di tentare di convincerlo, non può passare sopra alla sua libera scelta. La libertà dell’uomo per Dio è tanto sacra da non poter essere forzata neppure da lui. Ecco perché è tanto grande e impegnativa la responsabilità umana.

E, insieme, questa non è un’opportunità riservata solo agli eletti, ai migliori, ai perfetti. Mosè ci può sembrare non migliore né peggiore della maggior parte degli esseri umani. Anche nel suo tentativo di non prendersi responsabilità. Dio non chiama a grandi cose l’umanità perfetta: al limite, la rende indimenticabile, se solo inizia a fidarsi di lui.

Cominciamo poi a cogliere le modalità della relazione con questo Dio: non c’è una proposta da ponderare con la calcolatrice. La chiamata divina non è una proposta assicurativa. È piuttosto un progetto di vita: come ogni progetto di vita (che sia un legame coniugale, una consacrazione, una professione, una scelta di stile o di residenza…) ci sono degli elementi che lo rendono conoscibile, credibile, attraente, ma alla fine se non si decide di fidarsene, di lasciargli spazio, di stare al gioco… non accade. Se ci impegnassimo nella vita solo in ciò che si dimostra affidabile e garantito, non faremmo nulla. Come nelle amicizie, anche nel rapporto con Dio l’unico modo di avere garanzie sulla credibilità della sua chiamata, è ascoltarla. Ciò di cui ci fidiamo, potrebbe tradirci, ma ciò di cui non ci fidiamo, non mostrerà mai le sue potenzialità, siamo noi a tradirne la promessa.

E Dio è promessa, è potenzialità, è slancio sul futuro, è relazionalità. Non è una definizione statica, non è il difensore dell’ordine, bensì della vita, che è disordinata, anche incoerente ma solare e piena di frutti. Per questo non può sopportare di rinchiudersi in una definizione, che possiamo controllare e che ci dice tutto. Il Dio di Mosè è un Dio capace di sorprendere, di invitare a scommettere, a mettersi in gioco. Capace di pentirsi ma anche di rilanciare, di ripartire. Non è il dio dei filosofi (o anche, a volte, del catechismo), racchiudibile in una griglia molto ben organizzata, ma è il Dio dei profeti, degli artisti, di chi ama. E se è vero che viene incontro al bisogno non espresso del suo popolo promettendo intanto la liberazione ma sapendo già che non basterà (allude al servizio che il popolo gli offrirà sul monte, Es 3,12, ma poi non se ne parlerà più finché non sarà ora), ciò che promette non è la programmazione dettagliata di tutto quello che dovrà succedere, ma «solo» la garanzia che la relazione non verrà mai meno: «Io ci sarò».

Angelo Fracchia
(Esodo 03 – continua)




Le origini di Mosè (Es 1,15-2,25)

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Mosè ha ispirato romanzi, opere artistiche e liriche, film e persino apprezzabili e raffinati cartoni animati, perché è una di quelle grandissime figure che ha cambiato la storia. Per il mondo ebraico antico il suo nome poteva addirittura diventare sinonimo della stessa Bibbia e della legge (cfr. At 15,21). La vicenda è certo conosciuta, tuttavia vale la pena riprenderla per riscoprirne diversi aspetti forse dati per scontati.

In breve

Un nuovo faraone, che non ha conosciuto Giuseppe (Es 1,8), e quindi non può essergli riconoscente, è spaventato dalla crescita numerica degli ebrei. Per questo inizia a opprimerli e ordina alle due loro levatrici di uccidere i maschi appena nati (1,15-16). Ma queste non obbediscono, così che il popolo «aumentò e divenne molto forte». Allora il faraone estende l’ordine a tutto il suo popolo (1,17-22). Dal massacro si salva un bimbo bello, Mosé, figlio di una coppia di leviti, che viene tenuto nascosto per tre mesi e poi affidato alle acque del Nilo (2,1-4). A trovarlo è la figlia del faraone, che lo adotta, affidandolo a una nutrice ebrea, la quale, grazie all’astuzia della sorella di Mosè, è la sua stessa madre (vv. 5-10).

Una volta cresciuto, Mosè, un giorno, reagisce ai maltrattamenti subiti dal suo popolo e uccide una guardia che sta picchiando un ebreo (vv. 11-12). Quando, il giorno dopo, intuisce che il fatto non è rimasto nascosto, fugge nel deserto, dove a un pozzo incontra le sette figlie di un sacerdote di Madian. Dopo averle aiutate, viene accolto in famiglia e ne sposa una (vv. 16-22).

Storia o favola?

Nel racconto ci sono di certo tanti tratti che ci ricordano una favola: come si può pensare che per tutto il popolo ebreo, tanto numeroso da spaventare il faraone, ci siano solo due levatrici (1,15)? E come fa la figlia del faraone a capire che quel bimbo è un ebreo (2,6), o le figlie del sacerdote madianita Reuèl a capire che Mosè è un egiziano (2,19)? Forse dagli abiti?

Poi la storia della famiglia di Mosè si apre con la sua nascita, come se lui fosse il primogenito, ma subito ci troviamo di fronte a una sorella più grande e abbastanza scaltra da pensare come ricongiungere la famiglia (2,4-7). E non è strano che siano proprio sette le figlie che Reuèl manda a pascolare (2,16 – sette è un numero altamente simbolico nella Bibbia, ndr)? Lo stesso incontro a un pozzo, con il protagonista che s’imbatte imprevedibilmente in una donna, è un cliché ricorrente nell’Antico Testamento (e anche nel Nuovo: Gv 4).

Ma, in fondo, è favolistico lo stesso motivo di partenza del racconto: il bambino affidato alle acque. È un tema che accomuna Romolo e Remo, Perseo, il dio Dioniso… e soprattutto Sargon, ritenuto per millenni il più importante sovrano mesopotamico, vissuto attorno al 2200 a.C., il modello stesso di conquistatore e imperatore finché non sorse Alessandro Magno. Presentare un bambino che viene affidato alla sorte dentro a una cesta abbandonata sulle acque era un espedeinte narrativo per farne presagire il destino importante.

Per i lettori ebrei, poi, quel «cestello» (teba, in ebraico), peraltro spalmato di bitume e pece, in cui Mosè è posto, è la stessa parola che in Gen 6-9 indica l’arca di Noè: entrambi porteranno a termine l’intenzione di Dio di salvare la vita galleggiando su acque che altrimenti sarebbero minacciose.

Ma quanto più i motivi favolistici si moltiplicano, tanto più il nostro senso critico di moderni alza le sopracciglia, perplesso: non si saranno inventati tutto?

Già nella puntata precedente abbiamo affrontato la questione. Qui basti richiamare i toni epici e mitologici con cui si presentano, persino tra noi razionalisti e scettici, le imprese sportive, dove la conquista di una vittoria sembra, a volte, presagita e predestinata fin dall’infanzia dell’atleta di turno. Quel tono favolistico serviva a dire, ai lettori antichi, che si trovavano di fronte a una vicenda eccezionale. La perfetta adesione del racconto alla veridicità assoluta della storia non era un problema per nessuno di loro.

Ironia e assenza di Dio

Due caratteristiche, tra le altre, rendono questo racconto interessante anche per il nostro gusto moderno.

La prima, su cui torneremo, è il fatto che non si citi Dio. Succede anche a noi lettori religiosi e credenti di restare infastiditi quando in una storia troppo viene affidato all’intervento miracoloso di Dio. Tutto sommato, preferiamo che non se ne parli. Forse ci rendiamo conto che affidare troppo velocemente alla responsabilità della provvidenza la nostra vita, non rispetta la nostra autonomia e libertà. Vorremmo cogliere Dio presente, sì, ma come chi si muove tra le righe. A quanto pare, gli autori di Esodo, in questo, ci capiscono.

La seconda è che il racconto scorre piacevole anche per la presenza di diversi spunti ironici. Eccone alcuni.

  • Il faraone vorrebbe negare una discendenza agli ebrei, ma sarà invece Dio a garantire una discendenza alle levatrici che non lo ascoltano (1,17-18.21).
  • Ciò che il faraone voleva impedire verrà portato a termine da un uomo allevato dalla sua stessa figlia (2,5). Questa, peraltro, affida l’incarico di balia, a pagamento, alla madre di Mosè che aveva dovuto abbandonarlo (2,7-9), e che in questo modo può accudirlo apertamente e, persino, protetta e stipendiata.

Le due caratteristiche che abbiamo qui richiamato, ossia il silenzio apparente di Dio e l’ironia, probabilmente sono collegabili. La storia può essere ironica perché non è nelle mani dei più potenti, ma di Colui che può fingere di essere assente per portare però i potenti a fare ciò che vuole Lui. Il fatto che Dio sembri mancare dalla scena, non significa che non ci sia: semplicemente, lavora dietro alle quinte. E chi non vuole vederlo, resterà convinto che lui non esista.

Mosè: Chi è costui?

Mosè è un ebreo, ma cresce alla corte del faraone. È la figlia di quest’utimo a dargli un nome che sembra egiziano, con il significato di «figlio di». Solitamente è la seconda parte di un nome
(-mosis/-mses) a cui si premette quello di una divinità come in alcuni nomi di faraoni, tipo Ah-mosis, Tuth-mosis, Ra-mses.

Nello stesso tempo, però, l’etimologia offerta nel testo è semita: «Tirato su dalle acque». Etimologia perfetta e adattissima, se il nome fosse Musai, non Mosè che vuol dire piuttosto «che tira su dalle acque»: è già un’allusione al passaggio del Mar Rosso? Mosè cresce alla corte del faraone, ma si riconosce negli ebrei perseguitati. Interviene a difendere uno dei suoi «fratelli» (2,11-12), ma per questo viene rimproverato dagli stessi suoi fratelli (2,14). È cresciuto alla corte, ma il faraone lo cerca per ucciderlo (2,15). È un profugo fuggitivo, ma sposa la figlia di un uomo importante, un sacerdote (2,21). Ogni volta che ci sembra che l’identità di Mosè sia fissata, viene rimessa in discussione. In fondo, non facciamo fatica a riconoscerci in lui: anche noi abbiamo un’identità di partenza che sembrerebbe molto chiara e definita, ma che viene continuamente messa in discussione dalla storia che attraversiamo con gioie e dolori, con successi anche insperati e fallimenti impensati. A differenza di tanti eroi della storia, esaltati come predestinati, Mosè si direbbe destinato soltanto a un’esistenza di normale fallimento.

Eroe o uomo qualunque?

A leggere bene la sua storia, il più grande personaggio della storia ebraica, colui che parlava con Dio faccia a faccia (Es 33,11), ha una caratteristica sorprendente: non è perfetto, e non tutto gli va bene.

Se lo guardassimo con gli occhi di un ebreo perseguitato e oppresso, Mosè, che è cresciuto alla corte del faraone, è un privilegiato. Se invece ci mettessimo nei panni del faraone, non sarebbe difficile definirlo un traditore ingrato.

Quando prende consapevolezza della triste sorte dei suoi fratelli e ne prende le parti (2,11), finisce però con l’uccidere, macchiandosi del peccato peggiore da cui, nella Genesi, Dio chiedeva che anche i non ebrei si tenessero lontani (Gen 9,5-6). Tra l’altro, prima si limita a nascondere il cadavere, ma poi, quando viene a sapere che il fatto è risaputo, anziché assumersi le conseguenze del proprio gesto, fugge fuori dall’Egitto (Es 2,14-15): al posto di un «eroe senza macchia e senza paura», abbiamo qui uno spaventato assassino e un liberatore fallito.

Potremmo dire che la sua sorte si trasforma quando arriva nel deserto, dove Dio gli prepara un futuro radioso tramite il matrimonio con la figlia di un sacerdote. Certo, perché i sacerdoti erano uomini protetti da Dio e detentori di un potere, spesso anche politico ed economico. Ma Reuèl, altrove chiamato Ietro, è sì un sacerdote, ma è anche un madianita. I madianiti erano una tribù di seminomadi, che vivevano di pascolo e di espedienti, ai margini delle terre e dei collegamenti importanti e ritenuti senza legge né morale. Erano madianiti, per esempio, i commercianti che avevano comprato e rivenduto Giuseppe (Gen 37,28.36).

Mosè acquisisce probabilmente un ruolo importante, benché straniero, nel clan dei madianiti, ma questo è uno dei clan meno desiderabili e più ignobili del tempo. E si direbbe che peraltro il suocero non gli possa garantire neppure ricchezza, dal momento che manda al pascolo le figlie nubili, segno che non ha neppure uno schiavo per accudire il suo bestiame, e accetta il rischio di esporre le figlie alle prepotenze e violenze degli altri pastori nel deserto. Mosè, pur integrato in una famiglia importante, patisce la propria condizione di straniero (Es 2,22). Peraltro, per anni sarà solo il pastore del gregge di Ietro (Es 3,1): da nipote adottivo del faraone a servo del suocero, il quale finalmente può lasciare riposare le figlie al sicuro.

Può stupire la scelta e il coraggio della tradizione biblica, che non esalta il proprio fondatore, non lo divinizza e, anzi, ne presenta con schiettezza i limiti, le fragilità, le meschinità. Ciò che gli autori dell’Esodo sanno è che la grandezza, anche di Mosè, dipende dall’intervento divino. Ma allora, ciò che accade in Mosè potrebbe ripetersi con qualunque persona che si lasci guidare dallo spirito di Dio.

Un Dio di relazioni

Il secondo capitolo di Esodo si chiude con un accenno, improvvisamente cupo, alle sofferenze del popolo ebraico (2,23-25). E qui ricompare Dio. Quando sembra che gli uomini riescano a gestire adeguatamente, tra alti e bassi, le proprie vicende, il Signore si nasconde dietro le quinte. Ma ora che tutto ciò che gli uomini riescono a fare è alzare lamenti (e non si dice neanche che li alzino a lui, che lo invochino), Dio si sente coinvolto, «se ne dà pensiero» (2,25). Non pretende di stare al centro della scena, ma si ricorda delle persone che di lui si erano fidate (2,24) e non le abbandona. E così anche la vicenda di Mosè, che sembra essersi incamminata su un binario morto della storia, acquisirà una nuova energia. Ma questa volta, in modo molto chiaro, per iniziativa divina.

Angelo Fracchia
(Esodo 02 – continua)


Quando, dove e chi ha scritto l’Esodo?

Per secoli si è ritenuto che l’Esodo fosse stato scritto da Mosè, quasi come un diario. Nel XIX secolo si è fatta strada una teoria che ha sostenuto che quattro quattro scuole diverse, in tempi diversi (*), avessero contribuito a comporre l’Esodo così come lo troviamo oggi tra i primi cinque della Bibbia. Anche questa teoria molto rigorosa, che ci ha aiutato a capire tanti particolari del testo, è ora in crisi.

Oggi, i più (non tutti) pensano che esistessero delle tradizioni, in parte anche già scritte, precedenti all’esilio del 587 a.C., quando Gerusalemme e il tempio furono distrutti dai babilonesi. In quel tempo di crisi (l’esilio terminò nel 538 a.C.) e nei decenni successivi diversi saggi decisero che la tradizione ebraica non doveva morire: ripresero quelle tradizioni orali e scritte e diedero loro una veste unitaria, in quello che chiamiamo Pentateuco, tenendo d’occhio la propria storia (dimensione più «di popolo»), le attenzioni di tipo rituale (più guardando al tempio e alle norme di purità e di alimentazione) e una sensibilità spirituale che potesse dare un’interpretazione e un senso all’esperienza personale e a quella comunitaria dell’esilio e della perdita di un proprio regno.

Tutto è confluito in un testo solo, perché tutte queste dimensioni erano importanti. E tutto incentrato su un’esperienza di coraggiosa uscita da una «terra di schiavitù», sotto la guida di Mosè, di cui peraltro nei profeti e nei salmi si parla molto poco, perché probabilmente non era considerato così importante. In quel tempo, però, parve che quell’esperienza, che forse aveva coinvolto solo alcuni piccoli gruppi, potesse interpretare bene il senso di quanto stava vivendo Israele dopo l’esilio. Così organizzarono quei testi non solo per non dimenticare vicende antiche, ma soprattutto per dare coraggio e una guida ai contemporanei.

Alla fine del VI secolo a.C. il testo dell’Esodo doveva probabilmente essere quello che abbiamo noi oggi. Le poche correzioni e aggiunte fatte in seguito per adattarlo via via a situazioni nuove, testimoniano quanto abbia continuato a essere ritenuto importante lungo gli anni. In fondo, continua a valere anche per noi, che non aggiungiamo più annotazioni e ampliamenti al testo, ma scriviamo articoli su MC.

(*) Queste le quattro scuole o fonti:

  1. Jahvista (la più antica) che per il nome di Dio usa il sacro tetragramma JHWH.
  2. Eloista (dell’VIII secolo a.C., nell’Israele del Nord) che usa il nome Elohim per indicare Dio.
  3. Deuteronomista (VII secolo, nell’Israele del Sud), soprattutto il libro del Deuteronomio.
  4. Sacerdotale (del post esilio) che raccoglie le norme liturgiche e rituali e si esprime soprattutto con il libro del Levitico.



Esodo: Una storia di ieri e di oggi

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Dopo due anni passati in compagnia degli Atti degli Apostoli, a scoprire come Luca traccia gli inizi e i fondamenti della Chiesa, dal direttore della rivista arriva la sfida a confrontarsi con un testo altrettanto fondamentale, non solo per i cristiani. Ci spostiamo nell’Antico Testamento dove si trova il libro dell’Esodo che ci terrà impegnati per un altro biennio.

Libri di vita, non di leggi

Nel comune sentire di tanti che non conoscono la Bibbia (però anche, ahimè, di tanti che dovrebbero conoscerla!), quel volumone, composto da ben 73 libri, contiene molti obblighi e divieti che ciascuno di noi dovrebbe rispettare per piacere a Dio (e quindi da Lui essere trattati meglio di chi invece non li rispetta). In realtà, le norme morali, che pure ci sono, ammontano solo a circa un ottavo dei versetti biblici, e spesso sono legate alle circostanze specifiche nelle quali sono state scritte, quindi non sono tutte applicabili universalmente e per sempre.

Nel libro sacro, piuttosto, si trovano tante testimonianze su come persone diverse, in contesti e tempi diversi, hanno vissuto l’esperienza dell’incontro con Dio e su quali sono state le sue conseguenze. Questi incontri e le loro conseguenze, a volte sono espressi nella Bibbia in forma di norme e leggi, ma più spesso in forma di racconti, inni, poesie e tanto altro. Diventa allora più facile capire perché alcune di quelle esperienze «ci parlano» meglio e più in profondità di altre, le quali invece restano più mute e lontane dalla nostra sensibilità.

Diventa allora più semplice capire e accettare il fatto che nella Bibbia ci sono alcuni testi che contano di più, sono più importanti e più centrali. E non c’è nulla di blasfemo o irrispettoso in questa constatazione.

È peraltro una valutazione naturale per i cristiani, almeno per il Nuovo Testamento (considerato più importante dell’Antico): i Vangeli sono più importanti delle pur preziose lettere di Paolo, e dentro i Vangeli il racconto della passione e risurrezione è assolutamente decisivo. Ed è significativo notare che i capitoli più importanti del Nuovo Testamento non ci offrano indicazioni su come comportarci, ma raccontino «soltanto» ciò che è successo a Gesù.

Al cuore dell’Antico Testamento

Un discorso simile si può fare per l’Antico Testamento, che noi cristiani rischiamo di trattare come se fosse tutto uguale. Nella tradizione ebraica il fondamento della scrittura è nella Torà, quella che in greco si chiama Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia. Tra questi, il cuore è costituito dal libro dell’Esodo, che narra l’uscita dall’Egitto del popolo d’Israele, che così si scopre popolo, sulle orme del suo Dio.

Chi ha narrato al cinema l’impresa di Mosè, in pieno stile hollywoodiano, ha pensato che la storia potesse finire quando il popolo raggiunge l’altro lato del Mar Rosso e l’esercito del faraone annega nelle acque: un vero «lieto fine» secondo tutti i criteri cinematografici. Solo che la storia raccontata nel libro dell’Esodo, a quel punto, non è arrivata neppure a metà.

Il suo percorso è infatti molto più intelligente e profondo di tante sue trattazioni romanzate, e presenta anche un itinerario ideale del cammino di incontro con Dio: il credente che lo leggerà, attraverserà, in un certo modo, le tappe vissute dal popolo. Il percorso tracciato dall’Esodo rappresenta l’evoluzione che compie la fede nel suo crescere e maturare.

Gli antichi non erano abituati a scrivere trattati di psicologia o teologia, non redigevano saggi, ma raccontavano storie, dentro le quali mettevano in evidenza gli elementi importanti, ben visibili per chi era abituato ad ascoltarle.

Noi, ormai poco avvezzi a presentazioni di questo tipo, possiamo ritornare bambini (perché tramite le favole i bambini sono abituati a questo stile), oppure passare decenni a meditare questi testi, come facevano i monaci (ma di solito così tanto tempo non lo abbiamo, o non riusciamo a prendercelo), oppure, infine, possiamo farcelo spiegare un poco. Esattamente ciò che proveremo a fare noi.

Quale storicità?

Noi adulti ci mettiamo davanti al racconto dell’Esodo chiedendoci subito quale affidabilità storica abbiano le sue pagine. Al riguardo è stato scritto tantissimo e, di tanto in tanto, accadrà che anche noi faremo qualche cenno in merito.

Per ora ci basti ciò che oggi viene ritenuto più probabile (non sicuro!) da tanti.

È verosimile che un piccolo gruppo di persone abbia vissuto un’esperienza simile a quella narrata nel libro: la fuga da un regime poderoso e oppressivo, seguendo non la più normale «via del mare» nel Nord del Sinai, ma quella, meno presidiata, che passava attraverso le paludi del Mar Rosso settentrionale per avventurarsi poi attraverso le oasi (rare e magre) del Sinai meridionale.

Queste persone avevano percepito di essere state salvate da un Dio che le aveva scelte senza loro merito, se non quello di aver accolto una chiamata che chiedeva loro di seguirla senza avere certezze.

Una volta approdati in Palestina, questi fuggitivi liberati si sono legati a gruppi umani già presenti sul territorio, i quali, sentendo narrare la loro vicenda di fiducia in un Dio che aveva scelto gli oppressi e non i grandi della storia, hanno riconosciuto in quel Dio lo stesso Dio che anche loro adoravano. E hanno pensato che quella vicenda di fiducia e rischio, interpretasse bene anche la loro esistenza di contadini o di pastori (per il resto avversari). Poi, col tempo, le «tre storie» (dei fuggiaschi, dei contadini e dei pastori) hanno finito con il confluire in una storia sola.

Un approccio diverso

L’effettiva storicità degli eventi, che giustamente ci preoccupa quando parliamo di Gesù, è però in questo caso meno vincolante.

Noi oggi abbiamo un approccio alla «realtà storica» che è molto diverso da quello dell’antichità. Noi troviamo citate con le virgolette, nei nostri giornali, solo le parole esatte che sono state pronunciate. Può poi accadere che quelle parole vengano tolte dal loro contesto, che aiuterebbe a capirle bene (basti pensare alle citazioni di frasi di papa Francesco, che in pubblicazioni o film vengono estrapolate dal contesto per fargli dire quello che lui effettivamente non ha mai detto), ma se sono state dette così, ci sentiamo autorizzati a riportarle così.

L’antichità ha un approccio diverso: conta il senso profondo degli eventi, e per farlo capire gli autori antichi a volte inventavano particolari o avvenimenti. Lo stesso Tucidide, storico greco e non semita, ritenuto modello di obiettività storica, afferma, nella «Guerra del Peloponneso», che metterà in bocca ai suoi personaggi storici anche ciò che era verosimile o magari solo opportuno che dicessero in quella situazione. E lo afferma nell’introduzione, dando quindi alle sue parole il valore di un principio di fondo della sua narrazione storica. Se le cose raccontate da Tucidide riguardo a un fatto storico interpretavano bene quel fatto, non importava che alcune cose fossero inventate, o supposte, restavano «vere».

Il principio di fondo di Tucidite vale anche per l’Esodo, che è sicuramente vero e storico, perché rispecchia in modo autentico la vita e la storia di tanti credenti nei secoli.

Sicuramente non riusciremo a precisare sotto quale faraone sia potuto avvenire l’Esodo (il testo non lo chiama mai per nome), né se davvero così tante persone abbiano potuto sopravvivere nel deserto per quaranta anni. Non lo sapremo mai perché per gli autori del libro questi due elementi, e anche altri che oggi per noi sono importanti, erano del tutto marginali.

Secondo la tradizione (che trae le proprie conclusioni a partire dalle scivolosissime cronologie bibliche) ci troveremmo intorno alla metà del XIII secolo a.C., ma neppure questo è sicuro. Il bello è proprio questo: che anche noi lo possiamo trascurare.

Il problema di partenza (Es 1,1-14)

Chi ha letto il libro della Genesi, o almeno i suoi ultimi capitoli, sa chi è Giuseppe, penultimo figlio del patriarca Giacobbe, che, con i suoi sogni, e la capacità di interpretarli, acquisisce un ruolo di primo piano nell’amministrazione egizia, tanto da poter accogliere i suoi fratelli e suo padre nella regione quando una carestia sparge la fame in tutta l’area. Ma è nella sorte delle cose umane di essere dimenticate, ed ecco che sorge in Egitto un faraone che non sa più chi sia stato Giuseppe (v. 8).

Il nuovo capo coglie solo il problema immediato, ossia che il popolo di Israele non è amalgamato con gli egizi ed è numeroso, tanto che, se l’Egitto fosse attaccato da nemici esterni, si potrebbe correre il rischio che si uniscano agli invasori (vv. 9-10). La paura del faraone sembra essere, soprattutto, quella della partenza degli ebrei, che si confermano, già solo per questo, oppressi.

Può darsi che si tratti soltanto di un trucco letterario per mettere in moto la trama, ma colpisce che il punto di partenza sembri essere la mancanza di memoria. Il faraone non conosce più Giuseppe, ma neppure il popolo di Israele pare essere particolarmente capace di ricordare: non richiama il proprio antenato, non invoca Dio, non tenta neppure di riprendere la strada del deserto. Semplicemente, si è rassegnato a una condizione di schiavitù.

A metà del libro, nella notte cruciale di Pasqua, molto si insisterà su questo invito a ricordare. Chi dimentica da dove viene, non sa dove potrebbe andare e si accontenta di restare schiavo. Quel Dio che aveva stretto un’alleanza con gli antenati non viene neppure invocato; sarà però lui stesso a mettersi in movimento, sebbene il suo popolo non si ricordi di lui.

Non si tratta in realtà neppure di un vero popolo: sono persone, separate tra di loro. È solo lo sguardo impaurito del faraone a renderlo un popolo. Quello sguardo, e poi quello compassionevole e protettivo di Dio.

Le due città

Senza entrare ancora nella questione di quando effettivamente sia avvenuto l’Esodo e quando il libro sia stato compilato, per ora ricaviamo qualche suggestione interessante, anche se soltanto probabile e non sicura, dal nome delle due città egizie costruite con il lavoro degli ebrei (Es 1,11). Ramses era infatti rimasto nella memoria come un faraone importante e potente, anche molte generazioni dopo la sua scomparsa. Citarlo significava spostare in un passato lontano la vicenda.

Intorno al VII secolo a.C., l’antica città di Pi-Ramses (nome completo, preferito dalle iscrizioni egizie), disabitata da secoli, venne utilizzata come cava di pietre già lavorate per la costruzione di una nuova città magazzino a Nord Est del Delta. Questa nuova città si trovò quindi con tante iscrizioni che citavano l’antica Pi-Ramses.

Nella stessa zona, venne allagata la città di Pitom, che fu quindi spostata e ricostruita altrove con il lavoro di braccianti non egizi. Che questi manovali non egizi potessero essere anche ebrei è molto probabile (2 Re 23,33-35 lascia intendere che diversi ebrei erano stati sequestrati come prigionieri di guerra proprio in quel periodo). Peraltro, la parola utilizzata per definire queste due «città-magazzino» (Es 1,11) è un prestito dalla lingua egiziana entrato nel lessico ebraico non prima del VII secolo a.C. Sembra insomma che l’autore dell’Esodo strizzi l’occhio al lettore, lasciandogli intendere che ciò che racconta riguarda vicende antiche, ma è rilevante anche l’oggi.

Fare memoria

Questi particolari potrebbero sembrarci (e in effetti sono) minimi, ma rivelano un atteggiamento che tornerà spesso in Esodo: ciò che ha riguardato la generazione che dall’Egitto è uscita, non interessa solo loro quella generazione, ma tutti coloro che in quella storia si ritroveranno. Non è un caso che il rito ebraico di Pasqua fa ringraziare «per quello che il Signore mi ha fatto quando mi ha liberato dalla schiavitù egiziana».

È questo il senso del memoriale, su cui tanto si concentrerà Esodo e quindi anche noi: non il ricordo nostalgico di un ottantenne che sa ancora i nomi di tutti i suoi compagni della prima elementare, ma l’ottantenne che, insieme alla moglie al suo fianco, richiama il giorno di sessanta anni prima in cui si sono incontrati.

Angelo Fracchia
(Esodo 01 – continua)

disegno orginale di Marco Francescato




Ai confini del mondo (At 27-28)

testo di Angelo Fracchia |


Siamo al termine della grande opera di Luca, quella che, partendo dalla vita di Gesù (il Vangelo), è sfociata poi nel racconto della vita iniziale della Chiesa. Dal capitolo 16 la narrazione è concentrata sulla sorte di Paolo di Tarso che, alla fine del capitolo 26, troviamo a Cesarea Marittima, prigioniero del procuratore Festo, il quale lo avrebbe già liberato come innocente, se l’incarcerato non si fosse appellato al tribunale di Cesare (26,32).

Luca ci racconterà come è andata a finire? Non ancora perché ha in serbo altre sorprese per noi.

L’ultimo viaggio (At 27)

La prima sorpresa è un avvincente ed emozionante racconto di viaggio. I «racconti di viaggi» erano un genere letterario popolare a quei tempi. Per apprezzarlo anche noi conviene però che ci facciamo qualche idea su come si viaggiava nell’antichità.

Dovunque i romani giungessero, ampliando il proprio impero, si preoccupavano tra le altre cose di garantire delle comunicazioni efficienti, sia costruendo strade lastricate, che potevano cioè essere percorse anche con il brutto tempo, sia garantendo che i mari restassero liberi e sicuri. Era infatti il mare la via di comunicazione preferita. Le strade lastricate erano ottime per lo spostamento di truppe, comunicazioni leggere e veloci a cavallo, e movimenti di persone e merci tra le varie città, anche d’inverno. Ma su quelle strade ci si spostava per lo più a piedi o su carri trainati da animali, e si poteva trasportare relativamente poco; oltre tutto, quanto più ci si allontanava da Roma, tanto meno si trovavano strade.

Per questo le vere autostrade del tempo erano i mari. Non esistendo però il sestante per orientarsi, ed essendoci nel Mediterraneo diverse zone pericolose, si preferiva navigare sotto costa. Via mare si trasportavano soprattutto le merci più pesanti o che occupavano più spazio, come ad esempio il preziosissimo grano egizio che dava da mangiare a una capitale come Roma che sfiorava già allora il milione di abitanti. Non esisteva un servizio passeggeri, ma era sempre possibile unirsi ad altri che facevano la stessa rotta (una nave merci aveva quasi sempre posto sul ponte, e a Roma andavano in molti).

Il problema era che il Mediterraneo d’inverno diventava pericoloso, poteva essere scosso da burrasche anche improvvise. Per questo d’inverno non si navigava. Ovvio che, per amore di guadagno, qualcuno provasse ad anticipare la primavera partendo un po’ prima o a ritardare l’inverno partendo a ridosso del freddo. Questo è ciò che prova a fare la nave carica di grano su cui si è imbarcato il centurione che ha in custodia Paolo e alcuni schiavi destinati al mercato della capitale.

La baia di Mistra a Malta (china di Paul Gichui)

Un viaggio avventuroso

Una volta salpati da Creta, equipaggio e viaggiatori si rendono presto conto che non si riuscirà a procedere sulla rotta stabilita. I marinai cercano allora di spostarsi verso un porto migliore, ma incappano in una burrasca che li trascina al largo per due settimane (At 27,7-15). La paura più tremenda è quella di incagliarsi nelle Sirti, grandi banchi di sabbia vicino alla costa africana tra Cartagine e la Cirenaica (negli attuali golfi di Sidra e di Labes), a giorni di navigazione dalla terra più vicina, e di rimanervi finché le onde non abbiano sfasciato la nave.

Un Paolo affidabile

Luca presenta un Paolo che, in questa situazione, si pone come punto di riferimento: prova a orientare le scelte del centurione e del capitano della nave, a tenere alto il morale dei marinai, a confortare i compagni di viaggio. Non ci sembri un ritratto inverosimile: Paolo è prigioniero, è vero, ma è un cittadino romano, e questo lo pone in una situazione di privilegio. È poi persona abituata a viaggiare. E si mostra animato da una grande fiducia in Dio che non lo abbandonerà mai, benché a noi possa sembrare quasi magico l’intervento dell’angelo che gli assicura che nessuno di quella nave morirà.

È ancora Paolo che, al quattordicesimo giorno di deriva, quando la nave si sta avvicinando a un’isola che peraltro nessuno riconosce, invita a prendere forza mangiando. Le parole utilizzate («prese un pane, rese grazie, lo spezzò» At 27,35) potrebbero quasi ricordarci l’Eucaristia. Non è detto che Paolo l’abbia in effetti celebrata, ma Luca ci strizza l’occhio: il nutrimento di Paolo, il punto di riferimento di chi cerca salvezza resta sempre Gesù. Perché non c’è contrasto tra la salvezza cercata dagli uomini e quella offerta da Dio.

A Malta (At 28,1-10)

Paolo a Malta (china di Paul Gichui)

I viaggiatori approdano a Malta, l’isola sconosciuta che nesuno di loro pare aver mai sentito nominare. L’accoglienza è splendida, salvo che, nel raccogliere legna per far fuoco, Paolo viene morso da una vipera (28,3). Interessante, anche nella sua ingenuità, la reazione degli abitanti. Dapprima, vedendo che Paolo, scampato miracolosamente a un naufragio, viene morso da un serpente velenoso, pensano che sia una prova della sua colpevolezza: gli dèi, non essendo riusciti a ucciderlo in mare, lo giustiziano a terra. Poi, notando che Paolo non risente del morso, si persuadono al contrario che sia un essere divino, a cui niente può portare danno.

Questa volta Paolo non si ribella con decisione al travisamento della sua identità, come aveva invece fatto a Listra (14,12-15). Che non si sia accorto di ciò che si diceva di lui, impegnato com’era ad aiutare gli altri? Di certo continua a spiccare come figura guida, sereno e sicuro, attento ai suoi compagni (viene morso dalla vipera mentre raccoglie legna per scaldare tutti) e agli abitanti del luogo.

Durante i tre mesi di forzata permanenza è comunque sempre teso a fare del bene, anche con la guarigione miracolosa (28,8-9) non solo del padre del governatore, ma anche degli isolani, senza perdere l’occasione di predicare il Vangelo.

In Italia (At 28,11-28)

Alla fine, il centurione trova a Malta una nave proveniente dall’Egitto, probabilmente anch’essa carica di grano: il suo capitano doveva aver provato a sua volta a raggiungere Roma prima della brutta stagione, riuscendo a portarsi solo poco più avanti ma salvando il carico.

Partono e sbarcano a Siracusa. Da lì, Luca ci racconta il viaggio a piedi verso Roma. L’autore degli Atti pare che abbia fatto il viaggio insieme a Paolo fin da Cesarea Marittima, e ci offre tutti i dettagli sulle tappe affrontate, e sulle comunità incontrate, che ovviamente gli interessano di più.

Ancora una volta, è interessante ciò che l’autore dice, ma anche ciò che tace. I cristiani non sono solo a Roma, ma già anche a Pozzuoli (28,13-14). Quelli di Roma vengono incontro a Paolo «fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne» (28,15), il che ci permette di fare almeno due deduzioni. Intanto, Paolo è famoso, al punto che si organizza per lui un comitato d’accoglienza, anzi due. Proprio questo particolare, però, ci suggerisce che forse anche la comunità di Roma non è compatta e unita. Il Foro di Appio era il punto in cui un canale navigabile proveniente da Terracina si congiungeva con la via Appia, così da farne uno snodo importante a circa 60 chilometri da Roma (su una bella strada lastricata, ma comunque a quasi due giorni di viaggio per chi avesse a disposizione dei carri trainati da animali o fosse particolarmente forte e veloce nel camminare). Ma le Tre Taverne, anche se non siamo sicurissimi sulla loro posizione precisa, si trovavano sulla stessa via Appia a una quindicina di chilometri da Roma. Qualche ritardatario, oppure le comunità cristiane romane non erano riuscite a mettersi d’accordo?

Teoricamente queste comunità dovevano aver già ascoltato la lettera di Paolo ai Romani, ma paiono non sapere niente dell’opposizione contro di lui che si era diffusa a partire da Gerusalemme (28,21). Può stupirci, ma c’è da ammettere che le pretese del sinedrio di governare su tutto il mondo ebraico (i cristiani di origine ebraica si consideravano ancora ebrei), non sono messe facilmente in pratica. Peraltro, questi ebrei sanno che sul movimento dei cristiani c’è parecchia discussione (28,22).

Tale discussione si rinnova ancora intorno a Paolo, in grado di incontrare persone, dibattere, evangelizzare, argomentare e suscitare almeno domande e dubbi nei suoi interlocutori (28,23-24). Di nuovo, non stupiamoci per la libertà di movimento di un prigioniero indagato come Paolo: è in catene, è vero, e infatti un soldato è sempre con lui, ma è un cittadino romano, quindi trattato comunque con i guanti (anche se a Roma nella sua condizione si trovano in tanti, molti di più che in Oriente), e in ogni caso con dei capi di imputazione evidentemente alleggeriti dalle testimonianze dei procuratori.

Una conclusione aperta (At 28,30-31)

Decapitazione di Paolo (china di Paul Gichui)

Abbiamo già detto che a volte Luca sembra uno sceneggiatore per il cinema. Ma a Hollywood avrebbero di certo pensato a un lieto fine in cui Paolo venisse liberato, magari dopo aver parlato del Vangelo davanti all’imperatore. E invece gli Atti degli Apostoli qui ci offrono la seconda grande sorpresa di questi ultimi capitoli: la narrazione finisce con l’annotazione che Paolo poteva incontrare chi voleva e annunciava il regno di Dio, ma nulla si dice su come sia andato a finire il processo. Non solo manca il lieto fine, ma sembra che manchi la fine. Perché mai?

Oggi c’è chi fa notare che due anni (28,30) erano il tempo massimo di durata legale di un procedimento giudiziario. Peraltro, in tribunale si dava la precedenza ai processi più importanti, o che avevano alle spalle pressioni più potenti. Evidentemente il caso di Paolo non è stato ritenuto pericoloso per Roma, e nella capitale le pressioni del sinedrio non riescivano a farsi sentire. Può anche darsi che, finiti i due anni, Paolo sia stato semplicemente scarcerato, senza che il processo abbia avuto luogo. Che cosa abbia fatto dopo, Luca preferisce non dircelo.

C’è chi sostiene invece che proprio il silenzio di Luca suggerisca che il processo, per un motivo o per l’altro, sia andato a finire male, con la condanna a morte di Paolo. La tradizione romana vuole che l’apostolo sia in effetti morto martire alle Tre Fontane oppure lungo la via Ostiense. Già in questa occasione o più tardi? Non lo sappiamo. Ma si potrebbe ritenere che l’autore degli Atti non volesse finire la sua opera con quello che, umanamente, era un fallimento. Altri ribattono che come il martirio di Stefano non è presentato di sfuggita né tantomeno come un insuccesso, così la stessa glorificazione si sarebbe potuta narrare per Paolo.

Se ci teniamo però a quello che è scritto, dobbiamo ammettere che la conclusione ha delle somiglianze con quella del Vangelo di Marco (la conclusione originaria, in Mc 16,8), che Luca sicuramente conosceva, in quanto ne aveva usato diverse pagine per il proprio Vangelo. Quel Vangelo finisce con le donne che vanno via dalla tomba vuota senza dir niente a nessuno, perché avevano paura. Si ammette oggi che l’intenzione dell’evangelista doveva essere proprio di tenere aperta la porta ai lettori, perché si mettessero in gioco, si facessero domande e completassero l’opera delle donne.

Luca, alla fine degli Atti, ci dice solo che Paolo continuava a evangelizzare, senza ostacoli e senza paura. Sappiamo così che il Vangelo viene annunciato a Roma, centro del mondo, capitale di un impero che si poteva ritenere universale ed eterno. E allora Luca ci porta di nuovo al centro del discorso. È vero: negli ultimi quindici capitoli ha parlato quasi solo di Paolo, che per noi lettori è diventato il protagonista e il centro dell’attenzione. Ma Luca, lasciando aperto il racconto delle sue vicende, ci ricorda, quasi di colpo, che il protagonista non è l’apostolo. Il vero attore di quest’opera è lo Spirito che muove l’annuncio. Ed entrambi sono liberi di agire, persino nella capitale, in quella Roma che poteva essere considerata il centro del mondo, del potere, del male.

Paolo è in catene, ma il Vangelo è libero. E allora, ci suggerisce Luca, non c’è bisogno di aggiungere altro, perché tutto l’essenziale è stato detto. Possiamo scrivere la parola «Fine».

Angelo Fracchia
(20-fine)