Vivere di Dio (Es 20,18-23,19)


Il decalogo (Es 20,1-17) non è il riassunto o la conclusione della legge, ma semmai il suo sfondo, quasi la sua «costituzione». Evidentemente, però, le leggi non possono esaurirsi in una presentazione profonda e sintetica (quasi solo dei titoli), ma poco dettagliata. E in effetti il libro dell’Esodo fa seguire le dieci parole da quasi tre capitoli di regole più specifiche e precise, che possono tuttavia causarci qualche problema, anche se, secondo alcuni, essi sono solo il primo commento e applicazione dei «comandamenti».

La prima raccolta di leggi ebraiche

Le nuove parole divine, che iniziano in Es 20,22, sono estremamente concrete, puntano a regolamentare una vita reale, quindi una vita ambientata in un tempo storico preciso. Ecco perché, ad esempio, non solo accettano l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo e anche la schiavitù (che nei tempi biblici non vediamo mai sparire), ma danno anche per scontato che il tempio non sia uno solo, e ve ne sia, invece, uno in ogni cittadina o addirittura in ogni casa (cfr. 21,6). Questo è un tema che diventerà fondamentale nel libro del Deuteronomio. In questi capitoli abbiamo, quindi, una raccolta di leggi e norme piuttosto antica, che tradisce il suo essere nata in un contesto contadino arcaico.

In questa raccolta si parte dalle questioni riguardanti il culto (20,23-28) per poi passare ad alcune regole sugli schiavi (21,1-8) e sulle donne (21,6-11, con una certa sovrapposizione dei temi), per poi giungere ai casi di omicidio e lesioni fisiche (21,12-36), anche qualora a perpetrarle siano animali, tanto che, per affinità di tema, si arriva a contemplare il caso di furto di bestiame (21,37). A sua volta, quest’ultimo argomento porta l’attenzione più generale sulla tutela delle proprietà (22,1-14). Quindi, si prende in carico la difesa dei deboli (22,15-26) e di Dio (22,19.27-30). Si passa poi a diverse norme relative al rapporto con il prossimo, anche nel caso della gestione di animali (23,1-9), e, infine, nuovamente, a questioni religiose: l’anno sabbatico (23,10-12) e alcune feste (23,13-19).

Il tutto si chiude rinnovando la garanzia dell’assistenza permanente da parte di Dio (23,20-33), che lega il nostro brano con ciò che segue e che analizzeremo con più calma nella prossima puntata.

Alcuni casi particolari

Omicidio. Può essere interessante riprendere in particolare alcune delle norme inserite in questi capitoli.

Si stabilisce, ad esempio, che chi uccide un uomo vada messo a morte (21,12-14), anche se questi può rifugiarsi in alcune città specifiche, qualora l’omicidio non sia intenzionale (21,13; cfr. Nm 35; Gs 21). Qui l’omicida non può essere arrestato, sempre che non abbia ucciso con inganno, nel qual caso può anche essere strappato via dall’altare del tempio dove si è rifugiato (Es 21,14). Il senso generale pare abbastanza chiaro: la tutela della vita è qualcosa di imprescindibile (cfr. Gen 9,5), al punto che persino quando l’omicidio non è intenzionale, va perseguito. Nello stesso tempo, occorre prevedere delle vie di scampo legittime per chi davvero non ha cercato la morte del fratello. La vita è sacra al di là di ogni intenzione omicida, ma anche la vita dell’omicida è da tutelare.

Questa raccolta di leggi recupera poi anche la norma del taglione, «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede…» (21,21). Questa consuetudine, che a noi oggi sembra crudele, era in origine un limite alle faide e a vendette sproporzionate. Come vedremo tra poco, non dobbiamo dimenticarci che si tratta di regole antiche, che sarebbero state superate già durante l’elaborazione del Primo Testamento.

Donne e spose. È questo contesto arcaico a spiegare anche norme che oggi, fortunatamente, ci paiono disumane e insensate, come quella che equipara sostanzialmente una donna vergine al valore economico che ha per la sua famiglia nel caso che la sua verginità sia violata prima del matrimonio (cfr. Es 22,15-16): si parla di rimborsi, come fosse un costo che lo sposo o il violatore deve pareggiare. Il contesto culturale era quello, incapace di cogliere nella giovane una persona, autonoma e sensibile, benché questa dimensione sia poi pienamente colta in Gen 1-2, testi che vengono scritti probabilmente secoli dopo.

Maghe. Questo stesso spirito «arcaico» si muove nelle condanne a morte delle maghe (22,17) e di chi compie atti di bestialità (22,18). Il motivo di punizioni così gravi è probabilmente da identificare in ragioni religiose: in Egitto si veneravano diversi animali come dèi, e il rapporto con il Dio d’Israele non sopporta manipolazioni magiche, che non coinvolgono la persona ma che lasciano intendere che di Dio ci si possa servire come di uno strumento.

Anno sabbatico. Peraltro, non abbiamo certezze che queste misure così dure siano mai state applicate, così come è rimasto sempre un bel progetto mai applicato quello dell’anno sabbatico (23,10-11). Succede anche a noi oggi, quando offriamo il racconto della nostra vita, e certamente accadeva per i testi biblici, di descrivere come una realtà quello che invece era un desiderio o un progetto che ritenevamo giusto e bello da realizzare. Sono incoerenze che da una parte dicono il limite umano nel non riuscire a tradurre in realtà ciò che è solo ideale, e dall’altra mostrano la capacità di cogliere con onestà che l’ideale è altro rispetto a ciò che si fa.

Il senso nel contesto

Qual è il senso di questi capitoli, allora?

La prima impressione che proviamo di fronte a questi testi è quella di un certo straniamento. Essi sembrano incoerenti con il contesto degli altri capitoli.

Fino a ora, infatti, il libro dell’Esodo ha presentato un poderoso cammino di fede, sia pure in modi e forme narrative inconsuete per noi. Un percorso di approfondimento nella conoscenza e nell’intimità con Dio, nella fiducia in un Signore che si prende carico delle vite umane.

Lo stesso decalogo, come abbiamo visto, lungi dall’essere un elenco di regole, è quasi un manuale d’istruzioni per l’esistenza, criteri di fondo per poter vivere una vita bella e piena.

Qui, invece, improvvisamente, ci troviamo in un testo arido, formale, legalista, che ci parrebbe completamente fuori luogo in un libro tanto ricco.

L’intuizione spirituale antichissima che lo ispira, però, è che i moti profondi dello spirito esigono di essere tradotti in misure pratiche. Una coppia che inizi una vita insieme dovrà mettersi d’accordo su chi fa la spesa, chi cucina, chi pulisce, chi pensa alla posta e alle bollette: tutti questi accordi pratici non sono la ragione per cui si sta insieme, ma la incarnano. Si vive insieme per amore, per dedizione reciproca, cosa che ha un valore spirituale profondissimo, ma che si deve concretizzare in scelte pratiche e minute. Anzi, si dovrebbe addirittura dire che proprio perché ha un valore spirituale profondo si incarna in scelte pratiche.

Il mondo cristiano dovrebbe essere consapevole che non si dà conoscenza di Dio se non nell’umano, non si vive di spirito se non nella carne, non si rende reale un’intuizione dell’animo se non dentro al corpo: anche di questo parla l’incarnazione del Verbo. Ma qui intuiamo che tale percezione profonda era già presente negli autori antichi, che hanno contribuito a formare il Primo Testamento.

Una fede incarnata

Se si vuole essere fedeli al Dio creatore e salvatore, occorre iniziare dal rispetto di norme esteriori e poco importanti in sé, ma che incarnano scelte di vita e di fede fondamentali. Anche riportare al padrone un bue smarrito (Es 23,4) è uno dei tanti modi concreti con cui esprimere la propria fede nel Dio liberatore che ha fatto uscire il popolo dall’Egitto. In questo senso, tutte le norme elencate nei capitoli dal 20 al 23, norme che non sono sicuramente centrali, costituiscono tuttavia la conseguenza pratica dell’adesione all’alleanza.

Per tornare all’esempio della vita di coppia, non è tanto importante chi porti fuori da casa la spazzatura, ma che in quel gesto molto semplice si ribadisce l’intenzione di tenere in piedi e rendere viva un’unione spirituale decisa tempo prima. Il gesto in sé può essere trascurabile, ma è espressione di amore.

Ecco perché queste norme, sicuramente datate e limitate, vengono inserite nella Bibbia, e in una posizione importante. Che non siano regole eterne è dimostrato dal fatto che verranno riprese e modificate almeno altre due volte (nel «codice deuteronomico», Dt 12-26, e nella «legge di santità», Lv 17-26). Qualunque interpretazione letterale di queste norme («Bisogna fare così perché nella Bibbia è scritto così») è una forma di integralismo che non tiene conto del fatto che agli stessi problemi la Bibbia ha risposto nel tempo con leggi diverse incarnate in nuovi contesti di vita.

Detto questo, però, ci è utile capire che nel contesto e nel tempo in cui sono state formulate, quelle regole erano il modo preciso con cui accogliere l’alleanza con Dio. Mantengono un valore autentico di «parola di Dio» per lo spirito profondo che le abita, anche se la lettera è superata dal tempo.

È anche per questo motivo che tali leggi possono, in fondo, restare incompiute. Non è neppure lontanamente ipotizzabile che questo «corpo legale» possa regolamentare la vita di una società intera. Di fatto, si riprendono soltanto alcune questioni, e forse neppure le più importanti.

Non sappiamo se la società ebraica avesse prodotto raccolte di leggi complete (se l’ha fatto, non ci sono arrivate). A chi ha redatto l’Esodo, di certo, questo non importava: bastavano alcuni esempi, non esaustivi, che ricordassero a tutti i fedeli che i grandi moti dell’anima esigono una traduzione corporea.

Al centro c’è l’essere umano

Queste regole incomplete sono attraversate comunque da un’attenzione che era già presente nel decalogo e che è diffusa in tutto il Primo Testamento: ciò che sta a cuore a Dio è la vita dell’uomo.

Possiamo infatti notare che per alcune colpe si prevede addirittura la pena di morte, per altre delle sanzioni che sembrano delle semplici multe. E quasi sempre la pena di morte è prevista per chi ha ucciso altri esseri umani. Per chi ha rubato o danneggiato i beni altrui, sono previste anche pene importanti, ma sempre senza andare a toccare la vita.

Questi capitoli suggeriscono che i beni, il buon nome delle persone, le stesse norme liturgiche, sono tutte cose importanti, ma per Dio lo sono meno della vita delle sue creature. L’essere umano viene prima di tutto, anche prima della legge divina. Questa intuizione, in forme diversissime tra di loro, attraversa tutta la Bibbia. Mai il Dio che impone delle regole si mostra più interessato al rispetto di queste piuttosto che all’esistenza autentica delle persone.

È un’attenzione che si coglie tra le righe in diverse norme: ad esempio, si prevede un limite al tempo in cui uno schiavo può restare tale (21,2-4), salvo che sia lui a non voler essere liberato (21,5-6); una ragazza può essere anche venduta schiava, ma va trattata quasi fosse una moglie (21,7-11); e sono originali e commoventi, nel contesto del Vicino Oriente Antico, le norme che vanno a proteggere orfani, vedove e forestieri, ossia coloro che, in quel mondo culturale, basato sul clan, non avrebbero avuto nessuno che li proteggesse (22,20-23). Alla base di tutto non c’è la gestione ordinata di una società, magari, come spesso succede, allo scopo di tutelare ricchi e potenti, quanto l’attenzione paterna nei confronti di ogni singolo essere umano.

Il rispetto dell’alleanza con Dio comporta insomma di intraprendere percorsi concreti tramite i quali esprimere la scelta religiosa di fondo. Percorsi che sono situati in un tempo e in un contesto, che invecchieranno e saranno superati, ma che continuano a indicare un modo possibile con cui accogliere e rispondere con coerenza all’amore di Dio Padre. Ecco perché il loro valore materiale decade, ma quello spirituale dura sempre, e vengono inseriti nel libro dell’Esodo.

Angelo Fracchia
(Esodo 13 – continua)




Compagni di viaggio


In questi mesi tutte le comunità diocesane e parrocchiali sono impegnate ad approfondire i temi che i vescovi Italiani hanno sottoposto alla nostra riflessione. Si tratta dell’attuazione di quel Sinodo di tutta la Chiesa, voluto da papa Francesco, per offrire a ogni comunità cristiana l’opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria ed ecumenica.

Colpisce come il primo passo proposto dai vescovi per realizzare questo cammino sinodale sia quello di sentirci tutti «compagni di viaggio», persone in cammino non solo con coloro che si dicono credenti e praticanti, ma con ogni membro della società. Pare di risentire il mandato di Gesù ai primi discepoli: «Andate ovunque e annunziate che il Regno di Dio è presente tra noi». Non si tratta tanto di mettere in atto alcune iniziative, ma di fare crescere in noi un «sentire» di fraternità e di solidarietà verso tutti, come di viandanti che battono lo stesso cammino, fianco a fianco e sanno fare propri le gioie e i dolori, le fatiche e i successi dei loro compagni di viaggio.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, questo invito a una partecipazione sinodale rimanda all’esemplarità dei due sacerdoti che sono stati protagonisti nella nascita dei nostri due Istituti: il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa. Di quest’ultimo ricordiamo quest’anno il centenario della morte. Veramente essi sono stati compagni di viaggio, camminando fianco a fianco per ben 42 anni. Una vicinanza e collaborazione che oggi leggeremmo come autentica «sinodalità». Il padre Domenico Fiorina, già superiore generale dell’Istituto, ha saputo descrivere efficacemente il loro «camminare insieme»: «Vi era impegno nei due di studiare personalmente i problemi in tutti gli aspetti, mettendo poi in comune i risultati a cui ciascuno era giunto. Tutto era visto in senso unitario, quasi come l’azione di una persona sola in cui l’intelligenza, la bontà, la volontà si fondevano in unità. Ognuno portava in questo studio se stesso con tutta libertà, senza costrizioni o timori. Ognuno però teneva il suo posto. Così che non mancava all’Allamano la serena e libera necessità di dovere prendere e fissare una decisione, né mancava al Camisassa la sincera e voluta accettazione di questa decisione e l’impegnata volontà e azione per eseguirla». Questo è un passo importante che tutti noi siamo chiamati a compiere, in questo cammino sinodale. Possa l’esemplarità dei nostri due fondatori essere luce nel discernimento e spinta all’impegno.

padre Piero Trabucco


L’Eucaristia: pane della vita

Il beato Giuseppe Allamano trovava nell’eucaristia il nutrimento della sua vita spirituale
di sacerdote e missionario e voleva che i suoi missionari fossero dei «sacramentini» nel senso
che proprio dall’eucaristia quotidiana dovevano trarre la forza e l’entusiasmo di svolgere l’opera missionaria a cui si erano consacrati.

Comunione con Gesù

Nel discorso sull’Eucaristia, riportato dall’evangelista Giovanni, Gesù si autodefinisce «il pane della vita» (Gv 6,35) e spiega: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). In sostanza, Gesù promette e illustra il mistero che realizzerà nell’ultima cena: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (Mt 26,26.27), che a sua volta anticipa il mistero della morte e risurrezione del Signore. Ecco perché la Messa non è solo «sacrificio», ma anche «banchetto» e «comunione».

Il significato e l’importanza della comunione eucaristica, collegata con il sacrificio eucaristico, sono stati illustrati da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine» (Signore rimani con noi), che ha accompagnato la Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (ottobre 2004-2005): «Alla richiesta dei discepoli di Emmaus che Egli rimanesse con loro, Gesù rispose con un dono molto più grande: mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in loro. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione profonda con Gesù. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)».

Nutrimento indispensabile

L’Eucaristia è un pane del quale non si può fare a meno: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Sull’Eucaristia come cibo, cioè nutrimento e forza per la vita spirituale, come pure sulla sua necessità per la vita, l’Allamano è molto esplicito. Non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza vitale che promana da essa in favore della persona.

Il 6 dicembre 1912, inaugurando la cappella della prima casa madre delle suore missionarie, così si espresse: «Gesù si pose stamane in questo santo Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest’altare Egli vi ripete: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita».

L’incontro con Gesù nella comunione eucaristica è un momento importante. L’Allamano insegna a desiderarlo ardentemente e a prepararsi, perché sia realizzato nel modo più fervoroso possibile. I suoi suggerimenti sono semplici, pratici, e sicuramente risentono della sua esperienza personale: «Se ci svegliamo di notte, e al mattino appena alzati, immaginiamo che il Signore ci dica come a Zaccheo: “Scendi presto, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”; e discesi in Cappella, al più presto possibile, diciamo al Signore: “Stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore”. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose».

«Tre atti servono a infervorarci. L’atto di fede: pensare che proprio là c’è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com’è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: “Signore, non sono degno”, le parole del centurione, ed esamino le mie miserie. E poi desiderio, amore: “Vieni Signore, non tardare”, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione».

Nutrimento quotidiano

Per l’Allamano l’Eucaristia è «pane da mangiare ogni giorno». Egli era fautore convinto della comunione frequente, giornaliera, pur vivendo in un periodo in cui ciò era poco o quasi nulla attuato anche negli ambienti religiosi. Secondo le testimonianze dei sacerdoti che erano stati in seminario con lui, l’Allamano era tra i pochi seminaristi che frequentavano la comunione ogni giorno. Questa sua esperienza l’ha trasmessa ai suoi missionari e missionarie, pur lasciando ovviamente piena libertà. L’Eucaristia non solo nutre per la vita, ma crea unità. Anche questo aspetto è sviluppato nella già citata Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine»: «Questa speciale intimità (con Gesù) che si realizza nella “comunione” eucaristica non può essere adeguatamente compresa né pienamente vissuta al di fuori della comunione ecclesiale. In effetti, è proprio l’unico pane eucaristico che ci rende un corpo solo. Lo afferma l’apostolo Paolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17).

Nel mistero eucaristico Gesù edifica la Chiesa come comunione, secondo il supremo modello evocato nella preghiera sacerdotale: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Se l’Eucaristia è sorgente dell’unità ecclesiale, essa ne è anche la massima manifestazione. L’Eucaristia è epifania di comunione».

Centro di unità

L’Allamano, a sua volta, immagina l’Eucaristia come centro di unità, all’interno dell’Istituto, specialmente in due modi. L’Eucaristia (il tabernacolo vivo) è centro della casa, a cui tutto tende. Ovviamente per casa intende non i muri, ma la comunità.

Inoltre, l’Eucaristia crea e garantisce l’unità perché è Gesù che dal tabernacolo forma i missionari e dà loro una fisionomia unica secondo l’ispirazione originaria. Nella conferenza del 21 dicembre 1919, l’Allamano afferma: «Non dovete accontentarvi di divenire religiosi, sacerdoti, missionari solo per metà; ci vuole proprio il superlativo. E per questo dobbiamo pregare molto Gesù nel tabernacolo; è Lui che deve formarci. I superiori sono solo delle paline che indicano il viaggio per andare a Lui; è Gesù che deve poi fare. Egli ci formerà».

padre Francesco Pavese


Preti, cioè missionari

L’esempio è… Allamano

Presentiamo una sintesi della tesi* di dottorato in missiologia di padre Luca Bovio, missionario della Consolata e segretario nazionale della Pontificia unione missionaria in Polonia, dove lavora dal 2008. Partendo dalla vita e dal pensiero del beato Giuseppe Allamano, sacerdote diocesano di Torino e fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, l’autore vuole dimostrare che la missione universale fa parte del Dna costitutivo di ogni sacerdote o, più semplicemente, che «prete e missionario» sono… la stessa cosa.

Sono molti gli studi, gli approfondimenti e gli articoli scritti su Giuseppe Allamano dai suoi missionari e missionarie in oltre un secolo di storia, così come esiste una solida bibliografia su di lui, scritta da persone non appartenenti all’Istituto.

L’idea portante della mia tesi di laurea è nata mettendo insieme «la lettura delle Conferenze del Fondatore, raccolte da padre Igino Tubaldo, e il servizio che da anni svolgo in Polonia per le Pontificie opere missionarie, incontrando centinaia di seminaristi, e i numerosi contatti coi sacerdoti nelle parrocchie». Dall’insieme è nato il tema di questo lavoro, che si potrebbe riassumere così: «Ogni sacerdote per sua natura è missionario. Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano».

Missionario… a chilometro zero

Indipendentemente dal lavoro e dal servizio pastorale svolto, la vita dell’Allamano e il suo insegnamento dicono a tutti e, in modo particolare ai sacerdoti, che occorre vivere in pienezza il proprio sacerdozio, uniti misteriosamente per partecipazione a Cristo, sommo e unico sacerdote (Eb 8,1-9). Questa chiamata al sacerdozio trova nella missione la sua naturale realizzazione, non nel senso stretto che tutti i sacerdoti devono partire per la missione (anche se una parte, certamente, dovrebbe farlo), ma che tutti devono avere in sé uno spirito missionario.

L’Allamano, pur nutrendo un sincero desiderio (ancora da seminarista) di partire per le missioni, non riuscì mai a realizzare questo progetto, a causa dei noti problemi di salute. Tutta la sua vita sacerdotale è stata vissuta nella città di Torino, tra il santuario della Consolata (di cui era rettore) e l’adiacente Convitto per i giovani sacerdoti, le conferenze settimanali ai missionari in Casa Madre e gli esercizi spirituali al clero nelle Valli di Lanzo, presso il santuario di S. Ignazio. I viaggi più lunghi che intraprese nella sua vita furono quelli a Roma, per incontrare il papa e recarsi alla congregazione di Propaganda Fide. Mai uscì dai confini dell’Italia.

Mancano completamente i viaggi nelle missioni. Eppure, il suo sacerdozio, vissuto in tanti e diversi incarichi, ha in sé una straordinaria prospettiva missionaria.

Come Cristo, sacerdoti per l’umanità

Come Segretario nazionale della «Pontificia unione missionaria» in Polonia, ho visitato quasi tutti i seminari diocesani polacchi e alcuni di quelli dei religiosi dove ho presentato la vocazione missionaria evidenziando il legame tra sacerdozio e missione lasciandomi ispirare dall’insegnamento di Giuseppe Allamano.

Nonostante gli eventi tragici che hanno toccato la storia della Polonia negli ultimi secoli e il secolarismo che avanza, la Chiesa in questo paese è una presenza significativa.

Nel paese ci sono molti sacerdoti e dal confronto con la figura dell’Allamano, potrebbero trovare aspetti arricchenti per la loro vita sacerdotale, e scoprire che la missione non è un elemento lontano o aggiuntivo al sacerdozio, ma è quell’orizzonte di santità a cui tutti i sacerdoti sono chiamati.

Nel pensiero dell’Allamano la dimensione missionaria è profondamente unita al suo sacerdozio. La missione, per lui, è anzitutto un modo di essere sacerdote prima che fare delle opere, le quali lui stesso non disdegnava, essendone attivo promotore.

La chiave per comprendere il suo essere sacerdote missionario è la sua apertura di cuore e di mente. Egli fu un sacerdote che desiderò profondamente donarsi a Dio e ai fratelli, unendo in sé la dimensione particolare con quella universale. Proprio servendo in verità e profondità le persone incontrate ogni giorno, restò aperto al richiamo dell’umanità intera per la quale Cristo ha donato la sua vita.

Il rapporto tra sacerdozio e missione non è immediato, anzi spesso appare separato nel modo di pensare di chi distingue tra «sacerdoti diocesani» e «sacerdoti missionari». Tuttavia da un punto di vista teologico non c’è differenza tra sacerdozio e missione: ogni sacerdote è per sua natura missionario. Ogni sacerdote, infatti, partecipa dell’unico e universale mistero della salvezza e da questa ampia prospettiva, scaturisce una profonda unità tra sacerdozio e missione.

Occorre, perciò, superare questa divisione e trovare un’unità, fondata su un punto vista teologico e non solo pastorale; quella stessa unità che si può vedere, in modo evidente, nella vita dell’Allamano.

La forma del sacerdozio (o il servizio pastorale) presenta delle differenze: abbiamo sacerdoti diocesani, ci sono sacerdoti missionari, altri professori e insegnanti, o impegnati ancora in vari campi caritativi, o pastorali. Tuttavia, la forma esterna non può mai essere ridotta o separata dalla natura interna, dall’orizzonte universale salvifico di Cristo a cui ogni sacerdote partecipa.

padre Luca Bovio

* Ogni sacerdote è per sua natura missionario.
Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano
, IMC, Varsavia 2020.

 

 




Non diamoci pace


Condividiamo queste poche righe del superiore generale del Missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo. Sono tratte da un documento che egli invia ai missionari, ma certamente sono parole intense che valgono per tutti.

Quest’anno siamo giunti alle soglie della Quaresima “avvolti” dal dramma della guerra scoppiata tra Russia e Ucraina…: una guerra che ha di certo conseguenze ben più vaste… Dolore e silenzio ci trafiggono il cuore… le grida di dolore e sofferenza non potevano che farsi più lancinanti dinanzi a una guerra che è tornata a insanguinare le terre europee e che peraltro deve ridestare l’attenzione sui tanti conflitti che, vicini o lontani da noi, interpellano la nostra coscienza di uomini, di credenti e di missionari.

Davanti a queste guerre e a tanto odio e malvagità ci sentiamo impotenti. Rimane la preghiera e la generosità della nostra vita. Ma, la preghiera autentica ha un prezzo da pagare perché colui che prega in modo autentico, prima che cambiare Dio o la storia, deve lasciarsi personalmente cambiare dall’incontro con Dio, per stare nella situazione in cui si trova con una responsabilità che non viene attenuata o attutita, ma al contrario potenziata dall’incontro con Dio, con il suo desiderio e con la sua grazia.

Cerchiamo di convertire la nostra esistenza per poter non semplicemente giungere a Pasqua, ma per poterla sperimentare nella carne.

Aggiungiamo però un suggerimento: non accogliamo nel cuore e nella mente ciò che è contro la pace (pensieri, parole, azioni) e apriamoci ogni giorno a ciò che la costruisce in noi e attorno a noi! Ogni giorno facciamo CONCRETAMENTE un atto di DISARMO e un atto di PACIFICAZIONE: dobbiamo assolutamente cambiare rotta! Dobbiamo far soffiare venti buoni nel mondo a partire dalle  nostre case! Dobbiamo smetterla di attendere che la pace sia decretata e fatta dai governanti: dobbiamo decretarla e farla noi! E il primo disarmo dobbiamo farlo in noi stessi come diceva il Patriarca Atenagora. Meditiamo a fondo le sue parole: “La guerra più dura è la guerra contro sé stessi. Bisogna arrivare a disarmarsi. Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile. Ma sono stato disarmato. Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più sulle difensive, gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori, ma buoni, accetto senza rammaricarmene. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore. Ecco perché non ho più paura. Quando non si ha più nulla, non si ha più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Egli cancella il cattivo passato e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile.”

Sì: “NON DIAMOCI PACE” FINCHÉ NON CI SIA PACE IN TUTTI E PACE PER TUTTI!

Buona Quaresima e una Santa Pasqua!

Stefano Camerlengo
Da Notiziario IMC, N. 51
Roma, 31 marzo 2022




Decalogo: istruzioni per vivere (Es 20,1-17)


Solo dopo che il popolo ha affermato di voler vivere insieme al suo Dio, riconosciuto come Signore (Es 19,8), riceve la legge: una sorta di sintesi scritta di ciò che Dio si aspetta dai suoi: un documento che si apre con un testo assolutamente centrale per la vita del popolo, tanto è vero che verrà citato da Gesù (Mc 10,19; Lc 18,20), da san Paolo (Rom 13,9) e addirittura ripreso quasi alla lettera in un altro brano del Primo Testamento (in Dt 5,6-21). Non è frequente che due passi biblici siano uguali: il Deuteronomio riprende la rivelazione e la ridice in un altro modo, ma quando arriva al Decalogo preferisce usare quasi le stesse parole, salvo pochi cambiamenti. Uno scrittore che si comportava così, nell’antichità, lasciava intendere che non si sarebbe potuto riscrivere meglio il testo, che restava quindi intatto. Non è un plagio, è un omaggio.

Un modello di morale?

Nella tradizione ebraica e cristiana il Decalogo è diventato la sintesi delle norme morali, da insegnare al catechismo e da utilizzare per l’esame di coscienza. L’impressione era, infatti, che raccogliesse tutto ciò che Dio «comandava» agli esseri umani. Intorno al Decalogo si è spesso strutturata la morale. Esso è servito come strumento d’ordine di tutti i doveri e i divieti, religiosi e non, a volte elaborati anche al di là del suo stretto contenuto.

Una lettura un po’ attenta ci aiuta però ad accorgerci che dentro al testo del Dealogo c’è qualcos’altro. Qualcosa di più prezioso di un codice di comportamento etico.

Nelle nostre presentazioni del Decalogo spesso si parla di due parti (d’altronde, Es 34,29 parla di due tavole di pietra), una prima riguardante le relazioni con Dio, che coprono tre comandi, e l’altra sui rapporti con gli altri uomini. Nei secoli di elaborazione da parte della Chiesa, poi, gli ultimi comandamenti hanno finito con l’essere molto ampliati (a essere onesti soprattutto il sesto) dando l’impressione che essi avessero un peso maggiore. Possiamo però notare che nell’antichità, lo scrittore faceva come oggi fanno spesso gli insegnanti: dava maggiore spazio a ciò che riteneva più importante, a costo di ripetersi. Possiamo allora notare che ai primi tre comandamenti nel testo dell’Esodo sono dedicati dieci versetti, per un totale di 134 parole (in ebraico), mentre gli altri sette coprono nove versetti, ma solo 44 parole. La prima parte, insomma, è decisamente più ampia, perché evidentemente chi l’ha scritta la considerava molto più importante.

Ma anche un altro particolare ci stimola a ripensare il senso del Decalogo. La prima affermazione del testo, infatti, può sembrare strana per un elenco di norme (Es 20,2: «Io sono il Signore, tuo Dio»): non ordina niente. Sembra piuttosto una presentazione, quasi una premessa, in cui Dio spiega chi è. In effetti le tradizioni catechistiche l’hanno trattata come un’introduzione, che però nel testo è un’altra, al versetto 1 («Dio pronunciò tutte queste parole:»). In più, si tratta di un’autopresentazione ampia, in cui Dio si definisce con il suo nome proprio, poi aggiunge che si tratta del «tuo Dio», precisando di essere colui che ha fatto uscire il popolo dalla terra d’Egitto, «dalla condizione servile». Non si tratta semplicemente di una carta d’identità, ma della spiegazione della relazione che lo lega a Israele. E questa relazione è di salvezza, di liberazione, di legame interiore con qualcosa di nuovo. «Io sono il tuo Dio»: tu hai un Dio, non sei abbandonato, non sei solo, non rimani senza custodia e accompagnamento. Pensavi di essere solo, ma non lo sei; di più, hai accanto a te un Dio, che è tuo.

Un’intuizione e le sue conseguenze

Se lo ripensiamo così, il Decalogo acquisisce subito un’intonazione diversa. Non si tratta più di dover rispettare delle regole, magari specificando quali punizioni o conseguenze ci saranno per i trasgressori. Si tratta invece, come intuizione di partenza, di renderci conto che non siamo soli.

Israele, questo popolo che ancora non ha scoperto di essere un popolo, ha un Dio. E non nel senso che abbia qualcuno da venerare, per il quale faticare, a cui presentare offerte. Ha un Dio perché colui che lo lega a sé lo ha già liberato, lo ha fatto uscire dall’Egitto che era una terra di schiavitù.

Quella che ci sembrava una pallida introduzione ai comandamenti, è in realtà il cuore pulsante di tutta questa pagina: il popolo ebraico, e chiunque vorrà mettersi su quella strada, non è solo. Non siamo soli. C’è un Dio pronto a mettersi dalla nostra parte e a muoversi per primo, rendendoci liberi. Perché non è un Dio che cerchi schiavi, ma persone autonome che decidano di legarsi a lui non per costrizione ma per amore, non servi ma amici, o addirittura sposi (cfr. Os 2,21-22; Is 61,10-11; Ez 23; Gv 15,15).

Al primo versetto del nostro testo, Dio si presenta al suo popolo, ma per presentarsi non usa una definizione filosofica, non dice «Io sono l’essere perfettissimo…». Al contrario, si presenta in relazione: «Io sono il tuo Dio, io ti ho fatto uscire dall’Egitto». Non si presenta in astratto, ma in rapporto con coloro con cui parla. Non è l’amore, è l’amante.

Letta così, la prima frase non può essere una semplice introduzione, ma l’intuizione di fondo. Israele non è solo, noi non siamo soli. Dio c’è, ed è in relazione con loro, con noi. Il resto, in fondo, sono conseguenze.

Se Dio c’è, ed è in relazione con Israele, perché andare a cercare altri dèi («Non avrai altri dèi di fronte a me», Es 20,3)? Non ce n’è bisogno. Dio c’è già.

Ma non solo non c’è bisogno di cercare degli dèi. Bisogna anche evitare di trasformare il Dio d’Israele in un amuleto, in qualcosa di oggettivato, di fisso, di rigido, di «sicuramente nostro». Anche questo dice il versetto 4 («Non ti farai idolo né immagine alcuna…»), che è stato inteso nella tradizione ebraica come invito a evitare di farsi una qualunque immagine di Dio (anche perché l’immagine di Dio, nel mondo, esiste già, ed è l’uomo che vive: cfr. Gen 1,26; S. Ireneo dirà che «gloria di Dio è l’uomo vivente»). Ma in più c’è l’intuizione, colta plasticamente nell’episodio del vitello d’oro (Es 32), che in assenza di Dio non si sia più liberi, ma si diventi servi di altro, oltre tutto di qualcosa che non è superiore all’uomo. Chi ha Dio come Signore, invece, non ha altri signori.

Un sostituto di Dio, poi, può essere, sì, un idolo, ma anche la tentazione di ridurre il Dio vivente a un’immagine sola, a un’idea sola. Es 20,4 ci dice che Dio continuerà a sorprenderci, pur continuando a essere affidabile. È vivo, non è un ritratto o una statua, non è un’idea sempre rigida e fissa. Potrà anche essere imprevedibile, arrabbiarsi e castigare, anche se promette già che manterrà l’ira per tre o quattro generazioni, ma la bontà per mille (Es 20,5-6).

A cerchi sempre più larghi

Il testo del Decalogo parte da questo discorso di fondo e lo sviluppa come una serie di conseguenze man mano più ampie.

Se JHWH è il nostro Dio, non c’è bisogno di cercarne altri. Ma a questo punto, come ulteriore conseguenza, occorre evitare di appellarci a Dio per ciò che non è da Dio (v. 7). È inutile pretendere che possa salvaguardarci e vivere al posto nostro, sostituirsi alle nostre decisioni, cambiare il mondo compiendo ciò che sarebbe affidato a noi. Sarebbe un «invocare Dio invano», perché se ne ridurrebbe il ruolo a qualcosa di infimo e marginale; come sposarsi per avere a disposizione una cuoca o uno spaccalegna. Dio si propone come nostro compagno, come garanzia ed esito della speranza, non come tappabuchi alle cose che, nella nostra vita, potrebbero non funzionare.

E ancora, e sempre di conseguenza: se Dio può essere questo elemento centrale della vita umana, occorre trovare tempo per lui. Lui per primo è consapevole che la nostra vita si muove tra moltissimi impegni e urgenze. Ma se riconosciamo che qualcosa è centrale nella nostra esistenza, sentiremo il bisogno di donargli tempi e spazi. Non necessariamente la parte maggiore del tempo, di certo, ma la più importante. «Tempo di qualità», diremmo noi oggi, senza però aver inventato l’idea. Secondo l’intuizione dell’Esodo, si tratta di un giorno su sette, destinato a recuperare ciò che ci fa autenticamente esseri umani, anzi creature, se è vero che al riposo settimanale sono richiamati non solo tutti gli esseri liberi, ma anche gli schiavi e il forestiero e addirittura il bestiame (v. 10: «il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore»). Di più, persino Dio si è fermato il settimo giorno (20,11), perché il ritorno all’essenziale della nostra esistenza, indipendentemente da tutto il lavoro più urgente che dobbiamo accollarci, è un’esigenza dei viventi tutti.

Fino a coinvolgere gli altri

I cerchi non si fermano. Il v. 12 («Onora tuo padre e tua madre») sembra quasi collegare la dimensione divina con quella umana. Invita a «dare peso» ai genitori, che rappresentano ciò da cui veniamo senza averlo deciso, il dono di una vita che è in nostra gestione ma non ci siamo guadagnati. Non si toglie l’autonomia alle persone libere, non si dice che occorra ubbidire a ogni ordine dei «padri», ma che va concessa loro importanza, rilievo, peso. Non ci siamo fatti da noi, occorre riconoscerlo.

Nei primi «comandi», quelli fondamentali, il testo offre anche delle motivazioni. Qui lo fa per l’ultima volta, indicando, più che la ragione, lo scopo: «perché si prolunghino i tuoi giorni». Il verbo ebraico può essere tradotto «allungarsi» («prolunghino» nella traduzione Cei), come fanno tutte le versioni moderne, ma anche «approfondirsi», come se la percezione di ciò da cui veniamo, la consapevolezza di dover essere grati per un dono che non ci siamo cercati, permetta non solo di allungare il tempo della nostra vita, ma (soprattutto?) di viverlo in profondità, conoscendone il pregio. È diverso il nostro rapporto con un oggetto che ci siamo comprati da quello che abbiamo con un regalo ricevuto.

Gli altri comandamenti, più veloci e secchi, si pongono a questo punto ancora come conseguenza dell’intuizione di fondo iniziale.

Dal momento che conosco il pregio della mia vita, rispetterò anche quella altrui («Non uccidere», v. 13).

Anzi, non mi limiterò a rispettare la vita fisica, ma anche quella dimensione di speranza e costruzione di vita che è soprattutto il legame di coppia: «Non commettere adulterio» (v. 14). Questo comandamento nella tradizione si è ampliato a tutti i reati sessuali, ma non è così nel testo biblico, il quale non sembra tanto interessato al sesso in sé, quanto alla relazione tra persone.

Ma sono a servizio della vita anche i possedimenti altrui («Non rubare», v. 15), e il buon nome che tutela una piena vivibilità dell’esperienza umana («Non risponderai contro il tuo prossimo una testimonianza falsa»: v. 16).

All’ultimo cerchio concentrico troviamo anche il semplice desiderio dei beni degli altri, perché sentirsi minacciati nelle proprie «cose» rende precaria la vita. L’elenco del v. 17 («Non desidererai la casa del tuo prossimo», la moglie, lo schiavo, il bue, l’asino, ecc.) risente di una cultura contadina arcaica, nei fatti molto maschilista e pronta non solo a considerare la moglie uno dei tanti beni, ma a metterla in un ordine approssimativamente di costo economico: per questo viene dopo la casa, anche se prima del bue… (v. 17).

È come se, progressivamente, si cogliessero, una per volta, le conseguenze del passo precedente. Al centro di tutto, però, come causa prima delle nuove intuizioni, c’è la percezione che non siamo soli, che Dio è con noi, che è in relazione con noi, che intende salvarci. Tutto il resto è conseguenza. E non tanto comando, ordine, quanto, per così dire, percorso per assomigliare sempre più a Dio, istruzioni per vivere bene questa relazione con lui che trasforma la nostra vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 12 – continua)




Alleanza (Es 19)


Lo abbiamo già detto: nel nostro immaginario, condizionato ad esempio dalle riduzioni cinematografiche, la vicenda dell’Esodo, spesso, si concentra e si conclude sul passaggio del Mar Rosso, miracoloso e spettacolare.

Se seguiamo, però, la logica del racconto biblico, il cuore della vicenda non sta nel passaggio del mare, ma in ciò che succede più avanti, nel capitolo 19, il punto di svolta decisivo.

Il popolo d’Israele, fidandosi in modo progressivamente sempre più intenso e radicale, si è lasciato condurre da Dio fuori dall’Egitto, al di là del mare. È stato nutrito dalla manna, dall’acqua, dalle quaglie; ha vagato nel deserto, sostenuto da un Dio che si è mostrato guida di giorno, sotto forma di colonna di nubi, e protezione di notte, come colonna di fuoco; ha imparato a collaborare con Mosè scegliendosi giudici che ne alleggerissero in parte il lavoro. Ma ancora vaga nel deserto senza un punto fermo. È giunto quindi il momento di porne uno in modo definitivo.

Le radici nel passato (ES 19,1-4)

Diversi commentatori moderni hanno richiamato l’attenzione sulle incoerenze del testo, che in questi capitoli sembra faticare a presentarci spostamenti ed eventi in modo lineare. Di solito, questo è un segno di abbondanti riletture e riscritture, e quindi di quanto, lungo i secoli, si siano ritenuti centrali questi episodi.

I biblisti spesso amano indagare queste incoerenze per capire le caratteristiche delle aggiunte e delle correzioni, e poi stabilire se è più importante la versione di partenza o il testo di arrivo. Qui non si intende negare l’importanza di tali indagini e ricostruzioni, noi lettori ci troviamo però davanti a un libro offerto a noi in una forma definitiva, l’unica a disposizione del nostro ascolto e della nostra meditazione. Chi ha composto la versione finale del libro, in ultimo, era convinto che fosse sufficientemente comprensibile e significativo. Per questo, senza disprezzarli, tralasciamo tutti i pur preziosi tentativi di ricostruzione storica e cronologica, evitando di addentrarci con troppa pignoleria sui tempi e glispostamenti delle vicende raccontate.

Così facendo, peraltro, siamo coinvolti in un percorso che è particolarmente significativo anche per noi, per i nostri cammini di fede moderni.

È vero che in Genesi ci troviamo davanti un’esperienza di fede limpida come quella di Abramo, pronto a stare al gioco divino senza argomenti e motivazioni, e semplicemente fidandosi. Chi ha composto l’Esodo, invece, pare dire che, senza nulla togliere a quella fede eccezionale, il percorso degli uomini è di solito diverso.

Lo stesso Mosè ha titubato non poco di fronte alla chiamata di Dio (Es 3-4), prima di farsi suo portavoce coraggioso e deciso. Gli ebrei sembrano aver dapprima assistito quasi passivamente allo scontro tra Mosè e il faraone (Es 5-10), ma poi hanno dovuto decidere da che parte stare, «denunciarsi» come ebrei nella notte di Pasqua, partire all’avventura (Es 11), affrontare la minaccia angosciante e mortale del mare (Es 12) e poi il deserto.

Su ali d’aquila

Ora, al capitolo 19, dopo tante settimane o mesi di percorso, Dio li invita a guardarsi indietro, a ricordarsi della schiavitù e di come ne sono venuti fuori, «come sulle ali» di un rapace. Di un’«aquila», dicono le nostre traduzioni del salmo 90. Alcuni propongono, con qualche ragione, che il salmo si riferisca piuttosto a un «avvoltoio», uccello – è vero – impuro, ma che gli ebrei ammiravano non solo per il suo volo tanto controllato, ma anche per la cura che presta ai suoi piccoli. Non è raro che non riusciamo a ricostruire il senso preciso, esatto, di un termine ebraico nella Bibbia, ma comunque è chiaro il messaggio: il salmista pensa a un uccello in grado di volare sicuro, padrone dell’aria, e mosso da un esemplare affetto da genitore.

Si potrebbe obiettare che in realtà il cammino del popolo nel deserto non sia stato per nulla come un volo su ali d’aquila. È stato, anzi, difficile, tra ansie, rimpianti, fatiche, fame e sete, calura, incertezze. Il testo biblico, però, molto spesso non pretende di essere un resoconto formale, ma piuttosto il racconto di un innamorato. Dio non assomiglia a un poliziotto che redige un verbale, ma a un amante che ricorda gli inizi della sua storia di coppia. E per lui, dal momento che il cammino nel deserto ha portato all’incontro decisivo nel quale può finalmente porre al suo amato Israele la domanda fatidica, è un cammino buono, compiuto come in volo. Fatica e tempo non contano, perché finalmente si è insieme.

C’è poi un elemento essenziale, in questa presentazione. Spesso gli esseri umani immaginano di dover dare qualcosa a Dio, convincerlo, sedurlo, per averne qualcosa in cambio. Qui, invece, il primo a dare, a mettersi in gioco, è l’Altissimo, e non l’uomo. Prima Dio agisce, e solo dopo offre all’uomo di entrare in una relazione più stabile. Anche questa, peraltro, non viene imposta all’uomo, quasi fosse un pagamento obbligatorio per la salvezza, ma gli è offerta come proposta, come possibilità a cui l’essere umano è chiamato a rispondere liberamente.

Tutto fa pensare non a un rapporto tra padrone e servo, ma a una relazione tra amanti. Dio spera e desidera di essere scelto liberamente, di essere amato. Non pensa di avere diritto a pretendere dall’uomo di essere onorato.

Alleanza come matrimonio

Quello che Dio prospetta al popolo, qualora esso decida di sceglierlo come suo Signore, ha in effetti a che vedere con un legame personale più che con un servizio formale. Dio propone un’alleanza, un patto che si stringe solo tra chi si considera alla pari (anche quando, come in questo caso, i due non sono affatto allo stesso livello). L’uomo può rifiutarsi di accogliere la relazione.

Da parte sua, però, Dio può proporla consapevolmente e in modo non superficiale perché, spiega, «mia è tutta la terra» (Es 19,5). Se avesse voluto, avrebbe potuto andare a prendere il suo popolo ovunque. Il fatto di scegliere proprio Israele è, per il popolo, la garanzia che il Signore vuole restargli vicino e fedele sempre, perché non ci sono poteri esterni che possano separarli. Tra i vari popoli di tutta l’umanità, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha deciso di restare fedele al gruppo guidato da Mosè, e si pone davanti a lui in attesa di una risposta. Gli prospetta di farne una «proprietà particolare», una «cosa sua».

L’espressione potrebbe in teoria far pensare a un possesso, se non fosse accompagnato da tutte queste formule che, insieme alla libertà di scelta, rimandano a un legame personale, quasi come fosse un matrimonio. Non però un matrimonio come lo si viveva al tempo di Mosè, dove gli sposi a volte non avevano grande libertà di scelta (e quasi nessuna ne aveva la donna!), ma come lo concepiamo noi, tra due libertà che decidono di vincolarsi a vicenda perché si riconoscono reciprocamente come promessa di vita piena. E se una prospettiva di questo tipo è comprensibile per l’uomo, non può che stupirci che anche Dio attenda del bene dalla sua relazione con l’essere umano.

Certo, in seguito a questa decisione anche umana, il Signore potrà presentarsi come «Dio geloso» (Es 20,5; 34,14), ma parliamo della gelosia di un amante equilibrato, che sa di dover custodire con cura la relazione più importante della sua vita, quella che costituisce per lui qualcosa di unico, insostituibile. Potrebbero dirlo gli uomini, ma lo dice anche Dio.

Una missione comune (Es 19,6)

Come un fidanzato che prospetta alla su futura sposa come sarà la vita insieme, così Dio spiega al suo popolo, da cui attende una risposta, quali progetti ha su di lui: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».

A noi la parola «regno» non evoca quello che diceva ai lettori antichi. A noi, guardando soprattutto alle esperienze delle monarchie assolute dei secoli passati, richiama inevitabilmente l’opposto di repubblica e l’idea del dominio di uno sugli altri. Nell’antichità non era così: le popolazioni potevano strutturarsi in clan disordinati, spesso nomadi, o in regni. Il re era colui che imponeva la direzione di fondo a una comunità organizzata di persone, era concepito come l’ordine in mezzo al caos.

E Dio indica anche la direzione generale che immagina prenderà questo suo regno: sarà una nazione «di sacerdoti». Il sacerdote era colui che mediava tra l’umanità e Dio, tra il cielo e la terra. Faceva salire al cielo le offerte e ne faceva discendere la volontà divina, garantendo così l’ordine nell’universo, perché assicurava la comunicazione tra le sue due entità più significative.

Quello che Dio prefigura, insomma, è che gli ebrei, riconoscendolo come Dio, avrebbero potuto far dialogare la storia e l’eterno, il trascendente e il mondano, a beneficio di tutti (un sacerdote non si limita mai a mediare solo per sé). Dio sta sognando un suo rapporto con tutti gli uomini, garantito dagli ebrei. Li chiama a collaborare alla sua opera di vita e salvezza per tutti.

Per questo può dire loro che saranno una «nazione» messa da parte, riservata, «santa».

Gli ebrei, nei secoli, distingueranno il loro ruolo (di «popolo») da quello di tutti gli altri (che sono definiti «nazioni», «genti»). Qui Dio usa il termine che solitamente si utilizzava per indicare «gli altri» applicandolo agli ebrei. Parola accompagnata però dall’aggettivo «santo». Il «santo» non indicava, come poi si è inteso nella storia più recente, una persona dalla vita vissuta in modo esemplare e perfetto, bensì uno che era messo da parte, riservato, solitamente, per Dio. Con questo Egli riconosce che i discendenti di Giacobbe sono una nazione come le altre, ma che diventerà speciale agli occhi dell’Altissimo, esattamente come una fidanzata riconosce che esistono tanti uomini nel mondo, ma ha occhi solo per il suo amato.

La risposta umana

Per fortuna ci manca il tempo per metterci a fantasticare sulla possibile ansia divina nell’attendere la risposta degli ebrei. E anche il libro dell’Esodo risolve in fretta la risposta umana. Tutto, nel testo, lascia però intendere che davvero Dio lasci pienamente liberi coloro che ha strappato dalla schiavitù dell’Egitto.

Certo, l’antichità non pensava alla libertà del singolo e insisteva sulla dimensione comunitaria (saranno poi i profeti a cogliere che davanti a Dio siamo più propriamente individui). Ma la libertà di scelta è garantita, difesa, voluta da Dio, che non cerca servi, ma amici (cfr. Gv 15,15).

Cogliamo forse adesso quello che evidentemente era già chiaro a Dio fin dall’inizio (Es 3,12): il percorso di liberazione poteva essere compiuto solo arrivando qui, per essere non più schiavi del faraone, ma servi del Signore, in un rapporto di esclusività che sia però scelto consapevolmente, e non subìto come imposizione. È la differenza che passa tra servire per ubbidienza o per amore.

E la risposta del popolo arriva veloce: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La successiva visione di Dio che avvolge il monte è quasi la festa davanti al «sì» del popolo.

Angelo Fracchia
(Esodo 11 – continua)




Collaborare (Es 18) nella «normalità»


Il popolo d’Israele è libero, al di là del mare, fuori dalla casa di schiavitù. Ha già sperimentato la nostalgia del passato e il sostegno di Dio (con la manna, l’acqua e persino con un dono che sembra parlare dell’eccezionalità di una festa, le quaglie). Tutto sembrerebbe risolto, ma il percorso in realtà non è finito.

Ora, l’attenzione si sposta su Mosè, chiamato a fare un altro passo, questa volta nella direzione della gestione del quotidiano. Alcune situazioni sono vissute prima da lui, poi vengono vissute in modo simile dall’intero popolo. Tocca ora alla guida di Israele aggiungere un altro mattone.

Una famiglia (18,1-12)

Quando in Esodo 2,15-22 abbiamo incontrato Ietro, il sacerdote madianita divenuto suocero di Mosè, pensavamo che servisse semplicemente a introdurre la moglie, o forse addirittura il figlio. Ma Ietro ora ritorna in scena, imprevisto, e si comporta come se si trovasse di fronte a un popolo stanziale. Infatti si reca in visita dal genero, riportandogli moglie e figli.

In questa veloce annotazione ci sono molti particolari che ci stupiscono. Intanto, non sapevamo che a Mosè fosse nato un secondo figlio, Elièzer. Poi, se Sipporà e i suoi figli vengono condotti nell’accampamento ebraico, significa che non erano con Mosè in Egitto.

Noi lettori sappiamo diverse cose sulle vicende vissute da Mosè e dal suo popolo. Come quest’ultimo avesse dapprima assistito allo scontro con il faraone quasi da spettatore, ma poi aveva dovuto prendere posizione e ogni famiglia aveva dovuto esplicitare la sua identità ebrea (Es 12,7), partire in fretta di notte con carri e bestiame, anziani e bambini, lasciandosi alle spalle gli egiziani in lutto per la morte dei primogeniti. Sappiamo anche che gli egiziani li hanno inseguiti con un esercito veloce e agguerrito. Non sappiamo però quanto tempo trascorre dal primo scontro tra Mosè e il faraone e l’uscita di Israele dall’Egitto. Potrebbero essere trascorsi mesi, oppure poche settimane o addirittura giorni.

In quel tempo Mosè ha rischiato la propria vita esponendosi in prima persona. Il testo ci dice tutte queste cose. Ma che Mosè non avesse portato con sé in Egitto moglie e figli non ce lo dice, e in effetti non ce lo aspettavamo. Li ha lasciati fuori dall’Egitto per precauzione? Come garanzia per il suo ritorno fuori dall’Egitto?

Enigmi

Colpisce, poi, che l’Esodo narri l’accoglienza calorosa che Mosè riserva a Ietro, ma non dica niente riguardo a come abbia ricevuto la moglie e i figli. Certo, possiamo spiegarci questa cosa con il fatto che il mondo culturale da cui il libro dell’Esodo proviene e, ancor di più, quello che intende storicamente narrare, erano contesti fortemente patriarcali e maschilisti, dove inoltre i figli rappresentavano semplicemente la garanzia di continuità del clan, ma non erano valorizzati in sé. È però vero che, nonostante questo retroterra, spesso, nei racconti biblici, le donne vengono presentate con fisionomie nette, con progetti, sogni e frustrazioni proprie, come autentiche protagoniste delle storie che coinvolgono i loro mariti. E nel caso di Sipporà questo non succede.

La figlia del sacerdote madianita aveva agito autonomamente, salvando Mosè, nell’enigmatico episodio in cui, mentre tornavano verso l’Egitto dopo la chiamata divina, aveva salvato la vita del marito circoncidendo il figlio (Es 4,24-26). Ma quel racconto, nel quale peraltro pare che la coppia avesse un figlio solo e che stesse andando in Egitto unita, è l’unico nel quale Esodo parla di Sipporà in modo significativo. E ora, invece, veniamo a sapere che non è stata in Egitto con il marito.

Ciò potrebbe significare che dopo la circoncisione del primogenito Gersom, Mosè ha rimandato alla casa paterna la propria famiglia. Però l’assenza, in quel contesto, del secondo figlio (il cui nome, Elièzer, in Es 18,4, è spiegato alludendo alla liberazione dal faraone) può lasciare intendere che solo dopo un periodo in Egitto, moglie e figli sarebbero stati fatti tornare. Se così fosse, le vicende dello scontro con il faraone sarebbero durate molto più a lungo di quanto il racconto spieghi.

Non lo sappiamo. Come succede spesso nei racconti biblici, ci troviamo di fronte a molte meno informazioni di quelle che noi riterremmo necessarie. Ma, proprio per questo, le notizie che troviamo sono significative. È come se l’autore ci dicesse che non è importante il perché Mosè avesse mandato via la propria famiglia, ma il fatto che ora vi si riunisce.

Una vita normale?

Dopo le vicende epiche dell’uscita dall’Egitto, e le cadute vergognose del deserto, ora Mosè, come il suo popolo, riprende una vita normale. La famiglia è simbolo di ordinarietà, anche per chi in una famiglia non vive (e magari se la ricrea con abitudini, animali o piante «di casa»).

Questa ordinarietà ci restituisce un Mosè non perfetto. Abramo, Elkana (1 Sam 1, il padre di Samuele, più grande profeta-sacerdote d’Israele), lo stesso Giacobbe, avevano avuto con le mogli una relazione intensa, di scambio e di affetto. Mosè, invece, no. O almeno, il testo dell’Esodo non ce ne parla. Sembrerebbe ricadere nel più scontato cliché patriarcale. Esso fa da sfondo ai racconti biblici, ma non è il modello da imitare. Ancora una volta, come nei casi dell’uccisione della guardia egizia (Es 2,12), del matrimonio con una madianita o delle incertezze davanti alla chiamata divina (Es 3-4), la vicenda umana di Mosè sembra perfettibile.

I più grandi modelli di cammino con Dio non sono necessariamente persone del tutto esemplari. A contare non è la loro perfezione, ma la relazione con l’Altissimo. Questo parla, di rimbalzo, anche a noi oggi: la «normalità», la banalità, e, spesso, anche l’imperfezione della vita di ognuno di noi, non sono un impedimento a una relazione intensissima e profonda con Dio.

Nessun integralismo

La stessa sensazione di imperfezione e, in fondo, di normale vita umana, è sucitata anche da un altro particolare: Ietro riconosce le grandi opere compiute dal Signore (chiamato JHWH, il «nome proprio» del Dio d’Israele: Es 18,9), ma poi lo celebra facendo «olocausto e sacrifici a Elohim», chiamando Dio con il suo «nome comune». Siamo sicuri che sia un sacrificio al «Dio giusto»?

Ancora una volta, non siamo certi di nulla. Si può immaginare e sostenere che, dopo aver lodato il Dio d’Israele, Ietro lo onori con il suo sacrificio. Ma d’altra parte non possiamo dimenticare che lui è un sacerdote madianita, incaricato di sacrificare ai suoi dèi, e che non ha ancora una conoscenza profonda del Dio di Mosè.

D’altra parte, Elohim, grammaticalmente, è un plurale. Se è vero che molto spesso nella Bibbia ebraica indica genericamente «Dio», in una forma plurale che è di onore, quello resta comunque un nome generico, che potrebbe anche indicare un sacrificio non a un dio singolo, ma a diverse divinità. Come spesso accade in questo racconto così centrale per la fede ebraica e cristiana, dobbiamo sopportare l’ambiguità.

Alcuni elementi sono tuttavia chiari: la Bibbia, nonostante alcune apparenze e qualche passaggio diverso, non è integralista, e infiltra in molti brani l’impressione di un culto, una morale e una vita che non sono proprio immacolati e limpidi: se restano esemplari è perché si pongono sempre in relazione con Dio, non perché rispettino alla lettera norme e regole.

Un popolo (Es 18,13-27)

Il suocero di Mosè non ha però finito di immischiarsi nell’opera del genero. Si ferma qualche giorno da ospite e, nel frattempo, guarda che cosa succede. Vede che ogni mattina tanta gente va da Mosè per regolare le proprie questioni. La guida del popolo ascolta, valuta, fa capire quale sia la volontà di Dio e passa al caso successivo. Ietro scuote il capo, e spiega al genero che non approva: «Così non va bene! Hai un popolo numeroso, non puoi pensare di provvedere a tutto tu! Stabilisci invece degli anziani che giudichino le questioni ordinarie, e lascia che ti inoltrino soltanto quelle più difficili!» (Es 18,17-23).

Un consiglio di buon senso, semplice da elaborare, a cui Mosè, ci viene da pensare, sarebbe potuto arrivare anche da solo. Eppure, c’è bisogno che glielo fornisca il suocero, sacerdote di quei madianiti con cui gli ebrei avrebbero in futuro fatto più volte la guerra (cfr. Nm 25; Gdc 6-7; ricordiamo che erano madianiti anche i mercanti a cui Giuseppe fu venduto dai propri fratelli: Gen 37,28-36).

Il capo del popolo liberato dall’Egitto, l’uomo che parlava faccia a faccia con Dio (Es 33,11), ha bisogno del consiglio, peraltro non particolarmente geniale, del suocero, per imparare a gestire convenientemente il proprio popolo. E deve imparare a delegare, a farsi da parte, a lasciare che altri lavorino al posto suo, a non avere tutto sotto controllo.

Quale insegnamento per noi?

Noi siamo abituati a spiegazioni didattiche o morali molto esplicite, capaci di dirci con parole chiare che cosa fare e non fare, cosa è bene e cosa è male. In fondo, cerchiamo questo (magari persino per contestarlo) in tutte le tradizioni religiose o legali. Ma le forme religiose, soprattutto quelle più antiche, preferiscono raccontare, e comunicare contenuti attraverso narrazioni e storie.

Il Primo Testamento, per lo più, non fa eccezione: nella storia di Abramo è in realtà contenuta la spiegazione del modo ideale con cui rapportarsi con Dio, così come i primi tre capitoli di Genesi, che apparentemente sono una storiella carina e senza pretese, sono un condensato intensissimo della concezione dell’essere umano, e così via. Non fa eccezione l’Esodo, dove il racconto chiarisce il modo con cui relazionarsi con il Dio d’Israele attraverso un percorso lungo e articolato, nel quale all’iniziale interesse e stupore (Es 3-4) segue l’attento contemplare e soppesare dell’opera di Dio (Es 7-10), fino al momento in cui occorre prendere posizione (Es 11) e addirittura decidere di buttarsi, rischiando la propria vita sulla fiducia di una semplice promessa (Es 14).

Ci si poteva forse immaginare che il percorso fosse finito qui, ma in realtà si tratta ancora di investire fiducia e ascolto in una promessa che non si presenta con manifestazioni eccezionali ma passa attraverso le fatiche e i rimpianti della vita «normale» (Es 15-17).

Questo capitolo ci lancia verso un contesto ancora nuovo. Possiamo essere tentati di ridurre il cammino con Dio alle occasioni eccezionali, eroiche, ma queste sono soltanto un momento, un’introduzione o una svolta, di un percorso che passa dalla vita consueta, quotidiana, fatta di incertezze, tentazioni, ritorni indietro, e anche di mediazioni, di suggerimenti magari banali, di percezione del proprio limite e trucchi per superarlo, persino di piccole o grandi miserie e fragilità.

Nel cammino con il Dio d’Israele non è richiesta l’eccezionalità o la perfezione, ma solo di mettersi in cammino.

Angelo Fracchia
(Esodo 10 – continua)




Mangiare e bere (Es 15,22-17,16)

testo di Angelo Fracchia


Il popolo oppresso è stato liberato, ed è fuori dall’Egitto, vivo, mentre il faraone e il suo esercito sono stati coperti dal mare. L’impresa eroica è stata compiuta (da Dio), la storia può chiudersi sulla sigla finale. O almeno, è ciò che vedremmo in un film.

Gli autori del libro dell’Esodo, però, non volevano raccontarci una bella avventura di cui inorgoglirsi. Il loro obiettivo ultimo era di indicare ai lettori un percorso di fede nel quale avventurarsi: un percorso che cresce sempre, di fiducia in fiducia, di affidamento in affidamento, fino a un passaggio che può essere lancinante, che sembra minacciare la promessa stessa di vita che sta dietro e dentro alla relazione con Dio. Eppure quel passaggio, attraverso ciò che pare indicare la morte, conduce alla libertà.

E poi? La vita è finita? «Vissero tutti felici e contenti»? No, e chi ha scritto il libro sa che la vita è poi fatta di quotidianità banale e insieme faticosa, anche svilente rispetto a quei grandi sogni simboleggiati dal passaggio del mare. Una vita in cui ci si può persino chiedere se quello che abbiamo vissuto non ce lo siamo inventato, o se non abbiamo sbagliato tutto. E in cui ci sembra che a prometterci gioia e vita sia la nostalgia, il passato e il voltarci indietro a guardare ai tempi nei quali (ci sembra) non stavamo poi così male.

Le fatiche e le mormorazioni

E davvero questo libro antico si mostra più intelligente, profondo e acuto di tante nostre produzioni moderne. All’entusiasmo del «cavallo e cavaliere gettati nel mare!» (Es 15,21) segue il racconto di tre giorni di cammino nel deserto, senza acqua. Quando poi la si trova, è imbevibile (15,22-24). Quando poi, dissetati da acque risanate e rifocillati da una nuova oasi finalmente ricca, il popolo si rimette in cammino, arriva il rimpianto per la schiavitù: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (16,3).

È la fragilità umana che tende ad abbellire i ricordi e a far sedere nel rimpianto, anziché camminare in avanti. In questa prospettiva, le pagine dell’Esodo parlano anche a noi e alle situazioni che viviamo, quelle nelle quali ci succede qualcosa di straordinario (la decisione di intraprendere un percorso di formazione, una vita diversa, una relazione profonda), ma il nostro entusiasmo iniziale lascia un po’ per volta spazio alla fatica del quotidiano, alla noia del lavoro arido e pesante, alle sofferenze del cammino di tutti i giorni. E subentra la nostalgia del passato, di quando ci sembrava di essere più liberi, con più possibilità davanti.

Ogni episodio del cammino di Israele nel deserto, quindi, è anche un suggerimento e un’istruzione per noi e per il nostro cammino di fede (fede in Dio, ma anche fiducia nelle persone che abbiamo accanto e persino in noi e nelle nostre scelte).

La «Amara» (Es 15,22-27)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, ad accompagnare il popolo è la sete. Quando finalmente si giunge a un’oasi, la sua acqua è però amara, non bevibile. Il testo insiste talmente tanto sull’amarezza del posto (chiamato proprio così: «Mara», che in ebraico significa «Amara») che non può trattarsi di un caso.

Abbiamo faticato per prendere la decisione di fidarci, ci siamo buttati, ci aspettavamo di essere trascinati solo dall’entusiasmo e siamo invece presi dalla sete, dalla fatica, e vediamo che i nostri sforzi non sembrano portare frutto. Subentra lo sconforto di chi sta male e pensa di essersi ingannato. L’acqua è imbevibile.

Mosè si rivolge a Dio, il quale gli fa gettare nell’acqua un legno. Questa scena fa ricordare il bastone steso sulle acque del mare per dividerle. Questa volta viene divisa l’acqua sana, che fa vivere, dall’amaro che conteneva. Potrebbe quasi sembrare un gesto con echi magici. Dobbiamo però ricordarci che le realtà più profonde e autentiche che viviamo, più spirituali, hanno bisogno di segni materiali per essere espresse: l’amore che lega due persone si incarna in regole di vita insieme ed è simboleggiato da un anello, la dedizione agli altri, magari, si incasella dentro norme protocollari e si esprime in una divisa da inferniere, da vigile del fuoco, e così via. Anche la religione non sfugge a questa dinamica: l’intento è di dirsi e pensarsi in comunione con Dio, e per farlo passiamo attraverso formule, gesti e riti che, a prima vista, parrebbero la negazione di una vita spontanea.

E il rischio c’è. Il bacio, che univa una coppia all’inizio del loro percorso in una promessa quotidiana, può diventare semplice routine, come quella di prendere chiavi di casa e portafogli prima di uscire. Il rischio esiste anche nella religione, e non è un caso che il gesto di Mosè sia preceduto dall’appello a Dio, dalla richiesta e risposta divina, che si fa gesto rituale (il legno sulle acque) e norme («il Signore impose al popolo una legge e un diritto»: 15,25).

Viviamo dentro a riti e regole, che restano autentici e vitali finché si mantengono collegati a ciò che esprimono, a una relazione vitalizzante con colui che ci libera sempre, non solo all’inizio. Il senso del rito, in fondo, è questo: rimandarci a un’esperienza di relazione che si è dimostrata affidabile, per trovare la forza di fidarci ancora.

E può essere confortante, per quanto marginale, l’annotazione di Esodo che, dopo la Amara (divenuta però dolce), ci sarà ad accogliere il popolo un’altra oasi, con ben dodici sorgenti (15,27): il cammino è faticoso e duro, ma non privo di sorprese anche positive, di inattesi (e non promessi) squarci di respiro.

Quaglie e manna (Es 16)

Dall’oasi paradisiaca bisogna però ripartire, e presto si fanno sentire di nuovo la fame e la sete, insieme alla paura di soffrirne, che forse è persino peggio. E allora, di nuovo, spunta la nostalgia per le «cipolle d’Egitto».

La risposta divina è particolare. Dio si lamenta della sua durezza di cuore e della poca fiducia del suo popolo, ma intanto si prende cura di lui, fa cadere a terra, nell’accampamento, quaglie da mangiare (16,13). In più, al mattino, è presente una «cosa fine e granulosa» che lascia perplessi gli Israeliti (secondo l’autore biblico la domanda «che cos’è? – man hu?», avrebbe portato al nome di «manna»). Sarà il loro cibo per quaranta anni, un cibo dalle caratteristiche molto speciali.

Si forma intorno all’accampamento ogni mattina. Chi si fa prendere dall’ansia e dall’accaparramento e ne raccoglie più di quanto gli serve, ne riempie comunque solo un omer, una misura prestabilita (non ci è neppure chiaro a quanto equivalga), mentre chi non riesce a raccoglierne tanta, ne avrà comunque un omer (16,16-18). Chi poi, preoccupandosi che forse il giorno dopo non ne avrebbe trovata, ha deciso di tenerne un po’ da parte, la trova marcita (16,20). Solo al sabato la manna non si presenta, ma quella del venerdì, raccolta in quantità doppia, non marcisce il giorno dopo (16,22-27). Infine, quella che non era raccolta al mattino presto, con il crescere della temperatura svanisce (16,21).

Da sempre i commentatori ebrei hanno pensato che una descrizione così particolareggiata intendesse parlare anche d’altro, del nutrimento che gli esseri umani possono cercare e ottenere in Dio, quello che potremmo definire la forza di affrontare il quotidiano, la prospettiva di speranza, le riserve di serenità e gioia.

Niente di tutto ciò può essere accumulato: non mi è possibile oggi raccogliere il doppio di amore allo scopo di averne anche per domani. Non mi basta la fiducia e la serenità che avevo ieri per vivere oggi. Ogni giorno ha bisogno del suo nutrimento, occorre sempre pensare al momento presente, rimandando al futuro ciò che accadrà.

E questo è anche il senso della preghiera di Gesù, che nell’invitare i discepoli a chiedere al Padre il proprio pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3) sembra ricollegarsi alla manna invitando a invocare il nutrimento per l’adesso, per il giorno presente, confidando che Dio ne donerà ancora per i giorni a venire.

Scoprire che il nutrimento fondamentale per la nostra vita non può essere accumulato, ci predispone di nuovo all’atteggiamento ideale da tenere non solo verso Dio, ma in fondo anche verso tutto ciò che ci fa vivere e sorridere: tenersi lontani dall’accaparramento ci spinge alla fiducia, al confidare nel fatto che verra anche domani quello che ci è stato garantito oggi. Ciò che nella vita più conta, e che non è certo il cibo, non può essere chiuso in una dispensa: bisogna sperare e confidare che ci verrà donato giorno dopo giorno.

I nemici in battaglia (Es 17)

Il senso profondo di questi episodi è richiamato dall’ultimo in elenco, la battaglia contro Amalék, che potrebbe sembrare il meno prodigioso e miracoloso. Capita che nel Sinai le quaglie in transito cadano al suolo. Il fatto che passino così vicine e ne cadano così tante da sfamare un popolo proprio quando questo chiede da mangiare, sembra una coincidenza miracolosa. La descrizione della manna fa pensare alla resina della tamerice o a una secrezione di alcuni insetti che vi vivono sopra, ma la sua quantità e regolarità possono stupire.

Meno miracolosa appare la vittoria sui nemici. Che nel deserto vivano tribù di seminomadi, combattive ma poco numerose, infatti, non è mai stata una novità, e un popolo così numeroso come quello ebraico poteva immaginare di batterle senza problemi.

Ma proprio qui si svela che a fare sopravvivere il popolo non è la sua stessa forza, il suo numero o la sua capacità, bensì la presenza di Dio. Lo si ribadisce in un modo che potremmo definire quasi ingenuo e «magico», perché Israele, nella battaglia contro Amalék, ha la meglio solo fino a quando Mosè riesce a impetrare da Dio la salvezza tenendo le braccia sollevate al cielo, e perde quando Mosè, stanco, abbassa le braccia. Finché non arrivano Aronne e Cur a tenergliele sollevate, fino alla vittoria (17,12).

La nostra sensibilità resta infastidita da tali scene di battaglia, spesso condite dallo sterminio dei sopravvissuti (17,13), ma dobbiamo ricordarci che qui è ampia la nostra distanza culturale da chi ha scritto e leggeva queste pagine. Quel mondo era abituato a vedere e subire crudeltà e violenza, e probabilmente percepiva che nello sterminio finale c’era più cliché e narrazione stereotipata che descrizione storica di un massacro realmente avvenuto.

A essere significativo e centrale, nel racconto non è tanto la vittoria del popolo, ma come essa avvenga, cioè grazie all’intervento di Dio. In fondo questa scena chiarisce, in modo molto visivo e apparentemente un po’ ingenuo, quello che nel corso del libro si dice regolarmente, ossia che a far vivere gli ebrei non è l’intelligenza o la forza umana, ma la relazione con un Signore che li ha liberati e, in più, non cessa mai di prendersene cura, offrendo acqua, cibo, sopravvivenza e sicurezza.

E che in cambio chiede solo di fidarsi di lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 9 – continua)




L’estate del nostro scontento

Sì, l’estate di questo (non proprio felice) anno – parafrasando il noto romanzo di J. Steinbeck, l’inverno del nostro scontento – è stato dolorosamente percorso da una parola evocatrice di tristissimi scenari di guerra e violenza, Afghanistan. Con immagini, commenti, interviste, titoli di giornali che hanno lacerato il nostro cuore missionario: «Sull’Afghanistan regna il terrore»; «Dopo cento anni, l’Afghanistan resta senza i missionari cattolici»; «Cristo è presente ancora in Afghanistan»; «Kabul, quei bambini dati oltre il muro»; «L’inarrestabile guerra lampo dei talebani e il fallimento dell’Occidente»; «Il papa: No, per l’Afghanistan serve il dialogo».

Con il coordinatore italiano di Pax Christi, don Renato Sacco, che rincarava la dose: «In tanti anni non abbiamo capito come funziona questo paese e non abbiamo lavorato davvero per farlo crescere. Se avessimo “bombardato” non con le bombe, ma coi quaderni o col pane, non avremmo dato ai talebani la possibilità di farsi i paladini degli interessi del loro paese… Ci riuniremo per il nostro Congresso annuale e il titolo sarà: “Abbi cura delle relazioni. Preparerai la pace”, prendendo spunto dal messaggio del papa per la giornata della pace dello scorso primo gennaio. Credo che avremo bisogno, proprio parlando di Afghanistan, prima che di strategie, tattiche e calcoli politici, di riprendere il valore della cura intesa come avere attenzione dell’altro che ci deve disarmare nella politica, nella società, nella cultura e nell’ambiente».

Ho la fortuna di visitare due famiglie di profughi afghani (una con tre e l’altra con quattro bambini), ospitate dalle nostre Suore missionarie della Consolata, ascoltando racconti di paura e lacrime che fanno rabbrividire, mentre i ragazzini più piccoli scorrazzano sulle bici, regalate loro dagli abitanti della cittadina che li ospita, circondandoli di affetto sconfinato. Che ne sarà di loro? E dei parenti e amici rimasti nel paese, ritornato nelle mani dei talebani? Cosa fare per «aiutare davvero» questo infelice paese? E mi torna in mente un particolare curioso: l’Afghanistan è presente con un suo prezioso prodotto, il lapislazzuli, in moltissime delle nostre chiese; infatti, l’azzurro di tanti quadri e affreschi (compreso il cielo del Giudizio universale della Cappella Sistina), proviene proprio da quella che allora si chiamava «India Superior».

Possa, allora, la Vergine Santa, la nostra Consolata e Consolatrice, portare l’aurora, per un cielo più sereno, anche per il martoriato popolo afghano.

padre Giacomo Mazzotti


Prima santi, poi missionari

Tra le convinzioni del beato Giuseppe Allamano, come educatore di missionari, quella che forse più emerge può essere così riassunta: «Prima santi, poi missionari». Solo chi è santo può essere vero missionario. Il nostro fondatore era così convinto di questo principio, che univa i due termini
«santità» e «missione» quasi fossero un binomio.

Missionari santi

Nell’Allamano troviamo un principio molto chiaro: non basta impegnarsi nel lavoro, ma bisogna essere idonei per compierlo bene. Seguendo la dottrina dello zio materno, san Giuseppe Cafasso, amava ripetere: «Il bene deve essere fatto bene». Questo è diventato un criterio pedagogico per l’Allamano, fin dai primi anni. Ai missionari del Kenya, all’inizio del 1905, mentre comunicava il magnifico esito delle feste centenarie del santuario della Consolata, assicurava di aver chiesto alla Madonna non tanto «l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione degli infedeli». E questo è diventato quasi un ritornello.

Ecco un’altra lettera del 1907: «Fra poco vi radunerete per i santi spirituali esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo». E ancora, dopo gli esercizi spirituali: «Ne sia ringraziato il Signore, e la sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene degli africani».

Parole simili l’Allamano scriveva anche al primo gruppo di missionarie partenti per il Kenya nel 1902: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte suore-missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare con voi tante anime».

Prima l’essere, poi l’operare

L’Allamano ha esplicitato il criterio pedagogico di essere santi per poter essere veri missionari indicandolo come una priorità più logica che temporale: la santità precede per importanza l’azione missionaria. C’è un prima e un poi nelle intenzioni e nei valori: prima santi, poi missionari. Praticamente il fondatore manifestava un principio di vita, valido per tutti i cristiani, che il Concilio Vaticano II avrebbe poi sottolineato con enfasi: «Prima l’essere e poi l’operare».

Anche su questo particolare aspetto le sue espressioni sono chiare e abbondanti. Così scriveva confidenzialmente al padre Angelo Dal Canton, missionario in Kenya, nel 1913: «Tu ben sai quale spirito io desideri dai nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di fede, sicché operino per Dio, e nella condotta rappresentino Dio stesso in faccia agli africani». E concludeva la lettera con queste significative parole: «Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di codesti cari neri».

Al padre Giovanni Chiomio, testimone ricchissimo delle parole del fondatore, in una lettera del 1920, scriveva: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi fate del bene ai neri: in tutto N. S. Gesù Cristo!».

Nelle conferenze agli allievi e alle suore questo ritornello ritornava spesso, specialmente quando spiegava i fini per cui erano entrati nell’Istituto: «Primo: siamo per farci santi in questa casa: non solo per farci missionari, ma per farci santi e poi missionari». «È questo il fine primario del nostro Istituto. Non siete qui venuti solo per farvi missionari, ma per farvi santi; allora solamente adempirete bene il secondo fine di essere missionari».

È lo Spirito che converte

La santità, per l’Allamano, è una premessa necessaria all’apostolato, perché chi converte è lo Spirito, che si ottiene non con belle parole, ma con la fede e la preghiera. Più uno è unito a Dio e più accompagna i fratelli verso il bene. E, convinto, diceva: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare: no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà». «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Se non si è santi… non si fa niente! Chi non arde non incendia. Si fa ridere il demonio». «Non come dicono: “Oh, tanto se salvo un’anima salvo la mia”. Sì, ma prima bisogna essere santi: se non saremo santi non saremo buoni né per noi, né per gli altri». «Teniamo a mente che il primo scopo è quello di farci santi noi. È inutile voler convertire gli altri, se non siamo santi noi». «Questa deve essere la cura principale vostra perché se non sarete santi, invece di convertire gli altri in missione vi pervertirete persino voi». «Fine primario dell’Istituto è la nostra santificazione, cui dobbiamo attendere anche pel fine secondario di salvare gli infedeli. Lo dicono i nostri missionari: “Certe conversioni non si ottengono se non si è santi”. Non aspettate di esserlo in Africa».

Così ragionano i santi

I missionari e le missionarie della Consolata hanno fatto tesoro di questo principio di vita trasmesso loro dal fondatore. La missione, oggi, richiede una nuova comprensione, una diversa strategia, dei metodi differenti dal passato. L’Allamano sarebbe d’accordo su tutto ciò, proprio lui che dovette soffrire certe critiche per la novità e la lungimiranza del metodo apostolico maturato con i suoi missionari. Una cosa, però, rimane immutata e ci ripeterebbe come ci ha detto mille volte in passato: «Prima santi, poi missionari»!

È risaputo quanto all’Allamano stesse a cuore la «qualità» dei suoi missionari e, confidando alle suore le continue richieste di personale che giungevano dall’Africa, un giorno disse: «Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è…». Così ragionano i santi!

Padre  Francesco Pavese

 




Il mare (Es 14,1-15,21)

testo di Angelo Fracchia |


All’inizio del quattordicesimo capitolo del libro dell’Esodo troviamo il popolo ebraico in una situazione scomodissima: durante la tragica notte in cui sono morti i primogeniti egiziani e si è celebrata la prima pasqua, tutti sono partiti per fuggire dalla «terra di schiavitù». Tutti: uomini, donne, bambini, anziani, bestiame… non può certo trattarsi di una carovana veloce. Sappiamo soltanto che, dopo quella che potrebbe sembrare una peregrinazione senza meta (Es 14,2-3), il popolo si trova stretto tra due minacce: davanti il mare, alle spalle il faraone, che si è pentito di averli lasciati partire e ha deciso di inseguirli per ricondurli in schiavitù o sterminarli.

Non sembra esserci via di scampo.

Senza scampo?

Conosciamo bene questa pagina, che si risolverà con l’apertura delle acque del mare da parte di Mosè, con il popolo che attraversa i suoi fondali all’asciutto e con l’esercito egizio che, mentre insegue, viene travolto dalle acque che tornano al loro posto.

È una scena grandiosa, epica, anche crudele, che non a caso conclude quasi sempre le presentazioni «cinematografiche» della vicenda di Mosè.

Il fatto però che, giunti a questo punto della vicenda, il libro dell’Esodo non sia ancora arrivato a metà, suggerisce che il ragionamento biblico è probabilmente più complesso e meno superficiale, e prende in considerazione che la libertà miracolosamente donata non è e non può essere l’ultima parola.

Ma su questo torneremo più avanti. Intanto leggiamo come avviene l’evento poderoso.

Che cosa accadde davvero?

Tanto poderoso e solenne che non può che far sorgere la domanda su che cosa sia davvero, storicamente, accaduto.

Davvero possono essere fuggite dall’Egitto e aver peregrinato nel deserto per quaranta anni seicentomila persone (Es 12,37: e senza contare i bambini)?

Facile per gli archeologi far notare che avrebbero dovuto lasciare qualche traccia in una terra che, con la poca pioggia che riceve, cancella solo molto lentamente i segni di ciò che subisce.

Davvero possono essersi aperte le acque di un mare profondo, per far passare un intero, numeroso (e lento) popolo, mentre l’esercito che lo inseguiva vi moriva? C’è chi giustamente segnala che quello che noi traduciamo come «Mar Rosso» è in ebraico «Mare delle canne», il che farebbe pensare piuttosto a qualche acquitrino poco profondo.

Non sarebbe impossibile immaginare, a quel punto, che il «forte vento da oriente» (Es 14,21) possa essere lo khamsin, una specie di scirocco caldo e secco che in Egitto si alza tra marzo e giugno. In questo caso, però, a essere poco probabile è l’annegamento dell’esercito egiziano.

Come succede per il percorso esatto seguito dagli ebrei nel deserto e nel Sinai, o per la localizzazione precisa del Sinai stesso, dobbiamo accontentarci di ipotesi, alcune delle quali più convincenti, ma che devono essere tutte subordinate alla convinzione che, per chi ha scritto il libro, non era importante cosa era accaduto storicamente e come, ma il senso della vicenda.

A questo punto, possiamo anche continuare a leggere ipotesi e argomentazioni (alcune molto interessanti), ma sapendo che, per interpretare correttamente il libro, dobbiamo fare attenzione a ben altro.

L’ora decisiva

Il libro dell’Esodo racconta questa vicenda come centrale per il popolo d’Israele, ma non la narra al solo scopo di far conoscere a Israele il suo passato, piuttosto per mostrare che la dinamica di quello che avvenne nell’uscita dall’Egitto è vera sempre, nella vita di ogni credente. Verrebbe da pensare, addirittura, che sia una dinamica vera non solo per i credenti nel Dio biblico, ma per chiunque si fidi di qualcuno o qualcosa.

Il popolo ebreo ha assistito, dapprima quasi da spettatore, alle vicende di Mosè. Certo, era dalla sua parte, non era un pubblico neutrale, però sostanzialmente non aveva neppure offerto a Mosè un grande sostegno.

Nella notte di pasqua aveva, invece, dovuto prendere una decisione. Dapprima più «leggera», radunandosi a celebrare la pasqua spargendo il sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte, denunciandosi così come quegli schiavi che si stavano preparando ad abbandonare il paese. E poi una più «pesante», con la scelta di partire, di abbandonare la «casa di schiavitù».

Ognuna di queste scelte richiede fiducia, non alla cieca, ma sulla base dell’affidabilità divina, «dimostrata» dalle decisioni precedenti. Ogni scelta, però, non diventa materiale di «prova», ma solo conferma di un’affidabilità. Non si esce mai dalla fiducia, fino alla fine. Anzi, pare che ogni scelta di fidarsi rilanci verso un’altra ancora più grande.

Fino a quella definitiva, decisiva. Perché quella parola che invitava a fidarsi chiede di entrare nel mare. Che si è aperto, è vero, ma quanto può essere affidabile o pericoloso?

Mare, mondo del caos

Aggiungiamoci ancora che, per il mondo semita in genere, il mare è il mondo del caos, del disordine, del male, della morte. Secondo la tradizione ebraica Dio, nella creazione, mette ordine, divide le acque tra di loro, e poi dalla terra (Gen 1,6-10).

Nella struttura ideale ebraica, riprendendo antiche costruzioni mentali sumere, chi divide garantisce la vita. Anche nell’organizzazione del popolo ebraico, Israele è separato dalle genti, e al suo interno una tribù, quella di Levi, è distinta dalle altre (non possiede terra) e una delle sue famiglie (quella dei discendenti di Aronne) è ulteriormente separata allo scopo di servire con il sacerdozio.

Ma il mare è il luogo in cui non si possono tracciare confini, righe, divisioni. Ecco perché è sempre stato ritenuto il luogo più minaccioso tra tutti quelli naturali.

E Dio chiede di entrarvi, di addentrarsi in ciò che più si teme, nella paura anche irrazionale. Non offre garanzie, assicurazioni. C’è solo una parola a chiamare alla libertà al di là del mare.

 Fidarsi

Arriva un momento in cui la chiamata al bene, alla vita, sembra assumere la forma di ciò che la nega: sarà il matrimonio per due innamorati, la consacrazione per altri, ma anche la scelta definitiva e irrevocabile in una professione, e altro ancora, saranno tutte quelle sfide e scelte che ognuno di noi conosce e che a volte sfuggono persino a chi ci è vicino.

Su tutto ciò, Esodo ribadisce in modo netto che ci sarà bisogno di dare fiducia a ciò che (e a chi) ci promette vita. Non abbiamo garanzie o assicurazioni. E questa certezza, che già non sarebbe poco, si accompagna al chiarimento di altre coordinate che parlano di che cosa succede al credente di ogni tempo quando si avventura nella relazione con Dio, ma in fondo spiegano anche che cosa accade a chiunque si fidi.

Fidarsi resta l’avventura più straordinaria e umanizzante delle vicende di tutti.

Il senso della pasqua

Proviamo a mettere un po’ in ordine queste coordinate, così come scaturiscono dal racconto.

  1. a) Attraversare, non aggirare. Il mare che ci sfida, che ci minaccia, che pare negare la promessa, può essere vinto soltanto attraversandolo. Non aggirandolo, evitandolo, venendo miracolosamente attratti da un’altra parte. L’abisso si vince guardandolo negli occhi. Gesù verrà liberato dalla morte morendo.
  2. b) Chiamata e relazione. Si può decidere di attraversare questo mare solo perché chiamati da una voce a passare all’altra sponda. Non è frutto di calcolo (nessuna delle questioni importanti della nostra vita può essere semplicemente calcolata, esigono tutte che ci fidiamo), ma neppure di solo senso del dovere. C’è una relazione personale alla base. Chi si sposa, non lo fa per difendere il matrimonio, ma per amare quella persona lì; il genitore che si sacrifica in un lavoro lontano da casa, non lo fa perché è doveroso mantenere i figli, ma perché quei figli hanno dei nomi e delle storie. Non è la mappa a portare al di là del mare, è il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» a invitare a fidarsi e a passare di là.
  3. c) La salvezza, la libertà, la vita, non consistono nel tornare indietro. Tornare indietro è la tentazione del popolo nel deserto, ed è molto spesso la nostra tentazione: quella di voltare le spalle alla meta, di vivere di nostalgia e di rimpianti. La vita autentica non sta nel passato, ma può essere raggiunta solo andando avanti, procedendo. Il passato può essere conferma di affidabilità di chi chiama o consapevolezza di schiavitù, ma non può tornare.
  4. d) Davanti c’è una promessa. Non una garanzia, un progetto, ma una parola personale che chiama. Il futuro resta incerto e ambiguo, ma non lo vivremo da soli.
  5. e) Una bozza, non un progetto definitivo. Nulla è già inserito in un piano dettagliato. Anche nella storia religiosa spesso lo si è immaginato, sognato. Le apocalissi ritenevano che Dio avesse già deciso tutto il piano del suo intervento. Nel percorso di Esodo, però, tanti passaggi sembrano casuali, imprevisti e imprevedibili. Ma tutti si svolgono alla presenza di Dio, che non ha progettato tutto, eppure garantisce che non abbandonerà nessuno. Già all’inizio della storia, quando Mosè aveva chiesto a Dio di presentarsi, non aveva risposto con una definizione o un progetto, ma con l’assicurazione che non sarebbe sparito (Es 3,14).
  6. f) Un paradosso: scelta di amore e libertà. Questo pone il credente nel Dio della Bibbia in una posizione apparentemente paradossale. La storia non è già scritta, Dio non l’ha già in mano e non conosce il futuro. Se così fosse, l’uomo non sarebbe libero. Una delle caratteristiche costanti di tutta la Bibbia (e tantissimo di Esodo), invece, è che Dio ricerca la relazione con l’uomo, una relazione di affetto e libera. Quindi, una relazione che esige la piena libertà dell’altro. Non può esistere affetto senza libertà: anche chi vorrebbe legare l’amato per non farlo andar via, in realtà vorrebbe che l’amato, pur potendosene andare, non lo voglia fare. Dio è così, rispetta la libertà umana e quindi non sa che cosa risponderà l’uomo.

Un «senso» da scoprire

Dio ha tutto in mano e rende pieno di senso il percorso di ogni uomo; ma, nello stesso tempo, decide di ritrarsi, per lasciare piena libertà a ogni singolo essere umano. In tal modo, Dio perde la possibilità di indirizzare la storia su binari sensati. Questo, di cui spesso ci lamentiamo («Oh, se solo Dio punisse i malvagi! Ma perché permette tutto questo?»), è il segreto della piena libertà e dignità nostra. Dio non ci tratta da bambini piccoli, ma da adulti che possono responsabilmente e autonomamente decidere. Ciò restituisce alle vicende storiche tutta la loro incertezza.

No, non tutto è sensato, nella grande storia dell’umanità e nella nostra personale, ma Dio promette che tutto verrà raccolto, alla fine, in un grande quadro di senso e di vita piena.

Per una volta, lasciamo che a chiudere la riflessione sul passaggio del mare siano le parole di un bravo biblista, Paolo De Benedetti, parole pesate e precisissime, che già hanno ispirato molto di quello che c’è scritto in queste pagine: «Il senso dell’Esodo è che la terra promessa c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, probabilmente non ce l’ha, ma (è questo il paradosso del credente) le verrà dato».

Angelo Fracchia
(Esodo 08 – continua)




Il Passaggio (Es 12-13)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Nelle narrazioni, così come nelle nostre vite, ci sono interi periodi che si possono riassumere in un pugno di frasi, e ci sono singoli eventi che richiedono ampi racconti. Si possono descrivere, ad esempio, quarant’anni in pochissime parole e, allo stesso tempo, essere costretti a narrare una sola notte in diversi capitoli. È ciò che succede con la narrazione della notte di Pasqua. Ci sono momenti che non hanno lo stesso peso degli altri, e meritano di essere affrontati con ampiezza.

Il mese scorso abbiamo già mostrato come confluiscano nella tradizione pasquale e nel suo racconto tre tipi di festa (una pastorale, una agricola e una storica), e abbiamo affrontato lo spinoso tema del male inflitto da Dio agli Egizi. Qui ci concentriamo su quello che il racconto dice, cercando di evidenziarne alcuni contenuti.

La prima pasqua

Le modalità che il Signore indica a Mosè per celebrare la festa di Pasqua sono una legge vera e propria, con suggerimenti precisi che indicano il senso di ciò che si dovrà celebrare. Il Signore affida questa legge a Mosè, ma non solo a lui, anche ad Aronne (12,1), e la offre loro «nella terra d’Egitto». Quasi tutte le leggi citate nell’Esodo vengono consegnate da Dio a Mosè sul Sinai. Tra le eccezioni c’è la circoncisione, che però era già stata praticata da Abramo, apparentemente dimenticata e poi recuperata (sembra) tramite il curioso e inquietante racconto di Es 4,24-26.

La circoncisione e la Pasqua sono norme radicali, fondamentali. La prima è un segno di alleanza che era stato affidato a uomini che non sapevano dove avrebbero dormito, chi li avrebbe tutelati, dove sarebbero stati sepolti. È un gesto di fiducia nella presenza di un Dio-persona che non abbandona.

La Pasqua nasce in un ambiente straniero, ostile, da cui si sta per fuggire. Non c’è più l’inquietudine di chi teme pericoli per sé e per i propri cari, ma la consapevolezza di chi sa che i pericoli esistono, li ha già subiti e ne vede di più grandi all’orizzonte. Non è la paura un po’ vaga dei bambini, è la consapevolezza degli adulti che decidono di fidarsi pur sapendo che in tal modo perderanno comunque qualcosa, che la scelta è rischiosa, che in palio c’è la libertà, ma anche il rischio della morte.

In entrambi i casi, la fiducia non dipende dalle proprie capacità o da un’assicurazione scritta, bensì da una parola di promessa, una relazione. Prima di tutte le leggi, nella Bibbia, c’è il rapporto con Dio. Fuori da questo, le leggi non hanno senso.

L’invito fatto dal Signore per celebrare la Pasqua è ad allestire una cena. I nostri pasti non servono mai soltanto a nutrirci.

Diverso è mangiare con tutta la famiglia riunita, nelle sue varie generazioni, magari cucinando piatti tradizionali, antichi, con calma, al modo con cui si facevano una volta, insegnandoli ai nipoti (dando un enorme rilievo alla continuità nella e della famiglia – e non a caso sono pochi i pasti di questo tipo -), oppure andare con gli amici nel locale più alla moda, o nel quale ci servono più in fretta oppure si possono gustare piatti nuovi (anche questa non è una scelta neutra: è decidere di concentrarsi nel presente, a volte rifiutando volutamente il passato).

Una cosa è lasciare che ognuno si prenda una scatola di biscotti e si rifugi nella propria camera, un’altra è cucinare insieme una grigliata in cui non ci sono posti fissi e tutti gli invitati portano qualcosa.

Ogni stile di pasto comunica qualcosa, sottintende qualcosa. Il problema dei sottintesi però è che possono essere fraintesi, e se fraintesi, possono far nascere sentimenti ancora più forti e violenti di quelli che nascerebbero dalle parole.

Non a caso, quando nelle famiglie si litiga, tutto il rituale che sottintende armonia (pensiamo al tempo di Natale) diventa faticoso e logorante, perché diventa falso, comunica ciò che non si vive.

Lo stile della festa

Agli ebrei Dio indica lo stile della festa: ognuno si troverà in una famiglia che sia autosufficiente, che riesca a mangiare uno o più agnelli per intero. Una famiglia, ossia un ambiente umano al cuore del quale ci sono le relazioni, non l’età o la professione o le idee. Ma non il nucleo ristretto fatto di padre, madre e figli: le indicazioni esplicitano che nei nuclei singoli si è troppo pochi, ci si deve unire ad altri. Un gruppo umano legato dalla parentela, ma abbastanza grande da consumare almeno un agnello intero, e non così piccolo da essere facilmente spazzato via.

Il cibo ricorda la provvisorietà della vita dei pastori: non bisogna avanzare niente, si cuocerà l’agnello alla brace (il modo più semplice, per chi è in cammino, senza stoviglie, senza condimenti speciali…), lo si accompagnerà con pane non lievitato (quello usato allora era il lievito madre, messo da parte dalla massa e tenuto per la volta dopo, con la necessità di tempi lunghi di lievitazione e dispense fresche e buie) ed erbe amare (cioè quelle che crescono spontaneamente nei campi, e non quelle coltivate, più dolci). In più, l’allestimento, soprattutto guardando al dettaglio dell’agnello «maschio, perfetto, nato nell’anno», da cuocere arrosto, sembra rimandare ai sacrifici: ciò che accadrà questa notte coinvolge Dio.

Se non bastasse il menù, si precisa che bisogna mangiarlo con i sandali ai piedi e la cintura ai fianchi, come se si fosse pronti a partire, e «in fretta», con una parola che non viene quasi mai usata nella Bibbia, e che, quando viene usata (in Dt 16,3 e Is 52,12), succede in due brani che parlano della Pasqua. Esprime una trepidazione unica, peculiare, che non può confondersi con nessun’altra. È l’ansia dello studente prima dell’esame di maturità, di due sposi la sera prima del matrimonio: paura, mescolata a speranza, insieme alla consapevolezza che da domani nulla sarà più come prima.

Il sangue alle porte

Insieme agli elementi che rimandano a un rito, che sia più pastorale (l’agnello) o agricolo (gli azzimi), ce ne sono altri che rinviano alla storia, ad esempio l’invito a bagnare col sangue dell’agnello gli stipiti delle porte.

In questo invito particolare, possiamo intravedere, mescolati tra loro, almeno quattro messaggi che il testo probabilmente vuole trasmetterci.

1) Il sangue è la sede della vita. La vita è di Dio. Non è un caso che agli ebrei resterà vietato cibarsi di sangue, perché significherebbe oltrepassare i propri confini e mettersi al posto di Dio, quasi si fosse signori della vita (cfr. Lv 17,12-14). L’aspersione con il sangue non è soltanto un gesto apotropaico, ossia un gesto che vuole scaramanticamente tenere lontano il male evocandolo (come quando ci auguriamo «in bocca al lupo»): è Dio stesso che si pone sulle porte. Dio è coinvolto, e non è neutrale.

2) L’aspersione è un gesto antichissimo, «copia» un rito già esistente. Nella tradizione vicino orientale, le porte della casa, il luogo di comunicazione con l’esterno e quindi il più fragile, il più esposto anche al malocchio, deve essere difeso da amuleti. Il sangue può essere uno di questi. Non è un rito ebraico. Nessuno di noi, però, viene dal nulla, siamo sempre figli di tradizioni e abitudini che risalgono a prima di noi e ci condizionano. A volte i «puristi» (e ogni tanto lo siamo stati tutti) vorrebbero eliminare dalle tradizioni ciò che le precede, perché siano senza mescolanze. Ma nulla nella vita umana è totalmente puro. Quando Dio si incarna, non si vergogna di questa «mescolanza», che è la normale condizione umana, e vi entra anche lui, la accoglie, la fa sua. Anche se non a ogni costo e in ogni caso. In quel rito di aspersione, che esisteva già prima degli ebrei, solitamente si difendevano tutti i lati del passaggio (i tre stipiti e la soglia), e quindi anche la soglia (nella nostra tradizione, a volte, la soglia di casa non si deve calpestare: eredità superstiziose antichissime). In Esodo, Dio invita a non prenderla in considerazione. Come a dire che la relazione con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe resta aperta all’incertezza, al non tutto deciso, quindi alla fiducia.

3) Il sangue sugli stipiti, poi, è anche un segno visibile all’esterno. Chi passa per strada può riconoscere che lì dentro ci sono ebrei, ed ebrei che hanno deciso di ascoltare la voce di Dio. Finora, nello scontro tra Mosè (o Dio) e il faraone, il popolo sembra quasi essersi messo da parte, come uno spettatore. Viene però un momento in cui non si può più rimanere fuori, occorre mettersi in gioco, decidere da che parte stare. È questo il momento.

Una tradizione intrecciata

4) L’ultimo aspetto merita di essere trattato un po’ più a fondo, perché riguarda tutto il Primo Testamento. Nel capitolo 12 di Esodo troviamo accenni alla Pasqua «pastorale», alla Pasqua «agricola» e alla Pasqua «storica» (questa emerge con più chiarezza negli stipiti bagnati di sangue ma fa anche da cornice a tutto il racconto).

I tre aspetti vengono intrecciati, mescolati, quasi confusi, anche a costo di perdere un po’ in coerenza narrativa. Ma è l’approccio normale della Bibbia.

Noi uomini del nostro tempo tendiamo a distinguere, separare e analizzare. Il mondo biblico sa che la vita umana è interconnessa, intricata, persino confusa. E chi scrive, anche se si trova davanti tre tradizioni diverse, distinte e separate, le unisce come nella vita. In tal modo «costringe» ognuno a riconoscere dignità anche alle tradizioni diverse. Il contadino che ha sempre celebrato la Pasqua come festa stagionale, con gli azzimi e la mietitura dell’orzo, riconosce Es 12 come brano fondamentale per comprendere la propria festa. Quel passo, però, è anche centrale e fondamentale per il pastore che celebra la pasqua dell’agnello, delle erbe amare e dei sandali ai piedi. Anche il cittadino riconosce in quella tradizione soprattutto la storia del popolo. Ognuno ritrova le altre tradizioni nel «proprio» testo e impara ad accoglierle e rispettarle come affidabili, autentiche. E capisce che non è semplicemente un mettere insieme solo ciò che è comune, ma un unire e ampliare le tradizioni di ognuno. Ciascuno, quindi, non solo si ritrova a casa propria, ma anche insieme a dei compagni di casa che forse non immaginava di avere.

Un’unica storia

Chi parte dall’Egitto porta con sé un bottino (Es 12,34-36), quasi fosse un esercito vincitore. Ma questo esercito, che si rassegna a prendere la strada più lunga, per non far scoraggiare nessuno di fronte ai pericoli (13,17-18), è composto da carri, vecchi, bambini, donne incinte, bestiame, e si ritrova in una marcia che non può che essere lenta e fragile.

Gli Ebrei portano con sé le ossa di Giuseppe, per non lasciare nulla in Egitto: i ponti con la «casa di schiavitù» saranno tagliati in modo definitivo. E si guarda già avanti, alla celebrazione del «memoriale»: non un semplice ricordo, ma la ragione delle proprie scelte in ogni tempo, anche oggi (Es 13), come due sposi che rivivano insieme la memoria di come si sono conosciuti sessanta anni prima.

Il numero di coloro che abbandonano l’Egitto è fissato in seicentomila uomini adulti (12,37), cifra assolutamente inverosimile, secondo alcuni raggiunta forse nel momento di massimo splendore dei regni di Israele. L’idea è che in quella schiera che fugge sono già raccolti tutti i futuri credenti, i quali infatti saranno chiamati a riconoscersi nel Dio
d’Israele rievocando quel «passaggio» fatto di fiducia in una parola di promessa divina.

Non è un caso che l’etimologia della parola «Pasqua», abbastanza oscura, venga fatta risalire volentieri, dalla Bibbia e dalla tradizione ebraica, a «passaggio». L’angelo della morte «passa» attraverso l’Egitto, «passando oltre» le case degli ebrei, ma loro stessi sono chiamati a «passare fuori» dall’Egitto, decidendo, finalmente, di «passare» dalla parte di Dio. Non c’è nulla di statico, nulla di assicurato, è una vita in corso, fatta di promesse e fiducia.

Dio, in cambio, sarà per loro colonna di nubi che guida durante il giorno, e colonna di fuoco che protegge dalle incognite del buio durante la notte (13,21-22).

La storia non è finita, il popolo non è salvo. Ma ha preso una decisione. E, anche se questa verrà rimpianta e contestata, resta un primo passo deciso nella direzione della fiducia in Dio.

Angelo Fracchia
(Esodo 07 – continua)