Orsola e Marianna


Marianna Cafasso, sorella di San Giuseppe Cafasso e mamma del beato Allamano.

A Roma, dal 22 al 26 giugno si è svolto il Convegno mondiale della Famiglia. Si è giunti al decimo appuntamento imperniato, quest’anno, sul tema: «L’amore familiare: vocazione e via di santità». Papa Francesco ritorna sovente sul tema della famiglia, rimarcando i tratti fondamentali che fanno una famiglia felice: «Quello che ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità».

Prendendo lo spunto dal tema della santità e della famiglia, ci potremmo chiedere come sono riuscite varie famiglie di Castelnuovo d’Asti, nel 1800, a diventare autentiche fucine di santità, dando vita a ben quattro santi canonizzati (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Domenico Savio e Giuseppe Allamano). Qual è stato il loro segreto? Non potendo qui offrire una risposta adeguata mi soffermo brevemente su due madri, Orsola e Marianna, madre e figlia, diventate poi, la prima, madre di san Giuseppe Cafasso e la seconda, del beato Giuseppe Allamano.

Nate a Castelnuovo d’Asti, hanno vissuto la loro infanzia in famiglie semplici di estrazione contadina, sono diventate madri dedite pienamente al sostentamento familiare e all’educazione cristiana della loro numerosa prole, senza trascurare un’attenzione speciale per le persone bisognose del circondario. Entrambe hanno perso presto il marito e senza esitazione hanno saputo prendere in mano le redini della propria azienda agricola, il cui reddito serviva al sostentamento della famiglia. Educatrici sagge, hanno saputo seminare in famiglia i germi di quelle virtù civiche e cristiane che si sarebbero riscontreranno copiose nella vita dei loro figli «celebri». Verso i poveri, sempre numerosi anche nei borghi di campagna, Orsola e la figlia Marianna nutrivano venerazione ed esercitavano cura e amore. C’era sempre una scodella di minestra per chi bussava alla loro porta e i figli, a turno, gliela portavano imparando così ad avere rispetto e considerazione per gli indigenti. Non c’era nascita, malattia o morte nelle famiglie del borgo di Castelnuovo che non vedessero la loro presenza e offerta di aiuto. La nipote, Pia Clotilde Allamano, descrive la casa di Marianna come «ospitale ed elemosiniera».

Cosa dire della formazione cristiana offerta ai figli attraverso il loro esempio e il buon consiglio? Animatrice efficace della confraternita dell’Addolorata, Orsola Cafasso ha avuto un impatto non indifferente sulle donne del paese. Nelle loro famiglie i momenti giornalieri di preghiera non mancavano mai. Il rapporto con la parrocchia era sempre attivo e costante.

Così in Castelnuovo nascevano e crescevano i santi.

padre Piero Trabucco


Giuseppe Allamano si racconta

Per comprendere la personalità umana e spirituale di Giuseppe Allamano, così semplice, serena e concreta, si deve necessariamente partire dall’ambiente che lo vide nascere e crescere: la famiglia, prima di tutto e, in particolare, la mamma Marianna, sorella di S. Giuseppe Cafasso.

La mamma, rimasta vedova ancora giovane quando stava per nascere l’ultimo figlio, dovette prendere in mano con determinazione le sorti della famiglia sia come sostentamento che come educazione dei figli.

Di lei hanno detto: «Mai che mandasse via un povero o non l’alloggiasse. Quando una donna povera dava alla luce un bimbo, ella si offriva a preparare gran parte del corredino; così pure si recava dagli ammalati e li aiutava in tutti i modi».

«Quando poi si portava il Viatico a qualcuno era lei che si recava a vedere se tutto era in ordine nella casa per ricevere Nostro Signore». Ecco il suggerimento del parroco ai figli: «Dovreste baciare la terra dove passa vostra madre».

«La mia buona mamma»

Alla mamma, che da anziana era diventata cieca e sorda, l’Allamano era legato da tenerissimo affetto. Diceva: «Non tocca a me fare un elogio di mia madre…». «Io facevo il suo interprete nella confessione quando mi trovavo a casa; sembra impossibile: aveva due occhi di paradiso, eppure non vedeva e non sentiva; ed io mi spiegavo facendo segni sulla mano, e c’intendevamo benissimo». «Certe volte la mia buona mamma mi diceva: “Io sono vecchia, tutti gli altri mi dimenticheranno, ma tu mai, dici Messa tutti i giorni, pregherai poi per me”. Difatti nella S. Messa c’è sempre un posto per lei».

«Io non ho mai saputo quello che mi piaceva o non mi piaceva – confidava l’Allamano – perché la mia buona madre, bastava che dicessi che una cosa non mi piaceva, che subito me la faceva prendere. Non mi dava altro finché non l’avessi mangiata». La sorella Orsola, secondogenita della famiglia Allamano, raccontò: «Gli altri fratelli si vedevano sul piazzale a giocare, ma Giuseppe no, mai! Le ore libere, durante le vacanze, le occupava a starsene vicino alla mamma ammalata. Tanto che questa, commossa, alle volte gli diceva: “Ma adesso va a prendere un po’ d’aria!”, ed egli: “Oh, lasciami un po’ star qui vicino a te”».

«Parlerò della mia nascita – raccontava lui stesso -. Il buon Dio, decretando di crearmi, stabilì nel tempo l’anno, il giorno in cui mi avrebbe dato l’essere, ed ogni altra circostanza. Prima dei parenti, prima ancora che fosse il mondo, Dio già pensava a me con pietà e amore. “Mi ha amato di amore eterno”. Ed eccomi nato il 21 gennaio del 1851, alle ore sei e mezzo di sera. Deo gratias!».

L’Allamano celebrava con gioia e riconoscenza l’anniversario della nascita e accettava volentieri gli auguri. Diceva: «So che quest’oggi avete pregato per me e ve ne ringrazio». Abitualmente passava il giorno del compleanno in preghiera: «Quest’oggi ho fatto il ritiro mensile, naturalmente ho ringraziato il Signore e l’ho supplicato a perdonarmi quando dovrò rendere conto di tutte le grazie che ho ricevuto. Ne avrò tanti rendiconti da rendere io, sapete! Tuttavia non mi affliggo. Ho sempre fatto la volontà di Dio, di questo non dubito; dunque, Signore, supplite voi!».

Era felice di essere stato battezzato subito, il giorno dopo la nascita: «Nacqui tanti anni fa… la sera del 21 e, verso le 10,30 del mattino dopo, fui battezzato. Sicuro, subito il giorno dopo fui battezzato. Stetti una notte sola non cristiano. Non credevo mai più di vivere tanto! Ero il più meschino di tutti; il Signore si è servito di una “ula ruta” [vaso rotto]».


 


Bisogna essere sempre allegri

Una fugace spigolatura nel vasto campo del pensiero dell’Allamano coglie un aspetto importante della sua spiritualità: la sua allegria.

Il vero carnevale

L’allegria fu la componente classica della formula «Don Bosco» per raggiungere i giovani e quanti a lui si avvicinavano. L’Allamano amava il santo dei giovani, ma se ne allontanò per il «rumore» che trovava all’oratorio. Soleva dire che «il bene non fa rumore e il rumore fa poco bene». Senza dubbio, il silenzio fu un pilastro del «metodo preventivo» di Don Bosco. La «buona notte» che augurava alla sera ai giovani prima del riposo ebbe anche momenti di profezia, che fecero storia. I santi con la «S» maiuscola si differenziano, ma non si contraddicono.

L’Allamano diceva: «In tempo di carnevale abbiamo fatto penitenza. Ora, a Pasqua, facciamo carnevale. La festa di Pasqua è una festa goduta fin da ragazzi, è una festa che va al cuore». Quanto all’allegria, interrogava i giovani in Casa Madre: «Sapete perché san Francesco di Sales operò tanto bene? Perché era sempre affabile, dolce, allegro». Ancora: «Sapete perché Nostro Signore attirava tanto i fanciulli? Perché era sempre affabile». E notava: «L’allegria attira alla virtù e, talora, convince a consacrarsi a Dio».

Allegri, ma non sguaiati

Precisando il proprio pensiero, l’Allamano spiegava: «L’allegria non deve essere mai smodata; essa non consiste nella dissipazione, nel far rumore, nel gridare forte, né nel mettere sossopra la casa. Bisogna parlare, sorridere, ma tutto con modestia, con moderazione. Il riso sguaiato non va: bisogna pensare che siamo sempre alla presenza di Dio. Il Signore ci dice: “State allegri”, ma se ce lo vedessimo innanzi, rideremmo forse sguaiatamente? L’allegria smodata è stoltezza, quella vera è virtù: state attenti che non degeneri!».

«L’allegrezza non è un male – diceva ancora – ma un bene. Non si è mai troppo allegri. Dobbiamo essere allegri tutti i giorni, tutto l’anno». Citando la sacra Scrittura, sottolineava: «Il Signore ama chi dà lietamente (cfr. 2Cor 9,7). Anche san Paolo lo afferma: “State allegri nel Signore”. E come se non bastasse dirlo una volta, lo ripete: “State allegri nel Signore” (Fil 4,4)».

Citando il poverello d’Assisi, annotava: «Guai se san Francesco vedeva un suo frate non allegro! Il Signore vuole che siamo allegri sempre, anche… dormendo: come i bambini, che dormono con aria sorridente». Concludendo, diceva con un po’ d’arguzia: «Non addormentatevi mai col broncio, ma con pensieri di santa letizia».

Frutto della sua esperienza di uomo di Dio, affermava: «Se si vuole fare del bene, bisogna essere sempre allegri. Quanti ci osservano possano dire: “guardate questi missionari: hanno lasciato casa, parenti, tutto, eppure sono sempre allegri”: il prossimo ne resta edificato ed è attratto alla virtù».

La casa dell’allegrezza

«Non voglio che questa casa – si riferiva alla Casa Madre – sia malinconica, ma che sia la casa dell’allegrezza. In Africa, se non vi saprete vincere, se non saprete frenare i malumori, i disappunti inevitabili, farete solo del male, del male… Questa è la casa dell’allegrezza, perciò non si deve mai fare il “muso” [broncio]. Fare il muso è segno che o non si sta bene, o che si hanno pene spirituali. Taluni, però, che si dicono disposti a faticare, a vivere, a morire da missionari, se il Signore manda loro un maluccio, si abbattono. Bisogna avere pazienza e, poco alla volta, passerà. Con la malattia o senza la malattia, il Signore ci farà morire quando piace a lui.

A me piacciono quelli che stanno sempre nella volontà di Dio, che trovano la loro sicurezza nelle mani di Dio e tirano diritto. Avanti così. Vi voglio sempre allegri. Qui bisogna stare bene di anima e di corpo. Talvolta non vi vedo tanto allegri, e invece io desidero che in questa comunità si conservi e si accresca sempre più lo spirito di scioltezza, di allegrezza. Conosco comunità religiose che hanno una pietà amabile: tutti i membri sono tranquilli in se stessi e danno agli altri questo spirito, che è precisamente lo spirito che voglio in questa casa: sempre in gioia, sempre con facce allegre».

Il mite sorriso del padre

Le fotografie dell’Allamano che più ci sono care sono quelle che lo ritraggono con il volto atteggiato a sorriso mite, pacificante. Dicono di lui più di quanto potrebbe dirci un libro.

Ho conosciuto confratelli come i padri Giuseppe Bonaudo, Vladimiro Bazzacco, Domenico Feyles, che incontrarono il fondatore fin da piccoli, nel nostro seminario minore. Tutti lo ricordavano e me lo descrivevano vividamente, magari ad occhi lucidi, presi da quel mite sorriso del padre, dallo sguardo che ti leggeva fino in fondo, senza condizionarti. Ciascuno si sentiva amato come un beniamino. Tutti mi hanno ripetuto che, anche se ormai anziani, lo ricordavano con riconoscenza e nostalgia e continuavano a volergli quel grande bene che li aveva resi perseveranti e sereni fino a tarda età. Mi dico: a questa scuola voglio trarne profitto.

padre Giuseppe Mina

Giuseppe Allamano è stato per i suoi missionari e missionarie un padre, nel senso più profondo e bello. Molti libri hanno raccolto le sue parole paterne, tramandando la sua saggezza e testimoniando il suo affetto verso i suoi figli. Nella raccolta delle «Conferenze» alle suore (raccolte tra il 1913 e il 1925), c’è una particolarità che impreziosisce il suo ritratto: alcune sorelle, particolarmente abili e veloci nel prendere nota, oltre a registrare le sue parole, hanno annotato i suoi atteggiamenti, con semplici espressioni messe tra parentesi.

«Sorride»: questa è la nota più ricorrente nel descrivere gli atteggiamenti del fondatore; del resto il sorriso è uno degli elementi più cari della sua persona, testimoniati anche nelle fotografie e nelle deposizioni.

suor Stefania Raspo

Terracotta raffigurante l’Annunciazione custodita nella casa del beato Allamano a Castelnuovo (At)


La maternità spirituale di Maria

Durante la novena della Consolata, festa che si celebra il 20 giugno di ogni anno, alcuni
missionari e alcune missionarie si sono alternati all’ambone nell’offrire una riflessione sulla relazione del beato Allamano con la Madonna. Padre Giuseppe Ronco ha affrontato il tema della maternità spirituale di Maria.

Sotto la croce Maria diventa madre

Il fondamento biblico della maternità spirituale di Maria si trova nel cap. 19 di san Giovanni che descrive Maria sotto la croce: «Donna ecco tuo figlio, figlio ecco tua Madre». L’esegesi sottolinea come questo brano non sia un semplice racconto di un fatto capitato alla fine della vita di Gesù, ma sia una vera rivelazione. È volontà esplicita di Gesù che sua madre diventi madre spirituale di tutti i discepoli e quindi di tutta la Chiesa.

Questo significa che per Maria l’avvenimento del Calvario non era semplicemente il dramma di una madre che vede soffrire e morire il proprio figlio, ma il compimento di una missione. Ella era entrata nella prospettiva della missione redentrice di Cristo.

Il modo di esercitare la sua maternità spirituale lo troviamo ben descritto nel Vangelo, in modo particolare nel cap. II di Giovanni: «le nozze di Cana», dove due aspetti sono importanti.

Anzitutto la funzione materna di Maria attenta ai bisogni dell’uomo e della donna in caso di necessità. La mancanza di vino fa vedere Maria attenta ai bisogni dell’umanità. Nel secondo aspetto la vediamo anche come discepola e come tale invita gli altri discepoli a fare quello che Gesù vuole: «Fate quello che vi dirà».

Il testo greco dice letteralmente: «Non hanno vino» e il senso è che Maria si rivolge a Gesù dicendogli: «Non ti accorgi che questa umanità va alla malora? Non ha vino, non ha il tuo vino, non ha l’alleanza, non ha la gioia?». «Bisogna che tu dia il vino nuovo dello sposalizio».

Il magistero della Chiesa

La dottrina ufficiale della maternità di Maria è formulata nel cap. 61 della Lumen Gentium, dove il Concilio fa vedere che Maria ci è madre nell’ordine della grazia, cioè ha partecipato con Cristo, ha cooperato all’opera di salvezza operata dal Signore. E lo ha fatto per restaurare la vita soprannaturale delle anime.

Anche il magistero ne ha parlato abbondantemente. Se il Concilio di Efeso nel 431 aveva proclamato Maria «Madre di Dio», Paolo VI ha proclamato Maria «Madre della Chiesa», ponendo come base biblica Maria sotto la croce. È lì che Maria diventa la madre della Chiesa, la madre di tutti i fedeli. Importante è anche l’esortazione apostolica «Signum Magnum» del 1967 dove si dice che «la maternità di Maria è una consolantissima verità che per libero beneplacito del sapientissimo Iddio fa parte integrante dell’umana salvezza. Essa, perciò deve essere ritenuta per fede “Madre di tutti i cristiani”».

Sullo stesso tema è intervenuto papa Giovanni Paolo II, in modo particolare nell’enciclica «Redemptoris Mater» dove presenta Maria madre spirituale nello Spirito Santo. Si tratta di un altro aspetto che si aggiunge a quelli citati.

L’Allamano e la maternità di Maria

L’Allamano ha parlato della maternità spirituale di Maria molte volte e con insistenza. A questo tema ha dedicato il secondo giorno della novena scritta da lui per il santuario della Consolata. Dice così: «Maria è nostra madre poiché come tale ci fu data da Gesù sul Calvario, quando pendente dalla croce voltò lo sguardo a lei e al discepolo e li affidò l’uno all’altra: “ecco tua madre, ecco tuo figlio”». E conclude: «Prega questa buona madre per ottenerti un cuore di figlio, per non essere ingrato e meritare i salutari e consolanti effetti del suo cuore…».

La seconda volta in cui ha parlato di Maria nostra madre nello Spirito lo ha fatto ispirandosi alla dottrina del Cafasso e vedendo in lei la perfezione pratica della vita portata da Cristo. La vedeva, cioè, come un modello di vita perfetta.

Il terzo aspetto in cui il fondatore considerava Maria è quello di madre che lui qualificava col titolo di «tenerissima». Aveva perso sua madre in giovane età ed era stato un grande dolore non partecipare ai funerali, anzi, venendo a sapere della sua morte giorni e giorni dopo… fu per lui una grande sofferenza. E a questa sofferenza supplì la maternità spirituale di Maria. Prese Maria con sé durante tutto il percorso di rettorato al santuario della Consolata. Non solo, ma la consegnò anche ai suoi missionari, affinché diffondessero in tutto il mondo la gloria di Maria tra le genti, da cui nacque quel lemma che è proprio dell’Istituto: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (Annunceranno la mia gloria alle genti).

padre Giuseppe Ronco

Padre Ronco ha concluso esortando a rivolgersi alla Madonna come nostra madre con la preghiera di sant’Alfonso Maria de Liguori che lo stesso fondatore proponeva:
«O Maria, non mi proibite di potervi chiamare “madre mia”».

La seconda grande preghiera dedicata alla maternità spirituale di Maria è l’invocazione del «Monstra te esse matrem» che troviamo nell’Ave Maris Stella. È un’invocazione che chiede alla Madonna: «Fammi vedere in modo concreto come tu sei la mia mamma».

 

 




Un Dio amuleto (Es 32)


L’episodio del «vitello d’oro», nel quale il popolo d’Israele si lascia trascinare dal fascino illusorio di un’alternativa alla promessa concreta e vitale di Dio, è notissimo. Per gli antichi lettori del Primo Testamento era l’esempio definitivo della tentazione dell’idolatria, tanto che sarebbe poi stato ripreso diverse volte in più contesti.

Anche per i lettori moderni continua a essere particolarmente significativo, purché si riesca a penetrarlo in profondità.

Per farlo, dobbiamo richiamare due attenzioni da mantenere mentre lo leggiamo.

Due eccessi

Ci sono infatti due rischi che corriamo quando ci confrontiamo con testi antichi, Bibbia compresa. Ne abbiamo già parlato in passato, ma vale la pena ritornarci.

1. Leggere solo con gli «occhi» del nostro tempo.

Il primo rischio è quello di leggere queste pagine come se fossero state scritte oggi. Potremmo allora scandalizzarci per espressioni o presentazioni del divino che, fortunatamente, ci risultano ormai eccessive, violente e fuori luogo. La lunga frequentazione tra Dio e uomini ci ha progressivamente abituati a conoscerlo meglio, e, nel tempo, a raffinarci anche nel raccontarlo. L’essenziale del messaggio biblico (la vicinanza divina all’umanità tutta, senza alcun tipo di preferenza se non per i più deboli e poveri) resta vero, anche se le forme cambiano.

E leggere di un Dio severo, vendicativo, che punisce, castiga e uccide, ormai ci disgusta. Ottimo. Significa che a forza di stare con Dio ci siamo sempre più umanizzati, anche se quelle presentazioni dure erano efficaci e interessanti per i lettori di quel tempo, e in fondo dicevano il coinvolgimento divino con la sorte degli uomini.

2. Spiegare tutto solo andando alle origini.

C’è però anche il rischio opposto, per il quale un po’ di colpa è dei biblisti. Consiste nel tentativo di spiegare tutti i particolari complicati di un testo a partire da ipotesi sull’origine dello stesso. Si immagina che all’inizio tutto fosse chiaro, ma che poi, un po’ alla volta, nelle successive copiature e redazioni, si siano infilati errori e sovrastrutture che hanno reso il brano incomprensibile. E si ritiene che per capire si debba tornare proprio ai testi più originali e antichi. Così facendo, però, ci si dimentica che gli ultimi redattori che hanno messo mano al libro hanno deciso che, nella forma attuale, il racconto era chiaramente comprensibile per i loro lettori.

Rientrano in questo rischio i tentativi di spiegare che la religione cananea, che gli ebrei si sono trovati di fronte quando sono entrati nella terra promessa, immaginava spesso un Dio invisibile seduto su un trono altrettanto invisibile il quale era sorretto da un vitello. Tale vitello, sostegno del trono di Dio, era spesso rappresentato nei templi con statue ricoperte d’oro o anche in oro massiccio (è consueto collegare l’oro alla divinità). Due vitelli di questo tipo sarebbero stati posti, in epoca storica, al confine settentrionale e meridionale del regno di Samaria, come si racconta nel capitolo 12 del primo libro dei Re (il versetto 28 sembra preso direttamente da questo capitolo 32: «Il re preparò due vitelli d’oro e disse al popolo: “Siete già saliti troppe volte a Gerusalemme! Ecco, Israele, i tuoi dei che ti hanno fatto salire dalla terra d’Egitto”»). Questa pagina potrebbe allora essere una polemica nei confronti di un culto che di per sé, a essere precisi, non venerava i vitelli come dei, ma pensava che costituissero la parte visibile del trono del Dio invisibile. C’è chi ha sostenuto, quindi, che probabilmente Es 32 non facesse parte originariamente del testo, ma sia stato aggiunto a posteriori. L’allusione ai vitelli d’oro di Geroboamo nel primo libro dei Re è troppo chiara per non essere stata voluta, ma non ci dice di preciso chi si sia ispirato a chi (ossia quale testo sia stato scritto prima, Es 32 o 1 Re 12?).

Questa e altre considerazioni sono possibili, a volte addirittura probabili, e non è per nulla insensato porsi queste domande. Ma per noi che meditiamo sul libro dell’Esodo, il capitolo 32 merita di essere letto per come è oggi, a prescindere dal fatto che possa essere stato inserito in una versione successiva. Tanto più che ci sta anche discretamente bene, acquistando un suo senso compiuto e pieno, il quale ha un valore anche per i lettori odierni.

Che cosa si racconta

Il popolo che il Signore ha fatto uscire dall’Egitto, che ha attraversato il deserto, che si è trovato a decidere se stare con Dio o no (Es 19,1-8), è ora sotto il monte. Sopra, è salito solo Mosè. Anche se non tutta la dinamica narrativa è chiarissima, l’impressione lasciata dal racconto è che Dio abbia già finito di spiegare a Mosè non solo il decalogo, scritto su due tavole di pietra (Es 31,18), ma anche le norme che regoleranno il culto del tempio.

Intanto, però, il tempo passa («quaranta giorni e quaranta notti»: Es 24,18) e nell’accampamento l’inquietudine cresce: «A Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Il popolo chiede quindi ad Aronne, fratello di «quell’uomo», di dare loro un nuovo dio. E per farlo Aronne impoverisce il suo popolo, togliendogli quelle ricchezze che erano state donate dagli egiziani (Es 12,35-36) fondendole per farne una statua.

Poi, presenta il vitello d’oro come «il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!» (32,4).

Come abbiamo già spiegato, c’è chi ritiene che, in qualche fase nell’evoluzione della religione ebraica, queste fossero forme religiose accettabili. In Es 32, però, il gesto è interpretato da Dio come un tentativo di esautorarlo, di dimenticarlo, al punto che propone a Mosè di dargli un altro popolo, distruggendo questo che era arrivato fino sotto al monte (v. 10).

Ed ecco che Mosè, quello stesso Mosè che in Es 4,13 aveva tentato di tirarsi fuori dal progetto di salvezza divina, di fronte all’idea di abbandonare i suoi compagni decide invece di reagire a Dio, e gli spiega che, se così facesse, verrebbe meno alla sua promessa e sarebbe schernito dagli egiziani stessi. È come se Mosè ricordasse a Dio la sua vocazione e la sua identità, cosa che può accadere solo se il rapporto tra i due è schietto e trasparente come tra amici.

Il primo incontro tra Mosè e il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» era stato inevitabilmente segnato dalla distanza, dal timore magico, dalla solennità divina, quella stessa che si era mostrata nel mandare le piaghe all’Egitto, nel cammino attraverso il mare e il deserto. Quando però, in Es 19,1-8, Dio aveva tirato le somme, non aveva preteso l’ubbidienza di coloro che aveva salvato, ma aveva atteso la loro risposta libera, trattandoli alla pari.

Qui addirittura, come succede nelle relazioni umane più autentiche e profonde, è Mosè stesso a porsi, provvisoriamente, a un piano superiore, rimproverando il proprio Signore e richiamandolo a comportarsi da Dio, per non rinnegare se stesso. E «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (32,14).

Solo a questo punto Mosè ritorna il violento e intransigente difensore della fedeltà a Dio, o addirittura del proprio ruolo: scende a valle, fa a pezzi e riduce in briciole il vitello, per poi scioglierlo in acqua e costringere tutti a berla (ecco che fine fanno le ricchezze portate via all’Egitto!), comanda uccisioni casuali (una violenza terribile che ripugna alla nostra sensibilità) e poi ritorna sul monte, invocando il perdono del popolo (32,30-32) e riscrivendo le tavole della legge. Per altri quaranta giorni e notti.

Libertà o smarrimento?

È come se il racconto, a questo punto, ci sveli i suoi contenuti, che sono in qualche modo risposta e completamento a ciò che si diceva nel capitolo 19. In quel testo Dio, dopo aver condotto il popolo fin lì, si rimetteva al loro giudizio e aspettava che gli dicessero se volevano davvero diventare la sua eredità tra le genti o no. Un atto nel quale la libertà umana veniva sopra a tutto.

Ma già all’uomo antico, come pure – e ancor più – a noi, poteva venire in mente l’idea che in fondo servire Dio era solo un’altra forma di schiavitù, dalla quale, invece, pensavano di essere stati liberati. Essere liberi non significa forse non avere padroni? E un Signore, per quanto divino, non è, appunto, un padrone?

Questo episodio in qualche modo risponde alla questione. Il popolo che recalcitrava, che aveva rimpianto le cipolle d’Egitto, che già aveva contestato tante volte Mosè, quando non lo vede tornare, non si sente finalmente libero, ma smarrito, e chiede che qualcuno lo guidi, che ne sia il capo. Non trovando nessun altro, decide di farsi un dio da sé. Questo dio, però, è solo una statua che non può parlare né udire né muoversi, che non può proteggerlo dai nemici, che non può custodirlo e accompagnarlo. In fondo è solo un dio piccolo piccolo, per restare sotto al quale occorre sdraiarsi, prostrarsi.

L’intuizione è quasi psicologica, pienamente moderna. L’essere umano ha bisogno di un «sopra di lui», ha bisogno di un trascendente che lo renda autenticamente pieno. Se non lo trova, se pensa di essere rimasto senza dio, se lo crea, si inventa qualcosa da servire: saranno i consumi domenicali, l’apparenza fisica, l’orgoglio di «appartenere» a una squadra sportiva (di solito senza scendere in campo), di fare parte del gruppo «giusto», di immaginarsi invidiati da altri per il patrimonio, per la macchina o il telefono nuovo, e tanto altro. Tutte passioni piccole, poco significative, che ci abbassano sotto la nostra dignità autentica. L’uomo lasciato senza nessuno sopra di sé, si costruisce qualcuno o qualcosa a cui obbedire, e gli si prostra davanti. Vivendo peggio.

Certo, il dio costruito dall’uomo ha il vantaggio di stare dove lo si mette, di essere prevedibile, «sicuro», di poter essere chiuso a chiave nelle proprie stanze. Il Dio che si è ricordato del suo popolo sofferente, invece, ama la libertà, non sopporta di essere ridotto a un amuleto, desidera essere amato e amare.

Acquista un pieno significato adesso una frase che Dio aveva apparentemente buttato lì durante il suo primo colloquio con Mosè. Alla richiesta di un segno che potesse renderlo credibile di fronte al popolo, il Signore aveva risposto: «Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). Solo adesso sappiamo che quella di Mosè era stata una chiamata davvero divina. E lo sappiamo in quanto il popolo non serve più padroni umani, che lo costringeranno a sdraiarsi a terra, ma colui che l’uomo può contemplare restando ben dritto e con lo sguardo fisso al cielo. Perché è questo a segnare la differenza tra la schiavitù, vissuta per costrizione, e il servizio, liberamente scelto nei confronti di un «tu» autentico e pieno: il secondo è una scelta autonoma, a vantaggio di qualcuno che desidera essere amato. Chi si mette a servizio di colui che ama, non è schiavo.

Chi ha Dio per Signore, non avrà altri signori.

Angelo Fracchia
(Esodo 16 – continua)




Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)


Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

Uno sguardo alla struttura

Innanzi tutto, dobbiamo di nuovo ricordarci che ci troviamo davanti a un «libro» di circa 2.500 anni fa. È vero che continua a mostrare la sua modernità, in quanto parla di dinamiche umane che evidentemente non sono cambiate molto. Ma, nello stesso tempo, è scritto da autori che non potevano conoscere il romanzo moderno e che seguivano, invece, le convenzioni letterarie di quel tempo.

Qualcuna di queste convenzioni può risultarci utile per capire. Noi, infatti, siamo abituati a libri divisi in capitoli, paragrafi e capoversi (il «punto e a capo»), con elenchi numerati, con punteggiatura precisa e magari con l’uso di grassetto e corsivo. Tutti questi elementi della scrittura moderna, che ci aiutano a capire il procedere del discorso, nell’antichità non si usavano. Così come allora si faceva ricorso a «trucchi» ai quali noi non siamo più abituati. Possono sembrarci più complessi e meno chiari di quelli che usiamo noi, e in parte lo sono, ma non dobbiamo dimenticarci neanche che l’antichità aveva a disposizione molti meno testi scritti di noi e meno persone capaci di leggerli, il che significa che quelle poche affrontavano percorsi di alfabetizzazione più lunghi, e quindi anche più approfonditi e ricchi.

Principi di fondo

Per quello che ci interessa, può essere utile recuperare almeno tre principi di fondo.

a) Ciò che è più importante viene prima. Noi siamo abituati ad avere dei riepiloghi finali che sono spesso il cuore del discorso. Anzi, i libri gialli e le barzellette ci hanno abituato all’idea che fino all’ultima parola, potremmo non avere capito l’essenziale. Gli antichi, invece, tendevano a mettere riepiloghi e principi di fondo all’inizio. Certo, a volte c’era da seguire un ordine cronologico, ma anche in quel caso si inserivano all’inizio dei segnali per indicare che un determinato evento doveva essere considerato fondamentale, anche se narrato solo a un certo punto del percorso.

Per fare un esempio, quando nel libro dell’Esodo Dio dialoga per la prima volta con Mosè, gli dice anche che dopo l’uscita dall’Egitto gli israeliti lo avrebbero «servito su quel monte» (Es 3,12). Ovviamente il tema riemergerà solo al capitolo 19, ma intanto il lettore sa già che quell’aspetto è significativo.

b) Ciò che è più importante prende più spazio. Se ci pensiamo, lo fanno ancora i nostri maestri, che ritornano più volte sui concetti fondamentali, dilungandosi a presentarli anche se potrebbero farlo in mezzo minuto. Ma ciò che è esposto in mezzo minuto sarà più facile da dimenticare, mentre se di un’idea parlano per due ore, tutti se ne accorgeranno e la ricorderanno.

c) Si potrebbe ancora aggiungere un mezzo meno frequente, ma interessante per la lettura di questi capitoli: ciò che è inserito dentro a una «cornice» che lo inquadra, va interpretato all’interno di quel contesto. Ad esempio, Es 25-31 sembrano essere ripetuti in Es 35-39. Questo, tra l’altro, vuol dire che forniscono il contesto in cui dovranno essere interpretati i capitoli dal 32 al 34 (di cui ci occuperemo nelle prossime puntate).

Una vita concreta e organizzata

Cominciamo allora a trarre qualche conseguenza. Nei capitoli dal 25 al 31 di Esodo, Dio indica a Mosè come dovrà procedere a organizzare il tempio e il sacerdozio; nei capitoli dal 35 al 39, una buona parte di quelle indicazioni vengono ripetute per dire che Mosè ha fatto proprio come Dio gli aveva detto. Un doppione noiosissimo, diremmo (e, diremmo anche, a ragion veduta!). Al di là della noia, se riusciamo a leggere questi lunghi capitoli di spiegazioni minuziose e ripetitive alla luce dei tre principi spiegati sopra, possiamo darci la possibilità di capire qualcosa di importante: innanzitutto capiamo che la dimensione normativa e rituale della vita di fede, per il popolo uscito dall’Egitto è fondamentale. Questi testi occupano infatti un terzo del libro dell’Esodo.

Poi capiamo anche che, arrivando alla fine del libro, questi capitoli non rappresentano quelli più importanti. Di questi materiali, infatti, non si era offerta alcuna anticipazione nei capitoli precedenti, il che significa che non sono essenziali. L’aspetto rituale, liturgico, è importante e significativo, ma non è il cuore del discorso né il primo mattone.

Se l’Esodo fosse stato scritto oggi, questi capitoli sarebbero riassunti in qualche annotazione esplicita (come queste mie) o con qualche nota a piè di pagina. Gli antichi però non usavano le note e non erano abituati a spiegare il senso di ciò che narravano.

Chi leggeva, però, avrebbe perfettamente compreso che cosa significava concedere tanto spazio a questi temi e allo stesso tempo porli alla fine.

Il senso della concretezza

Iniziamo a cogliere allora che cosa gli autori del libro volevano che si capisse e ciò che probabilmente i lettori avrebbero intuito con relativa facilità.

Il percorso di fede tracciato dal libro si è finora giocato moltissimo sulle dinamiche personali e spirituali. Dalla liberazione dall’oppressione si è giunti alla percezione che era necessario fidarsi di una parola promettente, per poi decidere di legarsi definitivamente a questa presenza (Es 19).

Tutte dinamiche, diremmo, quasi psicologiche, sicuramente interiori. È vero che le scelte comportano anche delle decisioni concrete (dall’Egitto bisogna partire, dentro al mare occorre entrare…), ma queste restano occasionali e secondarie.

Giunti a questo punto del percorso, però, gli autori segnalano che la concretezza della vita può anche essere secondaria rispetto alla fiducia e alla decisione di abbracciare la relazione con Dio, ma non può essere trascurata. Siamo fatti anche di materia, di azioni e di abitudini.

Riprendendo un paragone che abbiamo già fatto, è una dinamica che ricorda la vita insieme di due persone che si amano. A tenerli insieme non sono delle regole, ma l’affetto reciproco, che però deve farsi anche pratico, stabilendo chi cucina, chi fa la spesa, chi pulisce, chi paga le bollette. Sono questioni senza dubbio secondarie, meno fondamentali dell’ispirazione di partenza, ma non possono essere tralasciate. La vita reale passa dal rendere concrete le intuizioni più profonde.

I contenuti

In particolare, il testo di questi capitoli si concentra sugli arredi del santuario (Es 25; 37), sulla sua architettura (Es 26-27; 36,8-38 e poi ancora il capitolo 38), sui sacerdoti (28-29; 39) e infine sugli strumenti al servizio della mediazione tra Dio e gli uomini (l’altare degli incensi, il propiziatorio, il tributo per il tempio, il bacile d’acqua, l’olio per l’unzione, l’incenso, il sabato, le tavole: Es 30-31; 34,29; 35; 38,8.21.24-31).

Nell’insieme delle indicazioni a volte molto minuziose, può essere utile riprendere almeno alcuni elementi.

a) Le differenze. Di solito, quello che è presentato nei capitoli 25-31 è ripreso quasi alla lettera in 35-39. In Es 25,1-7, però, si illustra il materiale necessario per il tempio, che in 35,4-29 è ripresentato in modo nettamente più articolato. Così, l’olio per i candelabri di cui si parla in Es 27,20-21 non trova paralleli nei capitoli successivi, dedicati all’attuazione del progetto.

È interessante che, pur nel contesto di una ripetizione completa e precisa delle indicazioni, per sottolineare che Mosè attua realmente ciò che Dio gli chiede, si ammetta che tuttavia non si dà una corrispondenza perfetta.
La realtà non coincide totalmente con il progetto divino,
che nessuna situazione umana adempierà pienamente.

Anche se la chiesa cristiana o il popolo ebraico tenteranno, in buona coscienza, di pensarsi come la realizzazione precisa dell’intenzione divina, esisterà sempre una differenza di cui tutti devono essere consapevoli. La pienezza del regno divino è sempre oltre ciò che l’uomo potrà costruire nella storia.

b) Un Dio presente e vigilante.

In Es 25,23-30; 37,10-16 si presenta quella che, nella tradizione religiosa non solo d’Israele, era concepita come «la stanza di Dio». Anche Israele, infatti, nell’immaginare il suo rapporto con Dio, copia le modalità che erano consuete tra i popoli che vivevano intorno a lui. Queste prevedevano di preparare alla divinità un ambiente in cui vivere, comprensivo di una tavola per pranzare, a volte strumenti per le diverse attività (arco e frecce, mattoni per gli dèi costruttori…), un letto in cui dormire. Ebbene, in questa presentazione dell’Esodo, di letto non si parla mai, né di strumenti di lavoro. L’unica a essere presente è una tavola, con un rimando al nutrimento che spesso, nel contesto del tempio, punta sui «sacrifici di comunione» (cfr. Lv 7, ad esempio), nei quali l’animale sacrificato era mangiato in parte da chi presentava l’offerta, in parte bruciato sull’altare, come se fosse Dio a cibarsene. Si immaginava, cioè, un banchetto in cui Dio era un commensale. Vale a dire che l’unico elemento che si ritiene di evidenziare è l’intenzione divina di vivere la comunione con i suoi fedeli. Per il resto, il Dio d’Israele non dormirà (cfr. Sal 121,4).

c) Tenda, non reggia. In Es 25,8 si presenta il santuario come «residenza» divina. Il termine utilizzato rimanda alle tende dei nomadi, una dimora preziosa ma non stabile, non fissa. Si suggerisce da subito che essenziale per Dio non è un luogo dove stare, una reggia, ma il poter risiedere insieme al suo popolo. Dal tempio potrà anche fuggire, ma essenziale è la comunione con i suoi fedeli.

d) Partecipazione attiva di tutti. In Es 31,1-11; 35,30-36,7; 38,21-23 si presenta la costruzione e abbellimento del tempio. Potrebbe stupire che non si dica che sia Dio a costruirlo, né Mosè ad eseguire l’ordine divino, bensì i «costruttori», dotati da Dio delle competenze necessarie. La relazione tra Dio e Mosè è privilegiata, ma si coglie sempre che i talenti e i doni di ognuno meritano di essere lasciati liberi di esprimersi, e che il rapporto tra gli uomini e il divino non sopporta di passare solo da pochi eletti. Non è Mosè e neppure Dio a fare tutto, ma ciò che accadrà sarà possibile solo per l’intervento attivo e variegato di ogni fedele.

Angelo Fracchia
(Esodo 15 – continua)




Un luogo dove vivere (Es 23,20-24,18)


Il libro dell’Esodo è il racconto dell’uscita d’Israele dalla «casa di schiavitù», dall’Egitto, per diventare un popolo libero. Esso ci mostra che per ottenere tale libertà, non basta essere liberati dall’oppressore, come si scopre strada facendo. Dio, dopo aver portato il popolo nel deserto, gli ha proposto un legame personale definitivo, «sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (la citazione è di Lv 26,12, ma è il senso di Es 19,5-6). Questo legame, che in qualche modo era regolamentato dal decalogo, è stato ripreso e chiarito in modalità che ora vederemo e che ci permetteranno di evidenziare alcuni elementi importanti. Oltre a una terra da cui uscire, infatti, c’era anche bisogno di una terra in cui vivere, e questa è stata promessa, anche se la promessa non riguarda solo la terra, ma allude a tante altre cose.

Un angelo davanti a te (Es 23,20)

«Se ci fosse Dio» è una frase che abbiamo sentito o ci siamo trovati a pensare molte volte. Molto spesso, la frase esprime quello che noi pensiamo che faremmo se fossimo noi Dio. Si tratta di una tentazione, a cui, in qualche modo, questo testo risponde: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato».

Dio promette che un «messaggero» (questo è il significato della parola «angelo») condurrà il popolo nella terra promessa. A chi si deve pensare? A un essere invisibile, non umano? A un intervento miracoloso? Nel Primo Testamento si parla spesso di «angeli», ma sembra sempre un modo per indicare l’intervento divino senza nominare Dio apertamente. Quasi mai leggiamo di interventi «magici» che risolvono le questioni. Normalmente gli uomini devono mettersi in gioco, conquistarsi la fiducia, interpretare e rischiare.

Sembra, insomma, che l’«angelo» di cui si parla sia un uomo. E non sembra che questi sia Mosè, altrimenti non verrebbe usato il futuro (peraltro, Mosè non arriverà nella terra promessa).

Dio invita il popolo ad avere fiducia: Lui interverrà. Ma non lo farà direttamente, bensì attraverso persone, delle quali bisognerà vagliare l’affidabilità, decidere se sono degne di fiducia.

È la presentazione della vita umana che non offre certezze ma invita a mettersi in gioco anche soltanto per valutare di chi fidarsi.

In tutta la storia dell’umanità occorre aspettarsi che Dio intervenga tramite persone umane che però potrebbero essere ingannevoli. Bisognerà, quindi, continuamente mettersi in gioco, cercare di capire, scommettere, fidarsi.

Il sogno di un legame

Il modo con cui Dio immagina la relazione con il suo popolo sembra davvero sognante: «Terrò lontana da te la malattia, non ci sarà donna che abortisce o sterile, ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni» (Es 20,25). Nell’originale ebraico tante parole sono tipiche della poesia, non di un trattato legale.

Il motivo si può cogliere nell’insistenza con cui Dio chiede che il popolo gli sia fedele, senza volgersi ad altri dèi.

Il richiamo alla fedeltà e il tono poetico (poco adatto a un trattato legale) ci possono fare avvicinare all’interpretazione più verosimile del passo: Dio non sta firmando un contratto, ma sta impegnandosi in un legame. Il paragone più vicino non è l’acquisto di una casa, ma un matrimonio. Dio sogna di essere amato, di vivere sempre insieme al suo popolo. Non è un legame di convenienza, ma di amore.

Ecco perché il testo insiste sul tenersi lontano dall’idolatria, sulla gelosia divina. L’immagine è precisa: Dio non vuole altri, perché è innamorato del suo popolo. Lo lega in un rapporto alla pari, perché lo ama. Con l’umanità non stipula un contratto di assicurazione, ma un legame di cuore per sempre, come uno sposo che sogna la sua vita insieme all’amata.

L’espulsione degli altri

Se da un lato Dio chiede al popolo di discernere chi sono i suoi angeli e di fidarsi di loro, da parte sua, sembra impegnarsi a scacciare chi occupa la terra che gli è destinata. Lo fa con attenzioni graduali e sorprendenti, affinché i nuovi occupanti non trovino poi una terra desolata e invasa da bestie selvatiche (23,29-30).

La nostra sensibilità moderna si stupisce e scandalizza: perché la salvezza di un popolo deve significare la morte o l’espulsione di altri?

Una prima risposta ha la sua radice nella mentalità semitica antica. Per quella cultura, chi si impegna in un compito deve innanzitutto dimostrare di esserne capace, di esserne all’altezza. Dio non può promettere agli ebrei che vivranno nella terra destinata a loro, se non è capace di fare piazza pulita di chi ci abita adesso. Noi amiamo vedere delicatezza e dolcezza, persino commozione e fragilità, anche nei potenti; la cultura che scrive queste righe, invece, voleva che il garante assicurasse di avere la forza necessaria per garantire.

Ma poi, strisciante, si insinua un’altra spiegazione appena andiamo a indagare più da vicino i nomi degli espulsi. In Gen 10,15-18 e 1Cr 1,13-16 troviamo elenchi più ampli, che arrivano a una dozzina di popolazioni. Qui ne troviamo «solo» tre, che ci lasciano un po’ perplessi: degli Ittiti sappiamo tanto, compreso il fatto che non si sono mai stabiliti in Palestina; i Cananei, invece, resteranno nella terra anche secoli dopo l’insediamento ebraico, continuando, soprattutto al Nord, a essere i vicini di casa, a volte più tollerati e a volte più odiati. Gli Evei, stranamente, non hanno lasciato alcuna traccia di sé se non in questi elenchi. Quando andiamo a controllare anche le liste più ampie, troviamo di nuovo popolazioni che avrebbero continuato a vivere insieme agli ebrei per lunghi secoli (Amorrei, Gebusei, Aramei) oppure altre di cui non abbiamo traccia se non in questi elenchi (Gergesei, Architi, Sinei, Semariti, Amatiti).

Agli archeologi e biblisti, dopo lunghe analisi, è venuto il sospetto che i nomi delle popolazioni che non hanno lasciato traccia di sé (in un territorio piccolo e arido come quello della Palestina) siano forse stati inventati. Come se Dio, innamorato del suo popolo, abbia esagerato il numero delle alternative a cui aveva rinunciato per la sua unica amata.

Non ci sembri irrispettoso. A noi pare che nella Bibbia debba trovare spazio solo ciò che è rigorosamente storico, secondo i nostri criteri moderni. Ma la storia, di fatto, ci dice che gli ebrei si infiltrarono quasi di soppiatto nella terra di Canaan, senza cancellare chi ci viveva già prima. In realtà questi testi che stiamo considerando sembrano più scritti poetici e retorici, che documenti storici. Storiograficamente potremmo ritenere falsa questa presentazione delle popolazioni scacciate, e considerarla invece come un tenero tentativo di ribadire al popolo d’Israele quanto il suo Dio ne è innamorato. Nel genere del canto d’amore, i particolari possono essere inventati, il contenuto di affetto, no.

Sul monte

Normalmente solo Mosè parlava con Dio, come ripete anche Esodo 24,2: «solo Mosè si avvicinerà al Signore». Di fatto, però, salgono sul monte anche Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani (24,9). E il loro messaggio sarà poi trasmesso a tutto il popolo.

Se è vero che, riprendendo anche l’umanissima tradizione della lontananza di Dio dall’umano, Esodo immagina che l’uomo non possa avvicinarsi al Signore senza morire (Es 20,19), qui però un’ampia rappresentanza del popolo lo incontra senza conseguenze (24,10-11). Da una parte Dio rimarca la sua distanza e alterità rispetto al mondo, dall’altra vuole incontrarsi con i suoi, e non sopporta di tenerli lontani o fare loro del male.

Sempre di più il comportamento di Dio si mostra comprensibile e affascinante se lo pensiamo diverso da un assicuratore, un legislatore o un condottiero, se lo vediamo come un innamorato che vuole mantenere la propria distanza e dignità ma, nello stesso tempo, e molto di più, non vuole in alcun modo perdere o fare del male al suo amato popolo.

Un’alleanza

In diverse occasioni, nel Primo Testamento, Dio viene ritratto nel gesto di stringere un’alleanza con gli uomini (Gn 6,18; 9,9-17; 15; 17,2-21; Es 6,4-5 …). In tutte queste situazioni il modello di alleanza è quello paritario. Dio, cioè, non stringe un patto con gli uomini tenendoli in condizione subalterna, come fossero dei sudditi.

Spesso noi non riusciamo a cogliere tutti i sottintesi di riti antichi che sicuramente erano meglio noti ai primi lettori dell’Esodo di venticinque secoli fa, ma qualcosa capiamo lo stesso. Il sangue, ad esempio, è simbolo della vita e dice la serietà del patto: idealmente, chi lo viola sarà tenuto a effondere il sangue proprio, in punizione. Ma è interessante che (in Es 24,6-8) il sangue venga sparso mezzo sul popolo e mezzo sull’altare: Dio non si tira fuori, non si ritiene superiore, anzi, minaccia anche se stesso di vendetta e punizione se violerà l’accordo.

I riti di iniziazione spesso calcano la mano sul rischio di morte, perché l’accordo è questione importante che va presa sul serio: questo vale anche, simbolicamente, nell’iniziazione cristiana, come si intuisce dal fatto che in greco il verbo «battezzare» significava «affogare». Qui, però, Dio si mette in gioco allo stesso modo: la sua natura è diversa da quella dell’uomo, ma lui accetta di «scendere» al livello umano, per un accordo che sia di vera reciprocità.

È significativo il fatto che non riusciamo a capire con precisione quale sia il contenuto di questa alleanza: è il decalogo (Es 20,1-17)? È il corpo legale più ampio (Es 20,22-23,19)? È qualcos’altro che non ci viene raccontato?

Cose da innamorati

Sembrerebbe che il cuore dell’accordo sia l’accordo stesso. Come, di nuovo, tra innamorati, a Dio pare interessare soprattutto stringere un accordo alla pari con un popolo di cui è innamorato. I contenuti dell’accordo sembrano secondari e riformabili (Dio li riformerà tante volte lungo la storia). Quello che non cambia pare essere solo la sua intenzione di continuare a relazionarsi con l’essere umano.

Si direbbe quasi che la vera terra che Dio promette è la relazione tra sé e l’uomo, tramite il popolo ebraico.

Un innamorato che fantastichi di vivere con la sua amata in una bella casetta solitaria sui monti, vivendo di allevamento e scaldandosi a legna, quando poi si trovasse a vivere in un appartamento con riscaldamento centralizzato e lavoro d’ufficio, potrebbe ritenere di avere compiuto il proprio sogno comunque: il sogno infatti è quello di vivere con la propria amata, non i dettagli del modo in cui vivere insieme.

E Dio sembra essere interessato soprattutto, o meglio solo, a continuare a vivere con il suo popolo. L’unico ostacolo immaginabile a tale sogno è il (possibile) rifiuto del popolo ad accogliere la piena comunione di vita con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 14 – continua)




Basta versare sangue


Fermatevi. Basta versare sangue. Fermatevi. Guardate: l’ho versato io per voi. L’ho già versato io. Al posto vostro. In vostro favore. «Il mio sangue dell’alleanza» (Mc 14,24): quel patto nuovo che non prevede più la morte di chi lo trasgredisce, ma la vita rinnovata nella riconciliazione.

Fermatevi, voi che avete violato il patto: io mi dò a voi per legarvi a me.

Non lasciate più che la paura vi abiti. La vostra vita è custodita dalle mani premurose del Padre, radunata dal Figlio, sollevata dalla brezza mattutina dello Spirito.

Se tutto vi è dato, non c’è niente che dobbiate difendere.

Se la vita è tanto sovrabbondante da essere eterna, che bisogno avete di conquistarvi anche solo un minuto in più?

Smettete di lottare allo scopo di non morire. Lottate invece per vivere. Perché la vita piena che vi è data sia rivelata al mondo.

Fermatevi, voi, che per inganno o costrizione spezzate i vostri corpi mentre spezzate i corpi altrui. Fermatevi, voi, che mandate al massacro gli altri per i vostri interessi, o forse per vincere il terrore dell’abisso sul quale state in equilibrio.

Basta spezzare corpi. Mi sono spezzato io per voi.

Le vostre mani, piuttosto, siano telai che tessono fraternità con i fili divini dell’umanità.

Amico

Luca Lorusso


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Vivere di Dio (Es 20,18-23,19)


Il decalogo (Es 20,1-17) non è il riassunto o la conclusione della legge, ma semmai il suo sfondo, quasi la sua «costituzione». Evidentemente, però, le leggi non possono esaurirsi in una presentazione profonda e sintetica (quasi solo dei titoli), ma poco dettagliata. E in effetti il libro dell’Esodo fa seguire le dieci parole da quasi tre capitoli di regole più specifiche e precise, che possono tuttavia causarci qualche problema, anche se, secondo alcuni, essi sono solo il primo commento e applicazione dei «comandamenti».

La prima raccolta di leggi ebraiche

Le nuove parole divine, che iniziano in Es 20,22, sono estremamente concrete, puntano a regolamentare una vita reale, quindi una vita ambientata in un tempo storico preciso. Ecco perché, ad esempio, non solo accettano l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo e anche la schiavitù (che nei tempi biblici non vediamo mai sparire), ma danno anche per scontato che il tempio non sia uno solo, e ve ne sia, invece, uno in ogni cittadina o addirittura in ogni casa (cfr. 21,6). Questo è un tema che diventerà fondamentale nel libro del Deuteronomio. In questi capitoli abbiamo, quindi, una raccolta di leggi e norme piuttosto antica, che tradisce il suo essere nata in un contesto contadino arcaico.

In questa raccolta si parte dalle questioni riguardanti il culto (20,23-28) per poi passare ad alcune regole sugli schiavi (21,1-8) e sulle donne (21,6-11, con una certa sovrapposizione dei temi), per poi giungere ai casi di omicidio e lesioni fisiche (21,12-36), anche qualora a perpetrarle siano animali, tanto che, per affinità di tema, si arriva a contemplare il caso di furto di bestiame (21,37). A sua volta, quest’ultimo argomento porta l’attenzione più generale sulla tutela delle proprietà (22,1-14). Quindi, si prende in carico la difesa dei deboli (22,15-26) e di Dio (22,19.27-30). Si passa poi a diverse norme relative al rapporto con il prossimo, anche nel caso della gestione di animali (23,1-9), e, infine, nuovamente, a questioni religiose: l’anno sabbatico (23,10-12) e alcune feste (23,13-19).

Il tutto si chiude rinnovando la garanzia dell’assistenza permanente da parte di Dio (23,20-33), che lega il nostro brano con ciò che segue e che analizzeremo con più calma nella prossima puntata.

Alcuni casi particolari

Omicidio. Può essere interessante riprendere in particolare alcune delle norme inserite in questi capitoli.

Si stabilisce, ad esempio, che chi uccide un uomo vada messo a morte (21,12-14), anche se questi può rifugiarsi in alcune città specifiche, qualora l’omicidio non sia intenzionale (21,13; cfr. Nm 35; Gs 21). Qui l’omicida non può essere arrestato, sempre che non abbia ucciso con inganno, nel qual caso può anche essere strappato via dall’altare del tempio dove si è rifugiato (Es 21,14). Il senso generale pare abbastanza chiaro: la tutela della vita è qualcosa di imprescindibile (cfr. Gen 9,5), al punto che persino quando l’omicidio non è intenzionale, va perseguito. Nello stesso tempo, occorre prevedere delle vie di scampo legittime per chi davvero non ha cercato la morte del fratello. La vita è sacra al di là di ogni intenzione omicida, ma anche la vita dell’omicida è da tutelare.

Questa raccolta di leggi recupera poi anche la norma del taglione, «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede…» (21,21). Questa consuetudine, che a noi oggi sembra crudele, era in origine un limite alle faide e a vendette sproporzionate. Come vedremo tra poco, non dobbiamo dimenticarci che si tratta di regole antiche, che sarebbero state superate già durante l’elaborazione del Primo Testamento.

Donne e spose. È questo contesto arcaico a spiegare anche norme che oggi, fortunatamente, ci paiono disumane e insensate, come quella che equipara sostanzialmente una donna vergine al valore economico che ha per la sua famiglia nel caso che la sua verginità sia violata prima del matrimonio (cfr. Es 22,15-16): si parla di rimborsi, come fosse un costo che lo sposo o il violatore deve pareggiare. Il contesto culturale era quello, incapace di cogliere nella giovane una persona, autonoma e sensibile, benché questa dimensione sia poi pienamente colta in Gen 1-2, testi che vengono scritti probabilmente secoli dopo.

Maghe. Questo stesso spirito «arcaico» si muove nelle condanne a morte delle maghe (22,17) e di chi compie atti di bestialità (22,18). Il motivo di punizioni così gravi è probabilmente da identificare in ragioni religiose: in Egitto si veneravano diversi animali come dèi, e il rapporto con il Dio d’Israele non sopporta manipolazioni magiche, che non coinvolgono la persona ma che lasciano intendere che di Dio ci si possa servire come di uno strumento.

Anno sabbatico. Peraltro, non abbiamo certezze che queste misure così dure siano mai state applicate, così come è rimasto sempre un bel progetto mai applicato quello dell’anno sabbatico (23,10-11). Succede anche a noi oggi, quando offriamo il racconto della nostra vita, e certamente accadeva per i testi biblici, di descrivere come una realtà quello che invece era un desiderio o un progetto che ritenevamo giusto e bello da realizzare. Sono incoerenze che da una parte dicono il limite umano nel non riuscire a tradurre in realtà ciò che è solo ideale, e dall’altra mostrano la capacità di cogliere con onestà che l’ideale è altro rispetto a ciò che si fa.

Il senso nel contesto

Qual è il senso di questi capitoli, allora?

La prima impressione che proviamo di fronte a questi testi è quella di un certo straniamento. Essi sembrano incoerenti con il contesto degli altri capitoli.

Fino a ora, infatti, il libro dell’Esodo ha presentato un poderoso cammino di fede, sia pure in modi e forme narrative inconsuete per noi. Un percorso di approfondimento nella conoscenza e nell’intimità con Dio, nella fiducia in un Signore che si prende carico delle vite umane.

Lo stesso decalogo, come abbiamo visto, lungi dall’essere un elenco di regole, è quasi un manuale d’istruzioni per l’esistenza, criteri di fondo per poter vivere una vita bella e piena.

Qui, invece, improvvisamente, ci troviamo in un testo arido, formale, legalista, che ci parrebbe completamente fuori luogo in un libro tanto ricco.

L’intuizione spirituale antichissima che lo ispira, però, è che i moti profondi dello spirito esigono di essere tradotti in misure pratiche. Una coppia che inizi una vita insieme dovrà mettersi d’accordo su chi fa la spesa, chi cucina, chi pulisce, chi pensa alla posta e alle bollette: tutti questi accordi pratici non sono la ragione per cui si sta insieme, ma la incarnano. Si vive insieme per amore, per dedizione reciproca, cosa che ha un valore spirituale profondissimo, ma che si deve concretizzare in scelte pratiche e minute. Anzi, si dovrebbe addirittura dire che proprio perché ha un valore spirituale profondo si incarna in scelte pratiche.

Il mondo cristiano dovrebbe essere consapevole che non si dà conoscenza di Dio se non nell’umano, non si vive di spirito se non nella carne, non si rende reale un’intuizione dell’animo se non dentro al corpo: anche di questo parla l’incarnazione del Verbo. Ma qui intuiamo che tale percezione profonda era già presente negli autori antichi, che hanno contribuito a formare il Primo Testamento.

Una fede incarnata

Se si vuole essere fedeli al Dio creatore e salvatore, occorre iniziare dal rispetto di norme esteriori e poco importanti in sé, ma che incarnano scelte di vita e di fede fondamentali. Anche riportare al padrone un bue smarrito (Es 23,4) è uno dei tanti modi concreti con cui esprimere la propria fede nel Dio liberatore che ha fatto uscire il popolo dall’Egitto. In questo senso, tutte le norme elencate nei capitoli dal 20 al 23, norme che non sono sicuramente centrali, costituiscono tuttavia la conseguenza pratica dell’adesione all’alleanza.

Per tornare all’esempio della vita di coppia, non è tanto importante chi porti fuori da casa la spazzatura, ma che in quel gesto molto semplice si ribadisce l’intenzione di tenere in piedi e rendere viva un’unione spirituale decisa tempo prima. Il gesto in sé può essere trascurabile, ma è espressione di amore.

Ecco perché queste norme, sicuramente datate e limitate, vengono inserite nella Bibbia, e in una posizione importante. Che non siano regole eterne è dimostrato dal fatto che verranno riprese e modificate almeno altre due volte (nel «codice deuteronomico», Dt 12-26, e nella «legge di santità», Lv 17-26). Qualunque interpretazione letterale di queste norme («Bisogna fare così perché nella Bibbia è scritto così») è una forma di integralismo che non tiene conto del fatto che agli stessi problemi la Bibbia ha risposto nel tempo con leggi diverse incarnate in nuovi contesti di vita.

Detto questo, però, ci è utile capire che nel contesto e nel tempo in cui sono state formulate, quelle regole erano il modo preciso con cui accogliere l’alleanza con Dio. Mantengono un valore autentico di «parola di Dio» per lo spirito profondo che le abita, anche se la lettera è superata dal tempo.

È anche per questo motivo che tali leggi possono, in fondo, restare incompiute. Non è neppure lontanamente ipotizzabile che questo «corpo legale» possa regolamentare la vita di una società intera. Di fatto, si riprendono soltanto alcune questioni, e forse neppure le più importanti.

Non sappiamo se la società ebraica avesse prodotto raccolte di leggi complete (se l’ha fatto, non ci sono arrivate). A chi ha redatto l’Esodo, di certo, questo non importava: bastavano alcuni esempi, non esaustivi, che ricordassero a tutti i fedeli che i grandi moti dell’anima esigono una traduzione corporea.

Al centro c’è l’essere umano

Queste regole incomplete sono attraversate comunque da un’attenzione che era già presente nel decalogo e che è diffusa in tutto il Primo Testamento: ciò che sta a cuore a Dio è la vita dell’uomo.

Possiamo infatti notare che per alcune colpe si prevede addirittura la pena di morte, per altre delle sanzioni che sembrano delle semplici multe. E quasi sempre la pena di morte è prevista per chi ha ucciso altri esseri umani. Per chi ha rubato o danneggiato i beni altrui, sono previste anche pene importanti, ma sempre senza andare a toccare la vita.

Questi capitoli suggeriscono che i beni, il buon nome delle persone, le stesse norme liturgiche, sono tutte cose importanti, ma per Dio lo sono meno della vita delle sue creature. L’essere umano viene prima di tutto, anche prima della legge divina. Questa intuizione, in forme diversissime tra di loro, attraversa tutta la Bibbia. Mai il Dio che impone delle regole si mostra più interessato al rispetto di queste piuttosto che all’esistenza autentica delle persone.

È un’attenzione che si coglie tra le righe in diverse norme: ad esempio, si prevede un limite al tempo in cui uno schiavo può restare tale (21,2-4), salvo che sia lui a non voler essere liberato (21,5-6); una ragazza può essere anche venduta schiava, ma va trattata quasi fosse una moglie (21,7-11); e sono originali e commoventi, nel contesto del Vicino Oriente Antico, le norme che vanno a proteggere orfani, vedove e forestieri, ossia coloro che, in quel mondo culturale, basato sul clan, non avrebbero avuto nessuno che li proteggesse (22,20-23). Alla base di tutto non c’è la gestione ordinata di una società, magari, come spesso succede, allo scopo di tutelare ricchi e potenti, quanto l’attenzione paterna nei confronti di ogni singolo essere umano.

Il rispetto dell’alleanza con Dio comporta insomma di intraprendere percorsi concreti tramite i quali esprimere la scelta religiosa di fondo. Percorsi che sono situati in un tempo e in un contesto, che invecchieranno e saranno superati, ma che continuano a indicare un modo possibile con cui accogliere e rispondere con coerenza all’amore di Dio Padre. Ecco perché il loro valore materiale decade, ma quello spirituale dura sempre, e vengono inseriti nel libro dell’Esodo.

Angelo Fracchia
(Esodo 13 – continua)




Compagni di viaggio


In questi mesi tutte le comunità diocesane e parrocchiali sono impegnate ad approfondire i temi che i vescovi Italiani hanno sottoposto alla nostra riflessione. Si tratta dell’attuazione di quel Sinodo di tutta la Chiesa, voluto da papa Francesco, per offrire a ogni comunità cristiana l’opportunità per una conversione pastorale in chiave missionaria ed ecumenica.

Colpisce come il primo passo proposto dai vescovi per realizzare questo cammino sinodale sia quello di sentirci tutti «compagni di viaggio», persone in cammino non solo con coloro che si dicono credenti e praticanti, ma con ogni membro della società. Pare di risentire il mandato di Gesù ai primi discepoli: «Andate ovunque e annunziate che il Regno di Dio è presente tra noi». Non si tratta tanto di mettere in atto alcune iniziative, ma di fare crescere in noi un «sentire» di fraternità e di solidarietà verso tutti, come di viandanti che battono lo stesso cammino, fianco a fianco e sanno fare propri le gioie e i dolori, le fatiche e i successi dei loro compagni di viaggio.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, questo invito a una partecipazione sinodale rimanda all’esemplarità dei due sacerdoti che sono stati protagonisti nella nascita dei nostri due Istituti: il beato Giuseppe Allamano e il canonico Giacomo Camisassa. Di quest’ultimo ricordiamo quest’anno il centenario della morte. Veramente essi sono stati compagni di viaggio, camminando fianco a fianco per ben 42 anni. Una vicinanza e collaborazione che oggi leggeremmo come autentica «sinodalità». Il padre Domenico Fiorina, già superiore generale dell’Istituto, ha saputo descrivere efficacemente il loro «camminare insieme»: «Vi era impegno nei due di studiare personalmente i problemi in tutti gli aspetti, mettendo poi in comune i risultati a cui ciascuno era giunto. Tutto era visto in senso unitario, quasi come l’azione di una persona sola in cui l’intelligenza, la bontà, la volontà si fondevano in unità. Ognuno portava in questo studio se stesso con tutta libertà, senza costrizioni o timori. Ognuno però teneva il suo posto. Così che non mancava all’Allamano la serena e libera necessità di dovere prendere e fissare una decisione, né mancava al Camisassa la sincera e voluta accettazione di questa decisione e l’impegnata volontà e azione per eseguirla». Questo è un passo importante che tutti noi siamo chiamati a compiere, in questo cammino sinodale. Possa l’esemplarità dei nostri due fondatori essere luce nel discernimento e spinta all’impegno.

padre Piero Trabucco


L’Eucaristia: pane della vita

Il beato Giuseppe Allamano trovava nell’eucaristia il nutrimento della sua vita spirituale
di sacerdote e missionario e voleva che i suoi missionari fossero dei «sacramentini» nel senso
che proprio dall’eucaristia quotidiana dovevano trarre la forza e l’entusiasmo di svolgere l’opera missionaria a cui si erano consacrati.

Comunione con Gesù

Nel discorso sull’Eucaristia, riportato dall’evangelista Giovanni, Gesù si autodefinisce «il pane della vita» (Gv 6,35) e spiega: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). In sostanza, Gesù promette e illustra il mistero che realizzerà nell’ultima cena: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (Mt 26,26.27), che a sua volta anticipa il mistero della morte e risurrezione del Signore. Ecco perché la Messa non è solo «sacrificio», ma anche «banchetto» e «comunione».

Il significato e l’importanza della comunione eucaristica, collegata con il sacrificio eucaristico, sono stati illustrati da san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica «Mane nobiscum Domine» (Signore rimani con noi), che ha accompagnato la Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (ottobre 2004-2005): «Alla richiesta dei discepoli di Emmaus che Egli rimanesse con loro, Gesù rispose con un dono molto più grande: mediante il sacramento dell’Eucaristia trovò il modo di rimanere in loro. Ricevere l’Eucaristia è entrare in comunione profonda con Gesù. “Rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4)».

Nutrimento indispensabile

L’Eucaristia è un pane del quale non si può fare a meno: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53). Sull’Eucaristia come cibo, cioè nutrimento e forza per la vita spirituale, come pure sulla sua necessità per la vita, l’Allamano è molto esplicito. Non guarda tanto alla dignità della persona che riceve l’Eucaristia, quanto alla forza vitale che promana da essa in favore della persona.

Il 6 dicembre 1912, inaugurando la cappella della prima casa madre delle suore missionarie, così si espresse: «Gesù si pose stamane in questo santo Ciborio anche per farsi cibo delle anime vostre; anzi questo è il fine principale della sua dimora. Da quest’altare Egli vi ripete: venite e mangiate il mio pane, che è pane di vita».

L’incontro con Gesù nella comunione eucaristica è un momento importante. L’Allamano insegna a desiderarlo ardentemente e a prepararsi, perché sia realizzato nel modo più fervoroso possibile. I suoi suggerimenti sono semplici, pratici, e sicuramente risentono della sua esperienza personale: «Se ci svegliamo di notte, e al mattino appena alzati, immaginiamo che il Signore ci dica come a Zaccheo: “Scendi presto, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”; e discesi in Cappella, al più presto possibile, diciamo al Signore: “Stamane starò e ti vedrò, ti conoscerò, o Signore”. Queste sembrano piccolezze, ma servono molto; siamo tanto materiali che abbiamo bisogno di queste cose».

«Tre atti servono a infervorarci. L’atto di fede: pensare che proprio là c’è Gesù. Proprio Gesù in corpo, sangue, anima e divinità, proprio vivo com’è in cielo. Avere questo pensiero di fede. Poi umiltà: “Signore, non sono degno”, le parole del centurione, ed esamino le mie miserie. E poi desiderio, amore: “Vieni Signore, non tardare”, desiderarlo di cuore, il Signore vuole amore. Questi tre atti si potrebbero cominciare dalla sera, facendo la preparazione remota alla Comunione. Questi tre atti ci aiutano a fare la comunione con più devozione».

Nutrimento quotidiano

Per l’Allamano l’Eucaristia è «pane da mangiare ogni giorno». Egli era fautore convinto della comunione frequente, giornaliera, pur vivendo in un periodo in cui ciò era poco o quasi nulla attuato anche negli ambienti religiosi. Secondo le testimonianze dei sacerdoti che erano stati in seminario con lui, l’Allamano era tra i pochi seminaristi che frequentavano la comunione ogni giorno. Questa sua esperienza l’ha trasmessa ai suoi missionari e missionarie, pur lasciando ovviamente piena libertà. L’Eucaristia non solo nutre per la vita, ma crea unità. Anche questo aspetto è sviluppato nella già citata Lettera Apostolica «Mane nobiscum Domine»: «Questa speciale intimità (con Gesù) che si realizza nella “comunione” eucaristica non può essere adeguatamente compresa né pienamente vissuta al di fuori della comunione ecclesiale. In effetti, è proprio l’unico pane eucaristico che ci rende un corpo solo. Lo afferma l’apostolo Paolo: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17).

Nel mistero eucaristico Gesù edifica la Chiesa come comunione, secondo il supremo modello evocato nella preghiera sacerdotale: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Se l’Eucaristia è sorgente dell’unità ecclesiale, essa ne è anche la massima manifestazione. L’Eucaristia è epifania di comunione».

Centro di unità

L’Allamano, a sua volta, immagina l’Eucaristia come centro di unità, all’interno dell’Istituto, specialmente in due modi. L’Eucaristia (il tabernacolo vivo) è centro della casa, a cui tutto tende. Ovviamente per casa intende non i muri, ma la comunità.

Inoltre, l’Eucaristia crea e garantisce l’unità perché è Gesù che dal tabernacolo forma i missionari e dà loro una fisionomia unica secondo l’ispirazione originaria. Nella conferenza del 21 dicembre 1919, l’Allamano afferma: «Non dovete accontentarvi di divenire religiosi, sacerdoti, missionari solo per metà; ci vuole proprio il superlativo. E per questo dobbiamo pregare molto Gesù nel tabernacolo; è Lui che deve formarci. I superiori sono solo delle paline che indicano il viaggio per andare a Lui; è Gesù che deve poi fare. Egli ci formerà».

padre Francesco Pavese


Preti, cioè missionari

L’esempio è… Allamano

Presentiamo una sintesi della tesi* di dottorato in missiologia di padre Luca Bovio, missionario della Consolata e segretario nazionale della Pontificia unione missionaria in Polonia, dove lavora dal 2008. Partendo dalla vita e dal pensiero del beato Giuseppe Allamano, sacerdote diocesano di Torino e fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata, l’autore vuole dimostrare che la missione universale fa parte del Dna costitutivo di ogni sacerdote o, più semplicemente, che «prete e missionario» sono… la stessa cosa.

Sono molti gli studi, gli approfondimenti e gli articoli scritti su Giuseppe Allamano dai suoi missionari e missionarie in oltre un secolo di storia, così come esiste una solida bibliografia su di lui, scritta da persone non appartenenti all’Istituto.

L’idea portante della mia tesi di laurea è nata mettendo insieme «la lettura delle Conferenze del Fondatore, raccolte da padre Igino Tubaldo, e il servizio che da anni svolgo in Polonia per le Pontificie opere missionarie, incontrando centinaia di seminaristi, e i numerosi contatti coi sacerdoti nelle parrocchie». Dall’insieme è nato il tema di questo lavoro, che si potrebbe riassumere così: «Ogni sacerdote per sua natura è missionario. Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano».

Missionario… a chilometro zero

Indipendentemente dal lavoro e dal servizio pastorale svolto, la vita dell’Allamano e il suo insegnamento dicono a tutti e, in modo particolare ai sacerdoti, che occorre vivere in pienezza il proprio sacerdozio, uniti misteriosamente per partecipazione a Cristo, sommo e unico sacerdote (Eb 8,1-9). Questa chiamata al sacerdozio trova nella missione la sua naturale realizzazione, non nel senso stretto che tutti i sacerdoti devono partire per la missione (anche se una parte, certamente, dovrebbe farlo), ma che tutti devono avere in sé uno spirito missionario.

L’Allamano, pur nutrendo un sincero desiderio (ancora da seminarista) di partire per le missioni, non riuscì mai a realizzare questo progetto, a causa dei noti problemi di salute. Tutta la sua vita sacerdotale è stata vissuta nella città di Torino, tra il santuario della Consolata (di cui era rettore) e l’adiacente Convitto per i giovani sacerdoti, le conferenze settimanali ai missionari in Casa Madre e gli esercizi spirituali al clero nelle Valli di Lanzo, presso il santuario di S. Ignazio. I viaggi più lunghi che intraprese nella sua vita furono quelli a Roma, per incontrare il papa e recarsi alla congregazione di Propaganda Fide. Mai uscì dai confini dell’Italia.

Mancano completamente i viaggi nelle missioni. Eppure, il suo sacerdozio, vissuto in tanti e diversi incarichi, ha in sé una straordinaria prospettiva missionaria.

Come Cristo, sacerdoti per l’umanità

Come Segretario nazionale della «Pontificia unione missionaria» in Polonia, ho visitato quasi tutti i seminari diocesani polacchi e alcuni di quelli dei religiosi dove ho presentato la vocazione missionaria evidenziando il legame tra sacerdozio e missione lasciandomi ispirare dall’insegnamento di Giuseppe Allamano.

Nonostante gli eventi tragici che hanno toccato la storia della Polonia negli ultimi secoli e il secolarismo che avanza, la Chiesa in questo paese è una presenza significativa.

Nel paese ci sono molti sacerdoti e dal confronto con la figura dell’Allamano, potrebbero trovare aspetti arricchenti per la loro vita sacerdotale, e scoprire che la missione non è un elemento lontano o aggiuntivo al sacerdozio, ma è quell’orizzonte di santità a cui tutti i sacerdoti sono chiamati.

Nel pensiero dell’Allamano la dimensione missionaria è profondamente unita al suo sacerdozio. La missione, per lui, è anzitutto un modo di essere sacerdote prima che fare delle opere, le quali lui stesso non disdegnava, essendone attivo promotore.

La chiave per comprendere il suo essere sacerdote missionario è la sua apertura di cuore e di mente. Egli fu un sacerdote che desiderò profondamente donarsi a Dio e ai fratelli, unendo in sé la dimensione particolare con quella universale. Proprio servendo in verità e profondità le persone incontrate ogni giorno, restò aperto al richiamo dell’umanità intera per la quale Cristo ha donato la sua vita.

Il rapporto tra sacerdozio e missione non è immediato, anzi spesso appare separato nel modo di pensare di chi distingue tra «sacerdoti diocesani» e «sacerdoti missionari». Tuttavia da un punto di vista teologico non c’è differenza tra sacerdozio e missione: ogni sacerdote è per sua natura missionario. Ogni sacerdote, infatti, partecipa dell’unico e universale mistero della salvezza e da questa ampia prospettiva, scaturisce una profonda unità tra sacerdozio e missione.

Occorre, perciò, superare questa divisione e trovare un’unità, fondata su un punto vista teologico e non solo pastorale; quella stessa unità che si può vedere, in modo evidente, nella vita dell’Allamano.

La forma del sacerdozio (o il servizio pastorale) presenta delle differenze: abbiamo sacerdoti diocesani, ci sono sacerdoti missionari, altri professori e insegnanti, o impegnati ancora in vari campi caritativi, o pastorali. Tuttavia, la forma esterna non può mai essere ridotta o separata dalla natura interna, dall’orizzonte universale salvifico di Cristo a cui ogni sacerdote partecipa.

padre Luca Bovio

* Ogni sacerdote è per sua natura missionario.
Un esempio riuscito nella vita e nel pensiero del beato Giuseppe Allamano
, IMC, Varsavia 2020.

 

 




Non diamoci pace


Condividiamo queste poche righe del superiore generale del Missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo. Sono tratte da un documento che egli invia ai missionari, ma certamente sono parole intense che valgono per tutti.

Quest’anno siamo giunti alle soglie della Quaresima “avvolti” dal dramma della guerra scoppiata tra Russia e Ucraina…: una guerra che ha di certo conseguenze ben più vaste… Dolore e silenzio ci trafiggono il cuore… le grida di dolore e sofferenza non potevano che farsi più lancinanti dinanzi a una guerra che è tornata a insanguinare le terre europee e che peraltro deve ridestare l’attenzione sui tanti conflitti che, vicini o lontani da noi, interpellano la nostra coscienza di uomini, di credenti e di missionari.

Davanti a queste guerre e a tanto odio e malvagità ci sentiamo impotenti. Rimane la preghiera e la generosità della nostra vita. Ma, la preghiera autentica ha un prezzo da pagare perché colui che prega in modo autentico, prima che cambiare Dio o la storia, deve lasciarsi personalmente cambiare dall’incontro con Dio, per stare nella situazione in cui si trova con una responsabilità che non viene attenuata o attutita, ma al contrario potenziata dall’incontro con Dio, con il suo desiderio e con la sua grazia.

Cerchiamo di convertire la nostra esistenza per poter non semplicemente giungere a Pasqua, ma per poterla sperimentare nella carne.

Aggiungiamo però un suggerimento: non accogliamo nel cuore e nella mente ciò che è contro la pace (pensieri, parole, azioni) e apriamoci ogni giorno a ciò che la costruisce in noi e attorno a noi! Ogni giorno facciamo CONCRETAMENTE un atto di DISARMO e un atto di PACIFICAZIONE: dobbiamo assolutamente cambiare rotta! Dobbiamo far soffiare venti buoni nel mondo a partire dalle  nostre case! Dobbiamo smetterla di attendere che la pace sia decretata e fatta dai governanti: dobbiamo decretarla e farla noi! E il primo disarmo dobbiamo farlo in noi stessi come diceva il Patriarca Atenagora. Meditiamo a fondo le sue parole: “La guerra più dura è la guerra contro sé stessi. Bisogna arrivare a disarmarsi. Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile. Ma sono stato disarmato. Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più sulle difensive, gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori, ma buoni, accetto senza rammaricarmene. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore. Ecco perché non ho più paura. Quando non si ha più nulla, non si ha più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Egli cancella il cattivo passato e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile.”

Sì: “NON DIAMOCI PACE” FINCHÉ NON CI SIA PACE IN TUTTI E PACE PER TUTTI!

Buona Quaresima e una Santa Pasqua!

Stefano Camerlengo
Da Notiziario IMC, N. 51
Roma, 31 marzo 2022




Decalogo: istruzioni per vivere (Es 20,1-17)


Solo dopo che il popolo ha affermato di voler vivere insieme al suo Dio, riconosciuto come Signore (Es 19,8), riceve la legge: una sorta di sintesi scritta di ciò che Dio si aspetta dai suoi: un documento che si apre con un testo assolutamente centrale per la vita del popolo, tanto è vero che verrà citato da Gesù (Mc 10,19; Lc 18,20), da san Paolo (Rom 13,9) e addirittura ripreso quasi alla lettera in un altro brano del Primo Testamento (in Dt 5,6-21). Non è frequente che due passi biblici siano uguali: il Deuteronomio riprende la rivelazione e la ridice in un altro modo, ma quando arriva al Decalogo preferisce usare quasi le stesse parole, salvo pochi cambiamenti. Uno scrittore che si comportava così, nell’antichità, lasciava intendere che non si sarebbe potuto riscrivere meglio il testo, che restava quindi intatto. Non è un plagio, è un omaggio.

Un modello di morale?

Nella tradizione ebraica e cristiana il Decalogo è diventato la sintesi delle norme morali, da insegnare al catechismo e da utilizzare per l’esame di coscienza. L’impressione era, infatti, che raccogliesse tutto ciò che Dio «comandava» agli esseri umani. Intorno al Decalogo si è spesso strutturata la morale. Esso è servito come strumento d’ordine di tutti i doveri e i divieti, religiosi e non, a volte elaborati anche al di là del suo stretto contenuto.

Una lettura un po’ attenta ci aiuta però ad accorgerci che dentro al testo del Dealogo c’è qualcos’altro. Qualcosa di più prezioso di un codice di comportamento etico.

Nelle nostre presentazioni del Decalogo spesso si parla di due parti (d’altronde, Es 34,29 parla di due tavole di pietra), una prima riguardante le relazioni con Dio, che coprono tre comandi, e l’altra sui rapporti con gli altri uomini. Nei secoli di elaborazione da parte della Chiesa, poi, gli ultimi comandamenti hanno finito con l’essere molto ampliati (a essere onesti soprattutto il sesto) dando l’impressione che essi avessero un peso maggiore. Possiamo però notare che nell’antichità, lo scrittore faceva come oggi fanno spesso gli insegnanti: dava maggiore spazio a ciò che riteneva più importante, a costo di ripetersi. Possiamo allora notare che ai primi tre comandamenti nel testo dell’Esodo sono dedicati dieci versetti, per un totale di 134 parole (in ebraico), mentre gli altri sette coprono nove versetti, ma solo 44 parole. La prima parte, insomma, è decisamente più ampia, perché evidentemente chi l’ha scritta la considerava molto più importante.

Ma anche un altro particolare ci stimola a ripensare il senso del Decalogo. La prima affermazione del testo, infatti, può sembrare strana per un elenco di norme (Es 20,2: «Io sono il Signore, tuo Dio»): non ordina niente. Sembra piuttosto una presentazione, quasi una premessa, in cui Dio spiega chi è. In effetti le tradizioni catechistiche l’hanno trattata come un’introduzione, che però nel testo è un’altra, al versetto 1 («Dio pronunciò tutte queste parole:»). In più, si tratta di un’autopresentazione ampia, in cui Dio si definisce con il suo nome proprio, poi aggiunge che si tratta del «tuo Dio», precisando di essere colui che ha fatto uscire il popolo dalla terra d’Egitto, «dalla condizione servile». Non si tratta semplicemente di una carta d’identità, ma della spiegazione della relazione che lo lega a Israele. E questa relazione è di salvezza, di liberazione, di legame interiore con qualcosa di nuovo. «Io sono il tuo Dio»: tu hai un Dio, non sei abbandonato, non sei solo, non rimani senza custodia e accompagnamento. Pensavi di essere solo, ma non lo sei; di più, hai accanto a te un Dio, che è tuo.

Un’intuizione e le sue conseguenze

Se lo ripensiamo così, il Decalogo acquisisce subito un’intonazione diversa. Non si tratta più di dover rispettare delle regole, magari specificando quali punizioni o conseguenze ci saranno per i trasgressori. Si tratta invece, come intuizione di partenza, di renderci conto che non siamo soli.

Israele, questo popolo che ancora non ha scoperto di essere un popolo, ha un Dio. E non nel senso che abbia qualcuno da venerare, per il quale faticare, a cui presentare offerte. Ha un Dio perché colui che lo lega a sé lo ha già liberato, lo ha fatto uscire dall’Egitto che era una terra di schiavitù.

Quella che ci sembrava una pallida introduzione ai comandamenti, è in realtà il cuore pulsante di tutta questa pagina: il popolo ebraico, e chiunque vorrà mettersi su quella strada, non è solo. Non siamo soli. C’è un Dio pronto a mettersi dalla nostra parte e a muoversi per primo, rendendoci liberi. Perché non è un Dio che cerchi schiavi, ma persone autonome che decidano di legarsi a lui non per costrizione ma per amore, non servi ma amici, o addirittura sposi (cfr. Os 2,21-22; Is 61,10-11; Ez 23; Gv 15,15).

Al primo versetto del nostro testo, Dio si presenta al suo popolo, ma per presentarsi non usa una definizione filosofica, non dice «Io sono l’essere perfettissimo…». Al contrario, si presenta in relazione: «Io sono il tuo Dio, io ti ho fatto uscire dall’Egitto». Non si presenta in astratto, ma in rapporto con coloro con cui parla. Non è l’amore, è l’amante.

Letta così, la prima frase non può essere una semplice introduzione, ma l’intuizione di fondo. Israele non è solo, noi non siamo soli. Dio c’è, ed è in relazione con loro, con noi. Il resto, in fondo, sono conseguenze.

Se Dio c’è, ed è in relazione con Israele, perché andare a cercare altri dèi («Non avrai altri dèi di fronte a me», Es 20,3)? Non ce n’è bisogno. Dio c’è già.

Ma non solo non c’è bisogno di cercare degli dèi. Bisogna anche evitare di trasformare il Dio d’Israele in un amuleto, in qualcosa di oggettivato, di fisso, di rigido, di «sicuramente nostro». Anche questo dice il versetto 4 («Non ti farai idolo né immagine alcuna…»), che è stato inteso nella tradizione ebraica come invito a evitare di farsi una qualunque immagine di Dio (anche perché l’immagine di Dio, nel mondo, esiste già, ed è l’uomo che vive: cfr. Gen 1,26; S. Ireneo dirà che «gloria di Dio è l’uomo vivente»). Ma in più c’è l’intuizione, colta plasticamente nell’episodio del vitello d’oro (Es 32), che in assenza di Dio non si sia più liberi, ma si diventi servi di altro, oltre tutto di qualcosa che non è superiore all’uomo. Chi ha Dio come Signore, invece, non ha altri signori.

Un sostituto di Dio, poi, può essere, sì, un idolo, ma anche la tentazione di ridurre il Dio vivente a un’immagine sola, a un’idea sola. Es 20,4 ci dice che Dio continuerà a sorprenderci, pur continuando a essere affidabile. È vivo, non è un ritratto o una statua, non è un’idea sempre rigida e fissa. Potrà anche essere imprevedibile, arrabbiarsi e castigare, anche se promette già che manterrà l’ira per tre o quattro generazioni, ma la bontà per mille (Es 20,5-6).

A cerchi sempre più larghi

Il testo del Decalogo parte da questo discorso di fondo e lo sviluppa come una serie di conseguenze man mano più ampie.

Se JHWH è il nostro Dio, non c’è bisogno di cercarne altri. Ma a questo punto, come ulteriore conseguenza, occorre evitare di appellarci a Dio per ciò che non è da Dio (v. 7). È inutile pretendere che possa salvaguardarci e vivere al posto nostro, sostituirsi alle nostre decisioni, cambiare il mondo compiendo ciò che sarebbe affidato a noi. Sarebbe un «invocare Dio invano», perché se ne ridurrebbe il ruolo a qualcosa di infimo e marginale; come sposarsi per avere a disposizione una cuoca o uno spaccalegna. Dio si propone come nostro compagno, come garanzia ed esito della speranza, non come tappabuchi alle cose che, nella nostra vita, potrebbero non funzionare.

E ancora, e sempre di conseguenza: se Dio può essere questo elemento centrale della vita umana, occorre trovare tempo per lui. Lui per primo è consapevole che la nostra vita si muove tra moltissimi impegni e urgenze. Ma se riconosciamo che qualcosa è centrale nella nostra esistenza, sentiremo il bisogno di donargli tempi e spazi. Non necessariamente la parte maggiore del tempo, di certo, ma la più importante. «Tempo di qualità», diremmo noi oggi, senza però aver inventato l’idea. Secondo l’intuizione dell’Esodo, si tratta di un giorno su sette, destinato a recuperare ciò che ci fa autenticamente esseri umani, anzi creature, se è vero che al riposo settimanale sono richiamati non solo tutti gli esseri liberi, ma anche gli schiavi e il forestiero e addirittura il bestiame (v. 10: «il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore»). Di più, persino Dio si è fermato il settimo giorno (20,11), perché il ritorno all’essenziale della nostra esistenza, indipendentemente da tutto il lavoro più urgente che dobbiamo accollarci, è un’esigenza dei viventi tutti.

Fino a coinvolgere gli altri

I cerchi non si fermano. Il v. 12 («Onora tuo padre e tua madre») sembra quasi collegare la dimensione divina con quella umana. Invita a «dare peso» ai genitori, che rappresentano ciò da cui veniamo senza averlo deciso, il dono di una vita che è in nostra gestione ma non ci siamo guadagnati. Non si toglie l’autonomia alle persone libere, non si dice che occorra ubbidire a ogni ordine dei «padri», ma che va concessa loro importanza, rilievo, peso. Non ci siamo fatti da noi, occorre riconoscerlo.

Nei primi «comandi», quelli fondamentali, il testo offre anche delle motivazioni. Qui lo fa per l’ultima volta, indicando, più che la ragione, lo scopo: «perché si prolunghino i tuoi giorni». Il verbo ebraico può essere tradotto «allungarsi» («prolunghino» nella traduzione Cei), come fanno tutte le versioni moderne, ma anche «approfondirsi», come se la percezione di ciò da cui veniamo, la consapevolezza di dover essere grati per un dono che non ci siamo cercati, permetta non solo di allungare il tempo della nostra vita, ma (soprattutto?) di viverlo in profondità, conoscendone il pregio. È diverso il nostro rapporto con un oggetto che ci siamo comprati da quello che abbiamo con un regalo ricevuto.

Gli altri comandamenti, più veloci e secchi, si pongono a questo punto ancora come conseguenza dell’intuizione di fondo iniziale.

Dal momento che conosco il pregio della mia vita, rispetterò anche quella altrui («Non uccidere», v. 13).

Anzi, non mi limiterò a rispettare la vita fisica, ma anche quella dimensione di speranza e costruzione di vita che è soprattutto il legame di coppia: «Non commettere adulterio» (v. 14). Questo comandamento nella tradizione si è ampliato a tutti i reati sessuali, ma non è così nel testo biblico, il quale non sembra tanto interessato al sesso in sé, quanto alla relazione tra persone.

Ma sono a servizio della vita anche i possedimenti altrui («Non rubare», v. 15), e il buon nome che tutela una piena vivibilità dell’esperienza umana («Non risponderai contro il tuo prossimo una testimonianza falsa»: v. 16).

All’ultimo cerchio concentrico troviamo anche il semplice desiderio dei beni degli altri, perché sentirsi minacciati nelle proprie «cose» rende precaria la vita. L’elenco del v. 17 («Non desidererai la casa del tuo prossimo», la moglie, lo schiavo, il bue, l’asino, ecc.) risente di una cultura contadina arcaica, nei fatti molto maschilista e pronta non solo a considerare la moglie uno dei tanti beni, ma a metterla in un ordine approssimativamente di costo economico: per questo viene dopo la casa, anche se prima del bue… (v. 17).

È come se, progressivamente, si cogliessero, una per volta, le conseguenze del passo precedente. Al centro di tutto, però, come causa prima delle nuove intuizioni, c’è la percezione che non siamo soli, che Dio è con noi, che è in relazione con noi, che intende salvarci. Tutto il resto è conseguenza. E non tanto comando, ordine, quanto, per così dire, percorso per assomigliare sempre più a Dio, istruzioni per vivere bene questa relazione con lui che trasforma la nostra vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 12 – continua)




Alleanza (Es 19)


Lo abbiamo già detto: nel nostro immaginario, condizionato ad esempio dalle riduzioni cinematografiche, la vicenda dell’Esodo, spesso, si concentra e si conclude sul passaggio del Mar Rosso, miracoloso e spettacolare.

Se seguiamo, però, la logica del racconto biblico, il cuore della vicenda non sta nel passaggio del mare, ma in ciò che succede più avanti, nel capitolo 19, il punto di svolta decisivo.

Il popolo d’Israele, fidandosi in modo progressivamente sempre più intenso e radicale, si è lasciato condurre da Dio fuori dall’Egitto, al di là del mare. È stato nutrito dalla manna, dall’acqua, dalle quaglie; ha vagato nel deserto, sostenuto da un Dio che si è mostrato guida di giorno, sotto forma di colonna di nubi, e protezione di notte, come colonna di fuoco; ha imparato a collaborare con Mosè scegliendosi giudici che ne alleggerissero in parte il lavoro. Ma ancora vaga nel deserto senza un punto fermo. È giunto quindi il momento di porne uno in modo definitivo.

Le radici nel passato (ES 19,1-4)

Diversi commentatori moderni hanno richiamato l’attenzione sulle incoerenze del testo, che in questi capitoli sembra faticare a presentarci spostamenti ed eventi in modo lineare. Di solito, questo è un segno di abbondanti riletture e riscritture, e quindi di quanto, lungo i secoli, si siano ritenuti centrali questi episodi.

I biblisti spesso amano indagare queste incoerenze per capire le caratteristiche delle aggiunte e delle correzioni, e poi stabilire se è più importante la versione di partenza o il testo di arrivo. Qui non si intende negare l’importanza di tali indagini e ricostruzioni, noi lettori ci troviamo però davanti a un libro offerto a noi in una forma definitiva, l’unica a disposizione del nostro ascolto e della nostra meditazione. Chi ha composto la versione finale del libro, in ultimo, era convinto che fosse sufficientemente comprensibile e significativo. Per questo, senza disprezzarli, tralasciamo tutti i pur preziosi tentativi di ricostruzione storica e cronologica, evitando di addentrarci con troppa pignoleria sui tempi e glispostamenti delle vicende raccontate.

Così facendo, peraltro, siamo coinvolti in un percorso che è particolarmente significativo anche per noi, per i nostri cammini di fede moderni.

È vero che in Genesi ci troviamo davanti un’esperienza di fede limpida come quella di Abramo, pronto a stare al gioco divino senza argomenti e motivazioni, e semplicemente fidandosi. Chi ha composto l’Esodo, invece, pare dire che, senza nulla togliere a quella fede eccezionale, il percorso degli uomini è di solito diverso.

Lo stesso Mosè ha titubato non poco di fronte alla chiamata di Dio (Es 3-4), prima di farsi suo portavoce coraggioso e deciso. Gli ebrei sembrano aver dapprima assistito quasi passivamente allo scontro tra Mosè e il faraone (Es 5-10), ma poi hanno dovuto decidere da che parte stare, «denunciarsi» come ebrei nella notte di Pasqua, partire all’avventura (Es 11), affrontare la minaccia angosciante e mortale del mare (Es 12) e poi il deserto.

Su ali d’aquila

Ora, al capitolo 19, dopo tante settimane o mesi di percorso, Dio li invita a guardarsi indietro, a ricordarsi della schiavitù e di come ne sono venuti fuori, «come sulle ali» di un rapace. Di un’«aquila», dicono le nostre traduzioni del salmo 90. Alcuni propongono, con qualche ragione, che il salmo si riferisca piuttosto a un «avvoltoio», uccello – è vero – impuro, ma che gli ebrei ammiravano non solo per il suo volo tanto controllato, ma anche per la cura che presta ai suoi piccoli. Non è raro che non riusciamo a ricostruire il senso preciso, esatto, di un termine ebraico nella Bibbia, ma comunque è chiaro il messaggio: il salmista pensa a un uccello in grado di volare sicuro, padrone dell’aria, e mosso da un esemplare affetto da genitore.

Si potrebbe obiettare che in realtà il cammino del popolo nel deserto non sia stato per nulla come un volo su ali d’aquila. È stato, anzi, difficile, tra ansie, rimpianti, fatiche, fame e sete, calura, incertezze. Il testo biblico, però, molto spesso non pretende di essere un resoconto formale, ma piuttosto il racconto di un innamorato. Dio non assomiglia a un poliziotto che redige un verbale, ma a un amante che ricorda gli inizi della sua storia di coppia. E per lui, dal momento che il cammino nel deserto ha portato all’incontro decisivo nel quale può finalmente porre al suo amato Israele la domanda fatidica, è un cammino buono, compiuto come in volo. Fatica e tempo non contano, perché finalmente si è insieme.

C’è poi un elemento essenziale, in questa presentazione. Spesso gli esseri umani immaginano di dover dare qualcosa a Dio, convincerlo, sedurlo, per averne qualcosa in cambio. Qui, invece, il primo a dare, a mettersi in gioco, è l’Altissimo, e non l’uomo. Prima Dio agisce, e solo dopo offre all’uomo di entrare in una relazione più stabile. Anche questa, peraltro, non viene imposta all’uomo, quasi fosse un pagamento obbligatorio per la salvezza, ma gli è offerta come proposta, come possibilità a cui l’essere umano è chiamato a rispondere liberamente.

Tutto fa pensare non a un rapporto tra padrone e servo, ma a una relazione tra amanti. Dio spera e desidera di essere scelto liberamente, di essere amato. Non pensa di avere diritto a pretendere dall’uomo di essere onorato.

Alleanza come matrimonio

Quello che Dio prospetta al popolo, qualora esso decida di sceglierlo come suo Signore, ha in effetti a che vedere con un legame personale più che con un servizio formale. Dio propone un’alleanza, un patto che si stringe solo tra chi si considera alla pari (anche quando, come in questo caso, i due non sono affatto allo stesso livello). L’uomo può rifiutarsi di accogliere la relazione.

Da parte sua, però, Dio può proporla consapevolmente e in modo non superficiale perché, spiega, «mia è tutta la terra» (Es 19,5). Se avesse voluto, avrebbe potuto andare a prendere il suo popolo ovunque. Il fatto di scegliere proprio Israele è, per il popolo, la garanzia che il Signore vuole restargli vicino e fedele sempre, perché non ci sono poteri esterni che possano separarli. Tra i vari popoli di tutta l’umanità, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha deciso di restare fedele al gruppo guidato da Mosè, e si pone davanti a lui in attesa di una risposta. Gli prospetta di farne una «proprietà particolare», una «cosa sua».

L’espressione potrebbe in teoria far pensare a un possesso, se non fosse accompagnato da tutte queste formule che, insieme alla libertà di scelta, rimandano a un legame personale, quasi come fosse un matrimonio. Non però un matrimonio come lo si viveva al tempo di Mosè, dove gli sposi a volte non avevano grande libertà di scelta (e quasi nessuna ne aveva la donna!), ma come lo concepiamo noi, tra due libertà che decidono di vincolarsi a vicenda perché si riconoscono reciprocamente come promessa di vita piena. E se una prospettiva di questo tipo è comprensibile per l’uomo, non può che stupirci che anche Dio attenda del bene dalla sua relazione con l’essere umano.

Certo, in seguito a questa decisione anche umana, il Signore potrà presentarsi come «Dio geloso» (Es 20,5; 34,14), ma parliamo della gelosia di un amante equilibrato, che sa di dover custodire con cura la relazione più importante della sua vita, quella che costituisce per lui qualcosa di unico, insostituibile. Potrebbero dirlo gli uomini, ma lo dice anche Dio.

Una missione comune (Es 19,6)

Come un fidanzato che prospetta alla su futura sposa come sarà la vita insieme, così Dio spiega al suo popolo, da cui attende una risposta, quali progetti ha su di lui: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».

A noi la parola «regno» non evoca quello che diceva ai lettori antichi. A noi, guardando soprattutto alle esperienze delle monarchie assolute dei secoli passati, richiama inevitabilmente l’opposto di repubblica e l’idea del dominio di uno sugli altri. Nell’antichità non era così: le popolazioni potevano strutturarsi in clan disordinati, spesso nomadi, o in regni. Il re era colui che imponeva la direzione di fondo a una comunità organizzata di persone, era concepito come l’ordine in mezzo al caos.

E Dio indica anche la direzione generale che immagina prenderà questo suo regno: sarà una nazione «di sacerdoti». Il sacerdote era colui che mediava tra l’umanità e Dio, tra il cielo e la terra. Faceva salire al cielo le offerte e ne faceva discendere la volontà divina, garantendo così l’ordine nell’universo, perché assicurava la comunicazione tra le sue due entità più significative.

Quello che Dio prefigura, insomma, è che gli ebrei, riconoscendolo come Dio, avrebbero potuto far dialogare la storia e l’eterno, il trascendente e il mondano, a beneficio di tutti (un sacerdote non si limita mai a mediare solo per sé). Dio sta sognando un suo rapporto con tutti gli uomini, garantito dagli ebrei. Li chiama a collaborare alla sua opera di vita e salvezza per tutti.

Per questo può dire loro che saranno una «nazione» messa da parte, riservata, «santa».

Gli ebrei, nei secoli, distingueranno il loro ruolo (di «popolo») da quello di tutti gli altri (che sono definiti «nazioni», «genti»). Qui Dio usa il termine che solitamente si utilizzava per indicare «gli altri» applicandolo agli ebrei. Parola accompagnata però dall’aggettivo «santo». Il «santo» non indicava, come poi si è inteso nella storia più recente, una persona dalla vita vissuta in modo esemplare e perfetto, bensì uno che era messo da parte, riservato, solitamente, per Dio. Con questo Egli riconosce che i discendenti di Giacobbe sono una nazione come le altre, ma che diventerà speciale agli occhi dell’Altissimo, esattamente come una fidanzata riconosce che esistono tanti uomini nel mondo, ma ha occhi solo per il suo amato.

La risposta umana

Per fortuna ci manca il tempo per metterci a fantasticare sulla possibile ansia divina nell’attendere la risposta degli ebrei. E anche il libro dell’Esodo risolve in fretta la risposta umana. Tutto, nel testo, lascia però intendere che davvero Dio lasci pienamente liberi coloro che ha strappato dalla schiavitù dell’Egitto.

Certo, l’antichità non pensava alla libertà del singolo e insisteva sulla dimensione comunitaria (saranno poi i profeti a cogliere che davanti a Dio siamo più propriamente individui). Ma la libertà di scelta è garantita, difesa, voluta da Dio, che non cerca servi, ma amici (cfr. Gv 15,15).

Cogliamo forse adesso quello che evidentemente era già chiaro a Dio fin dall’inizio (Es 3,12): il percorso di liberazione poteva essere compiuto solo arrivando qui, per essere non più schiavi del faraone, ma servi del Signore, in un rapporto di esclusività che sia però scelto consapevolmente, e non subìto come imposizione. È la differenza che passa tra servire per ubbidienza o per amore.

E la risposta del popolo arriva veloce: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La successiva visione di Dio che avvolge il monte è quasi la festa davanti al «sì» del popolo.

Angelo Fracchia
(Esodo 11 – continua)