Amante della gioia


Anche chi non conosce molto dei Vangeli, di certo sa che Gesù ha compiuto il suo «primo miracolo» trasformando l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11).
Chiunque abbia frequentato un po’ il Vangelo di Giovanni, però, è ben consapevole che esso è un’opera complessa, dove il messaggio più immediato è vero, ma rimanda anche a qualcosa di più profondo. D’altronde, è l’evangelista stesso a suggerirlo quando definisce i miracoli di Gesù non «prodigi», come fanno spesso gli altri vangeli, ma «segni». Un segno, si sa, non ha valore soltanto per se stesso, ma perché rimanda anche ad altro.

È possibile, allora, che anche un racconto che in apparenza è molto semplice nasconda insegnamenti ulteriori, come peraltro la sua posizione all’inizio del Vangelo potrebbe farci sospettare. Per coglierli, lasciamo che sia il racconto a guidarci. Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa dice a un primo livello (che resta autentico e significativo), e quali indizi ci dà lo scrittore per scendere al secondo livello.

Non troppo ascetico

Tutte le tradizioni religiose, ma in fondo tutte le scelte di vita, anche quelle politiche o sportive o dello spettacolo, ci insegnano che per raggiungere un risultato dobbiamo fare grosse rinunce. Una certa tendenza ascetica c’è in ogni scelta di vita seria.

Può quindi stupirci un po’ (ma probabilmente anche farci piacere) che il primo gesto pubblico di Gesù è di andare a una festa di nozze. Il tono del Vangelo, finora, è stato molto solenne, tanto che difficilmente ci saremmo aspettati una svolta di questo tipo. In più, in questo banchetto, sembra di cogliere non poca improvvisazione. Ci viene detto, infatti, che a Cana di Galilea c’è una festa di nozze alla quale è presente Maria, mentre Gesù con i suoi discepoli è invitato quasi come aggiunta, come recupero pensato all’ultimo momento (v. 1-2). Le feste nuziali del Vicino Oriente, spesso ancora oggi, non assomigliano tanto ai nostri pranzi di matrimonio con il numero e la disposizione esatta degli invitati programmati in anticipo, quanto più a una festa di paese, dove qualche posto si può sempre aggiungere. Sembra che questa sia la situazione di Gesù, che si unisce a Maria e si porta dietro anche i suoi nuovi discepoli. Se Gesù ci mostra il volto del Padre, la prima istantanea che ci regala in questo passo è di un Dio un po’ diverso da quello dei filosofi (o dei catechismi, a volte). Se abbiamo in noi l’immagine di Dio come di un vecchio severo con la barba bianca e mai un sorriso, ecco, qui ci troviamo di fronte a un Padre giocoso, a cui non dispiace il clima umano della festa, anche se un po’ improvvisata e approssimativa. Pronto a divertirsi in semplicità e calore.

Ma se abbiamo parlato di improvvisazione, è perché il racconto ce la fa intuire tramite le parole di Maria rivolte a Gesù: «Non hanno vino». Che idea ci si può fare di qualcuno che per delle nozze non mette a disposizione abbastanza vino? Pazienza per il cibo, alla fine ce n’è sempre troppo, ma non si può fare festa senza bere. In più, non sono neanche stati capaci di rimediare con discrezione: infatti deve intervenire Maria, un’invitata, che ne parla al figlio.

Un secondo livello?

La risposta di Gesù all’osservazione di Maria («Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora») è tanto strana da costringerci a fermarci, rileggerla e poi chiederci, perplessi, che cosa sia successo o se voglia dire qualcosa di particolare. Probabilmente questa nostra reazione è esattamente quello che lo scrittore voleva suscitare in noi lettori, ossia che ci fermiamo e notiamo i particolari con stupore, così che non ci sfuggano. Come l’autore di un giallo, Giovanni vuole farci notare che ci sta dando un indizio.

Intanto ci domandiamo: ma davvero Gesù può parlare così a Maria? Lo sappiamo tutti che non si risponde con quel tono a una mamma.

Quel secco «donna», di certo, non suona brutale solo a noi: avrà scioccato anche i primi lettori del Vangelo.

È una parola che richiama la nostra attenzione. Per questo vale la pena soffermarcisi: può essere l’indicazione per intuire più in profondità il senso del versetto. Usata come appellativo rivolto a Maria, la ritroviamo in Gv 19,26 quando Gesù sta per morire in croce, cioè quando è arrivata la sua ora, e sotto la croce si trovano «la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava». Non è certo un contesto nel quale ci si possa lasciare andare a espressioni fuori luogo.

Qui però ci sembra quasi di dover spiegare un enigma con un altro enigma: ad esempio, chi è «il discepolo che egli amava»? Di solito si risponde Giovanni l’evangelista, come ci dice la tradizione. Questo perché si parla di questo discepolo solo nel suo Vangelo, quindi deve trattarsi di lui. Se però fosse davvero l’autore del Vangelo a definirsi così, di certo non sarebbe segno di umiltà e, senza dubbio, avrebbe deciso di usare una formula un po’ ambigua che pare suggerire il fatto che Gesù non amasse gli altri discepoli. La tradizione, per provare a mettere ordine, l’ha intesa come il «discepolo prediletto», nel senso che sì, ovviamente amava tutti, ma a Giovanni era più legato, come può lecitamente succedere tra gli esseri umani. Il Vangelo, però, non parla di predilezione, ma proprio del «discepolo che Gesù amava»; un discepolo che, altrove, è caratterizzato dal fatto di essere veloce a intuire, pronto di riflessi ma in piena umiltà, un discepolo che non guida gli altri ma è rapido a giungere alla fede (pensiamo a Gv 20,1-8 e 21,7). C’è allora da pensare che in questa espressione si nasconda il discepolo ideale, il modello di discepolo, quello che ognuno di noi è chiamato a essere, che magari non ha incarichi particolari nella Chiesa ma vive nella fede il rapporto con Gesù. Se sotto la croce, quindi, quel discepolo è un simbolo dei credenti cristiani, di ciascuno di noi, allora anche «la madre» probabilmente è un simbolo. Ma di cosa? Se ci pensiamo, sarebbe ben curioso che Gesù si ricordasse solo in quel momento di affidare sua madre a qualcuno, dopo tre anni che se ne andava in giro e non badava a lei. È ben difficile che, nel contesto teso e solenne della crocifissione, Gesù pensi a non lasciare in giro bollette non pagate.

Maria è il «luogo» dal quale viene Gesù. Egli nasce, come tutti, da una donna, ma anche da una tradizione (che peraltro erano le donne a dover trasmettere). Gesù è figlio di tutta la storia religiosa del popolo di Israele (che è un nome femminile nella Scrittura), spesso presentato come una donna in attesa dello sposo (Dio), simbolicamente raccolta nell’immagine della «figlia di Sion» (nei profeti, e poi in 2 Re 19,21; Sal 9,15, e anche in Gv 12,15). Interpretate simbolicamente, quelle parole di Gesù sulla croce sono ricchissime: mentre muore, Gesù invita la tradizione religiosa del Primo Testamento a riconoscersi nella Chiesa, e questa a essere riconoscente nei confronti di colei da cui viene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26), proprio ciò che la Chiesa cristiana ha fatto accogliendo e onorando tra le proprie Scritture quelle ebraiche.

In continuità con il passato

Tutto questo ragionamento, ci riporta a Cana: già in quell’episodio la «madre di Gesù» è anche simbolo della comunità religiosa del Primo Testamento? Se così fosse, si capirebbe l’insistenza, altrimenti strana, sulle anfore in pietra (Gv 2,6), con l’allusione alla «purificazione rituale dei giudei»: a Giovanni sarebbe bastato scrivere che i servi avevano preso dell’acqua, ma l’evangelista voleva indirizzare lo sguardo del lettore sulla tradizione ebraica: è (anche) quella a segnalare che c’è una mancanza nell’umanità che fa festa, e a indicare Gesù come colui che è da ascoltare, per risolvere il problema. Non sa spiegare che cosa Gesù farà, ma sa dire che c’è da seguire lui.

I profeti e la legge contenuti nel Primo Testamento non «deducono» la figura di Gesù, ma sanno suggerire che Dio tornerà a prendersi cura dell’umanità, entrando nell’umanità stessa. Gesù compie le attese del Primo Testamento, pur in parte sorprendendole.

E non solo: è la madre a sollecitare Gesù a intervenire. Non pregandolo o comandandoglielo, perché non potrebbe. O meglio: Maria, madre fisica di Gesù, potrebbe chiederglielo o persino ordinarglielo (la tradizione ebraica è molto esigente per quanto riguarda i doveri dei figli, soprattutto maschi, nei confronti dei genitori), ma è evidente che qui Giovanni non sta pensando a lei, quanto al suo ruolo simbolico. La tradizione del Primo Testamento non è padrona di Gesù, che è totalmente libero di agire o astenersi dall’azione. Però lo inserisce in una storia in cui il Dio di Israele è pronto a commuoversi per la sofferenza umana, a farsi coinvolgere nella vita dei suoi e anche a violare le proprie norme per non perdere la relazione con l’umanità (ci porterebbe fuori strada affrontare questo tema, ma nel Primo Testamento accade spesso che Dio «minacci» il suo popolo di rompere la comunione con lui se non rispetta le sue «leggi», e che poi, però, faccia un passo indietro, preferendo perdere la faccia piuttosto che il rapporto con l’essere umano).

Non sarà ancora giunta la sua ora, ma Gesù, se vuole essere fedele a quel Dio del Primo Testamento, non può restare indifferente di fronte all’imbarazzo umano e, sia pure senza dire di aver cambiato idea (come pare umano anche in questo), di fatto si mette a disposizione di quella festa, «inventandosi» un modo di risolvere l’impaccio che è senza precedenti nella Bibbia.

Il volto del Padre

C’è qualcosa di nuovo che questo episodio ci mostra sul volto divino?

Prima di tutto Gesù ci mostra un Padre che non si vergogna dell’umanità anche nei suoi aspetti più «banali», di festa, di gioia semplice, persino disorganizzata e improvvisata. Non ci troviamo di fronte a un Dio rigidamente perfetto, che esige dei figli impeccabili, ma a un amante della vita, che ci potremmo immaginare sorridere al vedere il banchetto e le bevute e inquietarsi all’idea che la festa possa rovinarsi prima del tempo.

E poi ci troviamo di fronte a un Padre fedele e imprevedibile, che non abbandona mai la sua amicizia con l’umanità e, allo stesso tempo, sa anche inventare soluzioni nuove e impensate ai problemi che si presentano, anche quando, in sé, potrebbero non sembrare problemi vitali. Un amico capace di sorprese infinite, ma che gli amici non li abbandonerà mai.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 02 – continua)


Un dono specialissimo per voi

È disponibile in versione pdf la raccolta dei 38 articoli di Paolo Farinella su «Le nozze di Cana», pubblicati in questa rivista tra il febbraio 2009 e il gennaio 2013.

Un lavoro appassionante alla scoperta e approfondimento di uno degli episodi più belli e gioiosi dei Vangeli.
240 pagine da leggere con il cuore.

Cliccare sull’immagine per scaricare.

Augurandovi una proficua lettura, ci permettiamo di ricordarvi che un’eventuale donazione ci aiuterà a continuare a servirvi al nostro meglio.
Grazie.

 




Allamano. Giubileo sacerdotale


Il 20 Settembre 2023 ricorrevano i centocinquanta anni dell’ordinazione sacerdotale del beato Giuseppe Allamano. Mentre stiamo ancora godendo la notizia dell’approvazione, da parte della commissione medica del Dicastero per le cause dei santi (manca ancora quella della commissione teologica), del miracolo che dovrebbe portarlo alla canonizzazione, è motivo di riflessione ricordare questo giubileo che segna la fedeltà di Dio nella vita del beato.

Il sacerdote è una persona che si dona generosamente nel servizio al popolo di Dio, che offre fedelmente il sacrificio eucaristico e la preghiera per il bene della Chiesa, portando speranza e consolazione alle persone nelle quali il calore dell’amore di Dio si è spento.

Giuseppe Allamano si era preparato a essere consacrato durante il tempo del seminario con un impegno sistematico verso la perfezione e la santità attraverso sacrifici ed esercizi ascetici quotidiani. La sua vita sacerdotale fu notevole: si distingueva per l’unità, l’armonia e l’equilibrio con cui teneva assieme contemplazione e azione. Era un riflesso della sua vita interiore e del suo intimo rapporto con Dio alimentato dalla preghiera. Era centrata nell’Eucaristia e nell’amore per la Consolata.

L’Allamano parlava del sacerdozio secondo la visione teologica del suo tempo che concepiva la dignità della vita ordinata come regale, angelica e divina; tuttavia, non ha mai espresso in senso trionfalistico il suo ministero, quanto piuttosto in una forma dinamica che si concretizzava nell’impegno per la santificazione personale prima, e per il lavoro pastorale in mezzo al popolo di Dio poi. Il nostro fondatore capì questo segreto, e continuava a ricordare ai suoi figli e figlie che se non fossero stati buoni religiosi, sarebbero diventati dei pessimi missionari: «Senza santità non sarete che ombre di missionari, e farete più male che bene».

Celebrando i 150 anni del suo giubileo sacerdotale, abbiamo ricordato come, per Giuseppe Allamano, la messa fosse «il tempo più bello» della sua vita: «Anche se dovessimo prepararci per 15 o 20 anni per celebrare un’eucaristia, come saremmo felici!». E aggiungeva: «Vi voglio sacramentini, uniti a Gesù sacramentato. Questo titolo dovrebbe valere per tutti i cristiani, religiosi e sacerdoti, e ancor più per i missionari». E, precorrendo i tempi, vedeva nell’apostolato missionario il grado superlativo del sacerdozio: «Ogni sacerdote è missionario di natura sua perché non c’è differenza tra la vocazione sacerdotale e quella missionaria. Tutto ciò che serve è un grande amore per Dio e per le anime. Non tutti potranno realizzare il desiderio di recarsi in missione, ma tale desiderio dovrebbe essere di tutti i sacerdoti».

padre Jonah Mulwa Makau


Una spiritualità feconda

Nella sua prima lettera ai Corinzi San Paolo scrive: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12,4-6). Questa pericope paolina permette di parlare di frutti e di spiritualità al plurale in Giuseppe Allamano. San Paolo afferma che ci sono molti doni diversi, ma sempre lo stesso Spirito; quindi, una stessa persona animata dallo Spirito può vivere la spiritualità in molti modi, producendo molte spiritualità che si traducono in frutti diversi. Vediamo alcuni dei frutti che le spiritualità di Giuseppe Allamano hanno prodotto anche oltre i confini della vita religiosa missionaria.

La formazione e la direzione spirituale di sacerdoti

Le parole pronunciate dall’arcivescovo Lorenzo Gastaldi durante l’ordinazione sacerdotale di Giuseppe Allamano non solo sono entrate nella sua anima e nella sua mente, ma hanno anche costruito una casa permanente in esse. Nel suo sermone, l’arcivescovo disse: «Dedicatevi a Dio, a lavorare e a soffrire per la sua gloria e per la salvezza del vostro prossimo. Vi aspettano grandi sacrifici, ma con l’aiuto di Dio li supererete. E quale consolazione potete aspettarvi? Abbiate fede e siate generosi con il Signore; ora date solo un posto d’onore al duro lavoro; non pensate che questo sia il momento di riposare, il nostro riposo sarà in cielo».

La realtà di queste parole dell’Arcivescovo si riflette perfettamente nella vita del beato Allamano ed emerge come una delle caratteristiche principali della sua spiritualità espletata nell’impegno posto nella formazione e nella direzione spirituale.

Il primo incarico che Giuseppe Allamano ricevette subito dopo la sua ordinazione sacerdotale fu quello di tornare in seminario come primo assistente o prefetto, con il compito, quindi, di seguire individualmente gli studenti di teologia, nei loro studi e nelle loro altre attività, intervenendo anche per correggere errori e negligenze. Il secondo incarico arrivò poco dopo il primo, quasi completandolo, quando Giuseppe Allamano fu nominato direttore spirituale nel seminario.

Padre Igino Tubaldo riassumeva così la sua personalità: «Era molto dedito a tutto ciò che poteva servire a formare lo spirito degli studenti secondo le regole stabilite da Gesù Cristo e dalla Chiesa per i suoi ministri… per abituarli a giudicare tutto alla luce della fede, per mantenere l’unione con Dio ed essere pieni dello spirito di preghiera».

Domenico Agasso afferma che il suo stile è visibile perfino nella lettura di alcuni degli «avvisi» con cui Giuseppe Allamano richiamava l’attenzione degli studenti, come dovevano prestare attenzione durante le prediche o condividere con fede le preghiere in cappella o a Messa. I sacerdoti che formò furono sono uno dei frutti della sua spiritualità, e in loro si vide la nobiltà e la responsabilità con cui valutava l’idoneità di ognuno al sacerdozio.

Queste caratteristiche così spiccate dell’Allamano sono certamente frutto della sua spiritualità e lo distinguono come maestro di formazione e direzione spirituale.

L’accompagnamento spirituale dei laici

Nei dialoghi con i suoi missionari, l’Allamano ricordava un fatto accaduto nel 1881: una donna di Loranzè (diocesi di Ivrea), fu inviata alla Consolata dal suo vescovo nella speranza di vederla liberata da una «ossessione diabolica». All’Allamano fu chiesto di andare a esorcizzarla per ordine dell’arcivescovo Gastaldi. L’Allamano le mise la medaglia della Consolata contro la bocca e disse: «Riconosci il tuo amante!». La donna guarì e in seguito ogni anno faceva un pellegrinaggio al santuario Consolata per ringraziare la Madonna. Anche quella guarigione fu un frutto della spiritualità dell’Allamano che cercava l’incontro con persone che erano interiormente tormentate in vari modi.

Giuseppe Allamano fu anche rettore del santuario di Sant’Ignazio sulle colline di Lanzo Torinese: con la sua presenza il santuario divenne una casa di ritiro di «prima classe». «Non c’era mai una stanza vuota».

La causa di beatificazione di Giuseppe Cafasso

Rispetto al processo di beatificazione di Giuseppe Cafasso, l’Allamano diceva: «Non avrei mai fatto tutto questo se fosse stato solo perché don Cafasso faceva parte della mia famiglia. Invece posso dire onestamente che ho introdotto questa causa, non per motivi di affetto o di relazione, ma per il bene che può venire dall’esaltazione di questo santo sacerdote».

La Chiesa è immensamente grata all’Allamano, poiché è solo a lui che si deve la beatificazione di don Cafasso. Questa era l’opinione del cardinale Carlo Salotti, che aveva seguito tutto il processo. In risposta a ciò, l’Allamano ammise che, in alcune notti, era sfinito dalla fatica di frequentare gli uffici romani. L’avvenuta beatificazione di san Giuseppe Cafasso fu certamente frutto della spiritualità dell’Allamano.

La fondazione dei due istituti missionari

Come affermano le Costituzioni dei missionari della Consolata: «Un’intensa vita spirituale e un ardente zelo apostolico permisero al nostro Fondatore di accettare e approfondire il suo carisma». L’enfasi è posta sulla frase: «Vita spirituale intensa».

La fondazione dei due istituti è un altro frutto della spiritualità dell’Allamano e della centralità che in essa ha la vita apostolica con le sue due finalità: la santificazione dei membri e la cura del popolo di Dio. Da allora i Missionari e le Missionarie della Consolata si sono sparsi nel mondo portando la buona notizia della consolazione di Dio ai popoli e condividendo così i frutti spirituali dell’Allamano.

Possiamo ricordare particolarmente due missionarie della Consolata che sono state a loro volta beatificate: Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Queste due suore portavano in sé i frutti spirituali dell’Allamano in modo così speciale che oggi tutta la Chiesa le celebra come «beate». Anche questo è un frutto molto significativo della spiritualità dell’Allamano.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice ai suoi discepoli: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,7-8). I frutti spirituali di Giuseppe Allamano trovano pienamente il loro posto in queste parole di Gesù.

padre Charles Orero


L’Allamano e l’Addolorata

La festa della Consolata che si celebra il 20 giugno è preceduta dalla novena durante la quale i missionari e le missionarie si alternano all’ambone per offrire una riflessione sulla relazione del beato Allamano con la Madonna. Suor Tiziana Fabbri si è soffermata sull’immagine della Madonna Addolorata che il beato fondatore esortava a invocare per trovare aiuto nelle fatiche e sofferenze della missione.

L’Addolorata sostiene nella sofferenza

Nella conferenza tenuta alle suore il 14 aprile 1916, l’Allamano, a proposito della Madonna Addolorata, diceva: «Questa devozione è utile in vita e in morte. È utile in vita perché come missionari abbiamo tutti da soffrire, chi più chi meno, ma chi ci sosterrà? L’aiuto migliore è quello di questa madre che ci aiuterà a soffrire, ci sosterrà quando abbiamo dei sacrifici da fare che adesso sono piccoli, ma ne avremo di grossi».

Nei suoi incontri con le missionarie e i missionari ritornò più volte sul mistero dell’Addolorata. Suggeriva l’attenzione ai dolori di Maria come modello per essere poi in grado di sostenere le sofferenze fino al martirio connessi con la vita di missione.

Il 19 settembre 1920 disse alle suore: «Ricordate sempre che la devozione all’Addolorata serve tanto per aumentare nello spirito. Quando sarete insidiate contro la carità o da qualche altra passione e avrete ripugnanze o altre cose, la Madonna vi darà aiuto e vi dirà: “Ma sii un po’ generosa, io sono stata più generosa”, allora vi scuoterete».

Consolare la Madonna

L’Allamano, più che al sentimento mirava alla volontà, all’impegno coerente della vita. La sua pietà mariana era molto calda e delicata e in occasione di alcune celebrazioni dedicate a Maria Addolorata, ha suggerito di «consolare la Madonna».

Nella conferenza ai missionari il 25 marzo 1910 disse: «Noi, poi, che siamo figli della Consolata, abbiamo speciale dovere di consolare nostra madre perché sia da noi veramente consolata. Non è per nulla che portiamo sì bel nome». Consolare la Madonna per l’Allamano significava essere coerenti nei propri doveri. È per questo che ci diceva e ci ripete: «Il nome che portate deve spingervi ad essere quello che dovete essere».

Un’esperienza significativa

Quando ero missionaria in Argentina e lavoravo nella parrocchia della Consolata di Mendoza, in occasione della festa patronale si decise di celebrare la novena in un quartiere lontano dalla parrocchia in cui vi erano problemi di violenza e di droga, dove nessuno voleva andare per paura. Era una sfida per tutti. Cercammo delle famiglie disponibili ad accogliere la statua della Madonna nelle loro case, e queste, nella loro semplicità e povertà offrirono il meglio che avevano: un posto di riguardo ben preparato, con fiori, candele, tovaglie ricamate e altre cose.

Una mattina portammo la statua in una casa e, con mia sorpresa, la signora non aveva preparato nulla, anzi era occupata per cui non ci accolse neppure. Disse alla figlia di dirci di lasciare la Madonna davanti alla porta d’entrata su di un tavolino. Mi sembrava un affronto alla presenza di Maria, una mancanza di accoglienza, il tavolino spoglio, senza neppure una tovaglietta. Io guardavo le donne che mi accompagnavano e non riuscivo a dire nulla, ma dentro di me sentivo una grande tristezza. Tra di noi il silenzio regnava, ma ad un certo punto una delle signore che abitavano in quel quartiere mi chiese molto delicatamente: «Non sei contenta di aver lasciato la Madonna lì?». Non sapevo cosa rispondere e le dissi che sentivo qualcosa in me che mi provocava tristezza. E lei mi rispose: «Sai, questa è la tristezza di tante mamme di questo quartiere che vedono il proprio figlio o il proprio marito in carcere per ingiustizie o per essere stati vittime degli abusi degli spacciatori. Ciascuna di loro sente l’impotenza di non essere stata una buona mamma e che non hanno saputo proteggere il loro figlio».

Coraggio, ci sono io!

Questo mi scosse e mi resi conto che il Signore mi chiedeva di vivere quella novena in una maniera differente, non fatta di sentimenti, ma della richiesta a Maria di essere coerente con il nome che portavo, senza pregiudizi nei confronti degli altri, senza condannare, ma semplicemente facendo sentire loro che nonostante tutto sono creature amate da Dio.

La mia sorpresa fu alla sera quando andammo per la preghiera: la signora che aveva accolto la Madonna condivise il suo dolore e il dramma che portava nel suo cuore, e disse: Questa Madonna mi ha dato forza. La guardavo e sembrava che mi dicesse: «Coraggio, ci sono qua io che come te ho sofferto e so cosa vuol dire il dolore. Guardando questa bella statua ho incontrato una mamma al mio mio fianco che mi ha aiutato a rialzare la testa e andare avanti».

Questa esperienza che porto nel cuore mi ha fatto capire che dalla sofferenza nasce la consolazione vera, dall’accoglienza del proprio dolore nasce la possibilità di una vita nuova. Non importa se non ci sono i fiori, le candele e la tovaglia, perché ci siamo noi, sue figlie e figli che facciamo onore al suo nome.

suor Tiziana Fabbri

 

 




Vedere il Padre


«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).

È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Guardare a Gesù

Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?

Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.

«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Il Battista

Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.

Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.

Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.

Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.

Un incontro oltre i riti

Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.

Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.

È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.

Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.

L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)

È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».

Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.

L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).

Dai figli ai genitori

La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.

Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).

Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».

Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.

Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.

Venite e vedrete (Gv 1,37-39)

Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».

Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.

È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.

Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.

E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».

Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)


Un cammino di due anni

  • √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
    Il Padre amante della gioia
  • √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
    Il Padre autentico
  • √ maggio 2024, Gv 3,
      Il Padre datore della vita
  • √ giugno 2024, Gv 4,
      Il Padre che disseta
  • √ luglio 2024, Gv 5,
    Il Padre che fa vivere
  • √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
    Il Padre che sfama
  • √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
       Il Padre che dona senso
  • √ novembre 2024, Gv 7,
       Il Padre che è casa
  • √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
    Il Padre che genera
  • √ gen-feb 2025, Gv 9,
      Il Padre che è libertà
  • √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
    Il Padre signore del gregge
  • √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
      Il Padre che opera il bene
  • √ maggio 2025, Gv 11,
       Il Padre che riporta in vita
  • √ giugno 2025, Gv 12,
      Il Padre che glorifica il Figlio
  • √ luglio 2025, Gv 13,
    Il Padre che dona l’amato
  • √ ago-sett 2025, Gv 14,
      Il Padre ospite
  • √ ottobre 2025, Gv 15,
      Il Padre vignaiolo
  • √ novembre 2025, Gv 16,
       Il Padre che accoglie
  • √ dicembre 2025, Gv 17,
      Il Padre (s)conosciuto



Inizia il Triennio dedicato al Beato Allamano


All’attenzione di chi è interessato a conoscere di più del Beato Giuseppe Allamano.

Fra pochi giorni inizieremo il Triennio dell’Allamano che le due Direzioni Generali dei Missionari e Missionarie della Consolata hanno proposto come preparazione al Centenario della morte del Fondatore che cadrà nel 2026.

Dalla Casa Natale dell’Allamano vorremmo offrire ai confratelli, consorelle e laici missionari la possibilità di riscoprire, un pezzo alla volta, porzioni della grande mole di riflessioni e studi sul Fondatore e sul nostro carisma. I Missionari e le Missionarie del passato ci hanno lasciato tale grande ricchezza che però non è sempre facile rintracciare nei nostri siti e archivi. Accogliamo anche studi e riflessioni più recenti che ci saranno segnalati…

Apriamo ora un “gruppo mail” chiamato: “Dalla casa natale”. Chi desidera ricevere tale materiale, oppure avere indicazioni per accedere ad esso, ce lo segnali al seguente indirizzo mail: casanatale.allamano@consolata.net
Inizieremo con 2-3 invii settimanali di materiale, poi vedremo se l’iniziativa funziona ed è utile…

I Missionari e le Missionarie della Consolata – Castelnuovo Don Bosco


Qui trovate la lettera che lancia il triennio dell’Allamano: Giuseppe Allamano. Cuore di Padre

Clicca qui per il sito ufficiale del sul Beato  Giuseppe Allamano


Il beato Giuseppe Allamano nella casa di Rivoli, fotografato dagli studenti diel seminario durante una loro visita. – 1920 ca. (AfMC)




Il volto svelato


È arrivato il tempo, ed è ora, nel quale il veleno della morte
si tramuta in una bevanda dolce.
Il velo che copriva il volto dell’umanità, di ogni popolo,
di ogni famiglia, di ogni singolo è strappato.
Anch’esso tramutato in fragrante pane saporito.
Il mio volto illuminato dal Tuo.
Il Tuo volto di bambino che porta
a compimento la promessa.
Quella fatta fin dal primo giorno di vita sulla Terra:
«Eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 6-10).
È arrivato il tempo in cui le lacrime del lutto
sono accarezzate via dalle dita dell’Amato,
dalla Parola dell’Amante, dal soffio dell’Amore.

Buon Avvento e buon Natale
perché sia il tempo nel quale svelare
il nostro volto autentico
da amico.

Luca Lorusso


Goditi Amico in anteprima attraverso le immagini.
Per gustarlo fino in fondo, accedi al sito amico.rivistamissioniconsolata.it

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Il profeta senza nome


Il nostro percorso alla scoperta di personaggi biblici la cui fede esemplare e affascinante può insegnare qualcosa anche a noi, è iniziato a gennaio con Abramo, il più noto dei patriarchi benché la sua precisa esistenza storica non sia al di sopra di ogni dubbio. Lo concludiamo con un personaggio che, all’opposto, è sicuramente esistito, ma che ha cercato in tutti i modi di nascondersi, tanto che, in effetti, non ne conosciamo neppure il nome, anche se ci ha lasciato alcune delle pagine più luminose e toccanti di tutta la Bibbia: parliamo dell’autore dei capitoli 40-55 del libro del profeta Isaia.

Lo sfondo letterario

Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Gerusalemme e la Giudea avevano vissuto un momento di crisi e di gloria. Di crisi perché nella regione era arrivata la potenza terribile del nuovo impero assiro che aveva avuto ragione dei ben più agguerriti regni di Damasco e di Samaria. Quest’ultima, il regno di Israele del Nord, era stata conquistata e distrutta nel 721 a.C. con la conseguente deportazione della sua classe dirigente e di tutti coloro che, per abitudine o cultura, avrebbero potuto eventualmente guidare una rivolta.

Un gruppo di sacerdoti, probabilmente, si era rifugiato da Samaria a Gerusalemme portando con sé le proprie tradizioni religiose e profetiche, forse già in parte scritte. Essi, quindi, avevano contribuito alla gloria di quegli anni, perché da loro Gerusalemme era stata come rivitalizzata, prima che arrivasse anche su di lei l’ondata conquistatrice degli Assiri. Questi l’avevano sì assediata ma, distratti forse da disordini in patria o, più probabilmenti, delusi dalla povertà che comunque vedevano nella città (per cui lo scarso bottino non avrebbe giustificato l’enorme sforzo per conquistarla), avevano deciso di abbandonare l’assedio prima di dare l’assalto finale (701 a.C.).

In quegli anni operava a Gerusalemme un profeta dallo stile limpido e bellissimo, sicuro di sé e deciso, che esortava i giudei a confidare non in alleanze umane, ma solo in Dio. E, in effetti, si sarebbe potuto dire che, alla fine, la storia gli aveva dato ragione. Egli continuava a ripetere che «tempio del Signore è questo» e Dio non lo avrebbe lasciato conquistare mai. Questo suo ritornello negli anni si era conservato ed era stato rinfacciato, più di un secolo dopo, a Geremia, il quale invece sosteneva che, nel suo tempo, per fidarsi di Dio occorreva lasciare che i nemici conquistassero la città santa (Ger 7,4): infatti, mantenersi sulle vie del Signore non significava fare sempre le stesse scelte.

Un contesto nuovo

La storia poi darà ragione anche a Geremia.

A metà del vii secolo l’impero assiro va in crisi, e il suo posto viene preso da un altro impero, quello babilonese, che ricomincia a percorrere la strada di conquista e sopraffazione già nota, anche se con uno stile lievemente più mite.

Durante la conquista babilonese, Gerusalemme viene presa e la parte più capace e colta dei suoi abitanti deportata a Babilonia.

In quel periodo, o forse appena dopo, inizia a predicare un profeta nuovo, di cui non conosciamo né il nome, né la vita, né il motivo per il quale decide di fare ciò per cui ancora oggi restiamo ammirati.

Sarebbe infatti bello sapere se quello che noi oggi leggiamo lo abbia anche predicato, ma non possiamo fare altro che immaginare e fantasticare. Ciò che sappiamo è che prende il libro di Isaia, chiuso più di un secolo prima, e decide di proseguirlo.

L’autore del libro di Isaia cambia dal capitolo 40 in poi, perché cambiano lo stile, i temi, lo sfondo (si capisce benissimo che chi scrive è in esilio e scrive a esiliati). Ma lui decide di non iniziare un nuovo rotolo, di non dichiarare chi è. Si «limita» a proseguire uno scritto altrui. Così facendo, inevitabilmente, suggerisce la sua continuità con il «primo» Isaia (in realtà, l’unico di cui abbiamo il nome).

Questi, come abbiamo ricordato, aveva invitato a confidare in Dio, che avrebbe difeso il suo popolo anche politicamente e militarmente. Chi prende quel libro in mano e decide di proseguirlo, vuole invece suggerire che, anche se il popolo è stato sconfitto ed esiliato, Dio continua a essere al suo fianco, a essere affidabile. E già un messaggio del genere è sorprendente.

Avrebbe potuto decidere di nascondere e dimenticare il rotolo di Isaia, o dire che aveva parlato del passato, invece, dal fondo dell’abisso, dice che Dio è sempre lo stesso, continua ad assistere il suo popolo, continua a esserci e a sostenere i suoi.

Le parole nuove

«Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,1-2).

Le parole dei profeti, almeno in superficie, sono sempre state dure, di giudizio e castigo, anche quando poi, in fondo, parlavano di amore e misericordia. Il «secondo» Isaia, invece, non salva neanche la forma: Dio è un padre innamorato che corre in aiuto di sua figlia, ne giustifica persino gli errori, la abbraccia, la rincuora.

Se parole di giudizio ci sono, sono contro le nazioni intorno, che hanno esagerato nel punire Israele. Ma per il resto si parla di un Dio che vuole far sorridere d’affetto gli esiliati, che li accarezza, che li vuole riconfortare.

Certo, soprattutto a quel tempo, sarebbe stato facile contestare queste affermazioni: come è possibile dire che Dio vuole il bene di Israele che, invece, si ritrova battuto, umiliato e deportato dopo aver visto bruciare il suo tempio, «il luogo scelto da Dio per porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,15, tra i tanti esempi)?

Per il mondo semitico, nel quale nasce anche questo testo, gli dèi difendono un luogo appartenente a loro popolo perché lo considerano proprio: se quel luogo viene conquistato è segno che quegli stessi dèi sono stati sconfitti. Dunque, qui si pone la questione: il Dio d’Israele ha abbandonato il suo popolo, oppure non è stato capace di difenderlo ed è stato sconfitto. Di fronte a questo dilemma verrebbe spontaneo abbandonare un simile Dio.

No, risponde il nostro profeta. E, per la prima volta con chiarezza assoluta, afferma quello che per il popolo ebraico diventerà il cuore della fede: Dio non è stato sconfitto e può decidere di non abbandonare il suo popolo, perché è l’unico Dio di tutta la terra, non uno dio tra i molti dèi. Egli  gestisce tutto come vuole, e ha vissuto la prova del suo popolo con angoscia, e non vuole più che soffra, come un padre che ha lasciato sbagliare suo figlio, ma ha vissuto con più dolore di lui le piaghe conseguenti ai suoi errori.

E siccome Dio è l’unico dio della terra, anche i salvatori che arriveranno per il suo popolo, come il re dei Persiani, Ciro, sono in realtà scelti e voluti e chiamati da lui, anche se loro non lo conoscono (Is 45,1.4). Addirittura, il nostro profeta dice che Ciro è il «suo pastore» (44,28) e il «suo messia» (45,1), con un coraggio che a volte persino le nostre traduzioni moderne faticano a seguire, preferendo renderlo con il «suo eletto» o il «suo unto».

E Dio può serenamente sognare e promettere, a questo punto, non che tutti i popoli saranno vinti e soggiogati, ma anzi che tutti verranno a Gerusalemme per rendere onore al Dio d’Israele (45,22-24). E può invitare il suo popolo amato a violare, apparentemente, la legge dell’Esodo e del Deuteronomio, smettendo di ricordare le imprese del passato: «Ecco, faccio una cosa nuova, proprio adesso germoglia, non ve ne accorgete?» (43,19). Il nostro anonimo profeta, che potrebbe piangere la propria sorte, invita a vedere Dio presente, operante, attivo nella vita degli esiliati.

La sofferenza

Tutto bello? Tutto buono? Come poteva un profeta simile farsi accogliere da gente che soffriva? Non si accorge di che cosa ha intorno, questo ingenuo?

Se ne accorge, sì, ma coglie che c’è altro. Che Dio è presente anche nella sofferenza. Anzi, che se c’è un sofferente che patisce con mitezza per gli altri, non solo Dio approva, ma è lì, con lui, al suo fianco. E se anche nessuno apprezzasse quella sofferenza, Dio non la trascura, ma la vede e valorizza, dicendo che proprio colui che patisce è «il giusto mio servo» (Is 53,11).

È così che nascono alcune tra le pagine più spiazzanti della Bibbia, che i cristiani leggeranno forse con la pelle d’oca, perché non potranno che pensare: «Ma qui parla della passione di Gesù».

Quasi come fossero inserti inutili o fuori tema, compaiono dei «cantici» che lodano un «servo del Signore» che porta pace e risanamento a Israele (42,1-9), procurando peraltro luce e salvezza non solo a quel popolo, ma a tutte le nazioni (49,1-6), benché sembri non vincente, ma oppresso e sconfitto, con la barba strappata, deriso, insultato. E infine, addirittura, mortificato, ucciso, svergognato (52,13-53,12), eppure sicuro di essere dalla parte di Dio (50,4-9).

È l’intuizione che chi è dalla parte del giusto, di Dio, non può essere confuso, anche se agli occhi del mondo sembra esserlo. È la novità di uno sguardo che non punta alle conseguenze, agli esiti, ma al senso, a ciò che c’è a monte. Perché Dio non guarda ai risultati, ma al cuore.

È l’intuizione abissale che un Dio che difende gli umili e gli oppressi, si farà umile e oppresso come loro, con loro.

Il messaggio del profeta sconosciuto

Quale può essere il messaggio interiore, profondo, di un personaggio che neppure possiamo vedere, immaginare, chiamare per nome?

Il «secondo Isaia» (così è passato alla storia per i biblisti) intuisce che un Dio impegnato in un rapporto personale e intimo con l’essere umano non può abandonarlo, soprattutto quando è umiliato, vinto, disperso. Il secondo Isaia intuisce che Dio è presente, c’è, non si ritira soprattutto dove l’umanità ha perso.

Solo uno sguardo amante capisce che, quando la storia sembra dire che sei stato sconfitto e devi arrenderti e rinunciare, chi ama resta sempre presente. E Dio è colui che ama l’umanità a prescindere da ogni altra cosa, come ha lasciato capire in tanti secoli e in tanti personaggi e, per noi, in tanti libri biblici.

Anche quando tutto sembra perduto, anzi, soprattutto in quel momento, Dio è lì, è accanto, sorride, consola, abbraccia, rialza.

Questo profeta ci mostra uno sguardo che prova a penetrare nel pensiero di Dio, e scopre qualcosa di inaudito, di impensabile. Scopre che Dio è tanto interiore all’umanità da non poter fare a meno di farsi debole anche lui, fragile, oppresso e ucciso. Senza che questo gli tolga la capacità di salvare. Ma donandogli la possibilità di «saper prendere parte alle nostre debolezze, perché è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).

Il «secondo Isaia» non trova questo volto di Dio descritto da nessuna parte, ma lo intuisce guardando a ciò che il suo Signore ha fatto nella storia, cogliendone la logica, le modalità di comportamento. Il suo è lo sguardo fiducioso che non si aggrappa ai testi o alle argomentazioni (che forse non gli darebbero ragione), ma si affida a una relazione personale che (il profeta lo sa, lo intuisce, se ne fida) non verrà meno, mai.

Angelo Fracchia
(Camminatori 10 – fine)




Sintonia spirituale e missionaria


Il 7 giugno 2023, in piazza San Pietro a Roma, all’udienza di papa Francesco sono presenti i membri dei Capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. In quel giorno sono esposte davanti al Papa e a tutti i pellegrini le reliquie di santa Teresa di Gesù Bambino. E papa Francesco la presenta come modello di missionarietà a tutta la Chiesa. Lei che in missione non ci era mai stata, – ha sottolineato il Papa – è stata proclamata patrona delle missioni. Perché?

Risponde il Papa stesso: «Nel suo “diario” Teresa racconta che essere missionaria era il suo desiderio e che voleva esserlo non solo per qualche anno, ma per tutta la vita, anzi fino alla fine del mondo. Teresa fu “sorella spirituale” di diversi missionari: dal monastero li accompagnava con le sue lettere, con la preghiera e offrendo per loro continui sacrifici. Senza apparire, intercedeva per le missioni, come un motore che, nascosto, dà a un veicolo la forza per andare avanti…».

«I missionari, infatti – aggiunge papa Francesco -, di cui Teresa è patrona, non sono solo quelli che fanno tanta strada, imparano lingue nuove, fanno opere di bene e sono bravi ad annunciare; no, missionario è anche chiunque vive, dove si trova, come strumento dell’amore di Dio; è chi fa di tutto perché, attraverso la sua testimonianza, la sua preghiera, la sua intercessione, Gesù passi».

In questa felice circostanza i Missionari e le Missionarie della Consolata presenti all’udienza certamente si sono ricordati dell’insegnamento del loro fondatore che in varie occasioni proponeva la Santa di Lisieux come modello di vita per la loro vocazione missionaria. Ancora prima della beatificazione di Teresa avvenuta il 29 aprile 1923, l’Allamano volle indicarla come «protettrice dell’anno» per i missionari e le missionarie. Di lei amava mettere in evidenza che non aveva fatto «nulla di grande ma tutto piccolo» e che «si era fatta santa nelle piccole cose con volontà di ferro».

L’anno seguente, Giuseppe Allamano volle che i Missionari e le Missionarie celebrassero un solenne triduo di preghiera e di riflessione per ricordare la beatificazione della Carmelitana di Lisieux e prepararsi alla sua canonizzazione.

Il timbro spirituale e missionario della Santa di Lisieux, papa Francesco lo propone anche oggi a tutta la Chiesa: non si può essere cristiani autentici senza vibrare di zelo per l’annuncio di Cristo Gesù a tutti, con la preghiera, nella valorizzazione degli impegni quotidiani, accogliendo come moneta preziosa le croci che non mancano mai nella vita di ogni persona.

padre Piero Trabucco


Spiritualità al femminile

Formato dalla mamma, Marianna Cafasso, e dalla maestra, Benedetta Savio, donne di fede solida e squisita carità, Giuseppe Allamano ha trasfuso nelle fondazioni dei Missionari e delle Missionarie della Consolata una spiritualità impregnata delle caratteristiche e dei valori di cui è ricca la donna.

Il volto della spiritualità

La spiritualità femminile è molto diversa dalla spiritualità femminista. Essa si riferisce al volto della spiritualità divina che si relaziona con il corpo, con la natura e con i cicli della creazione. Il concetto di spiritualità femminile non riguarda il genere, ma piuttosto l’energia spirituale creativa e vivificante che dà forma a ciò che ci interessa e in cui mettiamo la nostra energia.

Marianna Cafasso

La spiritualità femminile di Giuseppe Allamano cresceva in lui come lui cresceva in sua madre; in qualche modo è parte di una esperienza vissuta a partire dalla sua infanzia. Parlando della spiritualità femminile dell’Allamano, due figure principali vengono in evidenza: sua madre Maria Anna Cafasso e la sua maestra Benedetta Savio.

Sappiamo che il padre dell’Allamano morì quan-do lui aveva meno di tre anni. Marianna si trovò quindi vedova, con cinque figli piccoli e affrontò la situazione con la risolutezza caratteristica dei tempi facendosi carico del lavoro, come racconta l’Allamano stesso parlando di lei: «Con il nostro modesto patrimonio, riuscì a mandare a scuola tre di noi, e ancora aumentò i nostri beni di circa 1.200 lire (ca. 6mila €) e poi non si dimenticava dei bisogni degli altri, poveri del luogo altrimenti trascurati, e interveniva con pronta efficienza».

La nipote Pia Clotilde ha detto: «Lei lavorava molto, e faceva lavorare molto gli altri. Aveva abbastanza roba per vestire un ballo (espressione tipicamente piemontese, nda) e così quando qualche povera donna aveva un figlio, preparava per lei gran parte del corredino. I poveri e i malati li aiutava nei loro molti bisogni».

Benedetta Savio

La maestra elementare di Giuseppe Allamano divideva il suo tempo tra i bambini dell’asilo, la sua famiglia e una intensa vita di pietà. Le testimonianze del suo gioioso fervore nella preghiera, anche in età avanzata e nella malattia, hanno molto in comune con quelle che descrivono esempi più famosi di santità.

L’Allamano è stato molto influenzato da queste due figure femminili: la loro tenerezza, la loro generosità, la loro laboriosità e santità. Tutto ciò ha segnato l’inizio della sua spiritualità femminile in cui la donna ha uno spazio centrale non solo nella sua vita, ma nella vita della Chiesa e dell’intera società. Lo spirito di duro lavoro, la generosità e la precisione che l’Allamano aveva li vediamo perfettamente presenti in tutta la sua vita e con essi affrontava le sfide di ogni giorno.

La trasmissione dei valori materni

Nei suoi scritti spirituali, l’Allamano desidera tutte queste virtù per i suoi missionari e tra queste la generosità, il lavoro duro, lo spirito di preghiera e la carità verso Dio e verso il prossimo: «Nostro Signore vuole la generosità», «Chi non si adatta ai lavori manuali non ha lo spirito missionario»; «Non bisogna aver paura di sporcarsi le mani»; «Dovremmo essere felici di morire nel campo del nostro lavoro». Secondo lo stile che era proprio di sua madre, inviava frequenti aiuti ai poveri.

Nei suoi scritti, inoltre, vediamo un uso frequente di espressioni materne e femminili. La prima casa dei missionari è chiamata, ad esempio, la Casa Madre, «di conseguenza, amate questa casa come una vera madre, essa vi ha accolto tra le sue braccia e vi nutre e vi prepara all’apostolato». Paragona, quindi, la famiglia religiosa da lui fondata a una madre affettuosa e tenera, la cui attenzione è rivolta ai suoi figli: «Questa casa è la tua Gerusalemme»; «Questa casa è stata costruita per la tua formazione»; «In questa casa, Dio fornisce molte grazie solo per te, per la tua santificazione, grazie che non dà ad altri fuori di questa casa».

La madre dei missionari

L’apice della spiritualità femminile dell’Allamano la troviamo in tre aspetti principali: l’intitolazione dell’Istituto alla santissima Madre Consolata, il coinvolgimento di molte donne nella sua opera missionaria di evangelizzazione e la fondazione delle Suore missionarie della Consolata. Come molti altri fondatori, l’Allamano avrebbe potuto scegliere un titolo diverso per le sue comunità missionarie e invece decise di intitolare i suoi Istituti alla Madonna che poi chiama «fondatrice», la Consolata, sottolineando così anche il ruolo che lei ebbe nella storia della Chiesa e della salvezza dell’umanità. Riteneva che Maria fosse davvero una madre per noi e che noi fossimo cari figli per lei.

Nella terza spedizione, arrivata il 13 maggio 1903, ci fu una novità inaspettata: insieme ai sei missionari partivano anche otto suore del Cottolengo, le prime donne chiamate all’opera delle missioni della Consolata. Seguirono poi le Missionarie della Consolata che l’Allamano fondò nel 1910 dietro espresso invito del papa Pio X «È il papa Pio X che vi ha volute, è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie», e queste missionarie le chiamava giocosamente «papali». Papa Francesco, in occasione del tredicesimo Capitolo generale le ha giustamente chiamate il «ramo femminile dell’Istituto».

Il ruolo della donna nell’evangelizzazione

La spiritualità femminile dell’Allamano riunisce i due rami dell’Istituto, i Missionari e le Missionarie della Consolata, come una sola famiglia, dedicata al servizio della Chiesa e di tutto il genere umano con la fiamma ardente della carità verso Dio e il prossimo. Questa spiritualità riconosce il ruolo della donna nella missione evangelizzatrice della Chiesa, nella società e nella famiglia.

Rafforza anche il nostro impegno a promuovere la dignità e il ruolo della donna nella società; ce lo ha ricordato anche papa Francesco durante il tredicesimo Capitolo generale: «Un’attenzione speciale è data all’impegno di promuovere la dignità delle donne e i valori della famiglia» e permette di apprezzare il valore delle donne consacrate che, sull’esempio di Maria, si aprono con ubbidienza e fedeltà al dono dell’amore di Dio.

padre Charles Orero


Tenerezza paterna di Giuseppe Allamano

Un giovane sacerdote missionario e un laico missionario della Consolata, in occasione della festa del beato Allamano (16 febbraio) hanno condiviso un aspetto peculiare della personalità del padre fondatore: la sua tenerezza paterna.

Testimonianza di padre Piero Demaria

L’Allamano aveva a cuore il bene dei suoi figli e figlie. Due episodi mostrano la sua tenerezza paterna verso di loro.

Il primo si riferisce a fratel Benedetto Falda, partito col secondo gruppo di missionari per il Kenya nel 1903. Era un tipo molto attivo e creativo e, trovandosi nella missione di Tuthu, attraversava un momento di tristezza e nostalgia.

L’Allamano scrivendogli non lo ha esortato a farsi coraggio e a darsi da fare, ma ha pensato a come aiutarlo per farlo star meglio ed essere contento. Si è ricordato che fratel Benedetto suonava il mandolino, lo faceva nelle feste e anche nelle balere e allora ha cercato per tutta Torino un mandolino e glielo ha fatto spedire con una delle navi che portavano aiuti ai missionari in Kenya, scrivendogli: «Prendi questo mandolino, suona e canta e starai meglio».

L’Allamano aveva veramente a cuore che i suoi missionari e missionarie stessero bene e fossero contenti del loro lavoro. Prima ancora dell’efficenza era interessato alla gioia delle persone.

Un altro episodio riguarda una suora che stava male: il fondatore era andato a trovarla e le aveva chiesto che cosa le avrebbe fatto piacere. La suora gli aveva risposto che avrebbe mangiato volentieri un grappolo d’uva. Non era ancora la stagione, ma l’Allamano non le ha detto che non ce n’era. Ha cercato invece l’uva per tutta la città e, trovatala, l’ha portata alla suora soddisfacendo il suo desiderio.

I due episodi mostrano che, più che il grappolo o il mandolino in sé, ciò che ha fatto stare meglio queste due persone è stato vedere come il fondatore le avesse a cuore, spendesse il suo tempo per loro, appunto, come farebbe un padre pieno di tenerezza per i suoi figli.

Testimonianza di Mauro Brucalassi missionario laico della Consolata

L’incontro con l’Allamano ha in un certo senso orientato la mia vita. Cosa c’entra quel pretino umile e un po’ malaticcio con la mia vita? C’è un prima e c’è un dopo questo incontro. Un prima, quando le vicissitudini della vita (positive e negative) le consideravo dovute al caso, alle circostanze, tutt’al più al destino; e c’è un dopo, quando tutto è dovuto a un disegno che Dio ha per ognuno di noi al quale difficilmente si può sfuggire, ecco il messaggio.

Ho conosciuto l’Allamano 24 anni fa facendo parte del nascente gruppo Lmc (Laici missionari della Consolata) di Grugliasco guidato dalle suore della Consolata che hanno voluto condividere il carisma di consolazione anche con persone non consacrate. Confesso che mi ci sono voluti mesi di formazione per aprirmi a questa nuova realtà.

Nel partecipare a questi incontri, oltre agli insegnamenti sul carisma che ci venivano forniti, ho avuto occasione di leggere alcuni libri sul beato Allamano scritti da padri e da suore della Consolata. Alcuni di loro l’avevano conosciuto personalmente e le loro memorie mi hanno appassionato. I loro scritti, infatti, non si limitavano a descrivere la vita, le azioni, i suggerimenti del fondatore ma c’era qualcosa in più, si evidenziava un affetto filiale nei suoi confronti.

Inoltre, ho avuto modo di leggere alcune lettere che l’Allamano scriveva ai suoi «figli e figlie» in missione e devo dire che erano, e restano, messaggi colmi di affetto, di tenerezza e di amore profondo. Anche quando rimproverava coloro che avevano commesso qualche errore, lo faceva sempre con delicatezza senza mai eccedere nell’ammonire.

Questo modo di agire mi ha colpito in modo significativo, ho trovato nell’Allamano un’umanità straordinaria, un uomo concreto con una devozione smisurata nei confronti della Vergine Consolata.

Era un uomo che non dava risposte preconfezionate come solitamente si sentono dare, ma ciò che diceva proveniva dal cuore. È stato un vero testimone del Vangelo.

I suoi insegnamenti potevano, e possono sembrare difficili da mettere in atto, basti pensare alla frase: «Prima santi e poi missionari», con quel «Essere santi» che sembra di difficile attuazione. Ma subito dopo spiegava in che modo attuare il concetto: «Fare lo straordinario nell’ordinario», in altre parole, fare quello che si deve fare giornalmente nel migliore dei modi possibile.

Come laico missionario dalla Consolata non mi prefiggo di andare in missione ad gentes, tuttavia sono impegnato nel volontariato prestando servizio nella mia parrocchia, ma soprattutto nel Centro di ascolto «Pier Giorgio Frassati» di Collegno e Grugliasco dove ho modo di incontrare persone in difficoltà, sole, giovani e anziani che chiedono aiuto, ed è qui dove posso mettere in atto, con i miei limiti e le mie fragilità, gli insegnamenti dell’Allamano. Lui diceva che: «Non tutti possono andare alle missioni, per svariati motivi, ma tutti siamo apostoli nelle nostre case, nei nostri paesi. Tutti siamo chiamati e dobbiamo essere apostoli e, ciascuno nella sua sfera di azione, far conoscere e amare Gesù»: questo è ciò che mi propongo di fare.

a cura di Sergio Frassetto

 

 




Geremia, il più tormentato dei profeti


Tra i profeti ci sono personaggi molto diversi. Tutti mettono al centro del loro messaggio la fede e l’affidamento a Dio, ma ciascuno vive la propria vocazione in modo singolare. Ci sono quelli decisi, sicuri di sé, generosi e convinti alla Isaia («“Chi manderemo?”. “Eccomi, manda me!”», Is 6,8), e altri molto più travagliati come Geremia. Geremia di tormenti ne ha moltissimi, ed è proprio questo che ce lo rende più simpatico, moderno ed esemplare.

Lo sfondo storico

I profeti, lo sappiamo, sono gli autori biblici che più dialogano con il mondo nel quale sono inseriti. Il «ministero profetico» consiste esattamente nella capacità di inserire il messaggio divino in situazioni storiche concrete, cogliendo come Dio reagirebbe a quelle condizioni, che lettura offrirebbe di quei contesti. È quindi chiaro che una conoscenza precisa dello sfondo storico in cui i profeti agiscono è più che necessaria.

Il problema è che i profeti ci hanno lasciato libri scritti per lo più in forma poetica, frequentemente allusiva ed evocativa più che descrittiva, spesso difficili da interpretare in modo corretto. D’altronde, è esattamente quello che riscontriamo nella nostra poesia o persino nei commenti politici dei nostri tempi. Di questi, però, conosciamo tutti i particolari, così che capiamo le allusioni, anche minime, e tutto diventa più facile. Della storia antica, invece, non riusciamo più a ricostruire le situazioni, se non le grandi linee.

È una fortuna che i capitoli 34-45 del libro di Geremia offrano un contesto storico un po’ più preciso che aiuta a comprendere meglio le parti poetiche.

Lo sfondo generale del tempo di Geremia, dunque, è questo: nel 721 a.C. cade il regno di Israele del Nord per mano dell’impero neoassiro. Nel 701 a.C. s’interrompe miracolosamente l’assedio di Gerusalemme prima della caduta della città. L’impero neoassiro va in crisi e viene sostituito da quello neobabilonese, altrettanto espansionista (arriverà a conquistare anche l’Egitto). All’inizio del VI secolo a.C. si fa forte la pressione anche sulla Giudea, che in effetti cadrà nel 587 a.C., dopo una prima sconfitta e accordo di vassallaggio nel 597 a.C.

In Giudea emergono due visioni diverse della realtà e su come affrontare il pericolo. Una, più religiosa, sostiene che, come aveva già fatto più di un secolo prima, Dio salverà il suo tempio, che è sacro («Tempio del Signore è questo!», Ger 7,4). Un’altra, più mondana, crede invece che la salvezza verrà dall’accordo politico con l’Egitto. Entrambe sono convinte che occorra difendere l’autonomia della Giudea contro i babilonesi. Bisogna solo resistere: che si tratti di Dio o dell’Egitto, qualcuno arriverà a salvarci.

Un messaggio inaudito

È su questo sfondo che Geremia si trova inviato a portare un messaggio inaudito: «Volete essere fedeli al Signore? Lasciate che il suo tempio venga distrutto. Dio non interverrà più a salvare il vostro regno. Vi chiede di lasciare che la storia prosegua sulle sue strade, e che voi scopriate modi nuovi di relazionarvi con lui» (cfr. 5,7-19; 7,3-16; 42,9-22).

Un messaggio come questo ha una forza che va contro tutte le credenze del tempo.

Il tempio di Gerusalemme non era semplicemente il luogo dove pregare o offrire sacrifici, come oggi è per noi una chiesa, sia pure essa la più grande o centrale come San Pietro o qualche santuario famoso in tutto il mondo. Il tempio era «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,11, fra gli altri), l’unico luogo della presenza di Dio nel mondo.

Se dobbiamo ipotizzare un parallelo per capirci, era qualcosa di più vicino a quello che per noi è l’Eucaristia, piuttosto che al semplice edificio sacro.

Immaginiamo un profeta cristiano che dica che, per essere fedeli a Dio, occorre lasciar profanare l’Eucaristia. Il messaggio di Geremia è simile a questo.

Ma è anche un messaggio che arriva subito prima della guerra e durante l’assedio. È facile che il profeta venga percepito dai suoi contemporanei come un disfattista, che non collabora con lo sforzo militare. E per questo verrà, infatti, minacciato («Non profetare nel nome del Signore, sennò morirai per mano nostra», Ger 11,21), imprigionato (Ger 37-38) e alla fine addirittura deportato a forza in Egitto, il nemico di coloro ai quali Geremia invitava ad arrendersi (Ger 43,1-7).

Non è un caso che la tradizione vuole Geremia morto martire. Il suo libro o altri scritti biblici non ne dicono niente, ma sarebbe coerente con la sua esperienza.

Una persona tormentata

Già il contesto e il messaggio di Geremia ci hanno messo di fronte a una situazione complessa, faticosa.

Ma a tutto ciò si aggiunge anche la personalità del profeta, che non è un combattente e non vorrebbe essere dove si trova né dire ciò che deve proclamare. Si ritiene troppo giovane e incapace di parlare in pubblico (Ger 1,6), è costretto ad annunciare al suo popolo che subirà violenza e oppressione e per questo, quando le cose vanno ancora bene, viene preso in giro (Ger 20,8) e gli viene fatto notare che ciò che annuncia non si compie (17,15). Viene rifiutato dalla sua famiglia (12,6) e si lamenta più volte della propria sorte, che non avrebbe desiderato: «Ahimè, madre mia, che mi hai generato uomo di litigio e discordia!» (15,10). Eppure, ribadisce di non aver voluto annunciare il lutto e la distruzione, ma di essere semplicemente stato mandato da Dio a farlo (17,16).

In una letteratura e in un mondo culturale che non erano abituati a cogliere e quindi a narrare le lotte interiori, Geremia appare dilaniato dal desiderio di rinunciare al proprio mandato  di parlare a nome di Dio, un compito che sente scaturire da dentro sé: «Mi hai sedotto, Signore, e io ho lasciato che tu mi seducessi. Mi hai violentato, sei stato più forte di me. Mi dicevo che non avrei più pensato a te, non avrei più parlato in nome tuo, ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,7-9).

Emerge il ritratto di un uomo mite e timido che è costretto ad annunciare un messaggio duro e luttuoso, non viene creduto e viene schernito, e si mortifica ancora di più per la propria sorte. È un uomo passionale e delicato che vive in un tempo di guerra e crudeltà. L’uomo sbagliato nel tempo sbagliato.

Il sogno di Geremia

Certo, Geremia non annuncia soltanto distruzione e morte. Nutre un sogno che prende poco alla volta forma ed esplode nel capitolo 31. Il sogno è quello di un’alleanza nuova tra Giuda e Israele da una parte e il Signore dall’altra. Senza dubbio un’alleanza c’era già stata, scaturita dalla liberazione dal potere oppressivo dell’Egitto, il che suona quasi come ironico per chi sperava proprio da quel paese la salvezza contro i babilonesi, ma quella alleanza era stata infranta proprio da Israele. Per questo serve un’alleanza nuova che non sia una riedizione di quella vecchia. Geremia la immagina non scritta sulla pietra, ma nel cuore, sull’organo che secondo gli ebrei era la sede delle decisioni: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore (ossia “penseranno spontaneamente come Dio, si sintonizzeranno naturalmente con lui”)», «non dovranno più istruirsi l’uno con l’altro, invitandosi a conoscere il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,33-34).

Geremia sogna una umanità capace di entrare in armonia profonda con Dio, al punto da non avere più bisogno di maestri, di mediatori, di motivatori. E allora, finalmente, Dio perdonerà tutto, non ricorderà più il peccato, perché si troverebbe davanti un’umanità amante, pronta a vivere in intimità con lui. E quello che Dio vuole non è essere ubbidito ma amato, e non vede l’ora di perdonare e riprendere a vivere insieme in comunione.

Il sogno di Geremia prosegue: il Signore, che ha disposto gli astri e garantisce il succedersi del giorno e della notte, promette che si dimenticherà della sua alleanza solo quando anche le leggi di natura non funzioneranno più, cioè mai.

Geremia sogna quell’armonia profonda di cui non ha mai potuto godere, cogliendo che proprio e soltanto quella è anche il sogno di Dio, che minaccia costantemente vendetta e punizione, ma sempre spera di non doverle mettere in pratica.

Il messaggio di Geremia

C’è allora qualcosa che questo complicato e sofferente profeta può affidare anche a noi oggi?

Quello che Geremia vuole, un rapporto con Dio senza mediatori, senza sacerdoti, senza tempio, senza legge, è l’intuizione di un rapporto con il Signore immediato, senza strumenti e quindi anche senza garanzie, ma profondo e spontaneo. Non come due soci in affari, ma come due innamorati.

Geremia sogna una relazione fatta non di certezze, di assicurazioni, ma di fiducia, in cui l’uomo impari finalmente a vivere pienamente, senza nulla che possa illudere di poter tenere Dio sotto controllo, ma fidandosi soltanto della sua promessa che ci sarebbe stato sempre. Semplicemente un rapporto di amore, di affidamento reciproco.

E Geremia predica questo sogno in uno dei momenti più cupi della storia d’Israele, nella consapevolezza di essere la persona sbagliata, nel dramma personale di non sentirsi a posto. Se Osea riceve da Dio l’invito a confidare in lui e amarlo anche fuori dagli schemi attesi, Geremia non si vede neppure spiegare la missione, ma la deve vivere senza capirla fino in fondo. Anche in questo caso, però, ha senso fidarsi semplicemente di Dio, affidarsi a lui, comprese scelte concrete come comprare un campo mentre sta arrivando un esercito invasore (Ger 32) o invitare gli esiliati del 597 a cercare il bene nella terra nella quali sono stati deportati (Ger 29), senza temere che questo significhi tradire il Signore. Proprio mentre l’esercito della terra in cui vivono sta marciando contro la patria nella quale erano nati.

Geremia coglie un Dio che si fa trovare ovunque, anche quando tutto sembra andare male, anche quando si ha l’impressione di essere sbagliati e al posto sbagliato. Anche in quelle situazioni, è Dio l’autentico e unico pastore di Israele (Ger 23,1-8), che resta presente e vigila sui suoi, come rassicura la prima visione dell’intero libro (Ger 1,11-12): Dio veglia, Dio c’è. «Tu continua solo ad aver fede» (Mc 5,36).

Angelo Fracchia
(Camminatori 09 – continua)




Perderci e ritrovarci


Sono qui di fronte a te. Dopo una notte di lavoro lunga e infruttuosa.

Ora è l’alba, e tu ti sei presentato alla mia fame per offrirmi un buon cibo preparato da te (Gv 21).

Ricordo di noi due. Ti avevo cercato per molto tempo senza trovarti, e, quando tu mi hai trovato, ho scoperto che anche tu mi cercavi. Da sempre.

Ricordo di avere più volte rischiato di perderti, e che tu mi perdessi. Di avere sentito che, perdendo te, avrei perso anche me. Paura di rimanere senza un nome da pronunciare, senza un volto che chiamasse il mio nome.

Non ti ho mai perso fino a quella sera, quando mi hai detto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi» (Gv 13,36). Quando ti ho chiesto di tenermi con te e di poter morire per te, e di perdermi per te, e tu non hai voluto.

Mi sono perso in me, allora, e non ti ho più riconosciuto. A chi mi domandava se fossi tuo amico, rispondevo di no. E non mentivo: davvero ti guardavo nel cortile di Anna e stentavo a dire di te che tu mi amavi e che io ti amavo.

Ti ho perso mentre venivi innalzato e io rifiutavo di vederti così lontano, diverso, distinto da me, così altro. Totalmente te.

Mi avevi chiamato a una prossimità intima. Ora mi chiamavi a un distacco, a una distanza che ti rivelava per ciò che sei, che mi svelava per ciò che sono.

Una distanza ancora più intima che suggerisce quanto non sia automatico, necessario o inesorabile che io e te ci amiamo.

Una trascendenza che ci chiede di sceglierci. Di nuovo. Ancora.

Lo capisco ora, masticando questo pesce arrostito.

Meraviglia!

Mentre tu sei totalmente tu e io sono totalmente io, mi chiedi se ti scelgo, mi dici che mi scegli. «Pasci le mie pecore» e, come il primo giorno, «seguimi», perché mi prendi con te e dove tu sei sarò anche io.

Buon mese missionario, in intima prossimità e alterità con Lui, da amico

Luca Lorusso

 




Osea, profetizzare con la vita


Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici.

Un libro complicato

Il profeta Osea ha il privilegio di un libro dedicato interamente a lui. Un libro, però, che è discretamente difficile. La sua parte più ampia, dal capitolo 4 in poi, è in poesia, come succede spesso alla profezia ebraica, e allude, in modo a volte stringatissimo, a vicende che gli ascoltatori devono conoscere bene. Come succede alle canzoni contemporanee, non solo non c’è bisogno di spiegare tutti i particolari, ma addirittura è meglio mantenere un po’ di ambiguità, perché siano gli ascoltatori a completare il discorso, facendolo così più proprio.

Osea vive e profetizza nel regno di Israele del Nord, intorno alla capitale Samaria e al suo tempio di Betel, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. È un periodo delicato, che si chiude nel 721 a.C. con la distruzione del tempio e l’annessione dello stato allo spietato impero neoassiro. È probabile che prima della distruzione del tempio alcuni sacerdoti e scribi siano riusciti a fuggire a Gerusalemme, portandosi dietro tradizioni, storie e anche manoscritti, tra cui forse anche i capitoli dal 4 al 14 del nostro libro, che in effetti in alcuni passaggi sembra scritto in una lingua strana e non sempre comprensibile in tutti i dettagli.

Quando si fa un trasloco, però, anche in situazioni molto meno drammatiche di quelle vissute dagli antichi scribi, si coglie l’occasione per liberarsi di ciò che non interessa più, e si sceglie di trasportare solo ciò che si ritiene ancora prezioso. Evidentemente, il libro di Osea è tra i tesori che i fuggiaschi samaritani non vogliono perdere e, una volta arrivati a Gerusalemme, ne spiegano il valore ai sacerdoti locali. Qualcuno, per renderlo più comprensibile, aggiunge un’introduzione in prosa, in un linguaggio che è molto più facile da capire di quello del testo in poesia.

Un matrimonio difficile

«Va’ e prenditi per moglie una prostituta» (Os 1,2). Così inizia il libro di Osea, non proprio un grande punto di partenza per un matrimonio, tanto più in un mondo come quello ebraico ossessionato dalla purità anche nei legami coniugali perché ritiene che i figli non sono semplicemente i discendenti dei genitori, ma sono iscritti in una trasmissione della benedizione divina che risale fino ad Abramo. Offuscare quella linea di trasmissione significa, in ultimo, offendere anche Dio. Eppure è Lui a chiederlo al profeta di sposare una prostituta spingendolo a vivere la propria vita in un modo apparentemente lontano dai precetti divini.

Fin dall’inizio, però, si chiarisce che la posta in gioco non è «soltanto» la vita di una persona, infatti il versetto continua così: «perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Insomma, il testo ci suggerisce subito che il matrimonio di Osea è un’immagine del rapporto di Dio con il suo popolo. Al profeta viene chiesto di sposare una prostituta perché è Dio stesso a trovarsi sposato a un popolo infedele. Quello che farà Osea sarà un’immagine dell’intenzione divina. Il profeta annuncia il messaggio divino con la propria stessa vita.

Quell’intuizione di partenza prosegue nei figli, che ricevono nomi certo non troppo beneauguranti: il primo viene chiamato Izreèl (Os 1,4), come la valle nella quale fu distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), o in cui si trovava la vigna che un re desiderava e che la sua regina, Gezabele, riuscì a strappare al legittimo proprietario facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si sono verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5), proprio come ci aspetteremmo da un Dio severo e giusto.

Dopo Izreèl nascono poi anche Non-amata e Non-popolo-mio (Os 1,9).

Un matrimonio improbabile segnato da rapporti difficili anche con i figli, immagine di un Dio che evidentemente non è contento del suo popolo e che inizia a pensare di doverlo punire. D’altronde, è diritto e, sostanzialmente, quasi dovere di un capofamiglia farsi rispettare anche con le cattive.

Una soluzione «divina»

La possibilità di un castigo severo e inflessibile aleggia in tutto il libro. In fondo, è ciò che ci si aspetta che faccia un marito, proprietario della moglie, ed è ciò che solitamente si pensa che dobba fare Dio. Quante volte persino noi, moderni ed evoluti, ci diciamo che se Dio ci fosse e fosse attento a noi, certe ingiustizie non le sopporterebbe.

Anche Dio, verrebbe da pensare, è tentato da una soluzione violenta e chiara (Os 2,11-15) che forse non lo rallegrerebbe, ma almeno lo vendicherebbe.

E invece Egli trova una soluzione diversa. Non quella che l’uomo si aspetterebbe, ma quella che meglio corrisponde al cuore.

«La condurrò nel deserto», là dove non ci sono distrazioni, dove si può essere soli, come lo erano Dio e il suo popolo durante i quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa, «e parlerò al suo cuore», cercando di convincerla, di farsi ascoltare e ubbidire. «La sedurrò» (Os 2,16). «E in quel giorno non mi chiamerai più “mio signore”», o, per usare il termine ebraico che può suonare familiare persino a noi, «non mi chiamerà più “mio baal”». «Baal» era il modo con cui i Cananei, molto diffusi e importanti nel nord d’Israele, si riferivano al loro dio, che poi coincideva con il modo con cui la moglie parlava al marito, riconoscendolo a lei superiore e suo «capo». «In quel giorno non mi chiamerai più “mio signore” ma “mio uomo”» (Os 2,18), come un’innamorata, che riconosce in colui che ha di fronte non il suo padrone, ma il suo amato, una persona con la quale sta in rapporto alla pari.

E, siccome impostare in questo modo il rapporto amoroso significa per Dio (e per Osea) non avere certezze (un padrone può imporre la sua volontà, un amante no), da qui in poi Dio si mette ad attendere una risposta, e a sognare.

Dio immagina di mettere pace in tutta la natura (2,20), sogna una relazione fatta di «giustizia e diritto», unendo l’aspetto più formale, esteriore, legale (diritto) e quello più profondo di equilibrio nel rapporto, di profonda sintonia e correttezza (giustizia). Poi ancora immagina «amore» (il termine indica l’affetto gratuito, disinteressato, dei genitori verso i figli) e «benevolenza», atteggiamenti che rimandano però alle viscere, ai sentimenti più diretti, spontanei, passionali e intimi. Dio sogna, cioè, che la realtà esteriore del matrimonio dica quella più interiore del desiderio di vivere insieme, e che l’attrazione si esprima anche in dono gratuito e generoso.

«A Izreèl risponderanno il grano, il vino nuovo e l’olio» (Os 2,24), così che la valle diventata sinonimo di maledizione si riempirà di quei doni agricoli che, secondo i cananei, era baal a garantire. «Amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”».

È un sogno. Dio sta immaginando un matrimonio di totale amore. Sta sognando, perché ancora in attesa di una risposta.

Un amore senza condizioni

Tutti noi sogniamo un amore incondizionato. O, più egoisticamente, di essere amati senza condizioni. Anche se, nella storia, viviamo anche di patti: «Se non mi sei fedele, se non mi ami, anche io mi disamorerò».

Il libro di Osea, la vita di Osea, ci dicono che Dio non ha intenzione di mettere condizioni. Ne è tentato, come tutti gli amanti, e ipotizza la punizione vendicativa. Ma decide di essere troppo innamorato per mettere a rischio questa relazione.

Nel capitolo 11, in poesia, Osea fa ripercorrere a Dio la storia con il suo popolo, al quale ha insegnato a camminare tenendolo per le ascelle, da dietro, come un papà che non vuole abbandonare ai pericoli il figlio ma desidera che impari a camminare con fiducia nei propri mezzi (11,3), e che ha preso in braccio per baciarlo sulla guancia (11,4): «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore».

Certo, si è trovato di fronte ingratitudine e tradimento (11,2). Ma di fronte alla possibilità, che sarebbe reale, di punirlo (11,6-7), si lascia intenerire: «Come potrei abbandonarti? Come potrei trattarti come Admà e Seboim?» (le due città distrutte insieme a Sodoma e Gomorra, cfr. Dt 29,22). Dio si sente struggere le viscere all’idea di fare del male al proprio figlio (Os 11,8). «Io sono Dio, e non uomo» (Os 11,9), e questa affermazione, che potremmo anche interpretare dicendo che di sicuro, se decide di punire, punirà, diventa invece la premessa per affermare che lui non castigherà. Dio ha deciso, è dalla parte della vita del suo popolo. Parlerà al suo cuore, tenterà di sedurlo, ma non gli farà del male.

Tutto questo Osea lo intuisce, chissà se in sogni o visioni, o semplicemente continuando a meditare sul volto di Dio che emerge dalla storia d’Israele. E capisce che se Dio è così, quella è l’immagine precisa dell’amore vero. Perché, di fronte a una donna che continua a prostituirsi anche da sposata (Os 3,1), Osea si sente chiamato a fare non ciò che gli altri pensavano che dovesse fare (costringerla, denunciarla e piuttosto farla lapidare, mostrando chi era il capo), ma ciò che Dio farebbe, amando incondizionatamente, persino senza essere corrisposto allo stesso modo, senza essere capito (in fondo, Gomer, la moglie, potrebbe pensare di aver fatto il suo «dovere», dandogli tre figli).

Un’intuizione abissale

Tutto ciò sarebbe già tantissimo. Ma può darsi che ci sia dentro persino di più.

Osea vive e profetizza nel nord d’Israele, dove è più forte la presenza delle popolazioni di religione cananea, che, stando a quanto riusciamo a ricostruire, prevede anche la prostituzione sacra come atto religioso. Perché mai una donna sposata e con figli, amata dal marito, dovrebbe tornare a prostituirsi? Può darsi che il libro di Osea suggerisca addirittura che Gomer, la moglie, sia una cananea, e che continua a frequentare quegli altri dèi.

Osea sarebbe chiamato ad amare una donna infedele e di un’altra religione, e, facendolo, «rappresentare» Dio stesso, il quale non sarebbe allora attento ai doveri religiosi, a riti o formule di fede, ma al rapporto d’amore. Quasi come se dicesse: «Non mi importa neppure se non vuoi essere tra i miei fedeli; ma amami».

Capiamo quanto il libro e la vicenda di Osea possano aver sconvolto gli antichi fedeli. Abituati (un po’ come noi, se siamo sinceri…) a pensare a un Dio potente, inflessibile e giudice severo ma giusto. Sono invece messi davanti a un cuore amante, che vuole essere amato. A costo di trascurare convenzioni, norme e «buone abitudini». E si trovano davanti un profeta che decide di vivere come Dio, un Dio che, nella vita di Osea, si mostra fragile, pronto ad ammettere che non smetterà di amare e di attendere con paziente ansia una risposta.

Da parte di Dio non ci sono incertezze: sarà Lui stesso a guarire Efraim dalle sue infedeltà (14,5), a far fiorire il popolo e a porsi per lui come un cipresso sempreverde (14,9; il cipresso era la pianta tipica dei luoghi della prostituzione sacra a Baal, ndr.). Capita che nel Primo Testamento si paragonino i giusti ad alberi radicati lungo corsi d’acqua (Sal 1,3; Sir 50,8), ma mai altrove si ricorre a queste immagini per definire Dio. È come se qui si volesse anticipare che Dio non solo garantirà sempre la sua protezione, ma addirittura che si farà presente in mezzo a loro come un uomo. Con Gesù quell’immagine e quel desiderio di comunione misericordiosa prenderanno il loro volto definitivo.

Angelo Fracchia
(Camminatori 08 – continua)