Una sosta per capire (Gv 7)


Il settimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni a prima vista non è di quelli che restino impressi nella memoria dei lettori. Parrebbe quasi un momento di passaggio, interlocutorio, come una pausa per prendere respiro.

E invece non è così. L’evangelista non vuole lasciarci riposare, e ce lo dice sottolineando più volte che ci troviamo alla festa delle Capanne. Si trattava, soprattutto al tempo di Gesù, di una festa autunnale molto sentita. La sua origine era contadina, legata agli ultimi racconti dell’anno, soprattutto quello dell’uva. Nel tempo, però, era stata collegata, come lo è ancora oggi, agli anni vissuti da Israele nel deserto, quando pur nella precarietà, il popolo era comunque nelle mani affidabili di Dio. Il dormire in capanne di frasche, anche solo simboliche, voleva richiamare quel tempo in cui gli ebrei vivevano in tende e non avevano altra certezza che la presenza protettrice di Dio.

Precarietà e fiducia

E Giovanni sembra proprio costringerci a muoverci in quello spazio incerto. Così, nel capitolo 7, ci descrive un Gesù «rifugiato» in Galilea, a causa delle minacce di morte dei giudei, che dice di non voler tornare in Giudea per la festa delle capanne, ma che poi ci va di nascosto. Un Gesù che a metà dei giorni di festa si mette a predicare nel tempio suscitando attorno a sé dibattiti e divisioni sulla sua identità. La gente discute anche sulla veridicità delle parole di Gesù che affermano esserci chi vuole la sua morte (v. 20), mentre invece c’è proprio chi attivamente cerca di procurargliela (vv. 1.30.32.45).

La gente si domanda: chi è costui? È vero che spiega con profondità e autorevolezza la Bibbia, ma non ha studiato (v. 14-15). Qualcuno crede che Gesù sia il messia, altri invece no, perché quando il messia verrà «nessuno saprà di dove sia» (v. 27). Qualcun altro ricorda che la Scrittura dice che il messia forse verrà da Betlemme (v. 42). Non può quindi essere Gesù: tutti, infatti, sono sicuri che lui è di Nazaret (v. 41). Altri pensano: se le autorità religiose lo lasciano parlare in pubblico, di certo deve dire cose giuste (v. 26), ma non sanno che in realtà proprio quelle stesse autorità stanno cercando di imprigionarlo. C’è chi vede che è buono e fa gesti grandiosi (vv. 12.31) e chi lo ritiene indemoniato (v. 20).

Di Gesù sembra potersi dire tutto e il contrario di tutto. A chi credere?

Anche alcuni di quelli che più sono vicini a Gesù, che lo conoscono meglio, non credono in lui; ma, nello stesso tempo, i gesti che compie, e soprattutto le parole che condivide, sembrano aprire prospettive di profondità, di vita, di nutrimento e acqua fresca. Come ha detto Pietro a nome dei dodici poco prima: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,69).

La testimonianza del Padre (Gv 7,14-25)

È Gesù stesso a offrire una chiave di comprensione, anche se potrebbe sembrarci persino più astrusa. Dice, infatti, che è il Padre ad avergli mostrato tutto, e che, se si vuole vagliare la sua credibilità, è al Padre che bisogna guardare (vv. 16-18).

Da una parte, come dicevamo, questo ci complica le cose. Finora era sembrato che fosse Gesù a farci conoscere il Padre, a mostrarcelo, e che si potesse guardare a Gesù esattamente per conoscere meglio il Padre. Ora però Gesù ci dice che, per credere al Figlio, si deve fare riferimento alla testimonianza del Padre… che però noi conosciamo tramite il Figlio. Sembra di annodarci in un ragionamento senza uscita.

Se ci pensiamo, però, è proprio questa la logica delle relazioni umane. Gesù sostanzialmente dice che se si guarda a ciò che il Padre ha fatto nella storia, e che si conosce dal Primo Testamento, si può cogliere la coerenza con ciò che insegna lui. Non siamo di fronte a un ragionamento filosofico o matematico (da A si ricava B, da B si ottiene C), ma di coerenza intima: «Ciò che insegno non è forse coerente con ciò che Dio ha sempre fatto?». Di fronte a questo appello, chi ascolta non può più semplicemente mettersi alla finestra come un giudice che stabilisce se il ragionamento tiene, ma deve coinvolgersi, decidere, schierarsi. È come trovarsi di fronte a un’opera d’arte: magari non siamo artisti, ma per capire un quadro dobbiamo seguire i suggerimenti del pittore, ripercorrere la sua intuizione, dobbiamo farci un po’ artisti.

Ecco perché così tanti discepoli e persone vicine a Gesù, in questa parte del vangelo, non credono più in lui. Perché non si tratta più solo di ascoltare e valutare, ma di prendere posizione, di credere o no. Come in un’amicizia, come in una relazione, ci può essere un tempo in cui provare a vagliare se quei segni di vicinanza sono affidabili, ma poi arriva il momento in cui non si può più stare alla finestra, perché bisogna scommettere se quella relazione può essere autentica, e quindi conviene darle fiducia e farla crescere, o se invece la riteniamo ingannevole o pericolosa e allora va abbandonata (cfr. il v. 12, dove si ipotizza proprio che Gesù «inganni la folla»). Tenersi neutrali non è possibile, è come rifiutarla.

Da qui in poi, allora, il discorso sul Padre da parte di Gesù si farà più intimo e complesso, perché non potremo più semplicemente porci come spettatori e ascoltatori. Dobbiamo entrare in gioco.

Tra afferrare e lasciare scorrere (Gv 7,30-39)

Cogliamo così il legame che c’è tra due temi che noi, forse, non avremmo messo vicini.

Da una parte c’è chi cerca di afferrare Gesù, invano (vv. 30.32.45), per arrestarlo: le autorità, i sommi sacerdoti e i farisei. Cercano di zittirlo, non di controbattere o di entrare in dialogo, di provare a capire e a rispondere, ma di farlo tacere, così come sono riusciti a mettere a tacere chi si interrogava su Gesù (v. 13).

E qui entra prepotente la mano dell’evangelista, che afferma che si potranno mettere le mani su Gesù soltanto quando sarà il momento. Giovanni non è interessato a scrivere una cronaca, e quasi non ci spiega perché le autorità non riescano ad arrestare Gesù. Ci dice solo, verso la fine del capitolo, che le stesse guardie, persone abituate a ubbidire senza farsi domande, affermano che «mai un uomo ha saputo parlare così!» (v. 46). L’attenzione non è sulle azioni di Gesù, ma sulla sua sapienza, sulle sue parole che sanno evocare un desiderio umano profondo.

Giovanni, che non a caso chiama «segni» i miracoli, insiste sul fatto che non è lo stupore o l’interesse a portarci stabilmente verso Gesù, ma le parole di vita che sa donare, la vita promettente che sa evocare.

Dall’altra parte, infatti, contro coloro che vorrebbero «afferrarlo» e rinchiuderlo, Gesù si erge in piedi, solenne, a gridare, nell’ultimo giorno della festa, che chiunque ha sete è chiamato ad andare a dissetarsi da lui. «Fiumi d’acqua viva fluiranno dalle sue viscere!» (v. 38), dice Gesù affermando di citare la Scrittura, anche se non si capisce di preciso a quale passo stia pensando (Ezechiele? Zaccaria? I salmi?). Non si capisce quindi di preciso se l’intimo, il cuore, le viscere da cui scaturiranno fiumi d’acqua viva siano di Gesù o di chi va a lui. Ma in realtà questa ambiguità è probabilmente voluta. È Gesù che dona acqua viva, ma sarà anche chi si affida a lui che potrà fare come Gesù. L’acqua, ciò che non si può restringere, non si può chiudere in confini, non può essere «afferrata» e rinchiusa. Acqua viva, che continua a scorrere, che sa dissetare senza risparmio, senza paura, che purifica e rinfresca.

Da una parte c’è chi pretende di chiudere la fedeltà a Dio in regole, silenzio e ubbidienza; dall’altra ci sono parole che evocano la libertà e l’appagamento di acque vive. E il Padre, dice Gesù, è da questa seconda parte.

Germi di ascolto (Gv 7,40-52)

Non è allora per ripetizione che Giovanni torna a recuperare sia la domanda sull’origine di Gesù (vv. 40-43), sia il tentativo di afferrarlo e rinchiuderlo (vv. 44-47). Questi due temi, apparente-
mente slegati, sono invece intrecciati, e l’evangelista, ripetendoli, ci suggerisce che dobbiamo connetterli e non dimenticarli.

Perché, sembra dirci, è giusto farsi domande su Gesù, sulla sua pretesa di comunicarci il Padre e sul suo legame con Lui. È giusto perché non è una realtà evidente, che si imponga. Non è una dimostrazione matematica, che ci costringa a riconoscerne la verità. È invece un’intuizione profonda, autentica, esistenziale che ci chiede di prendere posizione, di decidere da che parte stare.

Assomiglia alle relazioni umane, perché ciò che Dio cerca è esattamente una relazione. Non ci sono infatti parole dure, nei vangeli, nei confronti di chi fatica a credere. Perché l’incertezza, l’insicurezza, sono comprensibili. I giudizi pesanti, invece, sono verso chi vorrebbe far tacere Gesù e le domande, anche a costo di mentire.

Alle guardie che, contro la loro natura e la loro etica, mandate ad arrestare Gesù, si fermano perché «mai un uomo ha saputo parlare così», i capi religiosi ribattono che soltanto gli stupidi, «la folla, ignorante della Legge», si è lasciata sedurre da Gesù. È l’obiezione dei presuntuosi, che guardano i titoli di merito («dove ha studiato, costui?», v. 15) e non si lasciano coinvolgere dalla possibilità di parole di vita. E che mentono, affermando che solo gli ignoranti si farebbero ingannare da questo presunto messia.

Giovanni lo fa subito notare, perché uno del sinedrio, quel Nicodemo «che prima era andato a lui di notte» (v. 50), non prende posizione netta a favore di Gesù, ma si rifiuta di condannarlo senza prima ascoltarlo, peraltro facendo appello proprio alla Legge.

Nicodemo è una figura incantevole del Vangelo di Giovanni, perché, pur non prendendo posizione, si mette in ascolto: va a parlare a Gesù, pur con molte diffidenze e senza volersi far notare (Gv 3,1-21), e sarà tra coloro che si prenderà cura del corpo del crocifisso (Gv 19,39). Non un discepolo in senso pieno, ma una persona che si lascia coinvolgere, che vuole ascoltare e capire, che si lascia scomodare.

È uno di quei discepoli «in spirito e verità» (Gv 4,23-24) che il Padre cerca e spera. Non necessariamente persone che abbiano già deciso definitivamente e con fermezza, ma che si lasciano mettere in discussione, che ascoltano e meditano, che non hanno verità preconcette.

Perché, come nelle nostre relazioni, nel nostro orientamento di vita, in tutte le questioni più profonde, Gesù e il Padre sanno che non è facile affidarsi, decidersi, scegliere, e comprendono chi fatica, chi è incerto. Perché il messaggio di Gesù sul Padre non è un teorema matematico incontrovertibile, ma una parola di vita, promettente ma senza garanzie previe. L’unica risposta sbagliata è quella di chi non vuole neppure ascoltare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 09 – continua)




Pillole «Allamano» /9. Non dire mai non tocca a me


Ho visto di recente, insieme ad altri missionari che lavorano in Europa, il film «Terraferma» di Emanuele Crialese, premio della giuria al Festival del cinema di Venezia 2011. Racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive in un’isola al largo della Sicilia e che, insieme alla comunità del posto, si trova a vivere un conflitto fra tradizione e modernità. Gli abitanti sono infatti intrappolati nel dilemma: continuare con una vita di pesca o aprirsi al turismo e, di conseguenza, al consumismo di marca occidentale? Quello che si preannuncia all’inizio del film come un conflitto generazionale (c’è un’eco dei Malavoglia nella storia narrata) assume connotati nuovi con l’irruzione dell’emergenza migranti che viene a sconvolgere la vita degli abitanti e il loro rapporto con il mare.

Non tutti gli isolani sono inclini a sopportare passivamente la marea umana che si abbatte sulle loro spiagge. Il turismo, la nuova dimensione appena scoperta e che apre le porte a un futuro di minori sacrifici e stenti, viene messo a dura prova da questa ennesima sfida che arriva dal mare. Eppure, in mezzo a tutto il marasma che sconvolge la placida esistenza della gente del posto, si viene a creare uno spazio favorevole per la solidarietà e l’altruismo. Tanto il codice del mare, che non prevede di lasciar morire un uomo in balia delle onde, come il senso di fraternità che tocca l’animo dei protagonisti investono gli abitanti dell’isola di un imprevedibile e nuovo senso di responsabilità.

È inutile dire che la storia fittizia di «Terraferma» ricalca quella purtroppo vera e sofferta di Lampedusa. Come non ricordare del resto i gesti di accoglienza dei lampedusani, per altro lodati anche dal Papa? Si tratta di gesti compiuti da gente semplice, sovente povera, messa in crisi da una situazione diventata ingestibile. Nonostante tutto, di fronte all’emergenza per molti di loro è impossibile dire: «Non tocca a me».

Per la (nostra) generazione cresciuta a pane e Alberto Sordi è costato rinunciare al mito dell’italiano «tutto sommato brava gente», sempre pronto a redimersi da una vita da brigante grazie a un atto di eroismo finale e catartico con cui prende finalmente e responsabilmente in mano la propria vita. Basta avere la possibilità di andare un po’ in giro per il mondo, oppure la magnanimità di incontrare chi da fuori viene a vivere nel nostro paese, per capire che non siamo più buoni o meno buoni di tanta altra gente. Anche qui in Italia c’è chi incassa la testa fra le spalle e tira diritto senza voltarsi, lasciando che l’altrui persona badi a se stessa, risolva i suoi problemi da sola. Anche qui c’è chi pensa: «Chissenefrega, io cosa c’entro … non ho tempo, non mi sento, non sono capace e, alla fine della fiera, non sono problemi miei!». Se così non fosse, e non fosse sempre stato, Giuseppe Allamano non avrebbe avuto bisogno di dare, all’epoca, una pillola dei cui effetti benefici si sente il bisogno anche oggi.

Certamente l’ambito a cui preferibilmente l’Allamano si riferiva era quello formativo dei missionari della Consolata. Tante sono le volte in cui ricorreva questa espressione, segno dell’importanza che egli dava all’aspetto della partecipazione alla vita comunitaria ai fini della missione e alla dimensione della responsabilità personale. «Non dire mai non tocca a me» è infatti più di una raccomandazione, è un appello alla responsabilità e alla vocazione cristiana, prima ancora che religiosa e missionaria. Anzi, proprio perché indirizzato alla compartecipazione nella vita sociale e alla creazione di migliori relazioni fra le persone, questo appello puntava a una crescita che doveva essere innanzi tutto umana.

In un mondo dove si considera etico chi osserva il principio di reciprocità, la radicalità di questa pillola è un elemento che spariglia le carte, confonde, mette in crisi. Il do-ut-des è un regolatore sociale potente. «Io do perché tu mi hai dato» oppure «do perché aspetto di ricevere». Se contravvengo a questa consuetudine vengo punito. In questo contesto, io dirò «tocca a me» soltanto quando sarà il mio turno, aspettando che tu abbia fatto il tuo e Tizio il suo; in caso contrario mi sentirò autorizzato, e giustamente, a non fare assolutamente niente. Se tu vuoi che io faccia, inizia tu a fare quanto ti compete. Meglio che nulla, verrebbe da dire; meglio che l’inazione dovuta a pigrizia (non ne ho voglia), a ignoranza non contrastata (non sono capace), alla pretesa di un diritto acquisito (non l’ho mai fatto, non vedo perché dovrei farlo ora, non mi compete), ecc. La lista potrebbe essere lunga. Quante meravigliose ragioni per dire: «Non tocca a me!».

Kenya, quattro che hanno preso sul serio il loro compito: padre Giacomino Camisassa, uno dei primi catechisti, suor Irene (ora beata) e mons Filippo Perlo

Nel mondo del lavoro, dove relazioni e competenze sono regolate da un contratto, diventa più difficile uscire da schemi di reciprocità che stanno normalmente alla base di un qualsiasi accordo fra le parti. Non mancano per fortuna esempi, anche se pochi, di circoli virtuosi operati in alcuni luoghi in cui il datore di lavoro fa un po’ più di quello che gli spetta e il dipendente non si tira indietro nei momenti del bisogno. Questi pochi, ma illuminati esempi ci dicono che rifiutare «il non tocca a me» può diventare persino eversivo se ci si crede, se si entra in una dinamica differente, se si spezza il vincolo del do-ut-des.

Non sfuggono elementi abbastanza contraddittori che caratterizzano il momento attuale e lo rendono complesso, articolato, difficile da decifrare. Da una parte sembra evidente che la gratuità stenta a imporsi nelle relazioni fra le persone. Tutto va pagato, retribuito, tutto ha un prezzo: ti do se mi dai o, al massimo, darai. Se non s’intravedono possibilità di guadagno, gratificazione, crescita, ci si sgancia: «Non tocca a me, sorry». Questo, verrebbe da dire, capita anche nelle migliori famiglie!

Oggi, purtroppo, si avverte infatti un crescente disimpegno a vari livelli. La persona ne accusa le conseguenze, senza però rendersi conto del ruolo che lei stessa potrebbe positivamente giocare, o senza forse avere il coraggio di fare il primo passo per dare alle relazioni un indirizzo differente. La famiglia è il primo ambito in cui tale disimpegno appare evidente e tale fenomeno assume aspetti devastanti, per le ripercussioni che si hanno in molti altri ambiti. La scuola sente il disimpegno della famiglia, così come la comunità cristiana, ecc. Tutti gli ambiti educativi sono coinvolti e ciascuno reclama un’attenzione maggiore dell’altro, mettendo a nudo un circolo, questa volta decisamente vizioso, da cui sembra impossibile uscire.

Per contro, bisogna anche sottolineare una certa reazione a questo modo diffuso di interpretare la vita. Da poco l’Istat ha pubblicato uno studio sul volontariato oggi in Italia, evidenziando come, nonostante notevoli differenze fra una zona e l’altra del paese, il tasso percentuale di persone impegnate in attività di volontariato sia oggi aumentato notevolmente. Sono più di 6 milioni gli italiani di età superiore ai 14 anni che hanno svolto nel 2013 un’attività di volontariato. Oltre 4 milioni di essi lo ha fatto in collaborazione con organizzazioni di vario tipo, mentre i restanti hanno prestato servizio direttamente, in maniera indipendente, a favore di altre persone, di comunità o dell’ambiente. Il tasso di volontariato è oggi pari al 12,6 per cento della popolazione, ovvero un italiano su 8. Dà speranza a pensare che nel 1993 il tasso era del 6,9 per cento e raggiungeva il 10% nel 2011.

Dati incoraggianti che ci dicono che esiste dunque una via per interpretare la realtà in modo differente; il cristiano dovrebbe esserne innanzitutto cosciente e saperla indicare a tutti in modo chiaro e luminoso. Nel Vangelo, infatti, la logica del rapporto padrone–dipendente viene spezzata per sempre. L’uomo è figlio, non servo. Partecipa degli utili «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19, 29, ma è anche chiamato a farsi carico degli oneri. In particolare, deve condividere la «politica aziendale» ed essere pronto a sacrificarsi per i beni di famiglia («se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua», Lc 9, 23). Il cristiano è invitato a essere coerede del creato di cui è parte, ma di cui è anche custode responsabile, project manager del lavoro di redenzione di Dio.

Ciò significa imparare a dire dei sì e dei no, significa assumere delle responsabilità sentendosi piloti e non passeggeri della propria vita e di quanto ci circonda. Le famiglie (o le comunità religiose, a cui Giuseppe Allamano si rivolgeva direttamente) sono ottimi banchi di prova per vedere se uno cresce in questa dimensione o se rimane fermo a mercificare diritti e doveri cercando di farli quadrare in bilancio, riuscendo magari pure a guadagnarci qualche cosa.

«Non dire mai non tocca a me, perché tocca a tutti». L’Allamano lo raccomandava anche ai missionari partenti, come un lascito importante, una di quelle cose da mettere in valigia, magari all’ultimo momento, ma da non dimenticare assolutamente. «Dobbiamo essere tutti uniti fra noi», interessandoci delle cose comuni, superando la mentalità di chi si vede realizzato solo ed esclusivamente nel compito che gli viene dato. Parafrasando un esempio da lui fatto: il gas lasciato acceso è un pericolo per la casa, forse nessuno è stato incaricato di spegnerlo, e allora che cosa si fa? Ci si adopera in un’azione preventiva o si aspettano i pompieri perché tanto «tocca a loro»?

Oggi, sta purtroppo diventando stereotipata l’immagine del religioso accomodato nella sua vita e, proprio per questo motivo, accomodante nei confronti di tutto ciò che minaccia la vita del Regno. Il ripetere «non tocca a me» ammazza lo spirito stesso della vita religiosa che presuppone la sequela di qualcuno, Cristo, che ha rifiutato la tentazione del «passi da me questo calice» per farsi carico, responsabile fino in fondo della missione affidatagli. Giuseppe Allamano, che vedeva nella vocazione missionaria la perfezione di quella religiosa e sacerdotale, non tollerava spiriti tiepidi, non desiderosi di dare il 101% alla causa del Vangelo.

Non si può non leggere nella pillola di questo mese il desiderio profondo di vedere una cristianità con le maniche rivoltate, pronta a offrire impegno, creatività e testimonianza in tutti gli aspetti della vita in comune. «Tocca a me» partecipare della vita politica del mio paese, contribuire a migliorare l’educazione dei figli, creare modelli di convivenza pacifici e solidali sul territorio, inventare strategie di economia sostenibile o scegliere che tipo di ambiente voglio lasciare a chi verrà dopo di me.

È un’illusione pensare che il girare la testa dall’altra parte lasci le cose come stanno. Sul lungo termine le cose peggiorano e s’incancreniscono, così come i cuori diventano più aridi, incapaci di dare, di aprirsi all’altro, di creare qualcosa di nuovo.

Nella sua famosa «Lettera ai giudici», Don Milani ricordava questo come uno dei principi fondanti della sua pedagogia: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”». Di sicuro, per il priore di Barbiana il principio era irrinunciabile e rimaneva valido anche di fronte alla tentazione di una vita più comoda, ma meno realizzante: «Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: – Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco –. Volevo anche scrivere sulla porta – I don’t care più –, ma invece me ne care ancora, molto.» (Lettera di Don Milani a Francuccio Gesualdi, 4 aprile 1967).

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Pillole «Allamano» 8: Fare bene il bene … e senza rumore


«I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene: io ho l’idea del Ven. Cafasso, che il bene bi sogna farlo bene, e non rumorosamente» (Conferenze IMC, I, 116).

Un tempo si usava portare a scuola un quaderno, lasciarlo nelle mani dei compagni affinché ciascuno a turno potesse scrivere un messaggio, un augurio o fare semplicemente una decorazione come ricordo. Ovvia mente anche l’insegnante era chiamata in causa e doveva corredare le pagine di tutti gli alunni con un saluto, un disegno, una massima beneaugurante. Ricordo a questo proposito una storiella che si raccontava in casa, forse proprio nel pe riodo in cui era iniziato questo scambio di diari anche con i compagni miei e di mio fratello. La maestra di non ricordo più quale membro della nostra famiglia aveva restituito il quaderno al mio povero parente con tre o quattro pagine strappate e diverse cancellature ancora visibili, segno evidente che l’operazione le era costata fatica e si era dimostrata più complicata del previsto. Il risultato di tanto sforzo, condensato in una massima scritta a incoraggiamento morale del mio congiunto, prendeva forma alla fine di tutta quella devastazione. Era una sorta di testamento spirituale che potesse rimanere a imperitura memoria del corpo docente (cosa che di fatto avvenne), il cui testo recitava: «Fai bene ciò che fai!». Era chiaro l’intento educativo che sottolineava l’importanza di mettere impegno nel fare le cose, agendo in modo consapevole e non trasandato. Peccato che in quell’occasione alla predica non fosse seguita un’applicazione adeguata. Sulla necessità di fare il bene, in effetti, vi sono poche controversie. Il problema, semmai, è riuscire a farlo bene.

Il primo articolo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratel lanza». Mi sembra interessante il fatto che prima di elencare e affermare i diritti inalienabili dell’essere umano, il testo dica ciò l’essere umano è (libero, uguale agli altri in fatto di dignità e diritti, razionale e dotato di coscienza…), ed esprima il mandato uni versale ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. L’articolo termina dunque con un appello a costruire il bene comune, a «fare il bene» perché valore condiviso, di tutti, universale. «Fare il bene» è un’attività che appartiene alla sfera dell’umano, alla legge naturale che regola l’ordine delle cose di questo mondo. Il bene non è soltanto un’idea tra scendente che va al di là del quotidiano, la realtà dove l’individuo vive ed agisce, ma anche ciò che l’uomo mette in pratica per vivere in maniera armonica la sua vita sociale e politica. Quella di questo mese è dunque una pillola che può essere assunta da chiunque, credente o non cre dente, per il solo fatto che punta alla felicità del l’uomo nella sua dimensione personale e sociale, in dipendentemente dalle convinzioni di carattere filosofico, culturale o religioso. Del resto, chi non vorrebbe poter condurre una vita armonica, felice e se rena?

Chiaramente, letto in ottica cristiana, il consiglio di Giuseppe Allamano assume una profondità ulte riore. Il precetto di fare il bene si radica nella mis sione propria dell’uomo di continuare l’opera crea trice e redentiva di Dio. Dio crea, e vede che quanto creato è buono. Questa bontà deve essere preservata perché il disegno di Dio non comprende il male, se non come frutto di un esercizio improprio della libertà dell’uomo. Anzi, nel progetto originale, l’uomo viene nominato il custode della creazione, creato a immagine e somiglianza di Dio, creato buono per fare il bene.

Tuttavia, basta poco per rendersi conto come le cose non funzionino esattamente così. Anzi, basta vivere in maniera cosciente per costatare come il male imponga spesso la sua presenza, una presenza misteriosa che non si può comprendere fino in fondo e, per questa ragione, tanto più angosciante. Fiumi di parole si sono scritte e si scrivono sul problema del male; ma anche lì dove pare che una scintilla di ragione riesca a imporsi sul buio, un’ingiusti zia, un lutto, un atto di cattiveria gratuita, una malattia fanno improvvisamente piombare nel buio del mistero chi cerca di capire.

Cristo è la risposta di Dio all’esistenza del male. Gesù non spiega, ma carica sulle sue spalle la croce e assume su di sé il male del mondo, esprimendo con la sua azione la massima espressione di bene: dare la vita per i propri fratelli. Fare il bene sempre e comunque è la risposta di Dio all’esistenza del male. Lasciarsi vincere dal risentimento o dalla disperazione di fronte a una situazione di dolore significa, per quanto umanamente comprensibile, fare il gioco del male, lasciarsi avvolgere dalle sue spire, restarne imprigionato. Rispondere con il bene dà un senso nuovo alla nostra vita. È la logica dell’a more incondizionato, del perdono e della riconcilia zione con se stessi, gli altri, il mondo ciò che costruisce e conserva il bene.

Decembre 1902, partenza delsecondo gruppo di missionari per il Kenya

Fare il bene …e farlo bene

Tuttavia, il bene è fragile e va trattato con cura. Non solo: il confine tra bene e ciò che non lo è risulta essere molto più labile di quanto si possa pensare. Sul fatto che sia ne cessario, anzi imperativo, fare il bene ci possiamo trovare quasi tutti d’accordo. Più difficile è stabilire confini di quando il bene è di fatto tale, o di quanto non lo è. Il bene imperfetto non è un bene. L’unico bene è quello fatto bene e perché sia veramente tale occorre farlo con prudenza e con sapienza. Un atto può essere buono o cattivo in sé, ma vi sono al tri fattori importanti, che vanno tenuti in conto. L’intenzione di chi compie l’atto non inficia la bontà dell’atto, che in sé continua a essere buono o cattivo, ma un’intenzione non retta fa indubbiamente perdere punti morali alla mia azione. Il narcotrafficante colombiano Pablo Escobar è stato in sé un grande benefattore e molti poveri hanno beneficiato del suo aiuto. Tuttavia, sebbene migliaia di persone ne scortarono il feretro il giorno del suo funerale, le biografie non lo ricordano esattamente come un angelo della carità. Parimenti, inutile dirlo, una buona intenzione non può convertire un atto cattivo in qualcosa di diverso. Rubare, ammazzare, giurare il falso sono sempre atti in sé non buoni, in dipendentemente dalle intenzioni di chi li compie. Detto questo, salta immediatamente all’occhio l’im portanza di un terzo elemento: quello delle circo stanze. La lettura sapiente di queste ultime è ciò che ci aiuta ad avere tutti gli elementi affinché si possa fare il bene e farlo davvero bene. Atti buoni, sostenuti da intenzioni altrettanto buone e gene rose, possono diventare occasione di un bene non fatto bene e creare situazioni di dipendenza nelle persone che vorremmo fare oggetto del nostro bene, oppure non rispondere agli effettivi bisogni della situazione su cui si vuole intervenire. O ancora, si può fare una buona azione, con rettissima intenzione, ma farlo con tale malagrazia, prepotenza, sufficienza, arroganza, paternalismo, ecc. da far risultare il nostro bene un completo fallimento. È chiaro che sull’argomento si potrebbero spendere fiumi di inchiostro. Pensiamo a quante esperienze si potrebbero raccogliere facendo raccontare episodi di vita vissuta in cui il bene non è stato fatto bene. Genitori, insegnanti, religiosi… Chiunque nella sua vita ha avuto modo di relazionarsi con gli altri potrebbe, raccontandosi, arricchire il campionario di errori, più o meno involontari, commessi nel tenta tivo di fare del bene.

Giuseppe Allamano desiderava che i suoi missionari potessero salvaguardarsi da questo rischio. Da uomo pratico qual’era, si dimostrava cosciente del fatto che la perfezione non apparteneva a questo mondo, ma allo stesso tempo cercava di preparare i suoi alle esigenze della missione, che richiedeva, perché molto impegnativa, delle risposte eccellenti.

Giuseppe Allamano, vero innamorato della preghiera, era anche cosciente che quest’ultima dovesse essere «aiutata» dalla persona stessa ad incarnarsi nelle situazioni che avevano bisogno di essere toccate e illuminate. Alcune sue insistenze di ventano per noi un insegnamento importante per poter fare bene il bene da compiere.

La prima è l’attenzione che egli vuole i suoi missionari mettano nel conoscere la realtà che li circonda. Conoscere bene lingua, cultura, storia, usi e costumi di un posto aiuta ad analizzare le circostanze e prevedere le conseguenze dei nostri atti. Fare il bene bene presuppone conoscere l’altro. Per fare ciò bisogna innanzitutto essere presenti, stare con l’altro lì dove egli vive. Questo vale per un genitore con i figli, così come per un educatore con le persone che gli sono affidate o per un prete con la sua comunità. Le relazioni «toccata e fuga» si nutrono di buone in tenzioni, ma nella maggior parte dei casi non sanno esprimere un bene ben fatto. Anche lo studio aiuta e Giuseppe Allamano era oltremodo esigente in merito con i suoi missionari a conoscere il contesto e a operare bene. La lunga permanenza dell’Allamano in confessionale, esercizio in cui era pignolo con i preti a lui affidati, lo aveva poi reso esperto nell’arte dell’ascolto. Chi l’ha conosciuto e ne ha dato testimonianza ha ricordato come si fosse sentito da lui ascoltato e, per questo motivo, capito. Fare il bene costa: fatica, tempo, energie e a volte anche denaro. Eppure, quante risorse e quante opportunità sono andate sprecate per aver semplicemente equivocato il bisogno vero dell’altro, per non averlo saputo ascoltare.

Vi sono poi due consigli specifici per fare bene il bene che Giuseppe Allamano trae da suo zio San Giuseppe Cafasso, a cui deve molto della sua ricchezza spirituale, e sono diretti a migliorare la persona in quanto tale, affinché questa ponga attenzione ai dettagli del proprio agire, per permettere al bene di rendersi evidente togliendo spazio al male. Oggi, usando un termine a noi più familiare, potremmo dire che l’Allamano consigliava la pratica del discernimento: mettersi davanti a Gesù e chiedersi come lui si sarebbe comportato in una determinata situazione, arricchendo così la lettura della realtà con quell’abbandono nella fede che dovrebbe guidare ogni azione del buon cristiano. Dopodiché, una volta identificato il come agire, buttarsi a capofitto, «come se quell’azione fosse l’ultima della vostra vita», affinché la mancanza di determinazione o di energia non debba successivamente penalizzare i buoni effetti del nostro fare il bene.

Si capisce che per Giuseppe Allamano «fare il bene bene» significa soprattutto «essere bene». Formarsi al bene permette di dare agli altri ciò che si è, con naturalezza, spontaneità, competenza… amore. Essere bene vuole anche dire volere il bene dell’altro in quanto altro, escludendo o non considerando i benefici, le grazie, i favori che ne potrei conseguire come agente del bene. Escludere i secondi fini per mette di vivere il bene con la vera umiltà di chi vuole farlo perché l’altro e soltanto l’altro ne possa beneficiare. Forse è vero che il bene non lo si fa: il bene in quanto tale è, e noi lo possiamo soltanto rappresentare, convertendolo magari anche in un qualcosa di concreto. Nel nostro delirio di occidentali tutti dediti al fare, il non essere protagonisti del bene che facciamo, ma lasciare diventare gli altri protagonisti del bene che noi semplicemente testimoniamo, sarebbe una rivoluzione copernicana, di quelle di cui sono capaci i Santi, come Giuseppe Al lamano.

Una volta stabilito questo si capisce perfettamente che il bene deve essere «silenzioso», deve sapersi presentare alla ribalta senza pompa e senza trombe. pubblicizzare incessantemente ciò che facciamo non aiuta a essere migliori di ciò che siamo, anzi! Il bene fa fatto bene… e senza rumore.

Ugo Pozzoli

Tutte le 10 parole




Volete andarvene anche voi? (Gv 6,59-71)


Nella scorsa puntata abbiamo interrotto la lettura del lunghissimo sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni al versetto 58. Ora la riprendiamo per vedere quanto lontano vuole portarci l’evangelista che ci aveva narrato la moltiplicazione dei pani, seguita da una lunga riflessione su quale sia il cibo che davvero ci fa vivere. Questo ha portato il discorso sul tema della centralità di Gesù, «io sono il pane vivente, disceso dal cielo» (Gv 6,51), autentico cibo e bevanda (v. 55) che chiede di affidarsi a lui solo, e di nutrirsi di lui.

La fatica di fidarsi (Gv 6,60-62)

Addomesticati da secoli di formule liturgiche, è possibile che a noi sfugga la portata rivoluzionaria e scandalosa di ciò che Gesù sosteneva e incentivava: al posto di sacrifici animali per chiedere perdono a Dio, Gesù proponeva solo un banchetto, incentrato sul nutrirsi del suo stesso corpo e sangue offerti come sacrificio, seguito dalla celebrazione della comunione con Lui. Ossia sanciva l’abolizione dei sacrifici animali (centrali per il culto nel tempio sostenuto dal Primo Testamento), sostituiti simbolicamente dal sacrificio del suo corpo (nella religione ebraica è sempre stato considerato un abominio toccare la vita umana) e dall’offerta del suo sangue come bevanda (cosa assolutamente vietata dalla legge, già da Gen 9,4)). Così facendo, Gesù metteva al centro del culto sé stesso, sostituendosi a Dio.

Non stupisce quindi che alcuni, anche tra i discepoli di Gesù, abbiano pensato che «questo discorso è duro» (Gv 6,60), ossia faticoso da capire e da fare proprio. Hanno mormorato tra loro, ma non l’hanno detto a Gesù.

A dire la verità, persino per noi oggi alcuni dettagli del discorso di Gesù risultano ostici, tanto che moltissimo inchiostro è stato usato per renderne ragione. Tra i molti tentativi di spiegazione, ne scegliamo uno che può forse sembrare più lineare. Tra l’altro, è un tentativo di spiegazione che si lascia guidare dal fluire del discorso evangelico.

È infatti Gesù a reagire all’obiezione che i suoi discepoli non gli fanno esplicitamente (possiamo immaginare che gli sia stata svelata dallo Spirito, o che Gesù fosse particolarmente attento e acuto riguardo a ciò che si muoveva intorno a lui). E dice, più o meno: «Ciò che ho detto vi fa inciampare (vi scandalizza), non vi aiuta a fidarvi? Figuratevi quando mi vedrete salire al cielo!».

Qui possiamo domandarci per quale motivo l’ascensione avrebbe dovuto causare scandalo. Non sarebbe stata la certificazione che Gesù aveva detto il vero?

Sì, la sarebbe stata, ma, nello stesso tempo e più in profondità, avrebbe attestato che il Padre voleva eliminare la divisione tra divino e umano, che è quindi coerente guardare a un uomo per guardare a Dio, e che fosse Dio stesso a suggerire qual è il volto umano più autentico. Quindi è coerente che, per guardare a Dio, si guardi a un uomo, e che sia Dio a suggerirci il volto umano più autentico. D’altronde, il divieto di cibarsi di sangue era dovuto alla convinzione che nel sangue risiedesse la vita, e che la vita appartenesse a Dio. Ma Dio può donare ciò che è suo. E, lo si noti, il Dio biblico è quello che, piuttosto che chiedere sacrifici agli altri, li fa in prima persona, già dalla relazione con Abramo.

Tutto, logicamente, può tornare. Ma per farlo occorre fidarsi di Gesù.

Spirito vivificatore (Gv 6,63-65)

A volte la logica del vangelo di Giovanni ci sembra strana, ma se ci lasciamo coinvolgere, spesso la troviamo più profonda e autentica di quanto non avessimo colto in prima battuta.

Ciò che segue, infatti, e che ci aspettiamo sia una spiegazione più approfondita, appare invece come un cambio di discorso: «Colui che dona la vita è lo Spirito, la carne non serve a niente» (v. 63). A molti è sembrata un’affermazione illogica e che, tra l’altro, sembra negare il valore dell’eucaristia («mangiate il mio corpo»). In realtà la contrapposizione non è tra la «carne» da una parte e l’«anima» o la «sapienza» o la «conoscenza» dall’altra, ma tra la «carne» e lo «Spirito». Non, quindi, tra una realtà tangibile e una non visibile, bensì tra ciò che dipende semplicemente da una sicurezza esteriore, formale, quella che san Paolo chiamerà la «lettera» (Rm 2,29; 2 Cor 3,6), e ciò che ha e garantisce il senso in profondità.

Qui siamo di nuovo pienamente nel flusso del pensiero di Gesù, che ci ha invitati a metterci in una relazione di fiducia con lui, a cibarci di lui e a lasciarci guidare solo da lui per arrivare al Padre. Non come chi segue una regola e quindi si sente «a posto» (si può anche mangiare il corpo di Cristo con questo stato d’animo…), ma come chi fà proprio un gesto simbolico fidandosi di ciò che significa, affidandosi alle parole di chi ha promesso di essere presente in quel segno. Gesù ci invita a credere che il valore autentico di quel cibarsi, ciò che ai gesti e alle parole umane può «donare vita», sta nella fiducia in lui, assistiti dallo Spirito. D’altronde, ogni forma di dedizione umana autentica si lega non in primo luogo a ciò che concretamente si fa, ma alle intenzioni che ci muovono. Gesù si pone al livello delle nostre intuizioni di vita più profonde, che ci chiedono di valutare e discernere con attenzione le opzioni che abbiamo di fronte, per arrivare alla fine a decidere di che cosa vogliamo fidarci. Se stiamo solo a misurare con il bilancino i pro e i contro, non ci muoveremo mai e non vivremo. Gesù invita ad affidarci a lui, a entrare in quella prospettiva di fiducia che promette che la separazione tra divino e umano non si farà più, come in lui già non esiste più.

E Gesù può dire che ciò è stato «dato dal Padre» perché Dio è davvero superiore a noi, e non possiamo essere noi ad abolire la separazione, ma solo Lui può donare la comunione.

Gesù non sta pensando a dei compiti che noi dobbiamo fare per essere all’altezza dell’esame divino, ma a un incontro di comunione. Questo però, siccome non è tra due pari, non può che partire dall’alto, dal Padre ed è, allo stesso tempo, affidato alla risposta umana, proprio perché avviene tra due libertà.

Volete andarvene? (Gv 6,66-71)

Si può però comprendere che «molti dei discepoli» (v. 66) rinuncino a seguire Gesù. È un discorso troppo «duro», è un discorso che non ci permette di sentirci «a posto» quando facciamo ciò che ci è richiesto (come succede agli schiavi disciplinati), ma ci chiede di entrare in una relazione personale profonda, di dedizione e fiducia. Una relazione che non lascerà mai comodi, perché mai potremo dire di aver fatto abbastanza né di avere in mano certezze. Nello stesso tempo, se si imposta così il discorso non saremo mai esclusi dalla comunione, perché ciò che è richiesto è di aprirsi e fidarsi, non di raggiungere un livello minimo di realizzazione pratica.

Siccome però stiamo parlando di un dialogo, persino Dio non può anticipare come andrà a finire. Da parte sua, Lui ha aperto un credito illimitato, come è chiaro da ogni pagina dei Vangeli: il Padre vuole la comunione con gli esseri umani. Non vuole essere servito, ma incontrato, scoperto e amato.

E l’amore non sopporta forzature, neppure da parte di Dio. Quindi, di fronte allo «scandalo» di molti discepoli (non estranei, ma gente che ha voluto seguirlo), Gesù fa la domanda diretta, che in tutti i Vangeli prima o poi arriva: «E tu? Che dici? Volete andarvene anche voi?» (v. 67). La domanda è ancora più sorprendente perché è fatta ai «dodici», che noi sappiamo chi sono, ma dei quali finora nel vangelo di Giovanni non si è mai parlato.

L’evangelista ci sorprende, ci costringe a ripensare se li aveva già presentati, e così ci fermiamo, rileggiamo, facciamo ancora più attenzione a quella che è una domanda fondamentale, diretta, che chiede coinvolgimento, che interroga sulla comunione possibile. Perché non si tratta di ubbidire a un ordine, ma di aderire a un’offerta.

E la risposta di Pietro è esemplare: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!» (v. 68). È una reazione che si pone sullo stesso tono di Gesù. Non dice di avere le prove che Gesù sia chi pretende di essere, non introduce doveri o responsabilità. Parla invece di «parole di vita eterna». Ciò che Gesù dice, spiega, fa intuire, ha il gusto dell’eterno, prospetta e promette un senso. Non dà le soluzioni definitive, che nella vita, nelle questioni esistenziali più profonde, non esistono, perché nessuno può dire con certezza matematica di aver fatto bene a fidarsi di questa persona, di questo stile di vita, di questa vocazione. Ma può sentire che dentro a una certa situazione è già presente una promessa di vita autentica, una parola che chiama, che non dà certezze, ma offre una relazione.

E allora, da chi altri andare?

Una volta che si è iniziato a gustare quel profumo di senso, non se ne può più fare a meno. E nessun altro lo offre, anche se persino Pietro non può dire di aver capito tutto, di avere tutto chiaro. Però sai che quel gusto di senso, altrove non c’è.

E il Padre?

Sembrerebbe quasi che il Padre, questa volta, resti sullo sfondo.

Ma dopo tutti i discorsi già fatti è chiaro che Gesù non parla di sé senza coinvolgere anche il Padre, che si mostra e rivela in lui.

Riscopriamo ancora, quindi, un Padre che desidera una relazione di fiducia con gli esseri umani, che abbatte la separazione che esiste tra sé e l’umanità e la abolisce nella speranza, nella promessa, in attesa dell’ascensione al cielo. Come tutte le promesse, non si basa su una garanzia legale, su minacce di punizioni, ma sull’affidabilità della relazione, sulla fiducia: «Ti credo solo perché sei tu a promettermelo».

È una costante talmente regolare che potremmo non notarla più: il Padre di Gesù non imposta la sua relazione con l’uomo sulla base di regole e punizioni, come siamo abituati a veder fare dai potenti e come l’umanità solitamente immagina che faccia Dio, ma sulla base di una relazione personale di comunione e fiducia. Su promesse e affidabilità. E quindi sulla libertà.

Il Padre di Gesù vuole essere amato, e non sopporta quindi costrizione. Non esiste amore senza libertà di andarsene. «Volete andarvene? Andate, non vi trattengo». Non a caso, in questi tempi in cui ancora ci sono persone che ne mantengono altre legate a sé con ricatti morali, con catene economiche o con la violenza, non fatichiamo ad ammettere che quello che loro chiamano amore, amore proprio non è.

Il Padre di Gesù lascia libero chi vuole andarsene. Quando, nella storia della nostra Chiesa, non si sono lasciate le persone libere di scegliere, al di là delle ragioni storiche e culturali, si è tradito lo spirito del cristianesimo.

Come un innamorato, anche il Padre vuole lasciarci liberi di andarcene, sperando però che non vogliamo farlo, che restiamo assetati delle parole di vita eterna, che Lui continua a offrirci tramite Gesù.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 08 – continua)




Un santo tra noi. La canonizzazione di Giuseppe Allamano

Sommario


Una luce per gli Yanomami

Il miracolo di Allamano raccontato dalla testimone diretta

Foresta amazzonica brasiliana. Una missione molto «particolare». Un incidente come tanti. Un uomo tra la vita e la morte. Gli sciamani scoprono che esiste uno spirito al di sopra di tutto. Cronaca e riflessioni su un accadimento eccezionale.

Catrimani, Roraima, 7 febbraio 1996. «Come tutte le mattine ero andata al posto di salute a lavorare. In quei giorni, in missione c’eravamo solo io e fratel Antonio Costardi. Lui si stava occupando della strada che in quel periodo ci collegava, attraverso la foresta, alla Br170 che portava a Boa Vista. Le mie consorelle erano in città a seguire alcuni incontri. Oltre a noi, c’era la cuoca». Chi parla è suor Felicita Muthoni Nyaga, missionaria della Consolata e infermiera keniana, a Catrimani dal 1995 al 2000, poi a Boa Vista fino al 2002 per coordinare il settore della salute indigena, a livello dello Stato di Roraima, in particolare la prevenzione della malaria.

L’incidente

«Verso le 9 di mattina venne da me il cognato di Sorino, uno yanomami che abitava alla maloca (casa comunitaria, ndr) vicino alla pista di atterraggio della missione. Non chiedeva un mio intervento, ma voleva piuttosto un fucile o una pistola, dicendo che noi “bianchi” abbiamo sempre armi da fuoco. Io risposi che no, noi missionarie e missionari non ne abbiamo. Vedendolo correre via trafelato, mi insospettii e gli corsi dietro. La cuoca mi vide e venne anche lei».

Giunta davanti alla maloca suor Felicita si trovò di fronte a uno spettacolo sconvolgente: «Subito vidi un lago di sangue, poi notai che c’era un ferito che respirava ancora. Dovevo fare qualcosa. Chiesi dell’acqua e iniziai a lavare quell’uomo. Mi resi conto che il cuoio capelluto era quasi totalmente scoperchiato. Intanto ho fatto chiamare fratel Antonio».

L’uomo che giaceva nel suo sangue era Sorino Yanomami. Era stato aggredito alle spalle da un giaguaro, mentre era a caccia di uccelli a circa due chilometri da casa. L’animale gli aveva azzannato la testa, aprendogli il cranio. Sorino era però riuscito a reagire, lo aveva tenuto a bada con una freccia, e poi era tornato alla maloca cadendo esanime davanti all’entrata.

Continua suor Felicita: «Abbiamo messo Sorino in un’amaca e, con il pick up di fratel Antonio, lo abbiamo portato al punto di salute della missione, dove ho potuto iniettargli del plasma. Intanto ho parlato via radio (l’unico collegamento che si aveva con la capitale, nda) con suor Rosa Aurea Longo a Boa Vista e le ho chiesto se poteva mandare urgentemente un aereo. Suor Rosa mi ha detto che tutti gli aerei erano in volo, perché quel mattino, c’erano state diverse emergenze. Bisognava aspettare».

Sciamani

Nel frattempo, c’era stato il passa parola e, verso mezzogiorno, alla missione erano arrivati una quindicina di sciamani (capi spirituali e guaritori, nda) e circa duecento yanomani da tutte le maloche del circondario. Avevano capito che Sorino stava per morire, ed erano venuti per fare il rito sciamanico che accompagna lo spirito del defunto nel mondo degli antenati. Nel mentre, altri uomini si erano armati per andare a caccia del giaguaro.

«Sono andata da tutta questa gente e ho detto loro: “Sorino è ancora vivo, aspettiamo l’aereo e lo mandiamo in ospedale a Boa Vista”. Loro hanno risposto: “No, non può andare in città. È molto grave, abbiamo visto il suo cervello fuori dalla testa, e il giaguaro ne ha mangiato una parte. Ma una persona senza un pezzo di cervello non può vivere”. Dissi loro: “Tutto questo è vero, ma Sorino è ancora vivo e dobbiamo provare a salvarlo”. Ma loro insistettero: “No perché gli spiriti vengono a prenderlo, lui deve dire il suo sì per lasciare il suo corpo e andare con loro. Questo non può succedere fuori dalla foresta”.

Io ero arrivata da poco a Roraima e non capivo questo concetto. Inoltre mi facevo tradurre, perché ancora non parlavo bene la loro lingua.

In tutta questa confusione, gli uomini mi hanno puntato addosso decine di frecce. Io avevo paura e ho iniziato a piangere. Allora, le donne che erano con loro, mi hanno circondata per proteggermi: “Felicita non piangere, non avere paura, loro non ti tireranno le frecce. Sono molto arrabbiati con il giaguaro. Gridano perché non vi capite”».

Suor Felicita riuscì a sottrarsi da quella situazione pericolosa con la scusa di andare a controllare il ferito in infermeria. «Sorino aveva ripreso un po’ di energia grazie alla trasfusione. Mi ha preso la mano e cercava di stringerla, ma non ci riusciva. Ho messo l’orecchio vicino alla sua bocca e lui mi ha sussurrato: “Felicita, tu adesso sei la mia mamma. Loro dicono che io devo andare con gli spiriti, ma io non voglio, fai qualche cosa perché io voglio vivere”.

Dunque mi trovavo in mezzo tra lui, che voleva vivere, e gli altri che volevano mandarlo dagli spiriti».

Nel frattempo, verso le 14, l’aereo era arrivato. Gli yanomami si erano dispersi. Era rimasto solo Kalera, un amico stretto del ferito, che chiese di poterlo accompagnare a Boa Vista. Suor Felicita e la cuoca lo portarono all’aereo e i due partirono.

«Ho quindi cercato la moglie di Sorino, che era andata ad avvisare alcuni parenti a una maloca a tre chilometri da lì. Quando è arrivata le ho detto: “Helena, tuo marito è molto grave e l’ho mandato a Boa Vista in ospedale”. C’era anche la mamma di Sorino con lei e si sono messe a piangere».

Suor Felicita alla missione di Catrimani nel 1998

«Se lui muore, ti uccidiamo»

Ma quando suor Felicita tornò alla missione trovò una sorpresa: «Il gruppo di Yanomami era di nuovo lì. Mi hanno chiesto: “Felicita dov’è Sorino?” E io: “L’ho mandato a Boa Vista”. “Perché? Non ascolti gli sciamani? Sorino non può morire lontano dalla foresta”. “Perché?”, replicai. “Perché in questo modo il suo spirito non troverà mai casa. L’unica porta per l’aldilà la trova se è in compagnia degli altri spiriti. Ma fuori dalla foresta, nessuno lo può accompagnare. Allora tornerà qui, non troverà la porta e rimarrà a vagare in eterno. Sarà arrabbiato perché non potrà mai riposare e causerà problemi a noi vivi”.

In quel momento mi sono resa conto che avevo fatto una violenza grave alla loro cultura. Avevo invaso una sfera nella quale non sarei dovuta entrare. Quando c’è in gioco la vita, sono loro che devono agire e non gente da fuori.

Allora gli sciamani mi hanno detto: “Entra nella tua casa. Non ti possiamo uccidere adesso perché Sorino non è morto, ma queste frecce le lasciamo qua – hanno piantato diversi dardi davanti a casa -, e se lui morirà, con queste ti uccideremo”.

Io ho risposto: “Va bene”. E sono rimasta sotto questa minaccia. Alcuni giovani si sono fermati a sorvegliare che non uscissi di casa».

Suor Felicita aveva avvisato il pronto soccorso e spiegato la situazione e anche il rischio per la sua vita. I medici erano già pronti e, appena Sorino arrivò, lo operarono per circa quattro ore. Poi, in coma, fu messo in terapia intensiva.

Le suore a Boa Vista decisero di seguire da vicino il ricovero, per cui suor Maria da Silva Ferreira, portoghese, stava con lui di giorno, mentre suor Lisadele Mantoet, italiana, lo vegliava di notte.

Suor Felicita, intanto era in contatto con Boa Vista via radio tutti i giorni per avere notizie.

La richiesta al padre

Fino a quel momento suor Felicita era intervenuta soprattutto come infermiera. «Non avevo pensato molto, avevo agito. Adesso, entrata in casa, sono andata direttamente nella cappella e ho guardato il quadro dell’Allamano. In quel momento ho pensato: “Io ho un padre, è qui”. Ero arrabbiata, avevo tanta paura e tremavo. Ho pensato: “Allamano dimmi una cosa, quando hai fondato questa congregazione, l’hai voluta proprio per i non battezzati? Sapevi che avremmo vissuto tutte queste difficoltà? E in questo momento dove sei? Tu ci sei?”. Quando ho fatto questa domanda ho sentito come una coperta che mi avvolgeva, un calore diverso. Avevo la febbre alta, per lo stress e lo shock.

Allora ho detto: “Ascolta Gesù, per intercessione di Giuseppe Allamano voglio chiederti solo una cosa. Sorino è andato a Boa Vista, è molto grave. Se lì lo potranno curare, io ti chiedo che guarisca completamente e torni come prima. Se torna con delle menomazioni, come una paralisi, non potrebbe vivere nella foresta come cacciatore e pescatore. Se non guarisce, è meglio che muoia.

E se lui deve morire, chiedo anche la grazia per sopportare questa freccia che mi colpirà”.

Inoltre, mi chiedevo: “È questo davvero il nostro posto di missione? Il nostro carisma? Solo una guarigione completa di Sorino può darci una risposta”.

Questa preghiera l’avrei rifatta ogni giorno senza aggiungere nulla. Ho acceso una candela che avrei mantenuto viva. E sentivo di aver fatto tutto».

Era il 7 febbraio, data di inizio della novena per la festa di Giuseppe Allamano, il 16. A Boa Vista la dedicarono alla guarigione del ferito. Inoltre, suor Maria Costa, superiora della casa, diede una reliquia del fondatore a suor Maria da Silva, che la mise sotto il cuscino di Sorino.

Sour Felicita e suor Aurea nella maloca preparano medicine.

L’imponderabile

Sorino con la sua moglie Helena Yanomami

Il 16 sera Sorino stava morendo. Tutti gli strumenti davano i parametri vitali prossimi allo zero. Era con lui suor Lisadele che pensò: “Devo sentire suor Maria Costa per organizzare il recupero di suor Felicita, prima che si sappia della morte del paziente”.

Il mattino del 17 arrivò suor Maria e parlarono per organizzare il viaggio a Catrimani e salvare la consorella.

Verso mezzogiorno suor Maria sentì qualcosa di strano. Guardò il malato e lui girò la testa e le disse: “Maria, perché piangi?”. Poi aggiunse: “Ho fame”. Era successo qualcosa di incredibile.

Sorino era molto debole e la ferita non migliorava. Però aveva parlato.

Suor Felicita, saputo del miglioramento, organizzò il viaggio della madre e della moglie di Sorino a Boa Vista, che il 20 febbraio lo raggiusero. Dopo la terapia intensiva, a marzo Sorino fu portato alla casa di cura degli indigeni, sempre a Boa Vista, per la riabilitazione. L’8 maggio rientrò a Catrimani, accompagnato da suor Giuseppina Morelli, l’amministratrice.

«Io ho chiamato tutti i capi e gli sciamani. Qualcuno diceva: “Arrivano solo le ossa”; oppure: “Non sappiamo cosa arriva”. Sono venuti con le loro frecce, armati per la guerra. Poi l’aereo è atterrato. Sorino è sceso piano ed è subito venuto da me. Mi ha detto: “Felicita voglio farti vedere il cammino che ho fatto dall’incidente alla maloca”. C’erano ancora delle tracce e lì ci ha raccontato con precisione la dinamica dell’accaduto».

«Questo popolo è prezioso»

Il medico che aveva operato Sorino ha confermato che la parte di cervello lesa era quella del coordinamento motorio, che avrebbe dovuto rendere impossibile a Sorino camminare e parlare. Non si spiega dunque scientificamente, neppure come il ferito fosse riuscito a camminare fino alla maloca.

«Penso che noi siamo stati strumento di Dio. Sorino sarebbe potuto morire in quel momento, quando è stato attaccato, e invece lo ha salvato. Il Signore voleva dire qualcosa a questa gente e a tutti noi: “Questo popolo è prezioso per me, siete il mio popolo anche se non siete battezzati”».

Sono passati 28 anni e Sorino è ancora vivo. Lui e sua moglie Helena, che non hanno avuto figli, sono stati famiglia per molti bambini yanomami abbandonati, per motivi vari, dei quali le suore si sono occupate. «Almeno quindici», ricorda suor Felicita. Anche Sorino aveva la sua missione.

Nel 1998 gli sciamani convocarono un’assemblea aperta a missionari cattolici e protestanti ed enti governativi. Durante l’incontro uno di loro raccontò il sogno fatto la notte prima (spesso gli yanomami si affidano al sogno per comunicare messaggi): lui saliva una scala lunghissima verso il cielo e in fondo c’era una luce fortissima, più potente di qualsiasi luce mai vista prima. «È quella la luce che ha detto a Felicita di agire come ha fatto, ovvero di mandare Sorino in città – conclusero gli sciamani -. Suor Felicita è uno sciamano di questo spirito, il più potente di tutti».

Marco Bello

Ascolta la testimonianza di Suor Felicita:

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Giovedì primaverile 1915 a Rivoli. Durante una delle visite degli studenti e chierici da Torino, l’Allamano si lascia fotografare dal chierico Borello Mario.


Un cuore grande per tante opere

Giuseppe Allamano, sintesi di una vita esemplare

Un giovane sacerdote della Torino del XIX secolo. Qualcuno capisce i suoi talenti e lo fa diventare formatore. Poi arriva la Consolata e pure Giacomo Camisassa. Infine, non senza difficoltà, la fondazione e la cura di due istituti missionari.

Giuseppe Allamano, quarto di cinque fratelli, nacque il 21 gennaio 1851 a Castelnuovo d’Asti, paese natale di san Giuseppe Cafasso, suo zio, e di san Giovanni Bosco. Rimasto orfano di padre quando non aveva ancora tre anni, crebbe sotto l’influsso determinante della madre Maria Anna Cafasso, sorella del santo, e dello zio, don Giovanni Allamano, fratello del papà.

Terminate le scuole elementari, nell’autunno del 1862 entrò nell’oratorio salesiano di Valdocco, a Torino, dove rimase quattro anni, compiendo gli studi ginnasiali. Qui incontrò il cardinale Guglielmo Massaia che raccontò agli studenti della sua missione in Etiopia. Sentendosi chiamato al sacerdozio diocesano, lasciò Valdocco, per entrare nel seminario di Torino. La sua decisione di entrare nel seminario diocesano incontrò un inatteso ostacolo in famiglia. Furono i fratelli, non la mamma, a opporsi, non perché fossero contrari alla vocazione sacerdotale, ma perché volevano che prima frequentasse il liceo pubblico. Il giovane Giuseppe, convinto com’era, ebbe una sola risposta per i fratelli: «Il Signore mi chiama oggi… non so se mi chiamerà ancora fra due o tre anni».

Così nel 1866 entrò nel seminario. Fin dal primo anno si manifestò la fragilità fisica che sarebbe perdurata tutta la vita, mettendola più volte in pericolo. Il periodo di preparazione al sacerdozio fu molto positivo.

Formatore di preti

Ricevuta l’ordinazione sacerdotale il 20 settembre 1873, Allamano avrebbe desiderato darsi al ministero pastorale, ma fu destinato alla formazione dei seminaristi, prima come assistente (1873-1876), poi come direttore spirituale del seminario maggiore (1876-1880). Quando l’arcivescovo monsignor Lorenzo Gastaldi gli comunicò la destinazione, lui balbettò rispettosamente un’obiezione: «La mia intenzione era di andare vicecurato e poi forse parroco in qualche paesello». Ed ecco la benevola risposta: «Volevi andare parroco? Se è solo per questo, ecco, ti do la parrocchia più insigne della diocesi: il seminario!». Come educatore di candidati al sacerdozio, si distinse per la fermezza nei principi e la soavità nel chiederne l’attuazione.

In questo compito, gli furono unanimemente riconosciute ottime qualità che lo resero un vero «maestro nella formazione del clero». Proseguì nello stesso tempo gli studi, conseguendo la laurea in teologia presso la facoltà teologica di Torino (30 luglio 1876), e l’abilitazione all’insegnamento universitario (12 giugno 1877). In seguito, fu nominato membro aggiunto della facoltà di diritto canonico e civile, e ricoprì pure la carica di preside in ambedue le facoltà.

Davanti alla chiesetta di Wambogo, oggi Gikondi, nel 1907

Arriva la Consolata

Nell’ottobre 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata di Torino. Da allora fino alla morte, la sua attività si svolse sempre all’ombra del santuario mariano dell’archidiocesi. Anche questa nuova destinazione costò molto ad Allamano, sacerdote di appena 29 anni. Più tardi, lui stesso riferì la conversazione con l’arcivescovo: «Ma monsignore, io sono giovane», disse con confidenza filiale, ricevendo questa risposta paterna e incoraggiante: «Vedrai che ti vorranno bene lo stesso. È meglio giovane, se fai degli sbagli hai tempo a correggerli».

Si associò come primo collaboratore il sacerdote Giacomo Camisassa, che aveva conosciuto e apprezzato in seminario quando era direttore spirituale. Lo invitò scrivendogli parole che lasciano intravedere il progetto pastorale: «Veda, mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene, e procureremo di onorare col Sacro Culto la cara nostra madre Maria Consolatrice». La loro fraterna collaborazione sacerdotale sarebbe durata tutta la vita, nel rispetto vicendevole del ruolo di ciascuno e nella condivisione di ideali. Possiamo constatare il mirabile esempio di amicizia e di collaborazione apostolica tra questi due sacerdoti, oltre che dalle opere realizzate insieme, anche dalle parole che Allamano ebbe a dire dopo la morte del Camisassa: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me»; «Con la sua morte ho perso tutte e due le braccia»; «Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola»; «Tutte le sere passavamo nel mio studio lunghe ore…»; «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto».

Il santuario, fatiscente materialmente e decaduto spiritualmente, sotto la direzione di Giuseppe Allamano riprese vita. Con l’attiva collaborazione del Camisassa, lo trasformò in un gioiello d’arte, splendente di marmi e d’oro, come si presenta tutt’oggi. Ne curò l’attività pastorale, liturgica e associativa. Poco per volta il santuario divenne centro di spiritualità mariana e di rinnovamento cristiano per la città e la regione. Allamano vi contribuì anche con il carisma di cui fu dotato da Dio di consigliare e confortare. Persone di ogni ceto sperimentarono, infatti, i segreti della sua mente illuminata e del suo grande cuore.

Can. Giacomo Camisassa durante la visita il Kenya, 1911-12.

I talenti

Come ebbe ad osservare il cardinale Jean-Marie Villot, Allamano divenne «punto di riferimento per quanti vedevano in lui il sacerdote vero, che sembrò investito di una missione provvidenziale per una diocesi come Torino: la missione di consigliare e dirigere, incoraggiare e ammonire, ridare alle anime con la grazia del sacramento della confessione la gioia e la pace della ritrovata amicizia con Dio, esortare a ogni opera apostolica».

Oltre a essere rettore del santuario della Consolata, Allamano era anche rettore del santuario di Sant’Ignazio, presso Lanzo Torinese, con annessa una casa per esercizi spirituali. Questo centro di spiritualità era molto famoso, avendo predicato in esso per tanti anni lo zio don Giuseppe Cafasso. Qui Allamano trovò un campo privilegiato per la formazione dei sacerdoti e dei laici attraverso gli esercizi spirituali. Come testimoniò un suo stretto collaboratore, il canonico G. Cappella: «Volle sempre dirigerli personalmente, e mentre li dirigeva voleva pure farli, perché diceva: “Non voglio solo essere cascata, che dà agli altri, ma anche conca per ricevere le grazie del santo ritiro” […]».

Con l’obiettivo di dare un modello specialmente ai sacerdoti, raccolse memorie su Cafasso, ne pubblicò la vita e gli scritti, e ne intraprese la causa di canonizzazione, che portò fino alla beatificazione, il 3 maggio 1925. Lo confidò candidamente lui stesso: «Ho introdotto questo processo, posso dire, non tanto per affezione o parentela, quanto per il bene che può produrre l’esaltazione di quest’uomo, affinché quelli che leggeranno le sue virtù, divengano bravi sacerdoti, bravi cristiani e voi bravi missionari».

Nel 1882 Giuseppe Allamano ottenne la riapertura del Convitto ecclesiastico (biennio di formazione in pastorale per il clero in preparazione del lavoro nelle parrocchie, ndr) e lo diresse fino alla morte. Ebbe molto a cuore la formazione spirituale, intellettuale e pastorale dei giovani sacerdoti, aggiornandola alle nuove esigenze. Inculcò soprattutto il fine ultimo della vocazione sacerdotale: la salvezza dei fratelli.

Visione e comunicazione

Giuseppe Allamano era coinvolto, inoltre, direttamente o indirettamente, in tante altre opere apostoliche. Fu canonico della cattedrale, membro di commissioni e comitati, superiore religioso delle Visitandine e delle Suore di San Giuseppe. Intensa fu la sua opera in occasione di varie celebrazioni di anniversari e durante la Prima guerra mondiale per l’assistenza ai profughi, ai sacerdoti e seminaristi che prestavano servizio militare.

Allamano seppe collaborare con le più svariate forme di apostolato, come testimonia il canonico Baravalle che viveva con lui al santuario: «Le forme più moderne dell’apostolato cattolico, come quello della buona stampa, […] non solo erano da lui tenuti in molta considerazione e molto apprezzati, ma largamente aiutati con somme di denaro, che a quei tempi erano abbastanza vistose». In particolare, Allamano sostenne il giornalismo cattolico non solo quando era più giovane, nel pieno del suo apostolato, ma sempre, fino alla morte. Ebbe un ruolo di ispirazione e incoraggiamento pure nella fondazione del quotidiano cattolico francese «La Croix», il cui fondatore, padre Paul Bailly, nel 1883 sostò al Santuario della Consolata. Nel 1899 fonda il mensile «La Consolata», che nel 1928 dà origine a «Missioni Consolata».

I primi missionari a Zanzibar, maggio 1902, da sx, Falda fratel Luigi, Gay padre Tommaso, Mons Emil August Allgeyer, padre Luz, spiritano , Perlo padre Filippo e Lusso fratel Celeste

Missione

Animato da questo intenso zelo apostolico, unito a un vivo senso della missione della Chiesa, Allamano allargò i suoi orizzonti al mondo intero. Sentì l’urgenza del mandato di Cristo di portare a tutti il Vangelo. Trovava innaturale che nella sua Chiesa, feconda di tante istituzioni di carità, ne mancasse una dedicata unicamente alle missioni. Decise di rimediarvi. In questo modo avrebbe aiutato coloro che erano animati dall’ideale missionario a realizzarlo e avrebbe avuto modo di suscitarlo in altri. La fondazione dell’istituto dei missionari non sorse all’improvviso nella sua mente; maturò nel suo spirito attraverso una lunga preparazione spirituale e non si attuò che superando grandi prove e contraddizioni. Non ci sono dubbi che il cammino della fondazione è stato impegnativo e faticoso per Giuseppe Allamano, già così occupato nel Santuario, nel Convitto, a Sant’Ignazio e per la causa del Cafasso.

Nel 1891 gli sembrò giunto il momento di attuare il suo progetto di fondare un istituto missionario per sacerdoti e fratelli laici, ma lo potrà realizzare soltanto con l’ascesa alla cattedra di San Massimo del cardinale Agostino Richelmy, suo compagno di seminario e amico. In lui trovò condivisione piena di ideali e sostegno. Gli indugi furono rotti definitivamente da un intervento della Provvidenza. Nel gennaio 1900, una malattia contratta assistendo una povera donna in una soffitta ghiacciata, lo portò in fin di vita. La guarigione, ritenuta un miracolo della Consolata, fu per lui il segno che l’istituto si doveva fondare. L’anno seguente, il 29 gennaio 1901, nacque l’Istituto Missioni Consolata. La motivazione profonda della fondazione va cercata nel suo stesso spirito. Padre Lorenzo Sales, il suo primo biografo e figlio affezionato, affermò che la radice della fondazione sta nella santità di Allamano, il quale spiegava: «Non avendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». Ci furono poi delle ragioni contingenti, concrete che influirono a dare inizio all’opera, quali il desiderio di continuare la missione del cardinale Massaia, come pure lo spirito missionario e le insistenze di alcuni sacerdoti convittori.

L’8 maggio 1902 partirono per il Kenya i primi quattro missionari, due sacerdoti e due laici, seguiti a dicembre da altri quattro. Ben presto, vista la necessità della presenza femminile nelle missioni, Allamano ottenne dai superiori del Cottolengo alcune suore Vincenzine, che affiancarono i Missionari della Consolata in Kenya, a partire dal 1903.

Giuseppe Allamano, dietro insistenza del neoeletto vicario apostolico, Filippo Perlo (uno dei primi quattro e figura fondamentale nell’istituto, ndr), d’accordo con il suo arcivescovo e confortato dal parere del cardinale Girolamo Gotti, prefetto di Propaganda Fide, e da quello del Papa Pio X, il 29 gennaio 1910 diede inizio all’Istituto delle Missionarie della Consolata.

Ai suoi figli e figlie dedicò le cure più assidue, attraverso contatti personali, lettere, incontri formativi. Convinto che alla missione si deve dare il meglio, ebbe di mira la qualità più che il numero. Voleva evangelizzatori preparati, «santi in modo superlativo», zelanti fino a dare la vita. Il suo motto era: «Prima santi, poi missionari», intendendo il «prima» non in senso temporale, ma come valore prioritario e assoluto.

Intorno al 1912 si fa promotore dell’istituzione di una Giornata missionaria mondiale, celebrata poi dal 1926. Per lui, sacerdote diocesano, la missione era dimensione essenziale della Chiesa.

Giuseppe Allamano morì il 16 febbraio 1926 presso il santuario della Consolata e fu beatificato il 7 ottobre 1990 da Giovanni Paolo II. Il 20 ottobre sarà canonizzato da papa Francesco e dichiarato ufficialmente Santo.

*rielaborazione di testi di Francesco Pavese,
a cura di Marco Bello


I 10 comandamenti di Allamano

Dieci «comandamenti» sono stati scritti da monsignor Luis Augusto Castro Quiroga (missionario della Consolata colombiano) e ci offrono una sintesi del pensiero di Giuseppe Allamano. Si tratta di un distillato di consigli e insegnamenti ai suoi missionari e missionarie, ma validi e utili per chiunque.

  1. Cercate solo Dio e la sua volontà.
  2. Innalzatevi sulle idee limitate che predominano nell’ambiente.
  3. Amate una religione che vi promette un’altra vita, ma che vi rende più felici sulla terra.
  4. Scegliete la mansuetudine come cammino di trasformazione.
  5. Trasformate l’ambiente (le strutture), non solo gli uomini.
  6. Siate conca, non canale, con i beni spirituali; canale e non conca con i beni materiali.
  7. Fate bene il bene, ma senza fare rumore.
  8. Non dite mai non tocca a me.
  9. Prima di tutto, santi.
  10. Siate forti, virili ed energici nella missione.

Per una presentazione di questi «comandamenti», leggi «Pillole Allamano», di padre Ugo Pozzoli, pubblicate su MC nel 2014.


L’arte dell’incontro

Il metodo missionario della Consolata

Per raggiungere obiettivi concreti occorre un metodo di lavoro. I missionari e le missionarie della Consolata ne hanno elaborato uno. Si tratta di una trasposizione del metodo di Allamano basato su quattro pilastri fondamentali.

Il modo in cui una persona svolge le sue attività decide se avrà successo o meno. Una cosa è sapere bene cosa fare, avere l’energia e l’intelligenza per farlo, un’altra cosa è avere la strategia giusta per raggiungere un determinato obiettivo. Stiamo parlando di «un metodo», ovvero di una procedura particolare per realizzare qualcosa. Una metodologia chiara è necessaria ogni volta che si realizza un progetto, perché fornisce un approccio strutturato al lavoro, garantisce l’affidabilità del modo di lavorare e migliora le conoscenze in quel particolare campo.

Un metodo missionario

Questo spiega il motivo per cui i primi missionari della Consolata avevano bisogno di un buon metodo per fare qualche passo avanti nell’evangelizzazione del Kenya. Il fondatore li aveva avvertiti di non aspettarsi risultati rapidi. Infatti, aveva detto loro di evitare la tentazione di pensare che le cose sarebbero state facili o che i risultati sarebbero stati immediati. Dovevano prendersi il tempo necessario per fare dei piani, attuarli gradualmente e valutarli senza fretta. In realtà, quello che oggi chiamiamo metodo missionario della Consolata, è un’attualizzazione del metodo pedagogico di Giuseppe Allamano. Questo prevedeva «l’incontro», «la creazione di relazioni» e «lo scambio produttivo reciproco». In una parola, possiamo chiamare quel metodo missionario «incontro».

Il fondatore era un padre per i suoi missionari: amava intensamente ciascuno di loro, tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo contatto. Su questo punto le testimonianze dei primi missionari sono concordi: ognuno di loro si è sentito compreso e amato dal fondatore, con l’irripetibile creatività dell’amore.

Le sue relazioni e il suo metodo pedagogico erano animati e incentrati su un dialogo fiducioso e amorevole. Aveva rapporti stretti con i singoli missionari e missionarie, ma anche con le comunità (seminario minore, seminario maggiore, novizi). Era in contatto con chi era vicino e con chi era lontano. Mentre alcuni missionari erano in Africa, altri erano nell’esercito e altri ancora erano alla Casa Madre. Allamano seguiva, formava e dirigeva anche altri gruppi che erano sotto la sua cura pastorale. Questo stretto contatto con la gente è ciò che ha ispirato e costituito il metodo che i missionari hanno usato nella missione.

Contatto

Utilizzando i consigli che Giuseppe Allamano dava dall’Italia, i missionari in Africa si impegnarono in lezioni di catechismo nei villaggi, nell’insegnamento delle cose elementari nelle scuole all’aperto (le lezioni si facevano sotto gli alberi), nella visita ai villaggi per socializzare e creare relazioni con la gente, e infine nell’assistenza ai malati. Questo è ciò che è stato conosciuto come il «metodo dei Missionari della Consolata». Come si vede, era piuttosto particolare. Implicava un grande contatto con la gente. Proprio come aveva dimostrato personalmente Allamano nel suo lavoro a Torino, i missionari e le missionarie dovevano relazionarsi strettamente con le persone. Era l’unico modo per conoscere i loro bisogni, approfondire le loro aspettative, scoprire le loro paure, creare un legame di fiducia, ecc. Sebbene i Missionari della Consolata fossero accusati da altri istituti missionari di dedicarsi a pratiche «mondane» invece che a «salvare le anime», il metodo missionario della Consolata era certamente efficace. Non si sarebbe potuto evangelizzare persone che non comprendevano. Questo metodo ha dato grandi risultati e frutti duraturi nell’evangelizzazione, nella fondazione e nel servizio della Chiesa in Africa, in primo luogo per la validità intrinseca del metodo stesso, e in secondo luogo per la dedizione e lo spirito di coloro che lo hanno attuato, sotto la saggia guida del fondatore. Questo è un altro modo per dire che un metodo da solo non basta. Coloro che lo mettono in pratica devono essere seri e dediti al loro lavoro. In altre parole, non si può separare il lavoro da svolgere, il metodo da utilizzare e il carattere (e la personalità) di coloro che devono svolgere il lavoro.

Corea del Sud. Club degli studenti cattolici nella Hanbat National University di Daejeon con padre Godfrey Boriga durante un incontro di preghiera.

Quattro pilastri

Il metodo missionario della Consolata aveva e ha quattro elementi chiave. In primo luogo, richiedeva l’apprendimento della lingua locale del popolo. Ancora oggi, la lingua è la chiave di ogni società. Conoscere la lingua facilita molte cose, elimina inutili conflitti e incomprensioni e crea una base credibile per qualsiasi impegno. Consapevoli di ciò, i primi missionari della Consolata si sono assicurati di essere in grado di comunicare con la popolazione locale. Secondo elemento: il metodo esige il rispetto della cultura delle popolazioni locali. I missionari hanno subito scoperto che dovevano amare la cultura dei Kikuyu e dei Meru. Questo significava essere disposti a mangiare cibo locale ogni volta che era necessario e, più in generale, a trattare le persone con rispetto. Consapevoli che non avrebbero potuto evangelizzare qualcuno che li vedeva come colonialisti, i missionari della Consolata hanno imparato a rispettare le diverse culture. Il terzo elemento: l’ambiente familiare. Giuseppe Allamano ha sempre parlato di «spirito di famiglia». Si assicurava sempre di far sentire a casa il suo interlocutore. Questo era il suo segreto. Le persone si sentivano felici, rilassate e amate in sua presenza. Allo stesso modo, come parte della loro strategia di evangelizzazione, i Missionari della Consolata facevano in modo che la gente si sentisse parte di una più grande famiglia di Dio.

Quarto e ultimo punto del metodo dei Missionari della Consolata: trasformare il paese, non solo attraverso l’insegnamento religioso, ma anche formando la popolazione all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e alle abilità manuali. Come avrete notato, la strategia (o metodo) dei missionari della Consolata in Africa (e poi in America Latina e Asia) rispecchia lo stile di vita di Giuseppe Allamano. Egli credeva che l’opera di una persona riflettesse sé stessa. Questo spiega perché è vero che il metodo pedagogico di Allamano, che è la spina dorsale del metodo missionario della Consolata, era finalizzato alla santità. Non si trattava solo di fare ripetutamente un’azione per farla apparire come una strategia o un fatto. Si trattava di presentare sé stessi in qualsiasi cosa si facesse.

Jonah Mulwa Makau


«Un albero gigantesco»

Giro del mondo con le missionarie e i missionari della Consolata

Un sogno, una volontà che diventa progetto. Tanto impegno e preghiere. E poi arrivano le condizioni favorevoli. Così Giuseppe Allamano ha fatto partire da Torino i primi quattro missionari. Oggi, dopo 122 anni, è una presenza in 4 continenti.

La mattina dell’8 maggio 1902 Giuseppe Allamano accompagna i primi quattro missionari della Consolata alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Sono i sacerdoti Tommaso Gays, Filippo Perlo e i fratelli Luigi Falda e Celeste Lusso. Le cronache dicono che, dopo aver impartito loro la sua benedizione, Allamano si allontana rapidamente, per non mettersi a piangere. Giacomo Camisassa, invece, come previsto, prende il treno con loro, e li accompagna fino a Marsiglia dove si imbarcano il 10 maggio alla volta di Zanzibar. Lì arrivano diciotto giorni dopo. I quattro sono accolti dal vicario apostolico, lo spiritano monsignor Emil August Allgeyer e dal console italiano, il cavaliere Giulio Pestalozza. I «nostri» sono presi in carico dai padri Spiritani. Padre Filippo Perlo, in una delle prime lettere racconta: «[…] il 28 maggio al levar del sole comparve in vista l’isola di Zanzibar. L’impero dei monsoni è cessato d’un tratto e il mare è calmo. Impressionati ancora dalle deserte e bruciate sponde del canale di Suez e dalle rocche brulle e cupe del capo Guardafui, restiamo ammirati e confortati dallo splendore e ricchezza di vegetazione di Zanzibar» (cfr. La Consolata, settembre 1902).

Da Zanzibar, il 6 giugno, vanno in nave a Mombasa, e da lì in treno fino a Nairobi (14 giugno). Sono sempre accompagnati da monsignor Allgeyer, che sarà con loro fino alla destinazione finale.

La scelta del villaggio di Tuthu (del capo Karoli o Karuri che aveva richiesto missionari per costruire la prima scuola), nel centro del Kikuyu a oltre 2000 metri di altitudine, come prima missione dei quattro della Consolata è dettata da necessità e opportunità. La necessità di avere missionari cattolici nella nuova provincia, il fatto che monsignor Allgeyer non ha abbastanza personale.

La carovana parte per il Kikuyu il 20 giugno, giorno della Consolata. Oltre al vicario apostolico, ne fa parte il padre Hemery, anch’esso spiritano, che parla un po’ della lingua locale. In treno fino a Naivasha (la ferrovia Mombasa-Kampala è in costruzione), poi a piedi, il gruppo si dirige a Nord Est, passando attraverso le montagne dell’Aberdare dove i missionari soffrono il freddo. Arrivano a destinazione la sera del 28 giugno.

«L’indomani celebriamo la santa messa […]: è l’inaugurazione della Missione della Consolata che si impianta nel Kikuyu, a circa due giornate di viaggio dalla base del monte Kenya a 2050 metri sul livello del mare. Sarà la più alta missione del vicariato di monsignor Allgeyer», scrive ancora Perlo nei suoi diari.

Questa è la storia dell’inizio delle «missioni della Consolata» nel mondo.

Da lì, nel 1916 comincia l’avventura in Etiopia, tre anni più tardi è la volta del Tanzania, e nel 1926, anno della morte del fondatore, l’apertura ufficiale della missione in Mozambico.

Il salto continentale nelle Americhe avviene nel 1937, in Brasile, inizialmente a scopo di animazione vocazionale, e nel 1946 in Argentina e via di seguito. L’Istituto Missioni Consolata (Imc) arriva in Asia nel 1988, con l’apertura in Corea del Sud.

Centoventidue anni dopo

Oggi i missionari e le missionarie della Consolata sono presenti in 33 Paesi di quattro continenti: Africa (14 Paesi), Americhe (9 Paesi), Asia (5) ed Europa (5). E se i primi missionari erano perlopiù piemontesi, adesso si contano 904 missionari di 25 nazionalità e 474 missionarie di 15 nazionalità.

Una presenza importante, multietnica e multiculturale, diffusa nel mondo, ma soprattutto in presa diretta con i popoli e le genti emarginati o di frontiera. Abbiamo voluto fare un ideale giro del pianeta per raccogliere alcune brevi riflessioni di missionari e missionarie della Consolata del 2024 per unirle idealmente a tutte le vite spese per la missione dalla fondazione dei due isituti in poi.

Padre Francesco Bernardi, missionario italiano in Tanzania

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano è l’audacia, che è più del coraggio. San Paolo, missionario, usa il termine greco «parresia».

Giuseppe Allamano è un audace. Lo è stato fin da ragazzo. Giuseppe studia nell’Oratorio di don Giovanni Bosco. Ma il 16 agosto 1866 pianta in asso il suo maestro e se ne va, insalutato ospite. È domenica, giorno per recarsi in chiesa e non per scappare. Poi, è solo un ragazzo di 15 anni. Ma è un audace, contro il suo carismatico educatore.

Padre Igino Tubaldo (storico di Giuseppe Allamano) insinua che c’era troppo rumore nell’oratorio. Così Giuseppe fugge, perché «il rumore non fa il bene, e il bene non fa rumore». Questo è Allamano.

Lavoro in Tanzania e ritengo che necessiti di maggiore audacia missionaria. Ma non solo questo Paese.

Il 2 settembre 1908 il fondatore scriveva a fratel Benedetto Falda, missionario in Kenya: «La nostra Missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e di Maria Consolata. Passeranno gli uomini… cadranno pure alcune foglie, ma l’albero benedetto dal Santo Padre prospererà e verrà un albero gigantesco. Io ne ho prove prodigiose in mano».

Oggi i missionari e le missionarie della Consolata costituiscono «un albero gigantesco», grazie alla Consolata, come pure grazie agli italiani e ai marocchini, ai boliviani e ai colombiani, ai mongoli e ai coreani, alla gente di Taiwan nonché a quella del Kazakistan, grazie a uomini e donne che si spendono in 33 nazioni del mondo.

La missione è da viversi in «unità di intenti» fra tutti, nonostante le difficoltà.

Sono parole dell’audace san Giuseppe Allamano.

Padre Daniele Giolitti, missionario italiano in Mongolia

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano, a partire dalla mia esperienza missionaria in Mongolia e in Italia, mi pare di poterla riassumere come un preciso stile missionario, improntato su tre principali caratteristiche: profondità nelle relazioni, forte spiritualità e lavoro manuale.

La missione, secondo lo stile «allamaniano», richiede una profonda dedizione e preparazione per incontrare persone e culture talvolta molto diverse dalla nostra. Per far questo occorre coltivare una spiritualità fatta di preghiera e di meditazione della Parola di Dio. Inoltre, per costruire ponti di pace e di dialogo, più che mai urgenti in questa nostra epoca, Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari «si sporcassero le mani», cioè che, come ha fatto lui, ci impegnassimo nella promozione umana e nei progetti di sviluppo.

La proclamazione di Allamano santo mi fa pensare al suo motto più famoso che ha lasciato a noi missionari: «Prima santi, poi missionari». Lui è stato davvero un grande santo e forse un precursore dei tempi: dalla sua profonda esperienza spirituale al Santuario della Consolata di Torino e dal suo grande impegno sociale, è nata l’idea della missione in tutto il mondo, fatta di contemplazione nell’azione. In Mongolia questa dimensione contemplativa è molto sentita, a contatto con religioni antiche quali il buddhismo e lo sciamanesimo.

Nella capitale mongola Ulaanbaatar, con gli altri missionari, pensiamo di vivere il grande momento della canonizzazione del nostro fondatore facendo conoscere la sua figura nelle quattro parrocchie della città, organizzando momenti di preghiera con la gente e traducendo in lingua mongola una sua breve biografia. Infine, però, penso che il modo migliore per viverlo sia quello di mettere in pratica ciò che lui stesso ha vissuto: un’esperienza di Dio che si estende a tutto il mondo. Questo è Vangelo. Questa è missione.

Sr Natalina Stringari in Bolivia

Suor Nadia Leitner, missionaria argentina in Bolivia

Nel 2016 sono arrivata per la prima volta a Vilacaya, in Bolivia, come prenovizia, una giovane donna che stava appena iniziando a conoscere il carisma, la missione ad gentes e tutta la sua ricchezza. I miei occhi cominciavano ad aprirsi, io nascevo al mondo missionario. L’impatto culturale e le sfide spaventavano le mie scelte, ma il sogno della missione e di poter condividere la vita mi dava la forza di continuare a camminare. Ed è stato così che durante gli anni di formazione mi sono lasciata riempire dal carisma e incoraggiare a svuotarmi per vivere la volontà di Dio.

Vivere oggi il tempo di santità, come missionaria della Consolata a Vilacaya, mi chiede di lasciare le mie idee per aprirmi all’incontro reale con gli altri. Mi trovo di fronte a una realtà missionaria impegnativa, ed è qui che il carisma acquista forza e coraggio e trova il suo spazio per insegnarmi a vivere in modo creativo il processo di inculturazione, di promozione umana e di ascolto. Mi rende chiaro che non cammino da sola, ma, come voleva Allamano, in famiglia, in comunità.

La santità di Giuseppe Allamano è una grande gioia e un orgoglio, ma è anche un invito concreto a vivere in fedeltà e in profondità il mio essere missionaria della Consolata, a camminare ogni giorno verso la mia santità.

Padre Oscar Liofo Tongombe, missionario congolese in Brasile

Lavoro nella diocesi di Roraima, nella città di Boa Vista, dove sono vicario parrocchiale.

Per me il messaggio di Giuseppe Allamano è la consolazione del popolo di Dio, soprattutto nella situazione che sta vivendo lo stato di Roraima con le migrazioni e la lotta delle popolazioni indigene. Portare consolazione significa avere uno zelo missionario nel servire i nostri fratelli e sorelle e nel lavorare per la promozione della vita umana.

La canonizzazione del fondatore è una grazia per tutto l’istituto e per tutta la Chiesa e rafforza ulteriormente la missione e la presenza dell’Imc in Amazzonia, poiché il miracolo è avvenuto proprio qui. È un momento di grande riflessione e meditazione sulla chiamata missionaria. Questo evento ha ulteriormente incoraggiato i missionari e la Chiesa a non rinunciare a quest’opera di consolazione. Penso che dovremmo vivere questo momento con devozione, preghiera e anche grande gioia.

Ivo Lazzaroni, missionario laico italiano in Congo Rd

Il messaggio di Giuseppe Allamano, sempre attuale e ricco di virtù cristiane, mi invita a cercare ogni giorno la qualità nell’essere e nel servizio missionario che svolgo nel nostro ospedale Notre Dame della Consolata di Neisu. La qualità nel migliorare la vita di chi mi circonda ogni giorno, nel fare bene il bene, la pazienza, e lo sforzo di vivere seriamente e umilmente ogni attimo della giornata.

Vivere questo messaggio è una sfida a livello personale, è vivere il Vangelo. Per me è la manifestazione della condivisione, della solidarietà umana, un cammino di fraternità che non conosce limiti e frontiere. A maggior ragione in un contesto di povertà economica come l’ospedale, dove la gran parte dei nostri pazienti fa fatica a pagarsi le medicine. Con la nostra presenza, cerchiamo di vivere questo messaggio, la vicinanza a chi soffre, e di curare i malati non solo con cure di qualità, ma con la consolazione, formando il nostro personale, più con l’esempio che con le parole.

Un altro aspetto fondamentale che sto vivendo, del messaggio di Allamano è la fiducia totale nella Provvidenza. In tutti questi anni di missione vivo e sperimento l’aiuto ricevuto da molti, per migliorare la qualità di vita di tante persone che incontro ogni giorno.

La canonizzazione mi fa pensare ai miei genitori, a mia mamma, ottantacinquenne e con una devozione particolare per Allamano, alla sua vita semplice e piena di sacrifici, alla sua pazienza e ricerca di una qualità di vita migliore per noi figli, al suo fare il bene nel silenzio.

Penso che la canonizzazione del fondatore possa trasmettere a ognuno di noi una forza spirituale maggiore, nel vivere il suo messaggio per essere d’esempio a quanti ci circondano nella ricerca continua di fare bene il bene.

19 Maggio 2002 : sx, Suor Maria Ines Patigno , Fedrigoni padre Paolo , Marengo padre .Giorgio , Suor Lucia Bartolomasi hanno appena ricevuto il Mandato per la Mongolia.

Suor Emma Piera Casali, missionaria italiana in Mozambico e Guinea-Bissau

Per me Giuseppe Allamano è un ammirabile missionario. Anche se non ha avuto la gioia di lavorare direttamente in missione, ha saputo offrire ai suoi missionari e missionarie una metodologia valida, feconda, dallo sguardo aperto alle sfide e allo sviluppo in ogni tempo, in armonia con le diverse realtà che incontriamo nel nostro mondo.

Lui voleva che le sue missionarie vivessero in intima comunione con Cristo, Figlio e primo missionario del Padre, che dessero priorità alla testimonianza di vita, all’ascolto, alla preparazione della persona, alla conoscenza della realtà per programmare e valutare insieme, in comunione e unità d’intenti.

Nei miei sessanta anni di vita missionaria, ho sperimentato la fecondità della sua metodologia quando sapevo sedermi accanto al fratello o la sorella in attento ascolto e interessamento, dimostrando che in quel momento la cosa più importante era la sua storia, i suoi problemi e per questo nasceva la fiducia, la confidenza e il desiderio sincero di conoscersi.

Quando nella catechesi, negli incontri di formazione, ho cercato di far precedere all’annuncio di Gesù Cristo la conoscenza, i desideri, i progetti, le reazioni delle persone, ho toccato con mano la validità e l’efficacia di tale metodologia. Questo metodo anche oggi è attuale: il mondo moderno non ha fame e sete di bravi predicatori, ma bensì di autentici testimoni.

Vivendo e applicando questa metodologia nella mia vita missionaria ho potuto vedere come il Signore, per mezzo nostro, trasforma l’ambiente e il cuore delle persone.

Padre Marcos Sang Hun Im, missionario coreano in Argentina

Come sappiamo, Giuseppe Allamano aveva il sogno di andare in missione, ma a causa della sua salute non ha potuto realizzarlo. Invece di rinunciare a sognare, ha conservato il desiderio nel suo cuore ardente. Con il passare del tempo, il Signore gli ha proposto un altro modo per realizzarlo: inviare altri in missione. Secondo l’esperienza della vita missionaria, non sempre possiamo realizzare tutto ciò che vogliamo o avere il successo che speriamo. Per questo a volte siamo delusi di non vedere subito i frutti dei nostri sforzi. La testimonianza di Allamano ci dice chiaramente che il lavoro missionario è opera del Signore. Egli ne è il soggetto e il protagonista, mentre noi siamo solo dei servitori. Se il nostro sogno coincide con quello del Signore, Egli lo realizzerà a tempo debito secondo la sua via attraverso tutto il nostro essere. Attendere i tempi del Signore con pazienza e fiducia è il messaggio importante di oggi.

Normalmente la gente ha sentito il nome del nostro fondatore citato dai Missionari della Consolata. Anche io l’ho sentito per la prima volta quando ho contattato un animatore vocazionale. Adesso, grazie alla canonizzazione, il suo nome si è diffuso di più e veniamo cercati da luoghi dove non siamo mai stati, da chi vuole conoscere la sua vita. Così il mondo non solo vuole conoscere il nuovo santo, ma desidera anche conoscere i suoi figli, che sono missionari. Questo è un grande momento per noi per dare testimonianza, incoraggiare e ricordare la vocazione missionaria.

Padre José Fernando Flórez Arias, missionario colombiano in Amazzonia

La spiritualità dei Murui-Muina (popolo nativo dell’Amazzonia) dice che il futuro è alle spalle e il passato davanti, e anche se sembra strano, ha una sua logica: quello che è successo lo vediamo (è davanti) quello che non è successo non lo vediamo (è dietro). In questa prospettiva, camminiamo in avanti per trovare le radici che oggi rendono possibile la santità del nostro fondatore. Radici che hanno a che fare con il territorio in cui Giuseppe Allamano ha voluto manifestare la sua santità, territorio sacro chiamato Panamazzonia, condiviso da Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana francese, Guyana, Suriname e Brasile.

Il miracolo di Allamano nel contesto amazzonico dovrebbe portarci a riflettere sulla nostra missione in questi territori. Farci sentire che il giaguaro oggi sta mangiando una parte del nostro cranio, come per lo Yanomami Sorino, e intendo il cuore, poiché i nonni Murui, al contrario di «penso quindi sono», dicono «sento quindi sono».

Per questo è importante addolcire il cuore affinché ciò che arriva alla ragione sia un pensiero significativo e si traformi in una Parola di vita, cioè una parola che su fa realtà, diventando prassi.

Forse la nostra parola in Amazzonia ha bisogno di un nuovo risveglio, di una nuova alba, di un passaggio del cuore, di sentire Dio in mezzo alle diverse culture amazzoniche perché ci chiediamo: dove ci sta mandando lo Spirito in Amazzonia?

Suor Immaculate Nyaketcho, missionaria ugandese in Liberia

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano la percepisco nel suo invito a una santità vissuta nel fare bene il bene senza rumore, e la trovo nel lavoro missionario di ieri e di oggi. Questo si realizza attraverso i missionari e le missionarie che hanno incarnato questa spiritualità nella loro vocazione e missione, alcuni anche al costo della loro vita. Hanno portato consolazione e Gesù a tantissimi popoli e culture in diverse parti del mondo: quante chiese, scuole, ospedali, progetti economici e formazione.

Oggi, nel mio lavoro missionario in Liberia, dove la nostra presenza è molto piccola, il messaggio di Giuseppe Allamano si attualizza nel dare testimonianza di consolazione e facendo al meglio possibile il nostro servizio tra i giovani nella scuola, in parrocchia, nelle famiglie. Come Allamano ci dice, non è il fare tanto che conta, ma farlo bene, vivendo con il popolo nella sua realtà, affinché anche i nostri fratelli sperimentino la consolazione data al mondo dal Padre per mezzo del figlio Gesù.

La canonizzazione del fondatore è un grande dono che la Chiesa fa a noi famiglia della Consolata e al mondo intero. Oggi stiamo perdendo la spiritualità del fare bene il bene. Siamo molto presi dalla quantità, piuttosto che dalla qualità delle nostre azioni e del nostro vivere. Ma la canonizzazione ci chiama a una forma di santità che può essere vissuta da tutti, ovunque, facendo solo il bene. Senza rumore.

Padre Giuseppe Auletta in Argentina

Padre Giuseppe Auletta, missionario italiano in Argentina

L’attualità di san Giuseppe Allamano ha a che vedere con la presa spontanea e immediata nel cuore della gente. Un esempio in tal senso l’ho avuto un po’ di anni fa. Nel gennaio 1990 stavamo realizzando un’intensa missione nella colonia Aborigen Chaco, abitata dagli indigeni Qom (Tobas), con i giovani appartenenti a Jumico (juventus misionera de la Consolata).

L’attività consisteva nel visitare i «ranchos» (abitazioni più che precarie) cercando di combattere la malattia di Chagas provocata da un insetto chiamato vinchuca, che danneggia soprattutto il cuore. Durante la visita offrivamo alla famiglia un’immaginetta del nostro fondatore. In una pausa dell’attività, una donna ci ha sorpresi con una richiesta: avere nella comunità una chiesetta. Alla domanda di chi volesse come patrono, la donna ha risposto: san Giuseppe. Ascoltando la richiesta, una nostra missionaria della Consolata chiede: «Volete che sia San Giuseppe artigiano?». «No – ha replicato la donna -. Vogliamo che sia san Giuseppe il missionario». Finalmente avevamo capito che si riferiva a Giuseppe Allamano. E così abbiamo costruito una chiesetta allo stile dei ranchos nella colonia Aborigen Chaco. Credo che, pur nella sua semplicità e sintonia con l’incarnazione in quella realtà, il nostro già santo – diciamolo senza aspettare il 20 ottobre prossimo – abbia avuto la prima cappella a lui dedicata. Vedo in questa esperienza una dimostrazione di come il nostro fondatore mette radici nel cuore della gente, attraverso il servizio umile e concreto di noi missionari.

La canonizzazione del fondatore è basata e decisa dalla prova di un miracolo che ha beneficiato un indigeno Yanomami. Il miracolo si trasforma in segno che conferma il carisma ad gentes affidatoci dal fondatore ma anche la scelta del camminare insieme con i popoli indigeni, condividendo la lotta di sopravvivenza, i sogni e la grande spiritualità e saggezza che essi ci offrono.

Padre Luiz Carlos Emer, missionario brasiliano a Roraima in Brasile

Già prima del Concilio Vaticano II, il desiderio e l’insegnamento di Giuseppe Allamano era che i suoi missionari portassero il messaggio della Buona Novella attraverso la visita alle comunità e la vicinanza alla gente semplice, conoscendo così da vicino la loro vita e le loro difficoltà. È stata un’intuizione profetica che mi ha segnato e mi ha sempre accompagnato nel mio lavoro missionario. Il metodo di lavoro di Allamano, rafforzato dalla teologia latino-americana che poneva l’accento su Gesù come liberatore integrale della persona, mi ha portato a cercare e privilegiare le periferie e i poveri nel mio lavoro missionario. Questo ha fatto nascere in me il desiderio e la ricerca di lavorare con i più emarginati e, per quanto possibile, di vivere come loro.

È importante notare che nel corso dei miei 37 anni di sacerdozio ho anche scoperto e imparato a valorizzare l’insegnamento sul primato della santità nella vita del missionario: l’amore e la vicinanza a Dio come condizione fondamentale per una vita missionaria significativa e fruttuosa.

Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa di Giuseppe Allamano come uomo di Dio, guidato dallo Spirito Santo, diventa un forte stimolo a valorizzare e interiorizzare ancora di più la sua vita e i suoi insegnamenti.

Con la canonizzazione, penso di renderlo più presente nella mia preghiera, nel mio studio e nella mia spiritualità e, di conseguenza, di farlo conoscere meglio alla gente, presentandolo non solo come un intercessore, ma anche come un uomo che ha vissuto il suo tempo con visione e profezia.

Suor Arelis Maritza Rocha Garcia, missionaria colombiana in Italia

Grande persona di profonda umanità, ieri e oggi, Giuseppe Allamano è sempre attuale. La sua presenza lungo il mio cammino di vita, sia nella formazione, sia nelle diverse missioni e nei servizi che ho fatto, è stata importante. Io mi sono identificata con il suo contesto di vita di famiglia, la sua storia mi ha incoraggiata, il suo sguardo al Dio della Provvidenza mi ha toccata fin da subito. La sua paterna attenzione di ascolto e il suo amore mi hanno sollevata fino ad oggi. Non posso dimenticare le tante volte che l’ho invocato chiedendo aiuto e facendolo partecipe della mia fragilità e delle sfide in gioco, e lui mi ha fatto sentire il suo «Nunc Coepi» (adesso comincio, ndr). Così, con speranza, mi sono messa in piedi e ho continuato il mio percorso, ma con tanta fiducia nella sua compagnia.

La sua comprensione delle realtà umane che io non capivo, mi è giunta attraverso le sue lettere, scritte alle nostre sorelle, nelle quali manifestava la sua presenza umana, il suo modo gentile di gestire le cose e il suo sguardo compassionevole. Un cuore riconoscente dei doni che Dio dà a ognuno, non per sé stesso ma per il bene comune e della missione. Solo così si può vivere il bene fatto bene, nella quotidianità semplice e modesta come lui ci vuole.

Penso che il nostro fondatore, con la sua personalità, mi chieda di sorprendermi di come Dio agisce dove noi meno pensiamo. Questo lo vediamo guardando il miracolo a Sorino Yanomami. Non posso non pensare al carisma che lui ha donato a me e a tutti noi. Quanta grazia e responsabilità allo stesso tempo.

Marco Bello

Padre Diego Cazzolato con un monaco buddhista in Corea del Sud.


Conversazione, «alla mano», con Giuseppe

Quattro modi di essere, ammiro in te:
la tua umanità fragile ed energica
la tua fiducia nella volontà di Dio
la tua disponibilità a servire
la tua perseveranza creativa nell’azione.
Li voglio tutti e quattro per me.

Quattro idee che ho letto in te mi ispirano:
oggi è il mio tempo e qui il mio spazio
la santità è il mio obiettivo e la mia strada
vivo localmente e penso globalmente
la missione è il mio luogo e la mia opportunità.
Tutte e quattro le idee voglio renderle reali.

Quattro relazioni che hai coltivato mi attraggono:
con Dio nella contemplazione e nella preghiera
con Maria Consolata, in affettuosa complicità
con Giacomo Camisassa, amico nell’amicizia di lavoro
con la Chiesa locale e universale nella sinodalità.
Voglio coltivarle anche io tutte e quattro.

Quattro compiti che hai intrapreso attirano la mia attenzione:
studiare con passione per il ministero
incoraggiare l’apertura della Chiesa alla cattolicità
formare persone, comunità e sacerdoti
accompagnare la famiglia, gli istituti e il Santuario.
Voglio occuparmi di tutti e quattro.

Quattro frasi emblematiche, mi ricordo di te:
«Fare bene, farlo bene e senza fare rumore», qualità totale
«Il bene non fa rumore e il rumore non fa bene», etica professionale
«prima i santi, poi i missionari», spiritualità umanizzante
«proclameranno la mia gloria alle nazioni», uscire qui, là e ovunque.
I quattro ispirano la mia vita e il mio lavoro quotidiano.

Quattro icone sacramentali, vi hanno ispirato:
– la santa famiglia Cafasso, con Giuseppe (lo zio) e Mariana (la madre)
– quella tenera Maria, con il suo santuario della Consolata
– quel Gesù biblico, fatto Eucaristia sulla tavola e sulla croce
– quella Chiesa locale, aperta al cattolicesimo.
Tutti e quattro mi suscitano ammirazione, ispirano, occupano e preoccupano.

Salvador Medina
missionario della Consolata colombiano


Come si diventa santi
Il processo di canonizzazione

La «Causa di beatificazione e canonizzazione» riguarda un fedele cattolico che in vita, in morte e dopo morte ha goduto fama di santità, di martirio, o di offerta della vita.

La canonizzazione è solo l’ultimo gradino di una scala che ne presuppone altri: il candidato, per diventare ufficialmente santo, deve essere prima proclamato servo di Dio, poi venerabile, poi beato.

Fase diocesana

È chiamato servo o serva di Dio il fedele cattolico di cui è stata iniziata la Causa di beatificazione e canonizzazione. Il postulatore, appositamente nominato (ad esempio dall’istituto religioso, ndr), raccoglie documenti e testimonianze che possano aiutare a ricostruire la vita e la santità del soggetto. La prima fase inizia, quindi, con l’apertura ufficiale di un’inchiesta in diocesi e il candidato viene definito servo di Dio.

Occorre dimostrare che la persona ha praticato le virtù a un livello molto elevato, superiore alla media. La ricostruzione viene fatta seguendo due piste: ascoltando le testimonianze orali delle persone che lo hanno conosciuto e possono raccontare con precisione fatti, eventi, parole; raccogliendo i documenti e gli scritti riguardanti il servo di Dio.

Tutte le informazioni vengono raccolte e poi sigillate nel corso di una sessione di chiusura, presieduta dal vescovo della diocesi coinvolta.

Fase romana

A questo punto si chiude la «fase diocesana» dell’inchiesta e tutto il materiale viene consegnato a Roma al Dicastero delle cause dei santi che, tramite un suo relatore, guiderà il postulatore (persona incaricata di istruire il processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi, ndr) nella preparazione della Positio, cioè del volume che sintetizza le prove raccolte in diocesi. È la cosiddetta «fase romana» del processo. La Positio deve dimostrare con sicurezza la vita, le virtù o il martirio e la relativa fama del servo di Dio. Studiata da un gruppo di consulenti teologi del dicastero, è poi sottoposta al giudizio dei vescovi e cardinali membri del dicastero. Al giudizio positivo, il Papa autorizza la promulgazione del decreto sull’eroicità delle virtù, sul martirio del servo di Dio, o sull’offerta della vita, che così diviene venerabile.

Dalla tappa intermedia alla canonizzazione

La beatificazione è la tappa intermedia, in vista della canonizzazione. Se il candidato viene dichiarato martire, diventa subito beato, altrimenti è necessario che venga riconosciuto un miracolo, dovuto alla sua intercessione.

Questo evento miracoloso in genere è una guarigione ritenuta scientificamente inspiegabile, giudicata tale da una commissione medica. Importante, ai fini del riconoscimento, è che la guarigione sia completa e duratura, in molti casi anche rapida. Sul miracolo si pronunciano anche i vescovi e cardinali, e il Papa autorizza il decreto. Il venerabile può essere beatificato.

La fase successiva è la canonizzazione. Si deve attribuire al beato l’intercessione efficace in un secondo miracolo avvenuto in un momento successivo alla beatificazione.

Per stabilire chi è santo, quindi, la Chiesa utilizza sempre un accertamento canonico: se in passato si poteva diventare santi semplicemente per acclamazione popolare, da vari secoli esistono norme specifiche, per evitare confusioni e abusi. Il postulatore è incaricato di dimostrare la santità del candidato, mentre dall’altro lato, il promotore della fede, verifica testimonianze e documenti.

A esito positivo, è poi il Papa che autorizza la promulgazione del Decreto sul miracolo accertato e fissa la data di canonizzazione.

M.B.


Hanno firmato il dossier

Francesco Pavese
Missionario della Consolata (02/04/1930-3/5/2020), con un dottorato in diritto canonico svolse la sua missione come formatore. Postulatore generale dal 2002 al 2012, a lui si devono svariati testi di approfondimento sugli aspetti teologici e spirituali di Giuseppe Allamano.

Jonah Mulwa Makau
Missionario della Consolata keniano, è stato responsabile del Cam a Torino, missionario in Tanzania come formatore, da due anni è a Roma nell’ufficio storico.

Si ringraziano
Le missionarie e i missionari che hanno partecipato con il loro contributo per l’articolo «Un albero gigantesco». Giacomo Mazzotti, postulatore generale. Gigi Anataloni, per l’archivio fotografico. Suor Alessandra Pulina e suor Stefania Raspo per la collaborazione.

A cura di
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.

Festa della Consolata a Loyangallani, Kenya

 




Un malato alla piscina di Betzatà (Gv 5,1-9)


L’evangelista Giovanni ci dice che a Gerusalemme c’era una piscina dove si radunavano tanti malati. Si credeva, infatti, che la sua acqua potesse compiere guarigioni miracolose. Il primo che vi si fosse immerso quando l’acqua prendeva ad agitarsi, sarebbe stato guarito.

Già guardando questo quadretto, potremmo fare qualche considerazione. Intanto, non siamo nella crema della società: storpi e zoppi non possono entrare nel tempio, e non hanno solitamente corpi da copertina… Gesù si trova qui, non alle terme o in palestra, tra i rifiutati della società civile e religiosa.

Sapendo già quello che sta per accadere, potremmo essere tentati di domandarci per quale motivo Gesù guarirà uno solo tra tanti malati. E poi, ancora, perché Gesù si scomoda se lì c’è già l’acqua che guarisce? Il malato, prima o poi ce la farà a immergersi per primo.

Ma intanto concentriamoci su Gesù che, arrivato alla piscina, si guarda intorno, e vede. Chi ama le persone, non potrà che amarne qualcuna, quelle che vede e incontra. È la prima obiezione che si muove a chi si sforza di alleviare le sofferenze altrui: «Non puoi farlo per tutti». Gesù pare pensare che però è sempre meglio farlo almeno per qualcuno. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo di Dio, è quello di chi vede che cosa ha davanti, e non se ne tira fuori, si lascia coinvolgere. Anche se questo significa rassegnarsi a non raggiungere, contemporaneamente, tutti.

La prima reazione (Gv 5,9-18)

Come reagiremmo di fronte a una guarigione inattesa? Come reagiamo davanti ai salvataggi dei migranti nel Mediterraneo? L’umanità rimane simile a sé stessa, chi si mette in gioco è come se costituisse una implicita provocazione o rimprovero per chi avrebbe potuto fare e non ha fatto.

E uno dei modi per lasciarsene disturbare meno è trovare delle obiezioni: «Non avrebbe dovuto». Le obiezioni più solide, poi, sembrano essere quelle che hanno ragioni legali, meglio ancora se la legge viene da Dio.

Gesù ha guarito di sabato! E allora la prima reazione di alcuni di fronte a un paralitico che non solo cammina, ma si porta in giro la propria misera brandina, è di fargli notare che sta svolgendo un lavoro proibito in quel giorno.

Essi non vedono la persona, la sua situazione, la sua gioia e vita capace di esprimersi ora appieno, ma solo il caso legale. E siccome il guarito spiega che cosa gli è successo, il nuovo e più importante bersaglio diventa Gesù, che inizia a essere perseguitato (v. 16).

Gesù viene quindi interrogato, e lui risponde sostenendo di fare semplicemente ciò che fa il Padre. Gesù si conferma immagine di Dio, testimone affidabile del cuore del Padre, di ciò che Dio pensa e prova. Quel creatore che potevamo conoscere nella sua legge, nelle testimonianze antiche, scende nelle vie polverose e tra le malattie che sono tipiche del nostro vivere.

Ma di fronte a questa rivelazione, quella di un cuore di Dio che si commuove per le sofferenze dei suoi figli, la reazione è una feroce difesa delle regole che pure dovrebbero parlare di Dio. Davanti a un uomo che «si mette alla pari con Dio» (v. 18) ci si poteva stupire, di certo anche interrogare e mantenersi scettici, provare a vagliare e capire. Ma ai Giudei non succede niente di tutto questo: «Cercavano di ucciderlo» (v. 18). L’incontro con l’umanità, che stimola e risana, va semplicemente rimosso.

Destino di vita (Gv 5,26-30)

Quando si leggono brani biblici, come quando si segue un romanzo o un film, sarebbe opportuno andare secondo l’ordine pensato da chi ha scritto, in quanto esso veicola un senso preciso. Per una volta, però, anticipiamo la lettura di alcuni versetti per poi tornare indietro, perché questo aiuta a capire meglio. Partiamo, infatti, da ciò che per noi è forse più facile da comprendere.

Come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, e in misura sempre maggiore andando avanti con la lettura, Gesù prende spunto da episodi di vita per ragionarci sopra e approfondirne il senso.

Di fronte alle contestazioni dei suoi oppositori, scandalizzati dal fatto che si «mettesse alla pari con Dio», Gesù ribadisce che quella è la sua condizione. Anzi, insiste sul fatto di fare precisamente ciò che fa il Padre. E il cuore dell’attività del Padre, e quindi anche del Figlio, è dare la vita.

Dio vuole la vita, una vita piena, e già questo non era scontato per gli interlocutori di Gesù. Potevamo trovarci di fronte a un Dio tiranno capriccioso che gode nel farci soffrire. Invece no, l’intenzione ultima del creatore è che chiunque lo incontri viva, e viva bene.

Per questo anche Gesù, che condivide lo stesso cuore del Padre, vuole che chi lo incontra viva, e viva bene.

E siccome tutta la nostra esistenza si gioca sul rischio di una morte che incombe su di noi sempre (nelle malattie, nei limiti, persino nelle incomprensioni…) e che si fa inevitabile e definitiva alla fine della vita, Gesù mostra il volto di un Dio che ama la vita umana tanto da portarla a una risurrezione alla fine dei tempi. Altrimenti la promessa di vita sarebbe soltanto provvisoria e quindi illusoria.

E poiché, però, la risurrezione non è un semplice esito «naturale» della vita umana, bensì un dono ricevuto da Dio nel momento in cui la storia, lasciata libera di esprimere anche tutto il proprio male, non poteva più aggiungere niente a ciò che aveva fatto (dopo aver ucciso e fatto dimenticare una persona, non si può più aggravarne la sorte), anch’essa non sarà semplicemente un neutrale ritorno alla vita, ma un sottoporsi a un giudizio.

Dio, infatti, restituendo la vita potrebbe limitarsi a riportare la storia indietro, mettendoci in un circolo da cui non riusciremmo più a uscire. Oppure, nel risuscitare, Dio può offrirci un’esistenza secondo i nostri sogni più autentici, confermando la nostra tensione al bene e alla vita, alcuni atteggiamenti, alcune scelte. Nel venire alla vita definitiva, alcuni si troveranno quindi confermati nei loro desideri, per loro quella risurrezione sarà di vita, mentre per altri sarà di condanna. Il criterio di valutazione di questo processo sarà la storia di Gesù, uomo e Dio pieno, così che sarà anche lui il giudice, colui che farà da discrimine tra i buoni e i cattivi, e lo farà semplicemente rispecchiando l’intenzione del Padre.

Il giudice Gesù, essere umano capace di compassione e di vedere l’umanità all’opera, pare qui concentrarsi semplicemente sull’amore della vita umana. Chi ama la vita come Dio, verrebbe da dire, non può che trovarsi dalla stessa parte di Gesù, di chi sarà risorto.

Solo nel futuro? (Gv 5,19-25)

«So che risorgerà nell’ultimo giorno» (Gv 11,24), dice Marta a Gesù parlando del fratello Lazzaro morto da quattro giorni. Quella fiducia nella risurrezione alla fine della storia, pur nota e relativamente diffusa, non era condivisa da tutti i credenti al tempo di Gesù. Aveva senso, quindi, per Giovanni, ribadirlo.

Prima di questa frase di Marta, però, l’evangelista spiega l’amore divino per la vita degli uomini parlando di una risurrezione presente: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (v. 21).

La risurrezione che noi potremmo dare per scontata riguardo al futuro (anche se non ci pensiamo molto) è una realtà già oggi. Già adesso risorgiamo.

Potremmo dirlo così: ora sappiamo che la nostra vita è nelle mani di un Padre che la vuole tutelare. Egli se ne prenderà cura fino alla fine. Anzi, oltre la fine, aggiunge Giovanni in un passo di cui noi abbiamo anticipato la lettura (cioè, ai vv. 26-30).

Perché la morte non è solo quella della vita biologica. Muore, pur restando in vita, anche chi non vede un senso nelle cose che fa e nel suo impegno e fatica, chi si sente abbandonato e solo e destinato all’oblio. Anche su questo Gesù e il Padre intervengono, sanando e offrendo la possibilità di credere che la mia vita sia significativa, utile, e destinata a restare.

Dopo duemila anni di cristianesimo, siamo «abituati» alla promessa della risurrezione, ma quella prospettata dopo la nostra morte ha senso a partire dalla nostra «risurrezione» quotidiana, dalla nostra percezione che per Dio ciò che noi viviamo sia prezioso: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime» (Sal 55,9).

C’è chi ha discusso se Gesù avesse parlato solo della risurrezione futura o anche di quella attuale, interrogandosi se per caso qualcuno abbia aggiunto ai suoi detti un aspetto che per lui non c’era. È però chiaro che la risurrezione futura e quella attuale si danno in sintonia, l’una non solo non esclude l’altra, ma in qualche modo la esige perché la vita sia autentica.

Se dovessi elemosinare un po’ di vita e felicità in questo tempo sapendo che tutto sarà cancellato dalla morte, come potrei goderne appieno? Al contrario, se dovessi aspettarmi gioia e vita piena solo nell’aldilà, cosa vivrei a fare?

Il discorso che Giovanni mette in bocca a Gesù, nella sua apparente ripetizione ci dice esattamente che i due aspetti si danno insieme, e stanno ugualmente a cuore a Gesù e al Padre.

Il desiderio del Padre

Il discorso di Gesù prosegue (da Gv 5,31) insistendo sul fatto che lui e il Padre dicono la stessa cosa, e che è Dio stesso a dargli testimonianza. Da una parte questa è una pretesa da dimostrare: che, cioè, il Dio dell’Antico Testamento sia coerente con Gesù. Dall’altra e insieme, però, è un invito a leggere la Bibbia con lo sguardo di Gesù: non è forse vero che tutto, in quegli strani, incoerenti, a volte fastidiosi libri, parla dell’amore di Dio per la vita e della sua intenzione di tutelarla?

Il messaggio del Vangelo di Giovanni è questo: Gesù si mostra una persona amante della vita, di quella vera, autentica, concreta, che quindi è anche fatta di scelte (perché vedere proprio quel malato? Perché guarire lui?), precisamente perché è situata nella storia, come siamo noi. Ma Gesù, amando la vita, perché manifesta in modo trasparente il volto di Dio, che è innanzi tutto un innamorato dell’esistenza.

E anzi, si mostra amante di una vita che si esprime soprattutto nelle relazioni. Ecco perché Gesù parla di testimonianza, che comporta di suo le relazioni personali, in quanto nessuno può testimoniare su qualcuno che non conosce.

Ecco perché Gesù interviene a liberare una persona da un male che le impedisce di entrare in relazione non solo con le altre persone, ma persino con Dio, in quanto come paralitico non poteva entrare nel tempio.

Ed è qui l’ultima suggestione del brano che abbiamo provato a leggere: l’impossibilità di accedere a Dio non è un impedimento, perché sarà il Padre stesso a trovare le strade per farsi incontrare da coloro che al tempio non possono entrare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 06-continua)




Al pozzo di Giacobbe (Gv 4)


Ci sono pagine evangeliche che conosciamo bene. È un vantaggio, perché diventa più semplice riprenderle per andare in profondità. Una di queste è l’incontro di Gesù con la donna samaritana, episodio giustamente famoso e noto. Vi troviamo infatti un racconto abbastanza comprensibile nelle sue dinamiche, interessante e profondo nei contenuti e pieno di quell’ironia che Giovanni utilizza spesso, per indicare che Gesù e i suoi interlocutori intendono, con le medesime parole, idee diverse.

Lo sfondo (Gv 4,1-6)

Può valere la pena situare questo incontro sullo sfondo di tutto il Vangelo di Giovanni. I primi versetti, infatti, ci spiegano che cosa ci facciano Gesù e discepoli in Samaria: stanno scappando dal Giordano, dove i farisei hanno cominciato a puntare Gesù che aveva iniziato a fare più discepoli e a battezzare più di Giovanni Battista (4,1.3).

L’evangelista, a dire il vero, sente il bisogno di precisare che «non era Gesù stesso che battezzava, ma i suoi discepoli» (Gv 4,2), quasi per scusare Gesù, facendo cadere la reponsabilità sui discepoli i quali avevano ripreso il gesto «inventato» dal Battista.

Viene da sospettare che Gesù tema di aver fatto troppo notizia, attirando dei rischi su di sé. Qualche maligno potrebbe accusarlo di avere paura, di volersi nascondere, anche perché dal Giordano alla Galilea, dove Giovanni dice che è diretto, certamente la via più corta non passa dalla Samaria.

In ogni caso questo trasferimento sembra un fallimento, o almeno un ripensamento profondo della missione di Gesù che, secondo Giovanni, è iniziata al Giordano.

Lungo la strada, la comitiva si ferma in un villaggio, Sicar, di cui non sappiamo niente di più di ciò che ci racconta il Vangelo. E ciò che ci dice rimanda alla vita dei patriarchi, ai rapporti tra Giuseppe e suo padre Giacobbe, che secondo la tradizione aveva scavato quel pozzo (cfr. Gen 33,18-19 e Gs 24,32).

La storia di Giacobbe e Giuseppe è zeppa di ingiustizie, violenze, ambiguità: Giacobbe inizia il suo percorso di vita ottenendo tutto con la violenza o con l’inganno, Giuseppe viene venduto dai suoi fratelli di cui poi si prenderà gioco quando diventerà viceré dell’Egitto. Allo stesso tempo, però, è una storia che ci parla di rapporti personali che, al di là dello sfruttamento, parlano di «gratuità». Giuseppe, infatti, è il figlio preferito dal padre nonostante sia l’undicesimo (quindi non il primogenito, ma neanche l’ultimo), ed è preferito perché figlio di Rachele, la moglie più amata tra le due che aveva, benché la meno «utile» per via della sua prolungata sterilità.

Il rimando ai patriarchi, insomma, sembra richiamare a una realtà umana ambigua ma anche capace di andare al cuore delle relazioni. E ciò che viene narrato accade quando Gesù potrebbe sentirsi almeno in parte sconfitto e, sicuramente, affaticato e assetato (Gv 4,6).

Creazione di Marco Francescato

Un dialogo inatteso (Gv 4,7-15)

I Vangeli ci chiariscono spesso quanto complicati fossero i rapporti tra samaritani ed ebrei. E sappiamo anche quanto fosse sconveniente che un uomo parlasse da solo con una donna. Aggiungiamo a questi elementi che era del tutto improbabile che qualcuno andasse ad attingere acqua al pozzo a mezzogiorno. Di solito ci si andava al mattino, perché l’acqua serviva già all’inizio della giornata per i lavori domestici, e perché si approfittava delle ore più fresche anche per incontrarsi con le altre donne. Insomma, di questa donna non  sappiamo niente, ma – a vederla recarsi al pozzo a metà giornata – viene da pensare che abbia anche qualcosa da nascondere e che non abbia tanta voglia di incontrare altre persone.

Eppure Gesù le parla. Sembra completamente fuori di sé, forse per la sete e la stanchezza, dimentico delle convenzioni sociali, che invece la donna conosce bene, perché di certo le aveva subite: «Come mai tu, uomo giudeo, chiedi da bere a me, donna samaritana?» (v. 9).

Il dialogo che segue, come tutti quelli di Giovanni, sembra andare avanti a salti, come se i due non si capissero fino in fondo. Un dato emerge in modo chiaro: Gesù chiede di essere dissetato e, allo stesso tempo, sostiene di avere un’acqua che potrebbe dissetare sempre. Si capisce l’interesse della donna (per non andare al pozzo, per non fare quella fatica ma anche evitare di vedere gente). Ma è chiarissimo, almeno a noi lettori, che Gesù sta parlando di altro.

Di che cosa abbiamo sete? Di acqua, quando siamo disidratati. Ma, certo, lo sappiamo che dovremo bere ancora. E poi? Abbiamo sete anche di qualche cosa d’altro? Che cosa desideriamo nel profondo, come quando siamo assetati? Di avere un senso, di essere amati, di essere in pace con noi stessi?

È di qualcosa del genere che sta parlando Gesù, e subito, immediatamente, presenta quell’acqua come qualcosa in grado di dissetare non solo chi beve, ma anche chi è intorno (v. 14), «per la vita eterna». Ecco un altro modo di indicare la nostra sete: la vita che viviamo è promettente, bella, attraente, ma ci delude anche con i suoi fallimenti, dolori, affanni, malattie. E poi finisce. E non mantiene quello che promette. Invece una vita che non finisce, una vita piena, è una promessa che non può non toccarci. Come se quell’acqua raccogliesse in sé tutto quello di cui sentiamo di aver sete. Non è difficile capire l’entusiasmo, quasi l’ansia della donna, che chiede di poter avere di quell’acqua (v. 15).

Cambiamo discorso?  (Gv 4,16-26)

Invece di rispondere alla richiesta della donna, Gesù sembra cambiare discorso, chiedendole di andare a chiamare il marito. Perché lo fa? Solo per mostrarsi ancora più capace di guardare in profondità nella vita della samaritana?

Anche chi passa con facilità da un partner all’altro, anche chi ha diverse separazioni e divorzi alle spalle o ha smesso di credere all’amore, sa comunque con certezza che nella relazione di coppia non si gioca una parte secondaria della vita umana. Posso trasferirmi, cambiare mestiere, ma certi legami personali sono più profondi, dicono troppo di me, mi smuovono nell’intimo. Fanno parte di quella sete di vita piena che posso anche soffocare, fingendo di star bene, ma che è la mia dimensione umana più autentica.

Alla domanda di Gesù, la donna, pur essendosi sposata più volte, dice di non avere marito. E Gesù, riconoscendole di aver risposto bene, ammette che la samaritana si è messa in gioco davvero, ha accettato di non rifugiarsi dietro alle certezze di ruolo o sociali (una donna non sposata, in quella società, era più esposta a ingiustizie e violenze). Ha accettato la sfida di un confronto senza filtri, senza reticenze, senza ruoli dovuti. E Gesù lo vede, se ne accorge, glielo indica: «Hai detto bene».

È a questo punto che si arriva a parlare di Dio. È la donna a spostare il discorso lì. E lo affronta dal punto di vista della legittimità rituale: il tempio giusto nel quale adorare Dio è quello di Gerusalemme o del Garizim?

La risposta di Gesù è stravolgente, perché da una parte suggerisce che non tutto è uguale, che c’è un centro più affidabile e corretto, ed è quello di Gerusalemme, ma dall’altra afferma che il vero luogo di adorazione non è in Giudea, né in Samaria, in quanto Dio non cerca zelanti esecutori di riti, ma adoratori «in Spirito e verità» (v. 23).

Che cosa intende dire Gesù? Oltre all’ascolto attento delle parole utilizzate, è utile che ci sintonizziamo con lo scorrere del discorso. Progressivamente ma anche velocemente i due interlocutori sono arrivati a cogliere che la sete più profonda dell’essere umano è intima. E Gesù ci svela che il Padre a questa sete è attento e le risponde.

Un Padre che, Gesù ce lo mostra, si accorge di chi ha davanti, non lo valuta in base a criteri formali, esteriori di integrità o ortodossia: esattamente come nella storia di Giacobbe e Giuseppe, anche nel caso di questa donna dai troppi mariti e dalla coscienza sporca, il Padre di Gesù guarda oltre, guarda all’interiorità, vede la domanda vera di vita che lei, come ogni altro essere umano, porta in sé, e a questa intende dare risposta. Non perché lei abbia il diritto di bere, non perché sia «a posto», ma perché ha sete.

Ci viene svelato un Padre insofferente per le etichette, le categorie, i diritti acquisiti, la correttezza formale, che poi in fondo sono ancora un modo per nascondersi dietro a una corazza, senza ammettere la propria debolezza, la propria imperfezione, la propria sete.

A chi è assetato, e lo ammette, il Padre è pronto a dare la sua acqua viva, tanto abbondante che disseterà anche chi è lì intorno.

La missione (Gv 4,27-42)

Il pozzo di Giacobbe come è oggi nella chiesa greco-ortodossa della città di Samaria. (Benedetto Bellesi)

Senza che Giovanni ce lo dica, l’acqua viva del Padre è già stata versata da Gesù nel cuore della donna, e ha iniziato a diffondersi.

Lei, infatti, proprio mentre arrivano i discepoli (stupiti, ma incapaci, per rispetto, di chiedere quei chiarimenti che invece la samaritana aveva chiesto, mettendosi in gioco), abbandona lì la sua brocca, e corre in paese. La donna che si nascondeva, che andava al pozzo a mezzogiorno, forse per non sentire le dicerie sul suo conto («cinque mariti!»), lascia il motivo che l’aveva portata lì, dimentica un oggetto che non era di poco valore e utilità, e va a raccontare ciò che le è accaduto.

Tra l’altro, lo fa con una grazia ed eleganza insospettata in lei. Non dà infatti per scontato quello che, lo intuiamo, deve essere stata la sua conclusione, ma la affida ai suoi ascoltatori come semplice possibilità: «Che sia lui il Cristo?» (v. 29). E infatti, alla fine del racconto, i samaritani stessi ammetteranno di credere per ciò che avranno visto, non semplicemente per la parola della donna (v. 42). Una parola però alla quale, evidentemente, avevano prestato fede, nonostante la reputazione di chi l’aveva pronunciata.

Poteva sembrare la destinataria meno probabile dell’acqua viva portata da Gesù, ma si è dimostrata una discepola pronta a mettersi in gioco, a rischiare, a uscire dalla propria area di comodità.

Quella stessa acqua, scopriamo, ha dissetato anche Gesù. Infatti, egli, che poco prima affaticato e assetato, ora non vuole più bere né mangiare, perché è stato nutrito dal vedere l’amore del Padre diffondersi per suo tramite (vv. 32-37).

Questa «sazietà» di Gesù possiamo capirla bene tutti: quando sperimentiamo che il nostro impegno porta frutti, quando ci accorgiamo che le persone amate traggono del bene dai nostri suggerimenti, quando vediamo camminare sulle loro gambe le persone che abbiamo aiutato, proviamo una gioia interiore difficile da spiegare in termini economici (di dare e avere).

Una delle tante scoperte di questo episodio evangelico è che sia Gesù che il Padre vedono questa profondità di relazione che sta proprio al cuore del loro pensiero. Una relazione con il Padre vissuta «in Spirito e verità», nella quale il Padre è fonte di vita che dona acqua viva.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 05 – continua)




Un clandestino (Gv 3,1)


Che cosa penseremmo di un uomo importante che, di fronte a una persona controversa, anziché prendere posizione aperta, cerchi di incontrarla di nascosto? Forse che è ambiguo, o un opportunista, o come minimo un pavido.

Il terzo capitolo del Vangelo di Giovanni ci presenta un personaggio del genere: Nicodemo, un fariseo influente, membro del sinedrio. Egli cerca Gesù di notte per confrontarsi con lui, dialogando e interrogandolo. Gesù, pur non mostrandosi per nulla intimidito, non sembra nemmeno trattarlo con durezza, anzi lo definisce «maestro d’Israele» (v. 10), sia pure mentre lo rimprovera perché non capisce quello che gli sta dicendo.

Peraltro, Nicodemo, riapparirà un poco più avanti nel Vangelo, mentre invita i capi dei sacerdoti e dei farisei a procedere con rispetto nei confronti di Gesù (Gv 7,50-53, e di nuovo si beccherà, questa volta dai suoi pari, dell’ignorante). Infine, Giovanni ne parlerà ancora nel capitolo 19 mentre si prende cura del corpo di Gesù e della sua sepoltura, quando, cioè, è ormai chiaro che Nicodemo non può aspettarsi nessun vantaggio dal prendere posizione in favore del Nazareno.

Insomma, Nicodemo è un personaggio rilevante, influente, che non diventa in modo chiaro un discepolo, ma che, con senso critico e autonomia, si sforza di capire Gesù e viene da lui apprezzato e rispettato. Un personaggio peculiare, soprattutto in un Vangelo che tende a dividere tutti coloro che ruotano intorno a Gesù in amici o nemici. E quindi un personaggio da ascoltare con maggiore attenzione.

Da dove parte la vita? (Gv 3,2-8)

Nel nostro percorso attraverso il Vangelo secondo Giovanni ci imbattiamo nel primo dei dialoghi di Gesù, che ci sembrano spesso strani perché, da una parte sembrano volerci dare l’impressione di essere autentiche trascrizioni di quanto è stato detto, dall’altra sono condotti in modo innaturale, con argomentazioni che ritornano sempre sugli stessi temi ma non sono ben coordinate. I dialoghi di Gesù proposti da Giovanni costringono i lettori a non perdere un solo particolare, per cercare di seguire il discorso. È probabile, infatti, che l’evangelista voglia in questo modo attrarre la nostra totale attenzione. Eppure, alla fine, restiamo con l’amaro in bocca, come se non fossimo riusciti a capire abbastanza. È il modo di procedere di Giovanni, che a sua volta significa e indica qualcosa.

Se non capiamo immediatamente i dialoghi, non è perché siamo diventati improvvisamente stupidi, ma perché ci troviamo davanti a una sfida seria. Affrontiamola con rispetto, sapendo che forse non riusciremo ad afferrare tutto, ma anche consapevoli che molto potremo gustare.

Nel testo in questione Nicodemo inizia ammettendo che Gesù è un maestro che conosce Dio (Gv 3,2). Non è poco, anche se pare solo un primo approccio, per introdursi. La risposta di Gesù, però, sembra supporre una domanda che non abbiamo letto: «Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (v. 3). Il «regno di Dio» è il mondo come l’ha sognato Dio, che procede secondo i suoi piani. È l’obiettivo della vita di un credente, vedere finalmente il mondo immaginato da Dio, confidando che sia anche il mondo migliore in cui un essere umano possa vivere. Gesù afferma che per vederlo bisogna «rinascere».

Il verbo greco, in realtà, può significare sia «nascere di nuovo» che «nascere dall’alto», e le traduzioni a nostra disposizione ci restituiscono entrambi i significati, ovviamente alcune il primo e altre il secondo, dal momento che in italiano non abbiamo una parola con questo doppio significato.

L’evangelista, però, chiaramente vuole che entrambi i significati ci restino nella mente. Si nasce «di nuovo», perché si tratta di ricominciare a capire, a costruirsi un modello mentale, a scoprire il mondo come funziona. È la «nuova nascita» di chi si converte (Mc 1,15; Gv 12,40), di chi «stravolge» il proprio modo di pensare. Noi abbiamo già delle idee su Dio, pensiamo di sapere già chi è: Gesù ci chiede di mettere le nostre certezze in discussione, di provare a capire di nuovo. Questo perché forse il Padre è molto diverso da ciò che ci aspettiamo. Nello stesso tempo, «rinascere» è un seme che parla già di risurrezione, di un ritornare alla vita, anzi, a una vita nuova.

E allora qualcosa iniziamo a capire, perché così dicendo Gesù ci fa intuire che la vita promessa non giungerà sfuggendo alla morte, evitandola (come potevamo spontaneamente ma ingenuamente pensare), bensì attraversandola, andando oltre, in una condizione di vita nuova, dove la morte non ci minaccia più. Anche il «regno di Dio», allora e chiaramente, non sarà uno stato come gli altri, un regno politico instaurato nella storia e in qualche regione, ma potrà essere ricevuto come dono pieno solo oltre questa vita.

Questi chiarimenti, in effetti, si connettono bene con il nascere «dall’alto»: se dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare su Dio, non può che essere Lui a mostrarcelo, a farcelo capire. E il dono di una vita «nuova», se ricevuto dopo la morte, non può che essere «dall’alto», da Dio, giacché nessun essere umano, mai, ha potuto ridarsi la vita dopo essere morto.

Lo Spirito

Nicodemo mostra di non aver capito l’affermazione di Gesù, e gli chiede come sia possibile ritornare, da vecchi, nel grembo della madre (Gv 3,4).

Gesù, nella risposta, sembra iniziare a spiegarsi di nuovo e meglio, ma in realtà sposta il discorso a un livello superiore. Come dicevamo, è il modo di procedere tipico di Giovanni: egli conduce il lettore a seguirlo in un ragionamento «a spirale» che ritorna sui temi già affrontati ma a un livello di profondità maggiore.

In questo modo, tra l’altro, il Vangelo di Giovanni trasmette anche l’idea che non potremo mai raggiungere una conoscenza teorica precisa di Gesù e di Dio, non perché siano incomprensibili, ma perché sono vivi. Come accade con tutti i viventi, benché riusciamo a intuire anche molto della loro interiorità, sappiamo che non sono un teorema matematico completamente sviscerabile. La conoscenza di Dio è un percorso esistenziale che mantiene sempre una quota di mistero e di sorpresa.

È comunque chiaro che Gesù introduce nel discorso lo Spirito: «Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5).

Su che cosa c’entri l’acqua, si discute da duemila anni e forse non si smetterà mai, non perché non ci sia un’idea di come spiegarlo, ma perché di idee ce ne sono troppe, e forse ognuna dice qualcosa di giusto: può darsi che Gesù, citando l’acqua, parli dei riti di purificazione che anche l’ebraismo conosceva (e che quindi rimandi a un aspetto liturgico, ecclesiale o pubblico), o del battesimo (ma se così fosse, davvero Nicodemo non poteva capirci niente), oppure del Battista di cui Gesù aveva ripreso il gesto, o forse di altro ancora.

Più chiara, di certo, ci risulta l’analogia con il vento, che non vediamo e non sappiamo da dove venga, ma che pure percepiamo, sapendo che può causare conseguenze anche grandi. Quasi Gesù dicesse che è vero che non riusciamo razionalmente a spiegare del tutto l’opera dello Spirito e la sua presenza, eppure la cogliamo al lavoro, nei suoi effetti, che sono autentici e reali.

Anzi, a voler essere ancora più precisi, si dice che a non essere prevedibile, eppure è reale, è «chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8), come se entrasse in una comunione tanto stretta con Dio da comportarsi come Lui.

Il volto inafferrabile

Possiamo riprendere meglio che cosa già Gesù ci ha svelato sul Padre. Il «re» di quel «regno di Dio» di cui abbiamo parlato ci chiede di rinunciare alle immagini che di lui abbiamo già. Si tratta di rinascere, di ricominciare a imparare e a farci stupire dalla vita che ci ritroviamo e ritroveremo come dono. È quell’«alto» da cui rinascere, che ci invita alla sorpresa, alla vita piena e nuova, a ciò che intuiamo ma non riusciamo a prevedere o spiegare.

Perché chi è mosso dallo Spirito non è del tutto spiegabile, anche se i frutti della sua azione si colgono (Gv 3,8). E quello Spirito è inviato dal Padre di Gesù. Non si può pretendere di ingabbiare il Padre in definizioni rigide, ferme, inflessibili. Queste ultime, forse, ci renderebbe più sereni, perché ci darebbero l’impressione di poterlo tenere sotto controllo, di avere a che fare con qualcosa di prevedibile, ma sarebbe un’impressione falsa. Il Padre è vivo e ci chiede di scoprirlo come un vivente, pronto a sorprenderci.

Questo significa che per noi ci potrebbero essere in serbo anche sorprese brutte?

Amante della vita (Gv 3,16-21)

Di fronte a questa possibilità, l’evangelista si affretta a chiarire il principio di fondo dell’agire divino, in qualche modo certificato da un esempio che è ben più di un esempio.

Il principio è che il Padre non vuole condannare il mondo, ma salvarlo (v. 17), e questo viene dimostrato dall’offerta stessa del Figlio (v. 16), che il Padre ha consegnato agli uomini semplicemente per amore. L’amore di una persona può arrivare al punto che essa offra se stessa per qualcuno che ama (Gv 15,13), o addirittura per un uomo giusto (come dice Paolo in Rm 5,7: «Forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona»), ma quell’abisso tremendo di sacrificare chi si ama («Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, e offrilo in olocausto» Gen 22,2), esperienza che Abramo stava per vivere finché Dio non lo ha fermato, lo compie lui stesso. Come il padrone della vigna che, di fronte ai vignaioli ribelli, decide, illogicamente, di mandare il proprio figlio (Mc 12,6), così il Padre dona al mondo il suo Figlio unigenito, che mostra, con la sua vita e il suo sacrificio, fino a che punto Dio sia disposto ad arrivare per seguire il suo desiderio di vivere la comunione e l’amore con gli esseri umani.

Ecco perché chi non crede in lui viene condannato o, per dire meglio, si condanna da sé (Gv 3,18), come chi, di fronte alla luce che gli viene donata, decide di rifiutarla, di chiudersi al buio, per vivere nelle tenebre (v. 19: pare quasi che Gesù prenda bonariamente in giro Nicodemo, che di notte è andato a raggiungerlo).

Il Padre è imprevedibile e sorprendente, misterioso e stupefacente, ma tutto ciò che opera e inventa va nella stessa direzione, quella di tutelare la vita umana, di renderla più autentica e preziosa, migliore e difesa. È una tutela della vita non imposta a tutti i costi, ma sempre donata nel totale rispetto della libertà umana, che nella propria autonomia potrà rifiutare quell’amore, non accoglierlo, costringendosi nelle tenebre della morte.

Perché il Padre di Gesù, come un vero e autentico innamorato, è disposto a tutto per venire incontro agli esseri umani, tranne violare la loro libertà. È un Dio che cerca persone adulte che scelgano liberamente di amare e lasciarsi amare, non schiavi costretti a servire o addirittura a farsi servire.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 04 – continua)

Jesus Mafa




L’inizio della vita pubblica


Quando ci mettiamo sui Vangeli per ricostruire anni, durata e ordine degli eventi nella vita di Gesù, ci troviamo di fronte a poche informazioni e spesso contraddittorie: i Vangeli dicono poco e sovente non si mostrano d’accordo tra loro.

Nonostante questo, ci sono diversi motivi per fidarci dell’informazione di Giovanni secondo cui, pochi giorni dopo le nozze di Cana (cfr. Gv 2,12), Gesù si sarebbe recato a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli. Anche se per i sinottici quel viaggio nella città santa è uno degli ultimi atti della sua vita, in realtà davvero Gesù potrebbe aver iniziato la sua missione proprio in quella Pasqua, a Gerusalemme: la festa e il luogo di pellegrinaggio consueta per i credenti ebrei, e soprattutto per i galilei, molto legati alla città e al Tempio.

Un esordio dirompente

Meno consueto è ciò che nella città santa succede: Gesù, infatti, entrato nel tempio, improvvisa una frusta e inizia a prendersela con venditori e cambiavalute cacciandoli fuori.

Per apprezzare appieno il senso del gesto, dobbiamo ricordarci che in quel luogo e tempo il culto consisteva quasi solo nel sacrificare animali. Questi, però, dovevano essere sani, perfetti e, tra gli ebrei, anche puri, ossia allevati, custoditi e macellati con regole che potevano essere difficili da rispettare se non si era particolarmente competenti. In più, sappiamo che al tempio molti andavano in pellegrinaggio, e portarsi da centinaia di chilometri di distanza gli animali da offrire non era per nulla pratico: molto più semplice avere con sé del denaro con cui comprarli direttamente sul posto. E così, tra l’altro, si poteva ottenere che fossero i sacerdoti a controllare e garantire che gli animali acquistati fossero puri.

Il problema, peraltro, non era neanche finito qui. La legge ebraica, poi, per quanto riguardava il denaro, considerava impure le mescolanze e le leghe di metalli. Non era un problema usare il denaro «impuro» al lavoro o nella vita quotidiana, bastava poi purificarsi e non usarlo almeno nelle feste. Ma come fare ad acquistare gli animali sul posto, nel tempio? La soluzione consisteva nel servirsi, all’interno del santuario, del siclo di Tiro, antica moneta di argento zecchino, cambiandolo, all’ingresso, con le monete portate da casa.

Quando Gesù si arrabbia contro chi commercia nel cortile del tempio, quindi, non se la prende con abusi, ma con una prassi indispensabile al servizio del culto per come era codificato nella legge ebraica. Non sarebbe stato strano prenderlo per matto o per blasfemo. Perché si comporta così?

Un Padre autentico

«Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato» (Gv 2,16). Spesso pensiamo che queste parole di Gesù siano un invito a non mescolare la religione con il commercio, come avrebbe senso se non si conoscesse la pratica della religione ebraica antica. Tra l’altro, è un’interpretazione che ci tranquillizza: possiamo dirci che «da noi» di solito non succede. Quanto abbiamo appena spiegato, però, ci suggerisce che la questione probabilmente è un po’ diversa, in quanto quelle compravendite erano al servizio diretto dei sacrifici. Senza quei cambiavalute e venditori, non ci sarebbe stato culto nel tempio. E Gesù lo sapeva.

Questo ci aiuta a capire che sta pensando a qualcosa di più ampio. A che cosa servivano i sacrifici? In ubbidienza alla legge di Mosè, i sacrifici erano ciò che gli esseri umani offrivano per ottenere la remissione dei peccati e la comunione con Dio. Do qualcosa al creatore, per averne qualcosa in cambio. Sembrerebbe un rapporto rispettoso, perché non «pretendo» un aiuto gratuito di Dio, senza offrirgli niente in cambio.

Nello stesso tempo, però, è un’impostazione religiosa che potrebbe sembrare «da mercato»: dare per avere. È qualcosa su cui siamo molto più esposti, perché è facile che la nostra religiosità assomigli a questa compravendita: «Ho bisogno di un aiuto, di una grazia, e inizio a fare un’offerta, ad assumermi un “fioretto”, ad accendere una candela o fare una preghiera».

Sembra che sia questa dimensione del «dare per avere» che Gesù rifiuta. Il tempio deve essere una «casa di preghiera», e se i sacrifici non sono più accettabili, la preghiera deve essere pensata in modo completamente diverso. Sarà il resto del Vangelo di Giovanni a chiarire in modo più netto ciò che qui è implicito: «Il Padre vuole adoratori in spirito e verità» (Gv 4,23), perché è un Padre che vuole una relazione autentica con noi, intima, personale, svincolata da regole normative e riti, come pure da qualunque idea di commercio. Preghiera, sì, ma come dialogo di amicizia.

Il Padre

Un altro particolare ci dovrebbe colpire: con estrema scioltezza, senza bisogno di spiegarsi, Gesù definisce Dio come «il Padre mio».

Il tono dell’affermazione che accompagna il gesto duro di Gesù, dice una sua intimità unica con Dio: si può comportare come un figlio che conosce suo padre e ne vede violata la volontà. Chiaramente non intende una figliolanza come semplice essere creato, come siamo tutti noi: «figli di Dio». Gesù qui esprime una consapevolezza che è solo sua, e che può persino farsi ruvida. Non vuole difendere il proprio legame con il Padre, che è dato per scontato, indiscutibile, ma si offende per come il Padre è trattato. Solo lui è in questa intimità con il Padre, e la vive senza bisogno di spiegarla. Per Gesù questo rapporto non è una tesi da dimostrare, è una realtà già chiara.

Tre giorni

È inevitabile che questo gesto estremo susciti la reazione dei presenti. Anzi, per la prima volta nel Vangelo compaiono, come avversari di Gesù, «i giudei» (che già avevano vagliato le pretese del Battista: Gv 1,19). Strada facendo, nel Vangelo si capisce che questa è una formula, una specie di nome in codice, per indicare quegli ebrei che, per ruolo (dottori della legge, scribi, sadducei, sinedrio), per competenza (farisei, dottori della legge) o semplicemente per presa di posizione, intendono difendere la tradizione giudaica contro Gesù. Sono i suoi antagonisti, genericamente definiti con quell’appellativo che nella storia attirerà all’evangelista l’accusa di antisemitismo, benché Giovanni scriva in un tempo in cui di antisemitismo è prematuro parlare.

Questi «giudei», peraltro, fin qui fanno ciò che è giusto, e forse persino doveroso: interrogano Gesù riguardo all’autorità con cui si permette di criticare il culto nel tempio. A loro probabilmente non era per niente sfuggito che quel gesto eclatante era una contestazione del culto in sé e dell’intera interpretazione del ruolo del tempio nel giudaismo. Ma, nel chiedere una conferma, utilizzano una parola («segno») che per l’evangelista definisce i miracoli, gesti che rinviano a spiegare altro.

E Gesù risponde con un enigma, secondo uno stile che nel Vangelo tornerà spesso: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Nel contesto della discussione, anche noi probabilmente avremmo capito che parlasse dell’edificio in cui si trovava, e per questo Gesù viene preso in giro (2,20), ma poi Giovanni ci spiega che parlava della propria risurrezione.

Se inteso così, tutto diventa più ragionevole e chiaro. Si parla infatti della risurrezione, che innanzitutto sembra un prodigio ma che, secondo l’evangelista, è un segno, serve a far capire altro. Gesù, contestando il culto del tempio, si attribuisce un’autorità divina: solo Dio può cambiare la legge di Mosè spiegando che cosa Dio pensa. La domanda dei «giudei» («con che autorità fai questo?») è giustificata. Ma se davvero Gesù risusciterà, mostrando così il suo pieno dominio sulla propria vita e la conferma divina, le sue pretese si dimostreranno fondate. E la sua parola sul tempio verrà confermata come uno sguardo definitivo e chiarissimo sul cuore di Dio, sull’intenzione del Padre, il quale non vuole riti o formalità, ma un incontro personale, vissuto nella preghiera.

E se così è, diventa anche più chiaro che l’allusione alla risurrezione del tempio in tre giorni poteva parlare più del corpo di Gesù che dell’edificio costruito da Erode, perché l’incontro autentico tra il Padre e l’uomo si dà nella vita umana vissuta nella sua carne, nel suo corpo. Un edificio sacro può essere al servizio di quell’incontro, ma non è nulla di indispensabile.

Testimonianza sull’uomo

Il brano si chiude con un’osservazione enigmatica: «Lui non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza sull’uomo: conosceva lui stesso, infatti, che cosa c’era nell’uomo» (Gv 2,24-25)

Succede spesso con Giovanni che, quando ci pareva di aver capito, troviamo un’altra affermazione, un gesto, una parola, che ci gettano di nuovo nell’incertezza, nella domanda. All’evangelista piacciono i lettori intelligenti, che si sforzano di capire, che non smettono di interrogarsi: in fondo, di testimonianza si stava già parlando. «I giudei» chiedevano a Gesù un segno per poter credere che la sua interpretazione del culto e del Padre fosse fondata. Dal momento che manca un dato oggettivo cui appoggiarsi (la scrittura, per «i giudei», avrebbe potuto esserlo, ma la scrittura di per sé parlava di riti per i sacrifici), bisogna capire se fidarsi di Gesù, appoggiarsi a lui, o alla legge. E, ci dice il Vangelo, «molti confidarono nel suo nome» (Gv 2,23), perché trovarono evidentemente che quanto detto e fatto da Gesù era promettente e credibile. Se avessero avuto conferme oggettive, esteriori, non avrebbero «creduto in lui», «confidato in lui». Lo fanno perché quello che Gesù svela non è disponibile altrimenti, non è lampante.

Quello che Gesù svela è il cuore del Padre, l’intenzione divina, che un uomo non può conoscere se non gli viene rivelata. Questo significa che Gesù è Dio? Giovanni, qui, non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la logica dell’episodio porta a questa conclusione. Ciò significa che Gesù non è umano ma solo divino? Se così fosse, avrebbe bisogno di qualcuno che gli sveli che cosa è l’uomo, che glielo spieghi come lui fa agli uomini per il Padre. Ma l’evangelista, come detto, afferma che Gesù conosceva quello che c’era nel cuore dell’uomo. Con un linguaggio severo ed enigmatico, Giovanni attesta la piena umanità e divinità di Gesù, sia pure in formule che non saranno quelle dei concili.

Per questo, perché ha le fondamenta saldamente radicate in entrambe le sponde, quella divina e quella umana, Gesù può costituire un ponte tra le due rive, e farci conoscere il Padre (suo, come insiste in questo brano) come nessun altro.

Il Padre divino che potremmo immaginare attento al rispetto delle regole da parte delle sue creature, tutto teso a un’ubbidienza rigorosa delle norme, invece, ci dice Gesù, vuole essere incontrato in intimità, in autenticità, senza la sicurezza ma anche l’esteriorità di riti e forme. Che possono essere utili, ma sono sempre solo al servizio dell’incontro dell’uomo con Dio e non possono sostituirvisi.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 03 – continua)

Da Jesus Mafa




Allamano. Una passione nascosta


A Torino, al Museo dei missionari della Consolata (Cam), fa bella mostra di sé uno strano oggetto, classificato come «macchina fotografica». L’aveva voluta il fondatore Giuseppe Allamano per donarla ai suoi primi missionari partenti per l’Africa, ed essi ne fecero buon uso, realizzando fotografie di ottima fattura. Tali fotografie furono poi ampiamente utilizzate dalla rivista del santuario della Consolata per far conoscere ai numerosi lettori le attività dei missionari in Kenya, e così suscitare nuove vocazioni missionarie e anche offerte a favore delle missioni.

Scopriamo questo interesse dell’Allamano per la fotografia già nel 1899, quando prese l’iniziativa di affidare al celebre fotografo della Sindone, l’avvocato Secondo Pia, il compito di ritrarre per la prima volta il quadro della Consolata. Con la stessa macchina fotografica servita per la sacra Sindone, l’avvocato Pia impiegò tre giorni per riprendere il più fedelmente possibile il volto della Vergine Consolata (cfr MC 06/2023). L’immagine, riuscita in modo ottimo, venne ampiamente utilizzata non soltanto dalla rivista del santuario, ma anche per fare riproduzioni di ogni tipo e dimensione. Ai benefattori del santuario e delle missioni, l’Allamano amava farne dono apponendovi la propria firma, accompagnata sovente da quella dell’arcivescovo di Torino, il cardinale Agostino Richelmy.

La riproduzione fotografica del quadro della Consolata suscitò varie iniziative pastorali che ebbero allora grande successo, come la consacrazione delle abitazioni alla Consolata tramite il suo collocamento ai muri o alle porte.

Se l’Allamano aveva mostrato tale zelo nel diffondere l’immagine della Vergine Consolata, e anche nel far conoscere le attività dei suoi missionari in Kenya attraverso le fotografie, altrettanto non si può dire circa la sua disponibilità a lasciarsi fotografare. Rare volte l’Allamano ha accettato di mettersi in posa davanti alla macchina fotografica, per l’innata e ricercata tendenza a non voler apparire. Mentre lo troviamo sempre in prima linea quando si tratta di favorire iniziative di bene e di apostolato, non così quando si trattava di giocare lui stesso il ruolo di protagonista.

Alle solenni celebrazioni centenarie della Consolata nel 1904, ad esempio, vediamo la partecipazione di importanti personalità civili ed ecclesiastiche: raramente l’Allamano appare, anche se è stato lui il primo promotore di quest’importante evento. Era il suo stile costante: fare e non apparire. Il suo unico intento: «Tutto per la gloria di Dio e della Vergine Consolata».

padre Piero Trabucco


Protettore annuale

I missionari e le missionarie della Consolata hanno la bella tradizione, ereditata dal beato Allamano, di affidarsi ogni anno a un protettore speciale al quale rivolgersi nella preghiera e del quale imitare le virtù. Quest’anno, e per tre anni di fila, è stato scelto proprio lui, il beato Allamano, come protettore dei nostri due istituti. Di seguito la lettera di presentazione inviata dai nostri superiori a tutti i missionari e missionarie

 «Nella carità consiste essenzialmente la santità… la carità è santità: amare e farsi santi è la stessa cosa… La carità verso Dio è necessaria in modo particolare a noi che abbiamo ricevuto la vocazione e la missione di comunicarla alle anime».

Beato Giuseppe Allamano

 Carissimi missionari e missionarie,

è con il cuore colmo di gratitudine che ci rivolgiamo a voi per comunicarvi che il beato Giuseppe Allamano sarà il protettore per i prossimi anni 2024, il 2025 e anche 2026 (in quest’ultimo celebreremo il centenario della sua morte).

Ci ha spinti a proporvi l’Allamano come protettore per tre anni consecutivi il nostro desiderio di offrirvi l’opportunità di vivere un tempo privilegiato per stare a contatto con il fondatore da veri figlie e figli. Siamo certi che il fondatore è vivo, presente in mezzo a noi, nella nostra storia, nella missione, e continua a donarci il suo spirito se noi rimaniamo in comunione con lui.

Su un biglietto ritrovato dentro il suo sarcofago nel 1989, durante la ricognizione della salma, era scritta questa invocazione: «Padre donaci il tuo spirito… nelle piccole e grandi cose, facci figlie/i disponibili, perché il tuo spirito, che è in Dio, si prolunghi oggi e sempre a ogni popolo».

Desideriamo continuare a pregarlo perché ci trasmetta il suo spirito, il suo zelo, perché dalla sorgente del suo insegnamento e del suo esempio possano continuare a scaturire sorelle e fratelli capaci di donazione a Dio e a ogni persona.

Crediamo che il nostro fondatore abbia ancora da dirci molte cose, che possa illuminare la nostra vita di donne e uomini consacrati e che possa aiutarci a vivere in profondità la vita delle nostre comunità e quella dei nostri istituti.

L’Allamano più volte ha ribadito che sarebbe stato vicino ai suoi missionari e missionarie anche dopo la morte: «Quando sarò poi lassù, vi benedirò ancora di più; sarò poi sempre dal balcone [per guardarvi, benedirvi e seguirvi]».

«Per voi sono vissuto tanti anni e per voi consumai roba, salute e vita. Spero morendo di divenire vostro protettore in Cielo».

Un padre che amava intensamente ciascuno

Contempliamo con amore di figlie e figli questo nostro padre. Che diventi sempre più padre per noi. L’esperienza più forte che i nostri missionari e missionarie ebbero dell’Allamano fu soprattutto quella della sua paternità: lo sentivano come un padre che amava intensamente ciascuno, così tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo incontro: «Sono passati otto giorni da quando sono ritornata da Rivoli dove sono stata 15 giorni con il nostro amato padre – scrisse suor Emilia Tempo l’11 settembre 1925. Sono stati giorni meravigliosi. Il padre mi sembrò più che mai “padre”, e, credimi, specialmente alle sere abbiamo goduto immensamente della sua compagnia… il padre si sedeva sul sofà e noi ci inginocchiavamo ai suoi piedi e chiacchieravamo con lui fino alle 10».

Padre Alfredo Ponti nel 1906 racconta:

«Una sera a Tosamaganga (Iringa, Tanzania), mentre sulla missione si scatenava un terribile temporale, mi rifugiai nella stanza di padre Nazareno… Quasi spontaneamente… il discorso cadde sugli anni felici della nostra giovinezza… Rivivemmo per qualche istante i nostri primi anni di vita di Istituto… Il discorso cadde naturalmente su colui che di quella famiglia era il vincolo, sostegno, guida, padre. Ricordammo tutto di lui: la bontà verso di noi, la grande comprensione e la felicità nostra di poter convivere con lui. Il ricordo palpitante dell’amato padre ci aveva commossi entrambi. Congedandoci padre Nazareno esclamò: “Era veramente un padre; nostro padre”».

Sostiamo dunque accanto al nostro padre e insieme a lui vogliamo riflettere e meditare sui suoi grandi amori: «L’Eucarestia, la Consolata, la carità fraterna, la santità, la Chiesa, lo zelo, la salvezza delle anime…». Contempliamo la sua santità e sentiamoci stimolati a vivere sempre più secondo il suo cuore, le sue scelte, il suo esempio.

Ascoltare e vivere la sua parola

In questo triennio i due Istituti saranno impegnati a camminare nella luce del nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Sia nostro impegno ascoltare e vivere la sua parola. Sentiamolo mentre ci incoraggia a essere sempre più come lui ci voleva, preghiamolo perché ci renda famiglia missionaria chiamata ad annunciare il Vangelo e a vivere «la carità a qualunque costo». Continuiamo a pregare il fondatore per i nostri Istituti e per tutta l’umanità nella speranza di poterlo venerare presto come «Santo» insieme a tutta la Chiesa.

Beato Giuseppe Allamano, prega per noi.

La benedizione del fondatore possa avvolgerci e accompagnarci in questo cammino:

«Vi benedico come foste a me presenti, desideroso d’infondervi colla benedizione della nostra Consolata quanto un padre vi desidera in Domino».

«Sii forte nella prova; la Consolata ti accompagnerà e ti aiuterà. Il padre ti ricorda ogni giorno. Ti benedico. Padre».

A nome delle due Direzioni generali, fraternamente vi salutiamo
suor Lucia Bortolomasi Mc – Superiora generale
padre James Bhola Lengarin Imc – Superiore generale


L’Allamano e il Convitto ecclesiastico

LAllamano, appena nominato rettore alla Consolata, dovette affrontare il problema del convitto ecclesiastico. Per disposizione dell’arcivescovo, il convitto, che era presso il santuario, era stato chiuso quattro anni prima, e i convittori erano stati ospitati in seminario. Monsignor Gastaldi aveva preso questa decisione a motivo dell’insegnamento della teologia morale, che seguiva una linea da lui non condivisa. Se ne era addirittura assunto personalmente l’insegnamento, componendo dei trattati appropriati. Questa situazione aveva creato un po’ di sconcerto, specialmente tra il clero.

L’Allamano ben presto si vide pressato da varie parti perché convincesse l’arcivescovo a riportare il convitto ecclesiastico presso il santuario. Così il 24 giugno 1882, appena due anni dopo il suo ingresso alla Consolata, scrisse dal santuario di Sant’Ignazio una lunga lettera all’arcivescovo. Senza giri di parole, gli domandò se non fosse giunto il momento di fare tornare i giovani convittori alla Consolata.

L’arcivescovo venuto a Sant’Ignazio a predicare un corso di esercizi spirituali fu d’accordo nel riaprire il convitto ecclesiastico presso il santuario della Consolata a condizione che l’Allamano fosse il capo delle conferenze di morale.

Il convitto ecclesiastico

Era proprio quello che l’Allamano non si sarebbe aspettato. La condizione era molto gravosa. A nulla valsero le sue obiezioni, non si sentiva portato alla scuola, ed era gravato già da tante altre occupazioni. L’arcivescovo fu irremovibile: «O tu, o non se ne fa niente». «Monsignore – disse con molta franchezza -, assumo la scuola, ma non adotterò i suoi trattati». «Non importa, fa come credi, di te mi fido», rispose monsignor Gastaldi.

L’Allamano si immedesimò subito con la nuova missione e fece il possibile per tenere vivo lo spirito del Cafasso tra i sacerdoti del convitto. Proponeva senza mezzi termini l’ideale della santità sacerdotale. Commentando il testo paolino: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3), diceva ai convittori: «Voi dovreste già essere santi… ma giacché, senza far torto a nessuno, non lo siete ancora, procurate di divenirlo».

Quando doveva riprendere qualcuno, lo faceva con semplicità e chiarezza, terminando sempre con un incoraggiamento: «Là! Ora mettiamo una pietra su tutto. Si metta d’impegno e procuri di essere un buon sacerdote».

Per curare meglio la dimensione spirituale della formazione, fin dal 1886, l’Allamano chiamò come direttore spirituale dei convittori il beato Luigi Boccardo, del quale era stato direttore spirituale in seminario. Questa scelta fu molto apprezzata. Un biografo del Boccardo commentò: «Se si tiene conto della cura con cui l’Allamano studiava i suoi convittori, e della fama che godeva di profondo conoscitore di giovani sacerdoti, si tratta di una scelta significativa». E riportò compiaciuto il pensiero di un altro sacerdote: «La diocesi torinese deve perenne riconoscenza al can. Allamano per questa scelta, che intrecciò gli splendori di due astri riverberanti sul convitto ecclesiastico della Consolata».

«Con questa schiera di giovani sacerdoti che preparava per il sacro ministero – affermò il can. G. Cappella – il Servo di Dio portò il santuario ad uno sviluppo veramente eccezionale. Come superiore del convitto ecclesiastico lasciò un’orma imperitura, dimostrando ottime qualità di formatore del clero».