Promessa di presenza


Ti sei mostrato a noi vivo. Dopo la tua passione e morte, ci sei apparso per quaranta giorni (At 1,1-11). Ci hai visitati mentre eravamo in quarantena, per debellare insieme a noi il virus dell’angoscia della morte. E ci parlavi delle cose del Regno. Non del regno che noi speravamo, un regno giusto e sapiente, ma umano, e quindi effimero, instabile. Ci parlavi del Regno di Dio. Quello della vita eccedente, dell’acqua che zampilla in eterno, della luce che disperde le tenebre, dell’amore che è più forte della morte.

L’ultimo giorno, quando noi ci sentivamo di nuovo in forze, pronti a riprendere la strada con te, come prima, tu ti sei seduto a tavola, come avevi fatto nell’ultima cena prima del tuo arresto, e ci hai chiesto di non muoverci da Gerusalemme. Almeno finché non fossimo stati battezzati in Spirito Santo. Solo allora, infatti, la tua presenza in corpo, legata a un luogo, si sarebbe tramutata in presenza in spirito, legata alle nostre vite capaci di spargersi nel mondo. Solo allora la nostra forza riacquistata sarebbe stata di aiuto, e non di ostacolo, alla nostra debolezza, vero veicolo della tua salvezza per tutti «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».

Mentre ci parlavi così, sei stato elevato in alto, e una nube ti ha sottratto ai nostri occhi. Ed ecco che due uomini in bianche vesti ci hanno scossi: «Perché state a guardare il cielo? Gesù tornerà e troverà la fede sulla terra grazie a voi».

Ci siamo messi in attesa, pronti a lasciarci riempire di Spirito, e a realizzare con Lui, in ogni luogo e in ogni tempo, la Tua promessa di presenza: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Buon tempo di Pasqua, da amico

Luca Lorusso

Titoli dei pezzi in Amico

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Coronavirus. Tessere alleanze contro l’angoscia

di Luca Lorusso su amico.rivistamissioniconsolata.it


La paura nasce da un pericolo che vedo. La paura è utile perché mi avvisa che c’è da fuggire o da combattere.
L’angoscia nasce da un pericolo che non vedo. Non so dove fuggire. Non so come combattere.

La diffusione del Covid-19 provoca angoscia, perché non so da dove arriva, non so come difendermi.
Perché forse ce l’ho anche dentro di me. Mi fa intuire che il «male» può abitare pure in me, io stesso ne posso essere veicolo, oltre che vittima.

Una scorciatoia per neutralizzare l’angoscia (con il suo nemico sfuggente e indeterminato) è trasformarla in paura individuando un nemico contro il quale convogliare le mie energie.
Che il nemico sia reale o del tutto immaginario, o una via di mezzo, non importa.
Il nemico mi serve per non sentirmi perso, per avere l’illusione che l’esistenza, in fondo, è un oggetto abbastanza chiaro, lineare, dominabile, risolvibile.

Così, in questi giorni, sentendo montare l’angoscia dentro di me, sto cercando il nemico: prima era «il cinese», oggi, a seconda dei momenti e dei punti di vista nei quali mi pongo, sono «le frontiere aperte» e «l’assenza di sovranità», oppure «la finanza e le lobby internazionali», «i governi Pd-Pdl che hanno tagliato la sanità», «l’industria bellica degli Usa per distruggere la Cina… o quella cinese per distruggere l’Occidente», «l’Europa» e «l’asse franco tedesco che vuole mettere in ginocchio l’Italia», «gli allarmisti», «gli irresponsabili che non stanno a casa», «le multinazionali del farmaco», e così via.

Provare a gestire l’angoscia mi pare una pratica sana, ma la gestione non è semplice, né scontata, né spontanea.

Il primo passo forse può essere quello di rendermi conto che l’angoscia c’è, poi quello di capire da dove proviene (dall’incertezza, dalla strutturale precarietà dell’esistenza, dall’illusione del controllo…), poi quello di accettare sia l’angoscia che la precarietà dell’esistenza e l’assenza di controllo, infine quello di capire che non sono solo, che posso attraversare il male insieme agli altri, e che tutto sta dentro un quadro più ampio, di cui non vedo i confini, un quadro amato e sostenuto da Qualcuno.

Cedere alla tentazione d’individuare un nemico contro il quale scagliarmi, rischia di distrarmi dalla lotta più importante, che non è quella contro chi m’immagino voglia darmi la morte, nemmeno quella contro la morte, ma quella contro il terrore della morte. Non è la lotta contro la fragilità della condizione umana, ma quella contro il rifiuto della fragilità. E io so che il terrore, il rifiuto, la disperazione possono colpirmi più duramente se mi distraggo. La lotta più importante è quella interiore per accettare e accedere a ciò che sono e a ciò che l’umanità è. È quella per tessere e ritessere alleanze: con tutti e con tutto. È quella per rimanere aperto all’altro, accompagnato dall’Altro.

di Luca Lorusso




Interrogativi


Scrivo in un giorno particolare, l’8 marzo, quando si dedicano fiumi di parole alla «donna». Parole dovute, parole sincere e anche (troppe) parole d’occasione e d’opportunità. Confesso di avere almeno due interrogativi in proposito. Uno: quando diciamo «donne», a che donne pensiamo? Riusciamo a includere anche le donne rom che rovistano tra gli scarti dei supermercati, le schiave-prostitute sulle nostre strade o nei più discreti centri di benessere, le migranti sfruttate e abusate durante il calvario per venire da noi e poi rinchiuse in centri di raccolta o addirittura campi di prigionia della nostra Europa? Due: fa piacere vedere così tante iniziative in favore della donna, ma mi piacerebbe vederne qualcuna anche per quell’altra parte dell’umanità che è l’uomo per aiutarlo a cambiare testa e cuore nel suo modo di relazionarsi con la donna.

Ho conosciuto in Kenya una giovane donna africana di successo, lavora con una multinazionale, ha un ottimo salario e un grosso cruccio: non riesce a trovare uno che la voglia sposare perché «è troppo su» e un uomo con un salario più basso del suo si sentirebbe inferiore a lei.

È davvero possibile migliorare la condizione della donna senza offrire anche all’uomo gli strumenti per cambiare la sua mentalità, senza aiutarlo a trovare una nuova identità sociale e culturale che lo faccia sentire realizzato e felice? Il problema non è far diventare le donne uguali agli uomini, ma creare le condizioni perché nella diversità e complementarietà, uomini e donne vivano insieme con pari dignità, rispetto e opportunità. Non sono così sicuro, per esempio, che le donne soldato siano davvero una conquista.

Un altro interrogativo: sono i morti tutti uguali? L’infelice Dj che si suicida in Svizzera finisce sulla bocca di tutti, con molti pronti a usare il suo dramma per i propri interessi. Una persona qualunque, cronicamente depressa, che si butta da un balcone del suo palazzo o da un ponte, scompare invece nel silenzio e nel pudore delle lacrime dei suoi cari, impotenti di fronte alla sua malattia o disagio. Che una persona si tolga la vita non è una conquista di civiltà, ma una sconfitta, indice di come la nostra società non sia sempre capace di comunicare speranza e di sostenere i più deboli e fragili. E la soluzione non mi pare stia nel promuovere l’eutanasia, ma nel dare senso alla vita, difenderla, promuoverla, renderla vivibile e dignitosa per tutti. La questione delicata dell’eutanasia o del suicidio assistito è, forse, il segnale d’allarme di una cultura che ha perso la speranza nel futuro, vive l’immediato e si consegna alla morte. Un segnale che le statistiche rese note recentemente sulla denatalità e invecchiamento sembrano confermare: 86 mila italiani in meno nel 2016; quasi 100mila aborti; età media del primo parto quasi 32 anni; aumento degli ultra 65enni… Non è forse una società, la nostra, che rischia di perdere la gioia di vivere? Magari ci si diverte anche, ma senza trovare gioia e alcuni tipi di divertimento sembrano utili solo a chiudere gli occhi davanti a un futuro che spaventa e che sa di morte.

E parlando del peso mediatico e politico di alcune morti, i morti dell’Africa sono uguali a quelli di Parigi, Berlino o … Rigopiano? Quante sono le vittime di Boko Haram in Nigeria? Quante quelle della guerra fratricida per il petrolio in Sud Sudan? E quelle dell’ennesima siccità in Kenya, Etiopia, Somalia? Quanti scheletri segnano la pista che dall’Africa Subsahariana portano al Mediterraneo?

Guardavo pochi giorni fa la lista del «martirologio di Beni-Lubero», che è costata la vita a padre Vincent Machozi massacrato il 20 marzo 2016 nel Nord del Kivu, RD Congo. Contiene i nomi e le foto (terribili a dir poco) di oltre 1.000 uomini, donne e bambini uccisi negli ultimi anni da bande armate e anche dall’esercito regolare, che lottano per il controllo dell’estrazione del coltan e altri minerali. Vittime scomparse in un silenzio utile a farci dimenticare che siamo complici involontari di quegli assassinii, visto che il coltan è un «minerale raro costituito da columbite e tantalite, utilizzato per la costruzione di conduttori elettrici e nell’industria bellica, spaziale e delle comunicazioni», fondamentale per i cellulari e i computer ormai onnipresenti nella nostra vita.

Un pensiero positivo per concludere. Una sera ho guardato quasi per caso e con curiosità un pezzo di una serie Tv girata nel bellissimo scenario delle Dolomiti. C’erano due donne in dialogo. Una raccontava di aver scelto di licenziarsi per stare col figlio che stava per nascere, un figlio che sarebbe morto presto a causa di una patologia incurabile. «Perché non hai abortito?», ha chiesto l’altra. «Perché anche un solo attimo di amore vale tutto», ha risposto.

Vale tutto! Come il «bicchiere d’acqua dato al più piccolo» o gli insignificanti spiccioli della vedova nel tintinnante tesoro del tempio. Forse davvero è tempo di meno parole e più piccoli fatti di amore, nel quotidiano, nelle relazioni di ogni giorno per ridirci che vale la spesa vivere, che l’amare «vale tutto» ed è più forte della morte e della disperazione.