Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti




Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)