Turismo sostenibile:
4 chiacchiere con un esperto /2
Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).
Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.
Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».
Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.
Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.
Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?
«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.
Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».
Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?
«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.
Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».
Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?
«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».
Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?
«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.
Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».
Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?
«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».
Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).
«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».
Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.
«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».
Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?
«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.
Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».
Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?
«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.
Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».
E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?
«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».
Può fare un esempio concreto?
«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».
Chiara Giovetti