Il nostro 2020 di solidarietà

testo di Chiara Giovetti |


Nel corso di quest’anno abbiamo sostenuto diverse famiglie del Mozambico nel loro lavoro di ricostruzione delle case distrutte dalle alluvioni e dal ciclone Idai del 2019. Abbiamo poi assistito i nostri missionari impegnati a mitigare gli effetti della pandemia e rafforzato il nostro programma di sostegno a distanza. Vi raccontiamo il nostro 2020 al servizio degli ultimi reso possibile dalla generosità di tutti voi.

Era il 3 aprile del 2019 quando padre Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico e all’epoca amministratore apostolico della diocesi di Tete, scriveva@: «Qui è stato un disastro. Alluvioni come ho vissuto a Vilanculos nel 2000», anno in cui un’ondata di maltempo come non si vedeva dagli anni Cinquanta del secolo scorso e un successivo ciclone provocarono 800 vittime e oltre mezzo milione di sfollati. Nel 2019 il bilancio è stato di poco diverso: 603 morti e 400mila sfollati, causati dal ciclone Idai, che ha raggiunto l’area della grande città costiera di Beira con vento fra i 180 e i 220 chilometri orari e ha colpito con piogge intense (200 millimetri in 24 ore) le province di Sofala, Manica, Zambézia, Tete e Inhambane@.

A Tete, continuava il racconto di padre Sandro, «centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Ricostruzione dopo il ciclone

Insieme a padre Diamantino Guapo Antunes, superiore dei missionari in Mozambico che di lì a poco sarebbe diventato vescovo di Tete, padre Faedi ha identificato un gruppo di dodici famiglie di Nkondezi, un villaggio vicino a Tete particolarmente colpito dalle alluvioni. Grazie a donatori privati negli Usa, nell’aprile del 2019 e, a inizio 2020, al contributo della mostra di Solidarietà degli Amici di Missioni Consolata a Torino, è stato possibile raccogliere i fondi grazie ai quali le case di queste famiglie sono di nuovo in piedi.

«La costruzione delle case», scriveva lo scorso ottobre monsignor Antunes (diventato vescovo il 12 maggio), «è iniziata il 15 settembre 2019 dopo la cerimonia di benedizione della prima pietra. Un’azienda locale ha svolto il lavoro sotto la mia supervisione. Non tutte le case sono state costruite a Nkondezi come previsto.  Gravi situazioni di povertà urbana e solitudine degli anziani ci hanno spinto a sostenere la costruzione di case nella periferia della città di Tete, colpita anch’essa dagli effetti del ciclone Idai».

Monsignor Antunes segnalava un leggero ritardo rispetto ai tempi previsti per completare le case: ci sono state infatti delle difficoltà nel procurarsi cemento – il cantiere principale era distante dalla città di Tete, dove si trovano le materie prime – e anche alcuni rallentamenti causati dalla pandemia di Covid-19, che ha reso più complicato lo svolgimento dei lavori.

La costruzione delle casette è terminata il 1° luglio 2020, riferiva ancora il vescovo. Le famiglie hanno partecipato attivamente a tutte le fasi della realizzazione del progetto, collaborando secondo le loro possibilità e aderendo a una raccolta fondi locale per contribuire alla copertura di alcune spese. Anche la comunità ha collaborato offrendo manodopera non qualificata. Il costo della costruzione di ogni casa è stato 2.500 euro, per un totale di 30mila euro.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Coronavirus, il ciclone planetario

A metà marzo di quest’anno i nostri missionari in Africa e America Latina, hanno iniziato a inviare i primi brevi aggiornamenti sulla situazione dei contagi nei rispettivi paesi, e sulle prime misure adottate dai governi per contenere la diffusione del nuovo coronavirus.

Al di là dei numeri, che la scorsa primavera non erano ancora molto elevati nei due continenti, è apparso subito evidente che in paesi come quelli subsahariani o nelle zone amazzoniche di Brasile e Colombia, l’unico modo realistico per tentare di reagire efficacemente alla pandemia era fare prevenzione, cioè contrastarla diffondendo informazioni, disinfettante e dispositivi di protezione per evitare il contagio. Le strutture sanitarie, infatti, non avrebbero mai potuto reggere l’impatto di un numero elevato di pazienti e il tempo e le risorse per adeguare o costruire ospedali erano chiaramente insufficienti.

Dustribuzione di cibo a Daveyton in Sudafrica.

«La maggioranza dei paesi nel continente», ammoniva l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo scorso maggio, «non ha la capacità di gestire molti pazienti Covid-19 in condizioni critiche. Secondo un’indagine basata sui rapporti presentati dai 47 paesi membri della Regione Africa dell’Oms, i letti in terapia intensiva sono in media nove per milione di abitanti», meno di uno per centomila: in Italia a inizio pandemia i posti in terapia intensiva era intorno ai 5.100, una proporzione di 8,6 per 100mila abitanti, mentre la Germania ne aveva poco meno di 34@.

Un reportage di Reuters del maggio scorso segnalava che i tre giganti del continente africano – Nigeria, Etiopia ed Egitto – disponevano di 1.920 posti in terapia intensiva a fronte dei loro complessivi 400 milioni di abitanti e che vi erano spesso discrepanze fra i dati ufficiali e la reale capacità delle terapie intensive sul campo. L’Uganda, ad esempio dichiarava di avere 268 letti disponibili, ma secondo Arthur Kwizera, professore di anestesia e terapia intensiva all’Università di Makerere, vicino alla capitale Kampala, meno di un quarto avevano effettivamente il personale e gli strumenti per funzionare@.

La risposta sanitaria alla pandemia

A fine aprile, grazie alla generosità di alcuni donatori, sono dunque partiti i primi aiuti per tre delle strutture sanitarie dei missionari della Consolata in Africa: l’ospedale di Neisu, in Repubblica democratica del Congo, e i centri sanitari di Dianra e Marandallah, in Costa d’Avorio.

A partire da maggio, poi, diversi centri sanitari e missioni in Kenya, Uganda, RD Congo e Costa d’Avorio hanno ottenuto fondi messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana, che ha distribuito un totale di circa 9 milioni di euro per 541 progetti in tutto il mondo.

Questi contributi hanno permesso di realizzare intense e capillari campagne informative, da un lato, e di acquistare mascherine, guanti, disinfettanti, pulsossimetri, dispositivi per l’ossigenoterapia, bombole di ossigeno, abbigliamento protettivo per il personale sanitario, termometri a infrarossi e altro materiale necessario per far fronte all’emergenza.

Donne rifugiata dal Malawi in Sudafrica, in attesa della distribuzione di cibo.

Un’iniziativa emblematica della collaborazione con i sistemi sanitari nazionali è stata quella realizzata in eSwatini (Swaziland fino al 2018) dalla diocesi di Manzini, il cui vescovo è un missionario della Consolata, monsignor José Luis Ponce de León.

In un post sul suo blog@, il vescovo ha raccontato come i fondi della Cei siano stati usati a Manzini per un’attività apparentemente insolita, cioè l’acquisto di radio. «Devo confessare la mia sorpresa quando qualcuno ha parlato di questa ipotesi», scriveva a settembre monsignor Ponce de León. «Sul serio? C’è bisogno di fornire radio alle famiglie?». Presto però l’esigenza è apparsa evidente: «Il governo ha fatto un ottimo lavoro di sensibilizzazione attraverso diversi media sia in siswati (la lingua del regno di eSwatini, ndr.) che in inglese, ma se le persone non hanno accesso a quei media. il messaggio non le raggiungerà».

Non solo salute: il sostegno alle comunità vulnerabili

Un altro aspetto della pandemia che è emerso immediatamente nei paesi africani e latinoamericani dove lavorano i missionari della Consolata, è stato quello dei danni economici inflitti dai lockdown alle già fragili economie delle famiglie. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese», constatava padre Matteo Pettinari dalla Costa d’Avorio lo scorso marzo. Il confinamento per molte persone in Africa e America Latina ha significato non poter più disporre delle risorse economiche per nutrirsi, dall’oggi al domani.

Per questo una significativa parte del sostegno che i missionari hanno ricevuto dai donatori si è tradotto in sostegno al reddito delle famiglie.

Le comunità della Terra indigena Raposa Serra do Sol, in Roraima, Brasile, hanno quindi potuto beneficiare di un aiuto in generi alimentari di base, dispositivi di protezione e igienizzanti che stanno permettendo alle persone più vulnerabili di affrontare il confinamento.

Lo stesso vale per le comunità di migranti africani e di famiglie povere che vivono nelle periferie delle grandi città dove operano i missionari della Consolata in Sudafrica. A Daveyton, Johannesburg, 73 famiglie migranti e sudafricane hanno ricevuto i generi alimentari necessari per superare il periodo del lockdown durante il quale non era possibile nemmeno trovare uno di quei lavori giornalieri la cui paga, per quanto bassa, rendeva possibile procurare cibo per sé e per i propri familiari. A Mamelodi, township di Pretoria, le famiglie migranti e locali assistite sono 97 nella parrocchia di Saint Mary e 46 in quella di Saint Peter Claver.

Anche a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio, cinquanta famiglie locali hanno ricevuto aiuti alimentari – riso, olio, zucchero, salsa di pomodoro, latte in polvere – e igienizzante per far fronte alle ristrettezze derivanti dalle chiusure. «Alcuni si sono commossi quando ci hanno visto arrivare con gli aiuti», spiega padre Daniel Yoseph Baiso, missionario etiope responsabile del progetto, «non si aspettavano che qualcuno si occupasse di loro e che lo facesse senza distinzioni di credo religioso. Non avevano nessun modo alternativo per procurarsi cibo, tutto era chiuso. Chi ha potuto è andato a passare il lockdown nei villaggi intorno a San Pedro, ma chi è rimasto in città ha passato un momento veramente difficile».

I missionari della Consolata, inoltre, hanno anche sensibilizzato la comunità del quartiere attraverso messaggi diffusi via whatsapp, facebook e altri social network, sulle buone pratiche per evitare l’infezione avvalendosi della collaborazione di un gruppo di giovani molto attivo che frequenta la missione e, prima della pandemia, organizzava giornate di raccolta dei rifiuti nelle strade della zona e formazione alle tematiche ambientali.

Risposta Covid a San Perdo in Costa d’Avorio.

Il sostegno a distanza non si ammala di Covid

Missioni Consolata Onlus ha un programma di sostegno a distanza iniziato nei tardi anni Novanta. La persona che da oltre vent’anni coordina il programma, Antonella Vianzone, ricordava@ in un’intervista del 2012 che le adozioni sono nate come evoluzione naturale delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto già nel 1970 grazie a una intuizione di padre Mario Valli, diretto poi da padre Giuseppe Ramponi nei primi anni Duemila e ora guidato da Antonella.

Oggi i sostegni a distanza sono circa 1.300, suddivisi in nove paesi fra Africa, America Latina e Asia. Nemmeno la pandemia ha scoraggiato i donatori, che hanno continuato a sostenere i bambini nonostante le difficoltà che dalle chiusure di marzo ad oggi rendono molto più complicato per tante persone riservare una quota del proprio reddito alla solidarietà.

«Qualcuno mi ha scritto o chiamato per chiedere di suddividere la donazione in più tranche oppure di ritardarne l’invio», spiega Antonella, che non si stanca mai di ricordare come il rapporto diretto, che ha di persona o per telefono, con i donatori – l’ascolto, il dialogo, l’empatia – sia una parte imprescindibile del suo lavoro. «Quasi nessuno ha annullato l’adozione: soltanto due persone hanno dovuto sospenderla, per quanto a malincuore, perché avevano perso il lavoro a causa della pandemia, non ce la facevano a continuare».

A partire dalla primavera inoltrata sono arrivate anche richieste di avviare nuovi sostegni. «Credo che sia la concretezza dell’aiuto a convincere le persone», riflette la responsabile. «In un tempo così incerto e difficile, chi dona vuole essere sicuro di aiutare davvero. E che cosa c’è di più essenziale e fondamentale di garantire a un bambino istruzione e salute?». Alcuni, conclude Vianzone, hanno avviato un sostegno proprio in memoria di un familiare mancato a causa del Covid-19, «quasi a voler dare alla persona cara che hanno perso nuova vita attraverso un atto di generosità».

Chiara Giovetti

In queste tre foto, il bello del sostegno a distanza: Malina (figlia della terra Samburu in Kenya) in prima elementare, al primo anno delle superiori e dopo l’esame di maturità, finito con ottimi voti, mentre è in attesa della chiamata all’università, coronavirus permettendo.




Cari Missionari


Preghiera per l’Ottobre Missionario 2018

Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti

O Dio Padre che sei nei cieli,

con gioia e stupore ti ringraziamo perché per un’iniziativa del tuo amore preveniente ci troviamo in questo mondo. Per mezzo del Cristo, tuo dilettissimo Figlio, ci hai creati a tua immagine e ci hai rigenerati a vita nuova, rendendoci tuoi figli adottivi in virtù del dono del tuo Santo Spirito, che ci fa vivere l’entusiasmante avventura di chiamarti Papà nella Chiesa, tua famiglia. Nella fede riconosciamo che la nostra vita è una missione: attratti da te ed inviati nel mondo, ci percepiamo interiormente animati dal tuo Spirito d’amore che custodisce in noi la speranza. Ti supplichiamo umilmente: fa’ che nessuno rifiuti il tuo amore, in modo tale che cessi la povertà materiale e morale e ogni discriminazione di fratelli e sorelle.

O Cristo Gesù crocifisso e risorto,

aprendoci alla missione che tu ci affidi dicendoci: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», la nostra fede rimane sempre giovane. Tu dai senso alla nostra vita, tu sei la verità che ci rende liberi, il tesoro che riempie di gioia la vita, il fondamento dei nostri sogni e la forza per realizzarli. Stando con te prendiamo coscienza che il male è provocazione ad amare sempre di più. Dalla tua croce gloriosa impariamo la tua logica amorosa, l’offerta di noi stessi come annuncio del tuo Vangelo per la vita del mondo. Tu per la fede abiti nei nostri cuori e vuoi parlare e agire in noi.

Spirito Santo, anima della Chiesa,

dal battesimo dimori in noi come in un tempio.
Illumina e infiamma la mente e il cuore di ciascuno di noi, rendendoci missionari del Vangelo nel mondo
intero. Ti ringraziamo per il dono di coloro
che ci hanno trasmesso la fede con la vita e la parola, testimoniando la perenne vitalità del Vangelo.

O Maria, Regina degli Apostoli e madre e modello della Chiesa,

prega per noi perché in fretta raggiungiamo gli ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù vivente nella Chiesa. Aiutaci a donarci nella vocazione che ci è stata regalata dal Creatore, seguendo il tuo Figlio Gesù. Insegnaci a metterci il grembiule per servire i più piccoli, promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Ricordaci che molta gente ha bisogno di noi, che Cristo conta su di noi, chiamandoci incessantemente ad essere suoi discepoli missionari, sempre più appassionati per il suo Regno.
San Francesco Saverio, Santa Teresa del Gesù
Bambino, Beato Paolo Manna, intercedete per noi e accompagnateci sempre.
Amen. Alleluia!

don Francesco Dell’Orco
di Bisceglie (BT), 02/08/2018

Ha ragione Salvini?

Cari Missionari,
ve la prendete se dico che, almeno in una cosa, Salvini ha ragione? Non è meglio se i coniugati che hanno figli vengano chiamati padre e madre, anziché genitore uno e genitore due?

Mario Zumpanesi
12/08/2018

Caro Mario,
dal mio povero punto di vista non credo ci sia bisogno di scomodare Salvini per dire che un bambino/a ha un padre (maschio) e una madre (femmina) e non genitore 1 e/o 2. Lo dice la natura stessa, la nostra specie. Tanto più che essa è una realtà con paladini più credibili di un ministro che governa (o fa campagna elettorale perenne) twittando.

Primo, c’è una tradizione dell’umanità che va avanti da qualche migliaio di anni ed è condivisa dalle culture più disparate. E questo è «civiltà», come avrebbe scritto Giovannino Guareschi che definiva «progresso» la «tornilette vicino alla stanza dove mangi e dormi», e «civiltà» il «cesso fuori da dove vivi» (come era un tempo nella sua Bassa).

Poi c’è una solida tradizione biblica e cristiana. È vero, il Vangelo non ha norme su come devono essere scritti e formulati i documenti dello stato, e quindi è legittimo che questo usi le diciture che preferisce. Ma se si vuole essere davvero inclusivi e rispettare tutti i credi e le opinioni, perché imporre a tutti quel «genitore 1 e 2» che, se rispetta una minoranza, insulta invece una grande maggioranza?

Da ultimo. Uno stato può e deve legiferare su aborto, divorzio, unioni omosessuali, gender, utero in affitto e via dicendo, ma per un credente l’aborto rimane un omicidio, il matrimonio è per la vita, l’unione tra due persone dello stesso sesso non è matrimonio, l’utero in affitto non è accettabile (vedi a pag. 62) così come la sperimentazione genetica sui feti, un bambino/a nasce dall’incontro tra uno spermatozoo di un maschio e l’ovulo di una femmina, eccetera. Benvenga la modifica dei documenti twittata da Salvini, purché mantenga uno spazio di rispetto per chi la pensa in modo diverso e non sia un’imposizione ideologica.

Dissentire da Gesualdi

Gent.mo padre Gigi,
seguo da anni la rivista e apprezzo molti articoli, devo però dissentire su molte cose scritte negli articoli di Francesco Gesualdi.

Ad esempio, nell’articolo di giugno appare che tanti problemi siano dovuti alla mancanza di sovranità monetaria degli stati. Quando si afferma che «la moneta unica ha prodotto risultati disastrosi», forse sarà pur vero in qualche caso (ha tolto terreno agli speculatori), ma è innegabile che i risultati positivi sono stati di gran lunga maggiori. Ma se la Grecia o l’Italia non avessero avuto una stabilità monetaria cosa sarebbe successo?

Come sarebbero stati gli interessi che si sarebbero dovuti pagare, senza l’euro, a chi ha prestato capitali (usati per politiche demagogiche come mandare in pensione statali con soli 15 anni di lavoro o dare invalidità a tanti che non ne avevano diritto)? Ma si è certi che bastava stampare altra lira per azzerare il debito? Il default dell’Italia sarebbe stato meglio?

Il vero problema è la mancanza di una politica comune (fiscale, economica, estera) e l’esistenza di tanti egoismi locali e nazionali. Ripeto: il problema non è la mancanza di sovranità monetaria.

Quando si fa riferimento a Keynes, come esempio da seguire si dimentica che sono passati 90 anni, che il mondo è cambiato, le distanze si sono enormemente accorciate; alcuni stati (europei e non solo) hanno bilanci inferiori a quelli di alcune multinazionali. Non si può tornare indietro … «Piccolo è bello», slogan in voga negli anni ‘80-’90 ha dimostrato che è un’illusione chiudersi nel proprio piccolo, nazione o gruppo.

Comunque, continuerò a leggere Missioni Consolata e quando leggerò gli articoli di Gesualdi scuoterò sconsolato la testa.

Antonio Borello
20/07/2018

Caro signor Antonio,
quanto Francesco Gesualdi scrive con competenza e passione, non è Vangelo. È un contributo alla comprensione di una realtà – come quella economica – estremamente complessa e sempre più fuori dal controllo non solo di noi gente comune, ma a volte anche dei governi.

È vero che ci fa più piacere leggere cose che confermano quello che già pensiamo, ma confrontarci con chi la pensa diversamente da noi ci arricchisce e ci può invogliare ad approfondire di più e conoscere meglio.

La logica di questa rivista non è quella dei social: riscuotere il più alto numero di «mi piace». Non cerchiamo il consenso, ma crediamo nel cuore e nell’intelligenza dei nostri lettori di cui rispettiamo fino in fondo la libertà di pensiero e di opinione.

Spezzare la catena

La rete che fa partire i migranti africani, cioè quelli che si fermano in Libia, ce l’hanno descritta più volte: ci sono quelli che girano nei paesi per convincere le persone a partire e poi le vendono a una lunga catena di intermediari in tutti i paesi attraversati. Vengono bloccate e torturate fin quando non arrivano altri soldi, e poi l’ultima sanguinosa estorsione avviene in Libia, che magari prende soldi italiani per rubarci su costruendo lager, e altri ancora li estorce dai poveretti per lasciarli imbarcare.

Non potrebbero giornalisti coraggiosi, magari assumendo informazioni dai missionari, descrivere bene questa catena (in cui, a occhio, c’entrano molti stati ex francesi e ora comunque collegati con la Francia che tanto strilla per non riceverli) e l’Italia occuparsi di diffondere queste informazioni su tutte le reti possibili, in modo che arrivino nei paesi d’origine dei migranti?

Claudio Bellavita
04/07/2018

Il problema è grande. Ci sono Ong, associazioni e chiese che si impegnano in questo campo. Pensi solo alla rete «Talitha Kum» creata da tante suore nel mondo che stanno lottando contro la tratta di persone. Oppure alle attività di cui abbiamo scritto a proposito del Niger (MC 3 e 4/2018) o del soccorso in mare (dossier MC 1-2/2018). Quanto alle responsabilità, quella francese è fuori discussione, visto la politica colonialista passata e recente. Ma neanche noi italiani possiamo ritenerci del tutto innocenti: Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia sono nostre ex colonie e il nostro colonialismo non è stato «più buono» di quello inglese, francese o tedesco.

Crollo di una diga in Laos

Spero che la tragedia del 24 luglio, quando il crollo di una colossale diga ha provocato la morte di oltre cento persone e la scomparsa di decine di villaggi nel Sud del Laos, convinca i governanti che il Mekong, più che un gigante pericoloso da imbrigliare con costosissime operazioni di ingegneria idraulica, è un fiume che dovrebbe essere amato, capito e valorizzato per quello che è, ovvero un patrimonio di eccezionale valore biologico, naturalistico e paesaggistico.

Spero che i professionisti dell’informazione facciano del loro meglio per ricordare a tutti che la tutela del Laos e della sua natura è di cruciale importanza per la conservazione degli equilibri ecologici e climatici nella regione del Sudest Asiatico e non solo.

Ave Baldassarretti
12/08/2018

I disastri non risparmiano alcun angolo del mondo. Ma non dovremmo aver bisogno di terremoti, inondazioni, incendi, tsunami ed eruzioni per «custodire il creato». Papa Francesco, nell’enciclica «Laudato si’», ci ha ricordato con forza e chiarezza la nostra responsabilità. Ma come è difficile per tutti cambiare e smettere di comportarci da «padroni» e diventare invece «custodi» e «giardinieri» del mondo.

Cammino verso Czestochowa

«Se vogliamo conoscere il cuore dei polacchi, occorre venire qui a Czestochowa al santuario della Madonna Nera. Bisogna ascoltare in questo luogo l’eco della vita dell’intero popolo vicino al cuore della sua Madre e Regina».

Pellegrinaggio 2018 alla Madonna di Czestochowa con i giovani dei Missionari della Consolata

Queste parole pronunciate da Giovanni Paolo II esprimono bene quel rapporto tra il santuario di Czestochowa e la vita di milioni di fedeli. La prospettiva migliore per capire tutto questo è di partecipare a uno dei numerosi pellegrinaggi che a piedi da ogni parte del paese d’estate si dirigono qui. Si contano ogni anno circa 250mila pellegrini provenienti da tutte le 41 diocesi polacche.

La tradizione dei pellegrinaggi al santuario della Madonna Nera è antica. I primi gruppi documentati risalgono al
XVII sec. Nel settembre del 1626 un gruppo di 80 fedeli partì da Gliwice diretto a Czestochowa per onorare un voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’assedio dell’esercito danese. Il voto impegnava i cittadini a recarsi lì ogni anno per ringraziare e far memoria dell’evento.

Pochi anni dopo nel 1637 anche i fedeli della città di Kalisz iniziarono a recarsi a piedi al santuario e, cosa singolare, a fare a piedi anche il ritorno. Nel 1771, il 6 agosto, anche i varsaviani come voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dalla peste inziarono a pellegrinare verso il santuario. Questi primi gruppi iniziarono una tradizione ininterrotta che si è sviluppata grandemente e ancora oggi dopo diversi secoli resiste nel tempo.

Dalla sola città di Varsavia partono ogni estate almeno cinque pellegrinaggi a piedi, tra questi quello organizzato dalla Pastorale universitaria dell’Arcidiocesi che ha sede nell’antica chiesa di sant’Anna, nel centro della città. Vi partecipano mediamente 4mila giovani e famiglie divisi in 19 gruppi. Uno di questi gruppi, quello argento, lo guidiamo noi missionari della Consolata. Infatti, fin dal nostro arrivo in Polonia nel 2008 ogni anno partecipiamo al pellegrinaggio con questo gruppo.

Il percorso è di circa 300 km diviso in 10 giorni dal 5 al 14 agosto. La giornata inizia con la sveglia all’alba. Dopo essersi preparati, aver ripiegato la tenda o aver sistemato il sacco a pelo usato nel fienile di qualche contadino, i pellegrini sono pronti ad affrontare la lunga giornata. Ogni due ore circa si fa una sosta nei pressi di una parrocchia che organizza l’accoglienza. Il parroco benedice con l’acqua santa i gruppi che arrivano, mentre i parrocchiani ristorano gli affaticati pellegrini con panini e bevande. In cambio ricevono riconoscenza e tante preghiere. Il programma spirituale è intenso. Ogni giorno, in una cornice di canti gioiosi, vengono fatte conferenze dai sacerdoti, preghiere tradizionali, il rosario, la Corona alla divina misericordia e, come momento culminante, la S. Messa. Alla sera ci si saluta con un momento di ringraziamento in gruppo e un canto mariano. Ogni giorno si fa esperienza dell’ospitalità presso famiglie semplici di villaggi che condividono quello che hanno. Forniscono un po’ di acqua per lavarsi dopo la calda giornata, rendono accessibile il fienile per sistemare i sacchi a pelo e trascorrere la notte oppure i propri giardini su cui montare le tende e passare qualche ora di riposo notturno indispensabile per riprendere un po’ di forza e ripartire il giorno dopo.

Il clima che si crea tra i pellegrini è di grande fraternità e di gioia. Una gioia che umanamente è difficile scorgere in una esperienza obiettivamente faticosa. Eppure, ogni partecipante vive una forza interiore che lo sorregge e incoraggia. Questa forza, lo crediamo, ci è data da Colei verso cui e per cui camminiamo offrendole le fatiche e tantissime intenzioni di preghiera.

Il nostro gruppo in mezzo agli altri si distingue per la caratteristica missionaria. La nostra presenza internazionale vuole essere un segno della universalità della nostra fede vissuta nella fraternità. Spesso invitiamo confratelli e amici da altri paesi che arricchiscono le giornate con i loro racconti e testimonianze.

In una cultura occidentale che propone all’uomo moderno una tecnologizzazione globale, spesso anonima, che esclude le distanze e gli incontri reali così come ogni forma di sacro, il pellegrinare a piedi ha ancora un suo significato prezioso: ridare all’uomo il giusto orientamento per il quale è nato, quello del camminare con altri condividendo una forte esperienza di fede. Per questo andare a piedi percorrendo centinaia di chilometri ha un suo senso e le persone che vi partecipano lo testimoniano con convinzione.

padre Luca Bovio
Czestochowa, 17/08/2018

Grazie, Asante sana

Ringrazio Dio per avermi aiutata a concludere gli studi e a diventare una maestra. Lo ringrazio perché l’aiuto di tante persone che neppure conosco mi ha permesso di arrivare a questo punto e superare tutte le difficoltà. Grazie per esserci stati per me quando avevo più bisogno di voi.

Catherine Smaila
Maralal, Kenya

Con queste parole Smaila [o Smiler) ha voluto ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla  sua educazione dalla scuola elementare fino al completamento dei suoi studi al Teacher’s College.

Vi avevo raccontato la storia di Colei-che-ride tanti anni fa, era il dicembre 2009, proprio sulle pagine di questa rivista. «Colei-che-ride non ride più» avevo scritto.

Ma oggi Smaila è tornata a sorridere grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno permesso di aiutarla nei lunghi anni di scuola. Con lei e con tanti altri bambini e bambine che hanno concluso il loro ciclo di studi o stanno ancora studiando, vi ringarzio anch’io di cuore. Il «sostegno a distanza» è un’avventura lunga e impegnativa, ma la gioia che dà è grande. Che il Signore ricompensi ciascuno di voi per la pazienza e l’affetto con cui aiutate noi missionari a restituire il sorriso e la speranza a tante persone in situazione di grande povertà e sofferenza.

 




È nato un bambino. Aiutiamolo a crescere


Quest’anno a Natale vi proponiamo di iniziare a seguire insieme a noi un bambino durante i suoi primi anni di vita. E di aiutarci a farlo nascere e crescere garantendogli sanità e istruzione.

Mi chiamo Emmanuel, sono nato il 25 dicembre del 2009. Abito in una casa sotto un grande albero di mango. Ma se volete venire a trovarmi questo non vi sarà di grande aiuto per farvi arrivare a casa mia: ci sono almeno dieci case, nel mio villaggio, che stanno sotto un grande albero di mango. Dovete chiedere di Emmanuel il figlio di Marie, quella che fa la cuoca nell’asilo dei missionari.

Dice mamma che quando sono nato l’asilo era chiuso per le vacanze e lei era ad aiutare papà nel campo di manioca. Ha sentito che stavo arrivando, allora papà l’ha fatta sedere sul portapacchi della bici e ha pedalato fino al posto dove nascono i bambini. È una casetta di mattoni, più grande della nostra e si chiama dispensario. Dentro ci sono due persone vestite di bianco: una è un infermiere, poi c’è una signora che aiuta le mamme a far nascere i bambini.

Queste cose non le so perché me le ricordo, ero troppo piccolo. Le so perché adesso mamma aspetta la mia sorellina e ogni tanto io e mio fratello piccolo la accompagniamo al dispensario. Dice mamma che deve andarci per fare la visita: vuol dire che quelle persone vestite di bianco le guardano la pancia, ascoltano il suo cuore e il suo respiro. Una volta lei aveva la febbre: le hanno punto un dito con un ago e le hanno preso una goccia di sangue. Le hanno detto che aveva la malaria, poi le hanno dato delle medicine e una zanzariera nuova: la nostra aveva troppi buchi e la mamma si era ammalata per quello.

Per mia sorella che sta per nascere siamo stati al dispensario già tre volte, ma dice mamma che quando aspettava mia sorella maggiore non ci andava mai: il dispensario non c’era ancora e mamma ha fatto tutto da sola. Beh, non proprio da sola: c’era una signora del villaggio che aiutava le mamme. C’è ancora, abita nella casa vicino alla strada grande, adesso è un po’ vecchia ma aiuta ancora i bambini a nascere. Però non tutti, dice mamma, più o meno uno sì e uno no@.

Poi i missionari, quelli dell’asilo dove lavora mamma, hanno aperto il dispensario. Ora molte mamme vanno a fare la visita, ma non sempre. Ad esempio, fra le nostre vicine di casa quattro aspettano un bambino. Una viene sempre con noi alla visita, due sono andate una volta sola. La quarta, invece, non ci va mai@.

Mamma ha provato a convincerla, ma lei niente: dice che suo marito non vuole, che ha bisogno nei campi, e poi lui non si fida di quelle persone vestite di bianco. Secondo me fa male a non fidarsi di loro: sono gentili, spesso ascoltano anche il mio cuore e il mio respiro. Poi mettono mio fratello dentro una specie di scatola di legno e gli avvolgono un braccialetto intorno a un braccio, scrivono dei numeri su un quaderno e a volte danno a mamma un sacchetto con dentro delle cose per lui.

Un giorno ho visto un bambino piccolissimo, con i capelli strani, un po’ gialli. Era con sua sorella più grande, non so dove fosse la sua mamma. Hanno messo pure lui nella scatola di legno, gli hanno avvolto il braccialetto intorno al braccio e lo hanno anche infilato con le gambe penzoloni in una specie di sacco bucato: era per pesarlo, ha detto l’infermiere. A sua sorella hanno dato un sacchetto molto più grande di quello che hanno dato a noi e l’infermiere ha parlato con lei per tanto tempo. Dice mamma che adesso quel bambino devono curarlo bene e che deve mangiare delle cose per non essere più così piccolo e per non avere più i capelli gialli.

Di bambini così all’asilo dove lavora mamma non ce ne sono: secondo me è perché lei è la cuoca più brava di tutte. Le cose che prepara fanno diventare grandi i bambini e non fanno venire i capelli gialli. Lo so, perché all’asilo sono andato anche io e ora ci va mio fratello. Adesso ha lui la mia tazza rossa, quella che usavo per bere, e ha anche il mio piatto verde, dove le maestre mi mettevano la pappetta e le altre cose da mangiare. È giusto così, la pappetta è per i bimbi piccoli, io ormai sono grande e non posso più andare all’asilo. Anche se mi piacevano le cose che facevo lì, specialmente disegnare e cantare insieme agli altri.

All’asilo ho anche imparato a contare, ma non so ancora contare tutto: una volta ho provato a contare quanti passi ci sono per andare alla mia scuola, ma sono molti più di venti! Mia sorella grande andava nella mia stessa scuola che sta in un villaggio più grosso. Lei dice che doveva camminare mezz’ora, ma io non so quanti passi sono mezz’ora.

Alla mattina io cammino fino alla scuola con due bambine e altri due bambini del mio villaggio. È bello perché mentre camminiamo ci facciamo degli scherzi e un po’ ci fermiamo a giocare. Per un po’ di tempo Irene, una delle due bambine, non è più venuta a scuola con noi. Dicono gli altri che la sua mamma è stata male di nuovo e che lei ha dovuto stare a casa per aiutarla a guardare i fratelli più piccoli. Il loro papà non c’è mai, guida un camion ed è sempre in viaggio@  e la mamma deve fare tutto da sola. Anche l’anno scorso sua mamma si era ammalata e ci è mancato poco che la mia amica perdesse l’anno.

Ora è tornata e io sono contento, perché è quella che mi sta più simpatica e anche perché è la più brava della classe. Dice mamma che tutti i bambini devono andare a scuola ma che per le bambine è tutto molto più difficile. Però da quest’anno lei ha un amico nuovo, un bambino che abita in un paese lontano, il paese – dice papà – da cui arriva quel missionario che viene spesso a trovarci in classe e si ferma a parlare con le maestre. Questo bambino e i suoi genitori ora regaleranno a Irene, e a tutti i bambini come lei, i quaderni, i libri, le matite, il grembiule e tante altre cose che servono per la scuola. Così la sua mamma potrà riposarsi un po’ di più e non si ammalerà tutti gli anni e Irene non dovrà più smettere di venire a scuola per aiutarla.

Una volta Irene mi ha detto che lei da grande vuole essere come la signora del dispensario che fa nascere i bambini e che io potrei diventare come l’infermiere. Mi sembra una buona idea, così potremo continuare a farci gli scherzi e fermarci a giocare, la mattina, mentre camminiamo insieme per andare al dispensario.

Emmanuel

Emmanuel è un bambino come tanti, anzi, è tanti bambini in uno. La sua storia è ispirata alle migliaia di storie che abbiamo ascoltato nei dispensari, nelle maternità, nei centri nutrizionali, negli asili e nelle scuole primarie che i nostri missionari gestiscono nel mondo. Abbiamo collocato il nostro piccolo narratore in un villaggio rurale africano, ma molte delle situazioni che vive sono condivise dai suoi coetanei nelle immense periferie delle grandi città o nelle terre di popoli indigeni o nelle zone aride dell’America Latina, e simili anche a quelle di altri popoli che vivono di pastorizia, come in Mongolia.

Quello che Emmanuel non ci ha raccontato – perché nessun bambino dovrebbe poter raccontare una cosa del genere – è che nei paesi meno sviluppati su mille bambini nati vivi quattro donne muoiono ancora per cause legate alla gravidanza (nell’area euro ne muoiono sei ogni centomila)@, mentre sessantotto bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Settantotto, considerando la sola Africa subsahariana. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, tredici su cento di queste morti sono causate dalla polmonite, nove dalla diarrea, sei da ferite varie e cinque dalla malaria.

Secondo i dati Unicef@ «tra il 1990 e il 2015, la malnutrizione cronica è calata da 255 milioni a 156 milioni di bambini, è però aumentata in Africa Occidentale e Centrale, passando da 19,9 milioni a 28,3 milioni.

Nel 2015, oltre 50 milioni di bambini sotto i 5 anni sono risultati affetti da malnutrizione acuta, di cui 17 milioni da malnutrizione acuta grave: la metà dei bambini vivevano in Asia meridionale ed un quarto in Africa subsahariana». Nello stesso anno «circa 92 milioni di bambini sotto i 5 anni risultavano sottopeso».

Nei paesi meno sviluppati solo un bambino su cinque va all’asilo. Eppure, sempre più studi confermano che i bambini che hanno ricevuto un’istruzione preprimaria ottengono migliori risultati negli studi successivi e sono più al riparo dal rischio di essere malnutriti grazie al sostegno nutrizionale che ricevono alla scuola materna. Dei bambini in età da scuola primaria, uno su cinque non è in classe@: si tratta di oltre sessanta milioni di bambini, di cui più della metà in Africa.

Chiara Giovetti




Cooperando: 3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà


Quest’anno concentriamo la campagna di Natale su Venezuela, RD Congo e Tanzania. Sono tre realtà molto diverse fra loro che hanno però almeno due aspetti in comune: una situazione socio-economica difficile e contraddittoria, della quale fanno le spese le fasce più deboli della popolazione, e una carente e spesso fuorviante informazione internazionale su di essi.

dsc04353_resize

1. Venezuela, fra crisi e propaganda

Che il crollo del prezzo del petrolio abbia messo in ginocchio l’economia venezuelana sembra essere l’unico dato certo: su un paese che basa la propria economia su questa risorsa, la diminuzione del costo al barile dai 100 dollari del 2014 ai 50 attuali non poteva non avere ripercussioni pesanti. Ma su questo dato di fatto si contrappongono, sia all’interno del Venezuela che nel dibattito internazionale, visioni sideralmente lontane circa le responsabilità e le possibili soluzioni.

Tutta colpa della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, dicono i critici dell’ex presidente venezuelano – morto nel 2013 e sostituito dall’attuale capo di stato Nicolás Maduro -, e delle sue politiche socialiste, nazionalizzazione dell’industria petrolifera in testa. «Il Venezuela è una dittatura conclamata», scriveva lo scorso ottobre sul Washington Post Francisco Toro, che in un precedente articolo su The Atlantic indicava come «vero colpevole della crisi il chavismo, con la sua propensione alla cattiva gestione, agli investimenti folli, allo smantellamento delle istituzioni, alle politiche di controllo dei prezzi e del cambio e al ladrocinio puro e semplice». È vero che già all’inizio del 2014, cioè prima della caduta del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana era entrata in recessione, risponde dalle pagine di Le Monde Diplomatique Marc Weisbrot, ed è vero che una profonda opera di riforma è necessaria, a cominciare da un riordino del mercato valutario: a oggi, ci sono tre tassi di cambio a cui si aggiunge quello applicato sul mercato nero, e vanno dai 10 bolivar (la valuta locale) contro un dollaro del cambio ufficiale ai 1.000 del mercato nero (un euro è quasi 700 bolivar con Weste Union dall’Italia).

Ma non bisogna dimenticare le ingerenze estee: il governo degli Stati Uniti promuove da quindici anni un «cambio di regime» a Caracas, ricorda ancora Weisbrot, e sta cercando di destabilizzae ulteriormente l’economia. Il Fondo Monetario è spesso particolarmente pessimista nelle stime sugli indicatori economici venezuelani e i media inteazionali fanno a gara a usare i termini più catastrofisti dimenticando di riportare anche i risultati ottenuti ad esempio dalle misiones, programmi governativi di lotta alla povertà lanciati nel 2003 da Chavez a sostegno dell’accesso alla salute, all’istruzione, al credito per la casa (vedi anche Le due piazze di Caracas di Paolo Moiola, MC 12/2015).

È degli ultimi giorni di ottobre la notizia della visita di Maduro a papa Francesco e dell’intenso lavoro della diplomazia vaticana per promuovere il dialogo tra le forze politiche ed evitare scontri e violenze.

La nostra proposta per il Venezuela

Al di là di queste diatribe, la situazione che i nostri missionari ci raccontano è davvero difficile: mai come quest’anno si sono resi necessari interventi per permettere alle persone di procurarsi cibo e farmaci. Nelle zone come Tucupita gli effetti della congiuntura attuale si accavallano a una situazione di povertà e marginalizzazione che da anni affligge la popolazione locale, appartenente per la maggioranza al gruppo indigeno warao.

La proposta dei nostri missionari è quella di impegnarsi in un progetto di contrasto all’abbandono scolastico dei bambini e adolescenti. Dal momento che il principale problema è l’acquisto del materiale scolastico, il cui prezzo è troppo alto per la maggior parte delle famiglie, il progetto prevede l’acquisto di penne, matite, quadei e altro materiale. Inoltre, coinvolge le famiglie a contribuire producendo esse stesse borse, astucci e piccolo mobilio per le classi come leggii e tavoli per lo studio, approfittando anche delle competenze acquisite dalla comunità warao grazie a iniziative realizzate in precedenza dai nostri missionari in ambito artigianale.


morogoro-consolata-day-care-children-with-their-tutors-_resize

2. Tanzania, fra Pil e ujamaa

La Tanzania cresce, eccome: le esportazioni fra il luglio 2015 e lo stesso mese del 2016 sono aumentate del 7,5% e lo scorso ottobre il paese ha firmato con il Marocco venti accordi di cooperazione bilaterale per poco meno di due miliardi di dollari nei settori energetico, minerario, tecnologico, agricolo, turistico, finanziario, sanitario e dei trasporti. Ma, come per altri paesi africani che stanno sperimentando simili espansioni, il rischio concreto è che larghe fasce della popolazione tanzaniana restino escluse dagli effetti della crescita. A differenza del turbolento vicino di casa congolese, in Tanzania – modellata dal mwalimu (maestro) Julius Nyerere, primo presidente e padre fondatore, sul principio dell’ujamaa (comunità-famiglia-fratellanza) – la pacifica convivenza fra gruppi etnici non è mai stata a rischio, ma le diseguaglianze sociali e le sacche di povertà sono tangibili, specialmente nelle aree rurali. Nel maggio di quest’anno, il Programma alimentare mondiale (Pam) ha pubblicato alcuni dati sul paese: nonostante la crescita economica, tre tanzaniani su dieci vivono nella povertà e uno su tre è analfabeta. L’ottanta per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e un terzo dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica.

La nostra proposta per la Tanzania

In Tanzania il nostro programma di sostegno a distanza è attivo a Mgongo, Mafinga, Iringa, Morogoro, Ikonda e Tosamaganga. Inoltre, contribuiremo al Day Care Centre di Morogoro, un centro che fornisce a 252 bambini istruzione prescolare. Secondo numerosi studi, infatti, i bambini che hanno fatto un percorso educativo fra i tre e i sette anni ottengono poi migliori risultati nel prosieguo dei loro studi e hanno maggiori probabilità di terminare il ciclo primario. Inoltre, frequentare un centro come questo permette ai bambini di avere una nutrizione più adeguata in anni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico.

In particolare, acquisteremo materiale ludico e didattico, cattedre, banchi e sedie, adegueremo il corpo docente alla sempre maggiore richiesta di iscrizioni e doteremo il centro di kit per il pronto soccorso.


bayenga-img_2442_resize

3. RD Congo, la difficile via verso le elezioni

Quarantadue anni dopo il celebre incontro fra Muhammad Alì e George Foreman, il grido in lingua lingala che si alza dallo stadio di Kinshasa non è più «Alì, bomaye!», «Alì, uccidilo», ma «Kabila oyebela, mandat esili!», «Kabila, sappilo, il mandato è finito».

Il 19 dicembre termina infatti il secondo mandato di Joseph Kabila, il quarantacinquenne presidente congolese succeduto al padre Laurent Desiré nel 2001 e riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2006 e del 2011, una consultazione elettorale quest’ultima, molto discussa e giudicata irregolare da diversi osservatori fra cui l’Unione europea. Le elezioni erano previste per quest’anno, ma a ottobre un accordo tra il governo e una piccola parte dell’opposizione (nel dialogo intercongolese) ha acconsentito di rimandare il voto al più tardi ad aprile 2018. Si creerà un governo di unità nazionale affiancato da un comitato di accompagnamento, mentre Kabila potrà restare in carica per la transizione. Ma il grosso dell’opposizione politica e i movimenti sociali non sono d’accordo, così come i vescovi, che hanno abbandonato il «dialogo» a settembre. E, se il conflitto politico a Kinshasa non sempre si limita al confronto dialettico – lo scorso settembre almeno 47 persone sono morte negli scontri fra polizia e manifestanti anti Kabila -, l’Est del paese non ha conosciuto un minuto di vera pace dalla fine della guerra del 1997-2003. Lo scorso agosto i miliziani del gruppo islamista di origine ugandese Adf – uno dei circa settanta gruppi ribelli attivi in Congo – hanno decapitato o bruciato vive trentasei persone a Beni, Nord Kivu.

La nostra proposta per il Congo

I nostri missionari in Rd Congo lavorano da sempre per ampliare quanto più possibile l’accesso all’istruzione e per contrastare l’abbandono scolastico: secondo gli ultimi dati Unicef, i bambini che non vanno a scuola sono 13 su cento, dato che sale a 16 nelle aree rurali. Degli scolarizzati, inoltre, un quarto non arriva alla conclusione del ciclo primario. Le aree su cui ci concentriamo questo Natale sono Kinshasa e Bayenga. Nella capitale, è attivo un programma di sostegno a distanza per i 360 bambini che frequentano la scuola primaria san Giuseppe d’Arimatea, nel quartiere Sans Fils. Attraverso questo sostegno, la probabilità di abbandono scolastico si riduce drasticamente perché risolve a monte il principale problema delle famiglie, quello di coprire i costi per la retta, i libri, il materiale scolastico.

A Bayenga, villaggio in piena foresta pluviale nella provincia Orientale, i nostri missionari lavorano con la comunità dei pigmei Bambuti: qui l’iniziativa è quella di creare e rafforzare una scuola itinerante, che possa spostarsi da un campement (insediamento) all’altro e permettere agli oltre mille bambini non scolarizzati di avere un’istruzione che rispetti e valorizzi anche le specificità culturali del loro gruppo etnico, tuttora considerato, dalla maggioranza bantu, composto da cittadini di seconda categoria.

Chiara Giovetti

dscn3118_resize


Grazie perché

Ecco alcune delle iniziative (e non sono tutte!) per le quali ci avete aiutati in questo 2016.

Istruzione e sanità

Abbiamo scavato un pozzo a Guilamba, Mozambico, comprato le bici per gli insegnanti a Neisu, RD Congo, dotato di microscopio, centrifughe e altro materiale il laboratorio del dispensario di Mgongo, Tanzania, e messo nuovi banchi, sedie e pc portatili nel centro di formazione per bambini adolescenti e giovani di Tucupita, Venezuela.

Stiamo poi mettendo il fotovoltaico nella Secondary School Mary Mother of Grace di Rumuruti, Kenya, migliorando la cucina della scuola elementare di Blessoua, Costa d’Avorio, lavorando alla scuola di formazione in agricoltura e all’impianto di irrigazione a Maturuca, Brasile, continuando la formazione alla pace per i bambini e le loro famiglie a Cartagena de Chairá, Colombia, e sostenendo doposcuola e Day Care Centre a Arvaiheer, Mongolia.

Per questi nove progetti e altri 33 ringraziamo la famiglia della signora Piera Guaaschelli, che ha sostenuto i missionari della Consolata per lunghi anni.

Abbiamo attrezzato l’ospedale di Wamba, Kenya, per il servizio di dialisi, rinnovato il laboratorio, introdotto un sistema di gestione informatizzato, riattivato il servizio di cliniche mobili per i villaggi intorno all’ospedale, intensificato il programma nutrizionale e lanciato una campagna di iscrizione per i pazienti al fondo di assicurazione sanitaria keniano Nhif, che permette la copertura delle spese mediche sostenute. Per questo progetto, che ha concluso il primo anno e continuerà per altri due, ringraziamo la Conferenza Episcopale Italiana, che ci ha concesso un finanziamento totale di 232.233 euro.

Sostegno a distanza

Anche quest’anno abbiamo sostenuto a distanza circa duemiladuecento bambini, a cui abbiamo fornito istruzione, cibo, cure mediche. Il programma SaD è stato attivato o potenziato anche in Venezuela, Mozambico, Sudafrica, Kenya ed Etiopia.

Attività generatrici di reddito e formazione professionale

Continuiamo a sostenere il panificio a Kinshasa che, grazie alla generosità di donatori privati e di gruppi missionari, cammina sempre di più sulle sue gambe. Anzi, su quelle delle donne di Kin che vanno a vendere il pane prodotto dal panificio.

A Malindi, Kenya, abbiamo concluso il progetto agricolo per le donne e a Kinshasa, RD Congo, abbiamo completato l’ammodeamento del laboratorio di elettronica del Centro di formazione professionale per ragazzi non scolarizzati. Grazie a Caritas Italiana per questi e per gli altri microprogetti che ci hanno permesso di realizzare.

Acqua

Ringraziamo tutti quanti hanno dato il loro contributo per garantire un sempre più ampio accesso all’acqua per le persone di Mukululu, Kenya, dove si trova il Tuuru Water Scheme, un sistema idrico che serve 250 mila persone e 150 mila capi di bestiame.

Popoli indigeni

Ringraziamo i nostri donatori – organizzazioni e privati cittadini – per la loro sensibilità alla condizione dei popoli indigeni di
Roraima, da Catrimani a Raposa Serra do Sol, e il prezioso sostegno alla difesa dei loro diritti.

3.366 grazie

Vorremmo nominarvi e ringraziarvi tutti 3.366 – singoli privati, organizzazioni, associazioni, gruppi missionari, parrocchie, congregazioni, aziende, scuole – perché ci avete affidato il vostro denaro, magari togliendolo al budget per la spesa e passando i fine settimana a organizzare eventi per le missioni, ma, anche usando tutte le pagine di questa rivista, non ci sarebbe abbastanza spazio per descrivere che cosa ciascuno di voi ci ha permesso di realizzare.

Noi, però, conosciamo i vostri nomi uno per uno, e una per una rispettiamo le intenzioni che accompagnano la vostra donazione: quello che ci avete affidato è diventato quadei, pompe idriche, cibo, farmaci, microscopi, sementi, salari dei maestri, attrezzi agricoli, letti per il parto, avvocati che hanno difeso minoranze ingiustamente espropriate, cacciate, aggredite.

Grazie a voi, anche nel 2016 abbiamo scritto una bella storia: siamo pronti a scrivere insieme il prossimo capitolo.


Diamo i numeri

  • Con 6 euro regali 10 set scolastici (penna, matita, gomma, quaderno) agli alunni di Tucupita.
  • Con 40 euro doni un kit per il pronto soccorso al centro prescolare di Morogoro.
  • Con 120 euro copri per tre mesi i costi di spostamento della scuola itinerante a Bayenga.
  • Con 300 euro sostieni a distanza un bambino in Congo o Tanzania.

Clicca qui se desideri dare il tuo contributo.
Grazie.
Puoi anche usare PayPal e IlMioDono
(in alto a destra)