In Ucraina, dove Caritas è speranza


foto di padre Luca Bovio


Con l’avvicinarsi dell’inverno, con don Leszek e Rika, un gruppo ormai ben collaudato e affiatato, mi metto in viaggio per l’Ucraina per portare aiuti e raccogliere testimonianze. Con l’auto piena di aiuti umanitari e con i permessi della Caritas passiamo la frontiera senza grandi difficoltà. Appena entrati in Ucraina ci colpisce immediatamente la mancanza di luce, non solo di quella naturale per le giornate ormai molto corte, ma anche e soprattutto di luce elettrica. Le strade sono buie. Ci raccontano che il 40 % della produzione di energia in tutto il paese è fuori uso a seguito degli ultimi attacchi avvenuti alle centrali elettriche nel mese di ottobre. Il carburante e i generi alimentari, invece, si trovano senza difficoltà, soltanto a prezzi raddoppiati.

Trascorriamo la prima notte nella città di Lutsk, a meno di due ore dal confine con la Polonia. Siamo ospitati dal vescovo della diocesi, S.E. Vitalij Skomarovs’kyj. Durante la cena ci racconta circa la situazione attuale dalla sua diocesi. Lutsk, pur trovandosi lontano dai territori dei conflitti che avvengono ad Est e a Sud del paese, è stata colpita le scorse settimane per danneggiare la centrale elettrica causando così la perdita parziale di corrente. Oltre a questo, il problema più grande che qui si deve affrontare è l’accoglienza dei profughi arrivati dall’Est del paese. Ogni settimana presso il centro della Caritas della diocesi vengono distribuiti aiuti per oltre 300 nuclei familiari. Grazie alla generosità di diversi benefattori possiamo lasciare una somma che aiuterà l’acquisto di generi alimentari e di beni di prima necessità.

Con il vescovo di Lutsk, mons Vitalij Skomarovs’kyj

Il giorno successivo, di buon mattino, ci mettiamo in macchina per raggiungere la capitale Kiev, dove, negli ultimi giorni, il numero degli attacchi è diminuito. A differenza di luglio, quando arrivammo qui l’ultima volta, notiamo un minor numero di controlli stradali. La città mostra ancora le ferite degli attacchi precedenti ai palazzi e alle infrastrutture. Facendo una passeggiata alla sera vediamo nel centralissimo parco della città il nuovo ponte distrutto da un razzo poche settimane fa. Gli abitanti della città vivono normalmente, ci racconta il nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, che gentilmente ci ospita. La corrente elettrica è collegata solo per poche ore al giorno e i grandi quartieri della città devono fare a turno per riceverla. Sono tantissimi i palazzi popolari molto alti, a volte di 30 piani, dove vivono migliaia di persone. La mancanza di energia interrompe l’uso degli ascensori obbligando a raggiungere a piedi il proprio appartamento. Il giorno successivo, prima di lasciare la città, visitiamo brevemente una parrocchia in costruzione dei padri Pallottini.

Dopo alcune ore di viaggio e dopo esserci assicurati sulla situazione raggiungiamo Charkiw, la seconda città per grandezza dell’Ucraina. La città è all’estremo Est del paese a soli 30 km dal confine con la Russia. Prima dello scoppio del conflitto, Charkiw contava più di 3 milioni di abitanti, oggi poco più di un milione. Qui gli attacchi sono quasi ininterrotti da febbraio e la città, così come la provincia, mostra tutte le sue ferite.

Arriviamo in serata avvolti da una nebbia molto fitta. La città è completamente al buio non solo a motivo del razionamento elettrico, ma anche e soprattutto per non dare riferimenti agli aggressori che sono stati respinti fino al loro confine a soli 30 km. A settembre erano arrivati a soli 10 km dal centro città per essere poi respinti di nuovo dietro al confine. Don Wojciech, sacerdote polacco che lavora qui da 6 anni, è il direttore diocesano della Caritas, attraverso la quale gli aiuti vengono distribuiti alla popolazione.

Dopo l’arrivo siamo accompagnati da due volontari della Caritas in una zona popolare della città pesantemente colpita. In quei palazzi vivono centinaia di persone nelle cantine. Lì le incontriamo. Scendendo una scaletta illuminata dalla torcia del telefonino, incontriamo le prime famiglie che qui vivono da ormai otto mesi. Sono nuclei familiari grandi, composti dai nonni, dai genitori e da bambini, a volte anche molto piccoli. I locali sono scaldati o dai tubi del sistema principale di riscaldamento ancora intatto, oppure da alcune stufette a legna. I letti sono costruiti sopra dei bancali di legno usati per le merci e ammorbiditi da materassi o da coperte. Quello che colpisce è la semplicità con cui vivono queste persone che riescono a sorridere incontrandoci e ringraziano continuamente per tutto quello che facciamo. Una tra queste ci dice: «Padre ci sono persone che stanno peggio di noi». Siamo guidati per i corridoi delle cantine. Su ogni porta con un gessetto ci sono scritti i cognomi e il numero della famiglia che in quella cantina vive. Una cantina è attrezzata con un wc rialzato da dei bancali e serve per decine di famiglie.

Una famiglia ci spiega che nella propria cantina hanno l’accesso a internet grazie a un vicino che abita al pian terreno e che ha messo il router in una posizione favorevole affinché il segnale arrivi. Un’altra cantina è organizzata come spazio di incontro per i bambini. Chi vive in queste condizioni in varie parti della città sono coloro che hanno la casa completamente distrutta o gravemente danneggiata. Una signora ci spiega che il suo appartamento al sedicesimo piano è del tutto senza finestre distrutte dall’onda d’urto delle esplosioni. Se anche le finestre fossero intere o riparate, lei sceglierebbe comunque di stare in cantina perché i piani alti dei palazzi sono quelli più esposti alle esplosioni.

Dopo questa toccante visita, conclusasi con abbracci e con la promessa che non li avremmo dimenticati, andiamo a trovare un parroco in un quartiere periferico della città. Ci racconta che nella sua parrocchia c’erano circa mille cattolici. Ora solo 4 o 5 vengono ancora per la Messa domenicale, tutti gli altri sono scappati. Nelle sale della parrocchia vivono alcuni anziani che qui si sentono più al sicuro che nelle proprie case. Nel garage ci mostra i resti di alcuni razzi caduti nei pressi della chiesa che per fortuna non è stata seriamente danneggiata. Ci fa vedere un mucchio di schegge affilate come rasoi delle bombe a grappolo. Colpiscono tutto nei dintorni dell’esplosione.

La notte, nonostante le allerte che arrivano sui telefonini, trascorre tranquilla e finalmente il giorno successivo alla luce del giorno possiamo vedere la città coi nostri occhi. Siamo accompagnati dal giovane vescovo Pavlo Hončaruk. I grandi palazzi centrali della città sono quasi tutti senza finestre a motivo delle esplosioni. Alcune sono riparate con dei pannelli di legno, altre sono distrutte e senza vetri.

Scuola bombardata a Korobochkyne

Ci dirigiamo rapidamente nei villaggi fuori città in direzione Sud Est. Raggiungiamo un villaggio, Korobochkyne, accompagnati da una troupe televisiva polacca che avendo saputo della nostra presenza ci ha raggiunto per fare delle registrazioni. Andiamo in una scuola pesantemente colpita. La direttrice ci dà il benvenuto e ci mostra i danni dell’edifico. Ci racconta che i soldati russi hanno portato via anche le scarpe degli alunni più grandi lasciando solo quelle piccole. Alla domanda di che cosa più urgente ha bisogno, ci risponde che i suoi bambini possano ritornare al più presto nel paese e a scuola. Oltre alla distruzione degli edifici il problema più grande, ci spiegano due soldati, è quello delle mine. Nei campi attorno alla città sono state collocate molte mine che rendono impossibile e molto pericoloso ogni tentativo di coltivazione. Riceviamo un appello affinché l’esercito si possa occupare della messa in sicurezza del territorio. Ora capiamo inoltre perché nei campi tantissimo granoturco e frumento sono rimasti non raccolti.

Nel pomeriggio abbiamo ancora la possibilità di vedere in città dove vengono distribuiti gli aiuti dalla Caritas. La fila di persone è impressionante. Ci raccontano che mediamente in un pomeriggio distribuiscono aiuti a più di 2000 persone, 30mila in due settimane. Per aiutare il numero più grande possibile di persone la distribuzione è regolarizzata con un sistema di tagliandi per cui i beneficiari possono ritirare i beni una volta ogni due settimane. Ognuno riceve 1 kg di pasta, latte, conserve di carne. I bambini in fila sono invitati a fare dei disegni e per questo ricevono cioccolata, caramelle e quaderni. Non solo gli anziani ricevono questi aiuti, ma anche adulti rimasti senza lavoro, una vera piaga lasciata dalla guerra. Tra questi un insegnante ci dice che con vergogna deve ricevere questo aiuto per sopravvivere, ma preferirebbe lavorare e pagare di tasca sua la spesa. Sono 4 i punti di questo tipo organizzati dalla Caritas nella città Charkiw.

Alla fine della giornata ritorniamo a Kiev prima delle 23.00 appena in tempo per evitare il coprifuoco che dura fino alle 5 del mattino.

Il penultimo giorno del nostro viaggio lo viviamo in una casa di bambini orfani gestita dalle suore Benedettine in un villaggio nel centro ovest del paese di Balyn. Per raggiungerli passiamo vicino alle città di Zytomyr e di Vinnica. Nella casa vivono 9 bambini dai 3 ai 12 anni senza genitori oppure con difficolta che non permettono loro di vivere in un normale clima familiare. L’attesa per il nostro arrivo è trepidante. Riceviamo durante il viaggio video e messaggi dai bambini che ci incoraggiano a raggiungerli al più presto. Alla sera siamo accolti con una grande festa. Una squisita cena preparata dalle suore, e il dono di bellissimi vestiti ricamati a mano secondo la cultura tipica di quelle regioni, fanno da contorno alla compagnia festosa e rumorosa dei bambini.

Il giorno dopo rientriamo in Polonia, per fortuna senza essere fermati a lungo alla frontiera (la volta scorsa furono ben dieci ore di attesa). Durante il viaggio abbiamo ricevuto tante altre richieste di aiuto tra queste alcune dalla città di Kherson liberata pochi giorni fa. L’inverno e solo all’inizio ma siamo sicuri che tanti di voi continueranno ad aiutare. Qualcuno ci ha detto: «Padri, avete degli ottimi angeli custodi che vi hanno sempre protetto durante questo viaggio». È vero lo abbiamo avvertito. Tuttavia, agli angeli custodi ci proteggono ancora di più quando qualcuno li prega e per questo ringraziamo anche per le tante preghiere che non sono mancate e che non mancheranno.

padre Luca Bovio imc

Leggi anche:

Ucraina: la solidarietà sfida l’inverno

da https://www.ildialogodimonza.it/ucraina-la-solidarieta-sfida-linverno/

Campi minati attorno a Korobochkyne




Per una salute che arriva al cuore


Le foreste del Nord Ovest del Congo sembrano l’ultimo posto al mondo dove ci sia bisogno di un centro di cardiologia. Eppure, povertà, violenze, guerre, cibo inadeguato, assenza di cure e uso di bevande acoliche tradizionali creano una situazione sanitaria che ha bisogno di risposte urgenti.

L’«Hôpital notre Dame de la Consolata» a Neisu, è un ospedale rurale situato nell’aerea della chefferie Ndey, territorio di Rungu, provincia dell’Haut-Uélé nella diocesi d’Isiro-Niangara in Rd Congo. Neisu (che nelle mappe si trova ancora con l’antico nome coloniale di Egbita) è a 33 km da Isiro, il capoluogo della provincia Nord orientale.

L’area è caratterizzata da un clima tipicamente tropicale con due stagioni: stagione delle piogge e stagione secca.
La popolazione di Neisu e dintorni appartiene principalmente all’etnia mangbetu e ai Bayogo, un gruppo minoritario di Pigmei. Vive principalmente di agricoltura (arachidi, mais, banane, riso) e allevamento di bestiame (capre, suini, pecore, pollame). L’insieme della popolazione è stimata a più di 80mila abitanti.

Nella parte settentrionale della provincia si trovano miniere di diamanti – perlopiù sfruttate artigianalmente – nelle quali lavorano prevalentemente giovani fra i quali, di conseguenza, è elevata l’incidenza di malattie polmonari e, a causa dell’inevitabile promiscuità, di malattie a trasmissione sessuale, incluso l’Aids.

Le sole vie d’accesso sono le strade, ma in uno stato di completa rovina. Ai tempi coloniali esisteva anche una ferrovia a scartamento ridotto, ora totalmente fuori uso.

Ospedale di Neisu

Nasce l’ospedale

L’ospedale inizia la propria attività a fine 1982 in un capannone vicino al luogo dove si sta costruendo la nuova chiesa con l’arrivo di padre Oscar Goapper, missionario della Consolata argentino che, prima della sua partenza, ha fatto un corso base da infermiere. Padre Oscar, che intanto studia con l’aiuto di un medico locale per migliorare le sue conoscenze sanitarie, fonda un primo dispensario per rispondere al grave abbandono sanitario di tutta la zona. Presto questo diventa «l’Ospedale Nostra Signora della Consolata».

Nel 1986 padre Oscar si iscrive all’università di medicina a Milano continuando a lavorare a Neisu, e riesce, nel 1994, a laurearsi in medicina a pieni voti. L’ospedale fiorisce, ma nel 1998, in piena guerra civile, tutti devono scappare in foresta per salvarsi. Ritornati all’ospedale all’inizio del 1999, riprendono in pieno il servizio per rispondere a una situazione disastrosa.

Contagiato da un’infezione di un paziente che stava curando, padre Oscar muore improvvisamente il 18 maggio 1999. Ma l’ospedale, così necessario in quella zona fuori del mondo, continua la sua attività. La sua fama si estende progressivamente, cosicché i pazienti vengono dalla città di Isiro e da altri centri della provincia per essere curati. Alcuni, attirati dalle infrastrutture e anche dalle possibilità di scolarizzazione per i figli, decidono di stabilirsi a Neisu dopo la propria guarigione.

Ospedale di Neisu – Dipinto con padre Oscar e suor Irene

Alcuni dati

L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu ha una capacità d’accoglienza di 190 posti letto, più venticinque letti nella nuova maternità.

Impiega cinque medici, cinquanta fra infermieri e tecnici di laboratorio e radiologia, ed altri quaranta impiegati (servizio amministrativo, addetti alla lavanderia, alle cucine, alla manutenzione alle riparazioni tecniche ecc.).

I servizi offerti dall’ospedale comprendono: ambulatorio, farmacia ospedaliera, laboratorio analisi, radiologia, centro nutrizionale (Centre Bolingo), servizio di medicina preventiva di comunità, unità operative di medicina, chirurgia, pediatria, ginecologia, ostetricia e un nuovo reparto di cardiologia. Inoltre, garantisce terapie e cure preventive (salute materna e infantile, educazione sanitaria, salute comunitaria), oltre a cure per la malaria che diventa epidemica in alcuni periodi dell’anno.

Il bacino di utenza dell’ospedale è di 70mila persone, ma numerosi sono gli afflussi dalle zone confinanti.

Presenza sul territorio

L’ospedale assicura, inoltre, la supervisione del settore Ovest dell’area sanitaria di Isiro, nella collettività di Ndey, Mongomasi e Medje-Mango, circa 1.800 km2, per una popolazione di circa 60mila abitanti, con una rete di sei dispensari e sei postazioni sanitarie che coprono dieci aree diverse. Questi dispensari si trovano in piena foresta e sono un punto di riferimento e consolazione per la molta popolazione che vive lontana da Neisu. Vista l’impraticabilità delle strade, raggiungere questi posti diventa sempre più impegnativo per l’ospedale, e anche costoso per il mantenimento dei vari equipaggi, delle attrezzature necessarie, le medicine e il carburante.

L’ospedale non riceve energia elettrica da fuori e per il funzionamento delle attrezzature mediche viene utilizzato sia il generatore centrale, alimentato a gasolio, sia l’energia fotovoltaica autoprodotta. Segue le politiche e i programmi sanitari del paese, ma non riceve finanziamenti pubblici dal governo e quindi è interamente supportato, a livello economico, dai Missionari della Consolata, con l’aiuto di amici e benefattori. Le entrate dell’ospedale decisamente non bastano a coprire le spese per le medicine (acquistate in Uganda), per gli stipendi e gli alimenti per il centro nutrizionale e la manutenzione.

Ospedale di Neisu

Come vive la gente

La vita nel villaggio, qui a Neisu, in piena foresta, è molto diversa dalla vita nella cittadina d’Isiro. La gente è più povera, vive sulla soglia della sopravvivenza, fa tanta fatica a pagarsi alimenti, medicine, vestiti, e ancor di più a provvedere libri, quaderni e divise scolastiche per i bimbi. Spesso pagano le fatture e le medicine dell’ospedale, anziché in denaro, con prodotti agricoli locali: riso, fagioli, mais. Tutto questo serve poi per il centro nutrizionale e per i poveri che visitiamo ogni giorno. In molti casi, e sono troppi, vista la miseria di certe situazioni, concediamo dei crediti. Di fronte a situazioni d’urgenza, l’unica via possibile è dare un credito per poter salvare una vita. Questi crediti difficilmente si recuperano, ma in certe contingenze è sempre meglio «perdere» (denaro) che lasciare una vita abbandonata alla sua triste sorte.

Altri, non avendo la possibilità di pagarsi tutta la fattura dell’ospedale, lasciano in pegno qualche oggetto, casseruole, piccoli vestiti o una vecchia moto quasi inutilizzabile. Ogni anno, il nostro ospedale si riempie soprattutto di bambini, i più vulnerabili, ma anche di adulti e anziani, colpiti da malaria.

Molti arrivano dai villaggi vicini, ma anche da quelli distanti una sessantina di km. In troppi casi, i pazienti arrivano in situazioni d’emergenza, soprattutto i più piccoli, con anemia severa, per la quale serve subito una trasfusione. Purtroppo, anche in questi casi, molti non hanno i soldi per pagare il sacchetto di sangue, che resta così a carico dell’ospedale.

Il rapporto annuale 2021 documenta che abbiamo curato circa 2.500 persone colpite da malaria e fatto 1.260 trasfusioni.

Ospedale di Neisu

Cardiologia, perché

I malati di cardiopatia e d’ipertensione, in questi ultimi anni sono in continuo aumento e costituiscono una grande sfida a livello sanitario, vista la mancanza di ospedali e medici specializzati in cardiologia, anche nella più vicina città di Isiro.

Le cause principali delle malattie cardiache sono le seguenti:

  • Stress. Il livello socioeconomico basso e l’instabilità politica non permettono alla popolazione di assicurarsi una stabilità di vita, e sono diffuse la precarietà e l’incertezza.
  • La famiglia allargata. Essa domanda che ognuno si prenda cura di tutti i suoi componenti, per cui molti, già in giovane età, devono impegnarsi a cercare i mezzi per un futuro migliore.
  • Le abitudini alimentari. Povere in proteine e troppo ricche di grassi e sale. In primo luogo l’eccessiva consumazione di olio di palma, ricco di colesterolo.
  • L’eccessivo e sregolato consumo di bevande alcoliche di preparazione locale. Il metodo di produzione delle stesse non rispetta minimamente i principi della giusta distillazione, per cui è impossibile quantificare i gradi acolici presenti in esse, che sono spesso molto elevati.
  • Il consumo della noce di cola, che è un forte eccitante.

Queste sono alcune tra le cause più comuni, e sempre in aumento già in giovane età. Abbiamo ricoverato studenti tra i 13 e i 20 anni con problemi cardiologici. Purtroppo molti non sopravvivono.

Ospedale di Neisu

Il nuovo reparto

Grazie alla donazione di una famiglia torinese, nel maggio scorso, abbiamo terminato di costruire un padiglione per la cardiologia, composto da una stanza con una decina di posti letto per uomini, un’altra simile per sole donne, con servizi igienici esterni, lo studio medico e due stanze private con servizi igienici e doccia in camera. Tutto con una cinta di protezione.

Vista la mancanza di cardiologi e medici specialisti in generale, nello scorso mese di aprile abbiamo inviato a Kinshasa, la capitale del paese, per una formazione in cardiologia, una nostra dottoressa e due infermiere, che ad oggi sono ancora in formazione.

Questa è la situazione.

  • Nel 2020 abbiamo trattato 168 pazienti con problemi cardiaci e 108 con ipertensione.
  • Abbiamo ricoverato in medicina interna 64 pazienti con problemi cardiaci e 46 per ipertensione.
  • In terapia intensiva: 14 pazienti con cardiopatie e 13 ipertensione. In questo servizio, sui 72 decessi, 12 sono avvenuti per problemi cardiaci.
  • In medicina interna, su 1.234 ricoverati, 110 sono pazienti con problemi cardiaci e ipertensione. Il 30% dei decessi in medicina interna sono legati a cardiopatie.

Ospedale di Neisu

Ospedale di Neisu

Richiesta d’aiuto

Ora abbiamo bisogno di equipaggiare questa cardiologia.
Finora siamo riusciti a comperare un elettrocardiografo e un ecodoppler. Avremmo bisogno di un monitor, un concentratore d’ossigeno, un holter pressorio ed un piccolo gruppo elettrogeno che ci servirà per far funzionare tutte le apparecchiature mediche necessarie per le varie diagnosi di cardiologia. Più eventuali condensatori di ossigeno per quando il grosso gruppo elettrogeno dell’ospedale è spento. Visti i costi elevati del carburante per far funzionare il generatore centrale dell’ospedale, questo piccolo generatore è indispensabile soprattutto nel pomeriggio o nelle urgenze notturne.

Per il funzionamento saranno necessari 1.500 litri di carburante all’anno. Ci sarebbe utile anche un altro monitor per il reparto di terapia intensiva, visto che ne siamo tutt’ora sprovvisti. Tutte queste apparecchiature e il carburante (il cui prezzo è ormai imprevedibile anche qui da noi) saranno acquistate a Kampala (Uganda).

Come missionari siamo chiamati a essere portatori di speranza, quella speranza che è la tenera ala che sostiene la nostra fede, speranza che ci fa credere nei sogni di altre persone, sogni che non possono spezzarsi in giovane età.

Ivo Lazzaroni
amministratore dell’ospedale


Amici Missioni Consolata

Progetto cardiologia

Sosteniamo gli Amici Missioni Consolata che si impegnano a raccogliere i circa 15mila euro necessari all’acquisto dei macchinari per il reparto di cardiologia di Neisu.

Donazioni attraverso la  Fondazione MCO specificando: «Cardiologia Neisu».

Grazie.

 




Aiuti alla gente di Zaporizia


E preparativi per l’inverno a Charkow

Carissimi tutti,
un caro saluto e un doveroso ringraziamento per il continuo sostegno che continuate a dimostrarci. Dopo il viaggio che ho fatto questa estate in Ucraina e di cui vi ho relazionato, continuiamo a organizzare i progetti di aiuto sia per profughi sia per le persone che vivono nelle zone in cui ancora si combatte. Se le temperature estive facilitavano relativamente le condizioni di vita, l’arrivo imminente dell’autunno e ancor piu dell’inverno, rendono più complicata una situazione che di per sé è già molto difficile. Come sapete dai mass media il conflitto in Ucraina continua senza pause e sconti da mesi, anzi in alcune zone da anni (dal 2014). Tutti purtroppo sono concordi con il fatto che durerà ancora a lungo.

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia

Aiuto ai frati francescani

In queste settimane siamo impegnati in diversi progetti di sostegno, molte infatti continuano ad essere le richieste di aiuto che riceviamo. Nei pressi di Zaporizia (o Zaporizhzhya), la località di cui molto si parla a motivo della presenza della piu grande centrale atomica europea messa a rischio dai continui attacchi, una comunità di frati francescani (Albertini) di origine polacca distribuisce quotidianamente più di mille pasti alla popolazione locale. Il loro sforzo è grande e la preoccupazione maggiore è quella di garantire le scorte alimentari per un lungo periodo e per un numero così grande di persone. Pochi giorni fa siamo riusciti a spedire loro un buon carico di scatolame a lunga conservazione aquistato in Polonia e già giunto sul luogo. Siamo già d’accordo di ripetere l’acquisto a ottobre.

Pannelli di legno per Charkow

Vetri rotti nelel case di Charkow a causa dei bombardamenti

Charkow, la seconda città per grandezza a poche decine di chilometri dal confine russo, è sotto bombardamento ininterrotto dallo scorso febbraio. Le notizie e le immagini che riceviamo dal direttore locale della Caritas, don Wojtech, sono eloquenti. Uno dei tanti progetti di aiuto specialmente con l’arrivo delle basse temperature, consiste nell’acquisto di pannelli di legno che possono sostiutire le finestre della case rotte per la deflagrazione delle esplosioni. Sono molto numerosi gli edifici colpiti. Spesso le onde durto dell’esplosioni distruggono i vetri delle finestre delle abitazioni. Per questo motivo viene messo del nastro adesivo sulle finestre ancora sane, per contenere dopo un eventuale esplosione le schegge che arriverebbero dappertutto. I pannelli di legno sono un’economica alternativa che proteggono minimamente dal vento e dalle precipitazioni di pioggia o di neve le abitazioni colpite. Sempre in questa città stiamo acquistando dei generatori di corrente elettrica indispensabili negli ospedali.

In questo contesto, i tentativi e gli sforzi di vivere e di ritornare a una certa normalità non mancano. Nella stessa città di Charkow, così come altrove, i bambini, con l’inizio del nuovo anno, ritornano nelle scuole o perlomeno in luoghi sicuri dove si possono tenere delle lezioni. Abbiamo ricevuto la richiesta per l’acquisto sul luogo di circa 300 zaini scolastici.

Grazie per l’aiuto

Questi sono solo alcuni esempi di progetti che attualmente stiamo organizzando, senza dimenticare l’aiuto costante dato alle famiglie che ormai da mesi risiedono vicino a noi qui in Polonia. Prevedo di recarmi in Ucraina all’inizio di novembre per poter portare ancora aiuti e per continuare a testimoniare una realtà che speriamo tutti, finisca al piu presto. Grazie di cuore a nome dei numerosi beneficiari per tutto quello che fate. Che il Signore vi benedica e ci renda suoi strumenti di pace. Perghiamo per la pace costruiamo la pace.

padre Luca Bovio IMC
Kiełpin 10.09.2022

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Dalla Bosnia. La porta è chiusa


Rispetto a quella del Mediterraneo, la rotta dei Balcani è meno nota ma sempre più frequentata. Qualunque sia la strada seguita, la questione delle migrazioni verso l’Europa rimane irrisolta. Reportage dai campi profughi della vicina Bosnia.

Silvia Maraone è la responsabile del progetto di Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione, la Ong delle Acli) a Bihać e a Lipa, in Bosnia. Schietta e cordiale, Silvia si muove con autorevolezza e determinazione con istituzioni locali, poliziotti, cittadini, volontari, operatori di varie organizzazioni e con i profughi.

Ci accompagna all’interno del campo di Lipa, raccontando come funzionano le cose, come sta evolvendo la situazione, quanto siano preziosi gli aiuti che arrivano dall’Italia.

Siamo nel distretto bosniaco di Una Sana, una terra ricca di fiumi e di boschi, con paesini caratterizzati da piccoli minareti. In questi luoghi, che trent’anni fa videro il conflitto dell’ex Jugoslavia, negli ultimi due anni si è creata un’emergenza straordinaria.

La cittadina di Bihać, che conta circa 30mila abitanti, ha visto arrivare seimila profughi, in maggioranza provenienti dal Medio Oriente e diretti in Europa. Persone che, nonostante il diritto di chiedere asilo, vengono bloccate proprio sul confine tra Bosnia e Croazia, dove si fa di tutto per non farle proseguire.

Una veduta del nuovo campo profughi di Lipa, in Bosnia, aperto il 19 novembre 2021; posto a 20 chilometri da Bihać, può ospitare fino a 1.500 persone. Foto di Geoffrey Brossard – Nangka Press – Hans Lucas – AFP.

La strategia di Frontex

Logo dell’agenzia europea Frontex.

È la «fortezza» Europa che non li vuole e che, come spesso accade, li ferma per interposta persona. In questo caso, è la Croazia – paese dell’Unione europea – che respinge i profughi, mentre la Bosnia prende il posto della Turchia o della Libia nel trattenerli. L’agenzia europea Frontex trova conveniente utilizzare la vicinanza geografica dei Balcani e la collaborazione di diversi governi desiderosi di entrare nella Ue (come la Bosnia Erzegovina), per rendere il contenimento dei migranti più semplice e, soprattutto, meno costoso.

Nel 2021, con un aumento del 125% di passaggi irregolari su questa rotta rispetto all’anno precedente, Frontex ha perseguito una logica securitaria fatta di fili spinati, campi di confinamento e militarizzazione dell’area. Ciliegina sulla torta, l’uso di moderne tecnologie, dai droni allo studio di sistemi di sorveglianza e controlli di tipo biometrico, come le impronte digitali, il riconoscimento facciale, ecc. (vedi Luca Rondi su Altreconomia n. 245). Pratiche che già molte organizzazioni contestano, considerandole illegali e pericolosissime dal punto di vista dei diritti umani e della privacy in campo digitale (lo si fa con i migranti, ma anche con i cittadini di molti paesi).

La mappa mostra i tragitti dei migranti per raggiungere la Bosnia.

Il «non luogo» di Lipa

Così la zona è divenuta una sorta di collo di bottiglia, e la radura di Lipa, a 20 chilometri da Bihać e da qualsiasi altro centro abitato, si è trasformata inizialmente in una tendopoli di quasi duemila profughi, mentre altri venivano ospitati in città, in due campi provvisori. Dopo l’incendio di un anno e mezzo fa, le organizzazioni internazionali e la municipalità di Bihać hanno deciso di attrezzare l’area, che ora si presenta più funzionale e dove in maggio è stata inaugurata una nuova zona per le attività dedicate ai bambini (grazie ai fondi inviati direttamente da papa Francesco). Ma non cambia il fatto che questo campo tra i boschi della Bosnia resti un «non luogo» in mezzo al nulla, con millecinquecento posti – fino a giugno, occupati da circa 400 ospiti – con ben poche possibilità di interazione con il territorio. Oltre alla distanza fisica, infatti, esiste anche una differenza culturale importante: la maggioranza di queste persone provengono da Afghanistan e Pakistan, ma ci sono anche siriani, iraniani e diversi africani. Oltre a un centinaio di cubani, la cui storia è davvero originale, nella sua drammaticità. Andare negli Usa può costare troppo, e allora si ripiega sull’Europa, e la Russia – non distante dal sogno europeo – è uno dei pochi paesi in cui un cubano può sbarcare senza visto (ma dove non può restare né chiedere asilo). Di respingimento in respingimento, anche i cubani sono finiti a Lipa, luogo nel quale tutti (maschi e femmine, famiglie, giovani e meno giovani, di qualsiasi provenienza) hanno un unico scopo: varcare il confine.

Alcune strutture del nuovo campo profughi di Lipa. Foto di Roberto Calza.

La struttura

Lipa è la tappa principale per chi prova e riprova «the game», il cammino verso l’Europa, ed è disposto a tutto per realizzare il proprio progetto migratorio. Un percorso sempre più ostacolato – anche con metodi brutali – dalle autorità croate che hanno persino «rasato» una striscia di bosco a ridosso del confine per individuare meglio con i droni coloro che provano ad emigrare – come cantava Ivano Fossati – «da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole».

Ipsia è un’organizzazione particolarmente attiva a Bihać e nel campo, dove ha promosso alcune iniziative innovative, sostenute da molti donatori italiani, come il servizio di lavanderia, le cucine collettive, i social cafè. Il primo si era reso necessario per urgenti problemi igienico sanitari, in quanto molti migranti indossavano per giorni gli stessi vestiti senza poterli lavare e cambiare, cosa che aveva provocato diversi casi di scabbia. Le cucine – una decina di grandi bracieri a legna – sono invece una felice intuizione che permette a molti ospiti di sentirsi protagonisti nel cucinare i loro pasti, secondo la loro tradizione e le loro capacità. I social cafè sono infine una modalità per favorire le relazioni all’interno del campo, tramite un tè o un caffè, alcune attività ludico ricreative e culturali, con il supporto di operatori e volontari.

«Ora i posti a disposizione sono sufficienti e l’essenziale c’è – ci dice Silvia -, ma per proseguire con le cucine (cibo e legna costano 3/4mila euro al mese) e la lavanderia (altri 5mila) serviranno altri fondi, oppure dovremo ridurre il numero di beneficiari. Inoltre, oggi i profughi in tutta la Bosnia sono meno di duemila, ma se i numeri aumenteranno – come potrebbe accadere – rischieremo nuovamente di trovarci in difficoltà».

Oltre a Ipsia, il campo – ma anche la città di Bihać – vede la presenza di una decina di realtà internazionali e locali che hanno costruito efficaci sinergie finalizzate a rispondere alle innumerevoli esigenze portate dai migranti. Caritas Italiana (con l’appoggio di numerose Caritas diocesane), Caritas Banja Luka, Ipsia, Croce Rossa (sia internazionale che locale), l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni (Iom), alcune Ong di Danimarca e Austria e pure l’ambasciata italiana, hanno permesso di gestire la situazione in modo tutto sommato efficace, per quanto sempre emergenziale.

«All’inizio dell’emergenza – racconta il responsabile della Caritas di Banja Luka che a Bihać ha aperto un ufficio appositamente per far fronte alla complessa situazione – erano presenti una cinquantina di associazioni, che poi sono scomparse. Chi è rimasto ha capito che, perché le cose funzionassero, era necessario collaborare, facendo ognuno la propria parte».

Così il progetto lavanderia funziona grazie ai volontari e operatori Ipsia (tra cui alcune ragazze italiane in servizio civile) che raccolgono gli indumenti al campo, mentre la Croce Rossa di Bihać provvede al lavaggio e alla consegna, grazie a lavatrici industriali e furgoni finanziati dall’Italia. La Croce Rossa poi – autorizzata dal governo bosniaco a monitorare quanti si accampano nei dintorni (nei cosiddetti «jungle camp», vedi riquadro pp. 20-21) – condivide le informazioni con Caritas Bihać che, tramite tre suore di Madre Teresa, due infermiere e due psicologi, raggiunge questi dimenticati portando loro viveri, vestiti e assistenza sanitaria. Inoltre, per evitare uno sbilanciamento di risorse verso i profughi, si interviene anche sulle povertà della comunità locale. Similmente per la scuola: le attività e le risorse messe in campo per favorire l’inserimento dei bambini stranieri (in verità non molti), sono nei fatti destinate a tutti i minori, senza distinzioni.

Un migrante si prepara la cena in un rifugio di fortuna nei boschi fuori Lipa. Foto di Stefano Calza.

Sotto la cenere

Nonostante una situazione che al momento appare più tranquilla, restano impressionanti alcuni numeri forniti da Caritas Bihać, che opera grazie all’aiuto di varie Caritas in Italia e di altri donatori, nonché al supporto degli operatori Ipsia con cui collabora da tempo. Grazie ai fondi Caritas, in questi ultimi mesi la Croce Rossa locale ha distribuito 120mila pasti per il campo, a cui se ne aggiungono altri 40mila per quanti vivono accampati nei boschi e nei ruderi, mentre altri 16mila pasti vengono distribuiti in altre realtà. Allo stesso tempo si sostengono circa 400 famiglie bosniache bisognose di Bihać con aiuti di prima necessità.

Purtroppo, la questione migratoria non è l’unica preoccupazione. Daniele Bombardi, operatore di Caritas Italiana, che da anni viaggia tra Serbia, Bosnia e Kossovo, ammonisce: «Non è solo la questione migratoria a preoccupare. I compromessi su cui si è costruito il governo bosniaco dopo la guerra, appaiono sempre più fragili (riquadro a pag. 22). A livello governativo vi sono state alcune provocazioni, con richieste di autonomie che risultano divisive. E se non si presidia la situazione, basta una scintilla per riaccendere un fuoco che cova sotto la cenere».

Ogni tanto un paio di ragazzi escono dal campo con lo zaino in spalla. A loro non interessano i discorsi delle autorità venute a inaugurare il nuovo padiglione, né le beghe politiche nel governo bosniaco. Partono per «the game», alla ricerca di un futuro. Dovessero fallire e tornare indietro, Lipa probabilmente sarà ancora lì: un letto, un pasto e centinaia di compagni di sventura con cui condividere informazioni, fatiche e speranze. E qualche persona amica pronta a regalare un sorriso e a provare a salvaguardare la loro dignità.

Roberto Calza*

 (*) Già direttore della Caritas diocesana di Trento per dieci anni, attualmente referente per la pastorale Migrantes della stessa diocesi. Coordinatore della campagna «Cambiamo Rotta», promossa nel maggio 2021 da alcune realtà trentine a sostegno dei progetti di Ipsia a Bihać e Lipa in Bosnia.

Si parte per un nuovo tentativo di attraversamento del confine. Foto di Stefano Calza.


Storie di altri migranti

Ancora, ancora e ancora

Sopravvivono fuori dai campi ufficiali, ma resistono e non demordono: continueranno a provare il passaggio in Europa. Assistiti dai volontari del Jrs.

I boschi della Bosnia non sono la giungla tropicale, ma «jungle camp» è il modo in cui vengono indicati gli accampamenti nei boschi, fuori dai campi profughi autorizzati («squat» invece è il termine usato in area urbana). In mezzo agli alberi o appoggiandosi a qualche rudere nelle campagne piuttosto che a qualche capannone dismesso in una periferia urbana, alcune centinaia di persone stazionano nei pressi del confine, pronte all’ennesimo giro di giostra, per attraversare quella linea che li separa da un’Europa che, in questi anni, è divenuta una sorta di nuovo Eldorado.

All’interno delle attività del Jesuit refugee service (Jrs, in Italia rappresentato dal Centro Astalli), che ha un presidio nel campo di Lipa, c’è quella di «outreach», la ricerca di questi campi informali, con conseguenti visite a chi li popola, in particolare nella zona di Bihać e di Velika Kladuša. È un lavoro particolare, fatto di relazioni, di contatti, di condivisione di informazioni con altre organizzazioni e anche di un’attenta lettura del territorio. Se infatti alcuni luoghi sono ormai divenuti punti fermi di transito di molte persone, altre volte è necessario intuire – da un sentiero accennato in un prato, dalla presenza di volti nuovi in città, da qualche rifiuto lasciato nei boschi – dove si formano nuovi insediamenti.

Il sostegno che viene fornito da Jrs a chi vive nei jungle camp è principalmente di due livelli: quello materiale, che consiste nel rifornire i profughi di quanto può servire ad affrontare «the game» (es. vestiti e powerbank per i cellulari), e quello sanitario con visite mediche per accertare le condizioni di salute e, in caso di necessità, inviare le persone a professionisti (dentisti, oculisti, medici) convenzionati con l’associazione che paga il conto. Non è concesso consegnare viveri.

Un gruppo di volontari di Jrs visita un rifugio di migranti nei boschi attorno a Lipa. Foto di Stefano Calza.

L’altra faccia della rotta balcanica

Chi vive nei jungle camp? Per lo più si tratta di uomini, soprattutto pachistani e afghani, anche se non manca qualche famiglia (nei nostri giri abbiamo incontrato un paio di nuclei nepalesi e una famiglia iraniana) che decide di attendere in ripari di fortuna il momento buono per partire.

Sono luoghi che rappresentano l’altra faccia della rotta balcanica, che raccontano vicende che vale la pena far conoscere.

Nei pressi di una casa abbandonata alla periferia di Velika Kladuša incontriamo John, giovane camerunense che necessita di cure mediche. Ha infatti un labbro enorme, tumefatto da un pestaggio da parte delle guardie di frontiera, confermato dai segni di uno stivale sulla guancia. Gli operatori di Drc (Danish refugee council), la grande organizzazione danese che – tra i vari interventi – si occupa di fornire cure sul campo, esaminano il volto di John e sostengono che loro possono fare ben poco, meglio sarebbe se fosse sotto controllo medico per qualche giorno, per evitare complicazioni. Gli viene suggerito di farsi portare al campo di Lipa (è possibile chiamare il dipartimento per l’immigrazione bosniaco che fa questo servizio) dove l’assistenza medica è più strutturata e h24. John tentenna, non gli piace troppo dover tornare al campo, ma alla fine accetta, ponendo però una condizione: si farà trovare sulla strada principale, non vuole che il dipartimento immigrazione conosca esattamente l’ubicazione di quel rifugio né chi ci abita. Forse una sorta di rispetto per i suoi compagni di campo. Quando starà meglio, sicuramente farà tappa qui e poi, come tutti, proseguirà per fare un altro tentativo.

Un cartellone con i nomi delle organizzazioni attive nel nuovo campo di Lipa. Foto di Roberto Calza.

Dal Pakistan

Ci sono poi le storie di Sajad e Ibrahim, che troviamo insieme ad altri ragazzi pachistani in una vecchia fabbrica. Sajad, che compirà 18 anni quest’anno, ci racconta che, dopo diversi tentativi, era riuscito a passare – con un gruppo di quaranta connazionali – sia il confine croato che quello sloveno. A Novo Mosto, in Slovenia, la comitiva è stata fermata dalla polizia che ha chiesto chi fosse il capo del gruppo. Qualcuno ha indicato Sajad che – senza alcuna accusa precisa, senza una intermediazione né un traduttore e nemmeno una comunicazione formale – è stato arrestato e tenuto in carcere per sei mesi, prassi ormai piuttosto frequente. Una volta rilasciato – senza alcun processo – è stato rispedito in Bosnia.

Quella di Ibrahim, sui trent’anni, è invece una vicenda più complessa. Lui conosce quasi tutte le frontiere dell’Est Europa, avendo provato a passare da ogni pertugio possibile. Partito anche lui dal Pakistan, ha attraversato Iran, Turchia, Grecia, Kosovo, Albania, Serbia, Ungheria (passando il tristemente noto muro tra questi due paesi).

Arrivato finalmente in Austria, è stato fermato e riportato in Serbia e da qui in Bosnia. Tuttavia, Sajad e Ibrahim non demordono.

Proprio pochi giorni prima di incontrarli avevano riprovato «the game», insieme. Ma stavolta la reazione delle pattuglie che controllano il confine croato è stata particolarmente severa. Hanno preso loro i telefoni a cui hanno sparato, dando poi fuoco ai pochi soldi che avevano, ricacciandoli indietro ancora una volta.

La partita infinita

Dopo alcuni giorni passati tra queste persone diventa inevitabile chiedersi il senso di questo «gioco», che di ludico ha ben poco, e se non ci siano modi meno rischiosi e più dignitosi per arrivare in Europa. Ma il semplice fatto che qualcuno ce la faccia (e la cosa rimbalza velocemente di smartphone in smartphone) motiva tutti quelli che ancora – magari dopo aver provato 30 o 40 volte – sono in attesa. Perché qualcuno il confine lo passa comunque ogni giorno. In stazione a Zagabria, mentre torno in Italia, incrocio casualmente alcuni volti noti, sfiniti ma sorridenti. Sono ragazzi incontrati a Lipa alcuni giorni prima. Dopo tre giorni di cammino ora sono lì, forse a un passo dalla conclusione del loro progetto migratorio. Offro loro quel poco che ho, sperando arrivino alla loro meta.

Stefano Calza*

 (*) Laureando in sociologia, attualmente in tirocinio presso il Centro Astalli (Jesuit refugee service, Jrs) di Trento, da due anni vive un’esperienza di condivisione abitativa con alcuni migranti presso i padri comboniani del capoluogo trentino.

Rappresentanti di Jrs spiegano la loro presenza in Bosnia Erzegovina. Foto di Stefano Calza.


Bosnia-Erzegovina, venti di secessione

  • Superficie: 51mila Km2;
  • Popolazione: 3,8 milioni;
  • Sistema politico: dal 1995, Repubblica parlamentare federale composta da due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Republika Srpska);
  • Presidenza: tripartita, con un rappresentante per ogni gruppo etnico: Milorad Dodik (serbo), Šefik Džaferović (bosgnacco), Željko Komšić (croato);
  • Capitali: Sarajevo, con circa 300mila abitanti; Banja Luka, capoluogo della Repubblica Serba;
  • Date essenziali: secessione dalla Jugoslavia nell’aprile 1992; guerra civile (1992-1995) con 38.697 civili uccisi; accordi di pace di Dayton (Ohio, Usa) del novembre 1995;
  • Principali gruppi etnici: bosgnacchi 48% (musulmani), serbi 37,1% (ortodossi), croati 14,3% (cattolici);
  • Religioni principali: islam, cattolicesimo, Chiesa cristiana ortodossa;
  • Economia: a 27 anni dalla fine della guerra, l’economia del paese rimane di sussistenza; lo stipendio mensile medio è di 500 euro; in crescita il turismo internazionale;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Situazione politica: la Repubblica Serba spinge per la secessione dalla Federazione bosniaca; come il governo di Belgrado, il leader Milorad Dodik è vicino alle posizioni di Vladimir Putin;
  • Bosniaci in Italia: 21.500 persone (dati Istat al 31 dicembre 2020);
  • Rotta balcanica: è il percorso dei migranti attraverso Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.

(a cura di Paolo Moiola)

Mappa della Bosnia Erzegovina e dei paesi nati dallo smembramento della ex Jugoslavia.


Gli ultimi articoli su migranti e rotta balcanica:

Daniele Biella – Luca Lorusso, Ragazzi dimenticati, dossier, dicembre 2021;
Simona Carnino, Il «game» infinito dei respingimenti, aprile 2021.

 




Ucraina. Un balcone verde speranza a Borodjanka


Note di viaggio in Ucraina (18-22 luglio 2022)

Nella città di Borodjanka nella periferia di Kiev, c’è un piccolo balcone di un appartamento appena ristrutturato di colore verde all’ultimo piano di un edificio. Lo si nota perché il resto del palazzo che lo comprende è semidistrutto a causa dei pesanti bombardamenti avvenuti qui pochi mesi fa. Il balcone si fa notare come l’unica cosa normale attorno alla quale c’è solo distruzione. Questa immagine mi ha accompagnato durante il viaggio che ho compiuto nel centro dell’Ucraina per qualche giorno.

Balcone Borodjanka

Ho condiviso il viaggio con un sacerdote polacco, don Leszek Kryza, (profondo conoscitore del paese), con una sua giovane collaboratrice Rika, nata in Ucraina ma scappata anni fa a motivo della guerra, e con sr. Lucina, che lavora in Ucraina da più di 30 anni e che, trovandosi in Polonia, ha approfittato del nostro viaggio per tornare là dove lavora. Il nostro obiettivo era quello di portare degli aiuti economici oltre a tutto quello che potevano caricare nell’ampio bagaglio della macchina, cibo, medicine, ecc. e anche incontrare testimoni sul luogo e visitare luoghi colpiti dalla guerra.

Un viaggio di questo tipo richiede una grande elasticità nel fare i programmi, sempre pronti ai cambiamenti motivati dalle situazioni che possono improvvisamente presentarsi. In questi giorni di luglio il conflitto sta continuando in tutta la parte Est del paese e parte del Sud. Tuttavia, nel resto del paese dove si è combattuto prima, rimangono segni evidenti del conflitto, come edifici distrutti, macchine bruciate, mezzi militari abbandonati…

I check point sono un po’ dappertutto, soprattutto all’ingresso di ogni città dell’intero paese. Giovani militari osservano con attenzione ogni macchina che passa, talvolta chiedendo i documenti e controllando ciò che si trasporta.

Kiev

A Kiev

Ambasciatore italiano a Kiev, Pier Francesco Zazo

L’impressione a Kiev è che la gente provi a ritornare a una normalità di vita tanto desiderata. Incontrando l’ambasciatore italiano, Pier Francesco Zazo, e quello polacco nelle rispettive ambasciate ascoltiamo i loro racconti. La popolazione di Kiev, stimata attorno a quattro milioni di abitanti, si è dimezzata a causa della guerra. Tuttavia, c’è un continuo arrivo di profughi dai luoghi dove avvengono i bombardamenti. Grande è l’impegno della Polonia e dell’Italia nel portare aiuti e nell’accogliere i profughi. Quello che noi facciamo come missionari è una piccola parte di tutta questa grandissima macchina della solidarietà che non deve fermarsi.

I negozi della città sono aperti, i mezzi pubblici viaggiano regolarmente, da poche settimane anche il carburante si può trovare nei distributori, pur potendone comprare con dei limiti. Verso il tardo pomeriggio la città va come spegnendosi. Infatti, durante la notte è in vigore il coprifuoco con il divieto assoluto di circolazione e di uscita dalle abitazioni; tutti devono stare nelle proprie case. La disobbedienza a questo può essere pericolosa per i trasgressori. Solo una notte ha suonato la sirena di allarme senza tuttavia nessuna conseguenza.

Diversi sono stati gli incontri con persone impegnate sul posto nella distribuzione degli aiuti umanitari. Qui i padri Oblati di Maria che sono i responsabili della Caritas a Kiev, hanno organizzato tra le tante cose una distribuzione del pane cucinato da loro stessi per i poveri senza tetto. Anche noi ci rechiamo a distribuire, lasciando anche aiuti per l’acquisto di un forno un po’ più grande che dovrebbe aumentare la quantità del pane prodotto. Lo stesso pane è distribuito anche dalle suore di Madre Teresa di Calcutta che visitiamo nella loro casa.

Distribuzione Caritas Charchów

Incontri nel seminario

Nel seminario di Kiev incontriamo don Wojciech, direttore della Caritas a Charchów, la seconda città per grandezza a pochissimi chilometri dal confine con la Russia. La situazione là è ancora molto difficile. Da mesi si combatte senza sosta e ogni giorno si contano vittime anche e soprattutto tra i civili, tra questi anziani, giovani e bambini. Là beni come il cibo e i medicinali che arrivano con gli aiuti sono essenziali per la sopravvivenza di molte persone. Si guarda con preoccupazione al prossimo futuro, perché l’estate è breve e già con l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno la situazione, dal punto di vista umanitario, sarà ancora più difficile. A don Wojciech diamo una cospicua somma raccolta dai benefattori per provvedere alle emergenze sul posto.

Seminario di Kiev

Anche nel bel seminario diocesano di Kiev sono avvenuti a marzo esplosioni e saccheggi. L’edificio che si trova in una zona periferica della città è stato prima colpito da colpi di mortaio e poi occupato dai soldati russi che vi hanno qui abitato per una settimana, per poi abbandonarlo dopo averlo saccheggiato. I racconti che ascoltiamo dal padre spirituale Igor e dal vescovo Vitaliy Krivitskiy ci fanno capire bene cosa qui è successo. Durante lo scoppio del colpo di mortaio avvenuto nel cortile, le schegge hanno colpito l’edificio. Una di esse è passata dal vetro di una finestra e ha colpito una piccola statua della Madonna collocata su un tavolo. La testa della statua si è staccata. Tuttavia, esattamente una settimana dopo l’affidamento che tutta la chiesa ha fatto a Maria Santissima nel mese di marzo, tutti i soldati russi non solo hanno lasciato il seminario ma anche abbandonato il tentativo di invadere la città di Kiev, lì a due passi, ritirandosi a Nord. Da quel momento il seminario è diventato è un centro di distribuzione di aiuti per le famiglie locali.

Bucha, fosse comuni

Bucha

Dal seminario ci rechiamo lì vicino nella cittadina di Bucha tristemente famosa per il numero di civili uccisi, oltre 400. Incontriamo don Andrea un sacerdote ortodosso che vive nella chiesa dove sono state fatte le fosse comuni per seppellire inizialmente i defunti. Qui venne in visita a marzo anche il presidente dell’Unione europea Ursula Von der Leyer con il presidente Zelenski. Don Andrea ci spiega dettagliamene la cronaca di quei giorni mostrandoci anche filmati dal suo cellulare. Ha anche allestito una mostra fotografica all’interno della chiesa sulle atrocità qui commesse. L’esercito russo dopo aver per settimane provato a entrare a Kiev, non riuscendoci, aveva distrutto tutto quello che ha potuto, uccidendo in particolare i civili, per poi ritirarsi. Ci fermiamo a pregare in questo luogo.

Nella metropolitana di Kiev

Ancora a Kiev

La visita è stata anche un’occasione per conoscere la città di Kiev che mostra sia le decine di luccicanti cupole dorate delle chiese ortodosse che la famosa piazza di Maidan simbolo della resistenza ucraina nel cuore della città. Era il 2014 quando qui scoppio la rivolta arancione per protestare contro l’inizio del conflitto che ancora oggi continua. Lì vicino incontriamo il giovane Vescovo di Kiev, Vitaliy. Anche lui ci racconta quello che è avvenuto vicino alla cattedrale cattolica di san Alessandro, luogo di preghiera ma anche di rifugio per tantissime persone in cerca di riparo.

I mass media sono molto importanti non solo per l’informazione ma anche per raggiungere con la preghiera e la catechesi tante persone. Siamo stati invitati nella sede di Radio Maria Ucraina dove abbiamo commentato il Vangelo del giorno e poi celebrato la Messa. Qui lavora suor Lucina che ci ha anche ospitato nella sua comunità nel centro della città.

Cimitero nei pressi di Kiev

Rientro carico di memorie

Il viaggio di ritorno è stato impegnativo sia per la fatica sia per la pazienza che abbiamo dovuto dimostrare. Il viaggio ha richiesto più di 21 ore, di queste ben 10 trascorse alla frontiera. Le numerose macchine e i rigidi controlli ci hanno veramente sfiancato, ma tutto è andato bene e siamo tornati a Varsavia stanchi ma con una profonda consapevolezza di avere avuto il privilegio di ascoltare testimoni, di vedere luoghi e di portare in po’ di aiuto e di consolazione. Portiamo con noi non solo le immagini e i racconti della guerra, ma anche l’immagine degli sconfinati campi di girasole e di grano turco che ci hanno accompagnato durante il lungo viaggio. La bellissima giornata di sole ha fatto brillare gli sconfinati campi gialli di girasole e di frumento che con lo sfondo del cielo azzurro sono la base dei colori della bandiera ucraina.

Vorrei tornare qui a quel balcone della città di Borodjanka ristrutturato e di colore verde come la speranza: è il simbolo della ricostruzione che già inizia. In mezzo ai continui segnali di guerra e distruzioni che provocano sofferenza e ingiustizia, quel piccolo balcone verde è un segno visibile di una ricostruzione che già deve iniziare, simbolo di una ricostruzione ancora più profonda che deve avvenire nel cuore degli uomini, cuori feriti dall’orrore della guerra. Il balcone e all’ultimo piano dell’edificio, e per raggiungerlo occorre salire in alto… questa salita è un invito a salire e a rivolgere lo sguardo verso Colui che abita più alto ancora nei cieli, per invocare il dono della pace e chiedere umilmente perdono per la stupidità umana. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

padre Luca Bovio imc

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Vicinanza e concretezza


La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.
Il Centro, dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato adibito dalle suore all’accoglienza di tante persone, soprattutto donne e bambini, in fuga dal loro paese.

Gli aiuti erano stati raccolti dalla San Vincenzo di Mestre e dal Centro missionario diocesano di Trento, dove da molti anni lavoro. Quando l’amico Bruno**, da noi interpellato per intraprendere il viaggio assieme ai volontari della San Vincenzo, mi ha proposto di accompagnarlo, istintivamente ho detto subito sì. Appena chiusa la telefonata, sono stata assalita da dubbi e ripensamenti: la lunghezza del viaggio, il pensiero che forse non sarei stata di molta utilità, ma soprattutto la preoccupazione di essere d’impiccio una volta arrivati a destinazione.

Ripensandoci con calma e condividendo queste riflessioni con il direttore e i colleghi, ho realizzato che il mio andare avrebbe avuto il significato di portare a suor Rosetta (che, peraltro, aveva accolto la notizia della visita con grande entusiasmo) un piccolo segno di vicinanza e solidarietà della sua diocesi e della sua terra di origine.

Così, alla fine, i dubbi che albergavano nella mia mente si sono dissolti.

Nell’attesa della partenza, mentre si mettevano a punto l’itinerario, i contatti, gli aspetti tecnici, non ho potuto fare a meno di elaborare qualche proiezione su quello che avrei potuto incontrare e vedere. Senza peraltro farmi troppe aspettative, come sono solita ripetere a chiunque si appresti a vivere un’esperienza missionaria, e ciò per essere liberi di accogliere tutto quello che ci verrà offerto.

Una vecchia università convertita in centro per rifugiati a Chişinǎu: qui vengono ospitate varie minoranze provenienti dall’Ucraina (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Attraverso Slovenia, Ungheria, Romania

Siamo partiti in cinque il 21 marzo, a quasi un mese dallo scoppio della guerra in Ucraina. Abbiamo attraversato Slovenia e Ungheria, percorrendo un’autostrada che ci ha permesso di arrivare al confine con la Romania e attraversarlo fino al raggiungimento della prima tappa, in dodici ore, senza avere occasione di vedere un granché se non solo in lontananza il lago Balaton.

Una volta arrivati in Romania il paesaggio è subito cambiato. Pur giungendo di notte alla periferia di Oradea, capoluogo di uno dei distretti del paese, ci siamo resi conto di essere arrivati in un’Europa un po’ diversa da quella a cui siamo abituati. Piccole e basse casette, una attaccata all’altra, la maggior parte non molto ben messe, con pali della luce in legno, fili elettrici aerei, aggrovigliati, come solo forse negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, dalle nostre parti si potevano osservare nei centri più piccoli. Mano a mano che ci avvicinavamo al centro, le casette lasciavano il posto a grandi palazzi residenziali, alcuni davvero imponenti, che solo alla luce del giorno avrebbero rivelato una certa trascuratezza e una impressionante somiglianza tra loro. È pur vero che abbiamo attraversato parte della città senza poterci fermare se non per una notte, accolti in un seminario greco cattolico, da padri che parlavano perfettamente l’italiano e molto disponibili, che ci hanno raccontato le loro attività con seminaristi, bambini, giovani e universitari e dell’aiuto che portano ai confini con l’Ucraina, entrando nel paese con viveri, farmaci e beni di prima necessità. Però la sensazione di trovarci in un «altro» mondo, l’ho proprio percepita. Per di più, vittima dei soliti pregiudizi (che da una vita cerco di scardinare in me e negli altri), immaginavo di trovare un paese sporco, magari con immondizie ai lati delle strade, e invece non c’era un pezzo di carta per terra e la cura per la pulizia degli spazi comuni era davvero ammirevole.

Da Oradea in poi è iniziato il vero viaggio: circa 600 km, tutti su strade provinciali attraverso i monti Carpazi.

Carretti e auto di lusso

Mi era stato detto che, in Romania, il percorso non si calcola in chilometri, ma in ore. Infatti, per arrivare a Iași, posta al confine con la Repubblica Moldava, la nostra piccola carovana ha impiegato dieci ore. Abbiamo attraversato città storiche come Cluj Napoca, con un bellissimo centro storico, che richiama l’epoca imperiale, molto caotica e con un traffico che non ha nulla da invidiare a quello di Milano; città più piccole dove si possono ammirare le caratteristiche case dei Rom, con rifiniture in metallo che sembrano merletti e comignoli davvero originali (che spesso però sono vuote); altre con grandi palazzi un po’ decadenti. Abbiamo passato villaggi di montagna in mezzo alla neve, simili a piccole stazioni turistiche con alti monti innevati sullo sfondo; villaggi sul fondo valle, dove il tempo sembra essersi fermato a un centinaio di anni fa, con le casette, qualche animale, donne, probabilmente anziane, infagottate e con il capo coperto da un foulard legato sotto il mento. In ogni dove, anche nelle zone più remote, abbiamo notato imponenti chiese ortodosse e monasteri. E poi chilometri e chilometri di campagna, terra, che – ci è stato spiegato – è coltivata a grano, granoturco e patate. Un mezzo di trasporto ancora molto utilizzato è un carretto trainato da un cavallo dalla corporatura massiccia, che serve per portare di tutto, dalle persone agli attrezzi da lavoro, masserizie, cibo. A far da contraltare a questo mezzo antico, automobili di grossa cilindrata (Bmw, Mercedes, Volkswagen) che, soprattutto in alcune aree agricole e modeste, sono di grande contrasto.

Tutto questo abbiamo visto attraversando la Romania da Ovest a Est, nel territorio della Transilvania. Difficile dire quale sia veramente la realtà non avendo potuto fermarsi e stare un poco con le persone. L’idea che mi sono fatta, attraverso quanto ho registrato con il solo senso della vista, è che si tratti di un paese che porta ancora in sé i segni di un passato legato all’ex Unione Sovietica ma con uno sguardo rivolto al mondo occidentale, all’Europa di cui fa parte e di cui forse vorrebbe tenere il passo.

Arrivati a Iași, ad attenderci abbiamo trovato suor Betty della congregazione delle Suore della Provvidenza di Adjudeni (Romania) che ci avrebbe accompagnati nella Repubblica di Moldavia e aiutato nell’attraversamento delle dogane rumene e moldave.

Al mattino, con i pulmini carichi, ci siamo avviati per percorrere l’ultimo tratto di strada verso la Casa della Provvidenza di Chisinau, il centro pastorale della diocesi dove trovano ospitalità molti profughi ucraini, spesso di passaggio per raggiungere altre mete europee dove si trovano parenti e amici.

Donne e bambini protestano contro la Russia davanti al Teatro nazionale dell’Opera e del balletto di Chişinǎu, tenendo in mano cartelli e giocattoli insanguinati (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Burocrazia e panico da dogana

Alla dogana rumena non abbiamo avuto nessuna difficoltà. La cosa non è stata altrettanto facile alla dogana moldava. Nonostante tutti i nostri documenti preparati in Italia e in repubblica di Moldavia dalle suore, i quali riportavano la proprietà dei pulmini, l’elenco delle merci, la destinazione, la motivazione (aiuti umanitari), siamo stati bloccati per un modulo sul quale mancava la firma di una funzionaria moldava.

Abbiamo atteso qualche ora perché le suore potessero recarsi all’ufficio, raccogliere la firma, inviare il documento alla dogana e a suor Betty che ha dovuto trovare il modo di stamparlo e consegnarlo.

Abbiamo vissuto altri momenti di panico quando ci hanno informati che avrebbero apposto i sigilli a uno dei pulmini. Poi, fortunatamente, ci hanno ripensato (chissà – ho pensato – forse grazie alla Provvidenza) e siamo potuti ripartire. Poco dopo il nostro arrivo, alla dogana moldava è arrivato un pullman francese carico di aiuti e con una decina di accompagnatori. Anche loro si sono trovati ad affrontare la burocrazia della frontiera, ma hanno avuto meno fortuna visto che li abbiamo incontrati la sera tardi che uscivano dalla dogana moldava mentre noi eravamo già sulla strada del ritorno verso Iași.

Suor Betty ci ha spiegato che alla frontiera sono diventati molto pignoli da quando c’è un grande passaggio di profughi ucraini. Sappiamo infatti di altri che sono stati trattenuti ore ed ore con controlli accuratissimi. Senza voler giudicare o criticare le leggi e le procedure degli altri paesi, mi chiedo se – in una situazione di simile emergenza e nel momento in cui si è in possesso di documenti idonei – non si possano snellire gli iter burocratici per evitare di intasare le dogane con file interminabili e tempi infiniti di attesa, anche da parte di persone che provengono da situazioni di guerra e che, quindi, hanno già sulle spalle grandi preoccupazioni e ansie.

L’8 marzo, giorno della festa della mamma, madri e nonne ucraine ricevono un fiore dalle suore del centro. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Finalmente alla meta

Dopo più di due giorni di viaggio, abbiamo raggiunto la nostra meta. Ultimo scoglio: gli uffici doganali in città che dovevano dare il nullaosta per scaricare la merce. Ancora tempi di attesa, toccati a suor Betty e Sandro.

L’accoglienza di suor Rosetta e delle altre suore è stata davvero speciale, come sempre mi è capitato di sperimentare nelle mie visite ai missionari trentini.

Siamo arrivati quando i bambini dell’asilo, una delle due attività normali del centro, stavano giocando in cortile, come pure alcuni dei bambini ucraini ospiti.

Suor Rosetta ci ha raccontato che erano presenti una novantina di profughi. Dieci erano di etnia Rom, arrivati la sera prima con una bambina di 15 giorni. Sono per la maggior parte nonne e mamme con bambini. Arrivano accompagnati dalla polizia o in auto, in autonomia, a seguito del passaparola di coloro che ci sono già passati e che consigliano a parenti e amici di recarsi dalle suore, dove si può trovare un’accoglienza attenta e cordiale.

Fuggire in pigiama

Il centro pastorale, che ha anche un seminario, sorge in una zona nuova della città di Chisinau. Quando è stato costruito era in campagna, ora è attorniato da negozi e supermercati, palazzi di nuova costruzione dove risiedono giovani coppie che hanno anche delle possibilità economiche, spesso anche grazie alle rimesse di nonne che si trovano in Europa ad assistere gli anziani come badanti. Le attività ordinarie delle suore sono la gestione di un asilo con 120 bambini e una mensa per persone anziane indigenti, attività che continuano anche in questo momento. Ci hanno parlato della solidarietà dimostrata dai genitori dei bambini che si sono attivati per raccogliere cibo e indumenti per gli ospiti ucraini.

Le due strutture che compongono il centro sono state trasformate per poter dare ospitalità a un massimo di 120 persone. Ogni stanza, salone, corridoio, è stato attrezzato con letti, che sono stati sistemati anche nella cappella. I seminaristi presenti sono stati trasferiti in un’altra struttura della diocesi per far posto ai profughi. Le suore con i loro collaboratori hanno spostato mobili, montato letti, preparato biancheria. Ogni volta che arriva un gruppo di persone si mettono in moto per sistemarlo nel miglior modo possibile. Ci sono giorni in cui si registrano arrivi fino a tarda ora. Chiunque bussi alla porta trova suor Rosetta, suor Juliana, suor Michela con un sorriso e un gesto di affetto nei suoi confronti. Alcuni sono arrivati in auto, in pigiama, perché fuggiti in fretta e furia, lasciando tutto. Molte delle donne con i figli sono state accompagnate al confine dai mariti e dai padri che poi sono tornati indietro per cercare di difendere le loro città e il loro paese.

Piccoli, grandi gesti

Suor Juliana, Luisa Legari e Tatiana Brusco, autrice di questo diario, scaricano gli aiuti da un furgoncino. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Una signora, sentendoci parlare italiano, si è avvicinata mentre stavamo scaricando i pulmini e ci ha ringraziati per l’aiuto portato alla sua gente. In quel momento come ora, mentre ne sto scrivendo, mi salgono le lacrime agli occhi, perché il nostro sembrava davvero un piccolo gesto davanti all’enormità della tragedia che tutti loro stanno vivendo.

Ci ha raccontato che era in attesa del permesso per recarsi con il figlio in Germania per raggiungere la madre che si trovava là per cure e che chissà quando sarebbe potuta tornare a casa. Questo breve incontro mi ha fatto comprendere come sia importante l’esserci, il poter dare anche un piccolo segno di solidarietà con la presenza, come e anche più dei molti aiuti che si possono portare. Questo è quanto le suore e le persone che operano al centro stanno dimostrando in questo momento, non risparmiandosi e non contando le ore di lavoro e trovando sempre un gesto di attenzione speciale per ognuno. Come è accaduto l’8 marzo, giorno della Festa della Mamma nella repubblica di Moldavia: le suore hanno donato a tutte le mamme e nonne un tulipano giallo e un piccolo dolce. Forse non era la cosa più importante festeggiare le mamme in quel momento, ma ha fatto sentire tutte loro amate e considerate e non solo persone da aiutare.

Questo è quanto abbiamo sperimentato anche noi: malgrado la stanchezza, i pensieri e le preoccupazioni che vivono ogni giorno, le suore sono state davvero contente di vederci e di passare assieme alcune ore, offrendoci un pranzo tradizionale moldavo, con un immancabile tocco trentino rappresentato da un’ottima torta di mele.

Con la valigia pronta

Anche il popolo moldavo sta dimostrando una grande solidarietà accogliendo nelle proprie case i profughi e attivandosi per dar loro aiuto. Una parte dei moldavi vive nella paura che possa succedere qualcosa anche al loro paese. In molti hanno una valigia pronta e qualche risparmio da parte per essere pronti a partire in qualsiasi momento.

Tatiana Brusco

Una mappa della Moldavia con evidenziate le regioni contese con la Russia: la Transnistria e la Gaugazia. Illustrazione di Stratfor (2014).

Moldavia, incubo Transnistria

  • Superficie: 34mila Km2;
  • Popolazione: 3,9 milioni;
  • Capitale: Chişinău, con circa 800mila abitanti;
  • Sistema politico: repubblica parlamentare;
  • Presidente: Maia Sandu, in carica dal 20 dicembre 2020; prima donna moldava alla presidenza, la Sandu è una filo europea, al contrario del suo predecessore Igor Dodon, filo russo;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; aprile 2022, alcuni attentati in Transnistria, «stato» legato alla Russia, avvertono che la guerra può toccare anche questa regione;
  • Principali gruppi demografici: moldavi 70%, ucraini 11%, russi 9%;
  • Religioni principali: ortodossi 93%; gli ortodossi fanno capo alla Chiesa ortodossa moldava legata al patriarcato di Mosca guidata da Kirill, mentre una parte più piccola di essi fanno riferimento alla Chiesa ortodossa rumena;
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la Moldavia è considerata il più povero tra i paesi europei; lo scorso 4 marzo, la presidente Maia Sandu ha presentato domanda di adesione
    all’Unione europea;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Regioni contese: la regione moldava della Transnistria è uno stato indipendente de facto, sotto tutela di Mosca; anche la regione autonoma della Gagauzia chiede l’indipendenza dalla Moldavia; si tratta di una situazione simile a quella del Donbass e della Crimea in Ucraina, tanto che un progetto di Mosca prevederebbe la formazione di un corridoio dai territori ucraini conquistati fino alla Transnistria;
  • Profughi ucraini: 453.848 persone entrate nel paese dallo scoppio della guerra (dati Unhcr al 6 maggio 2022);
  • Moldavi in Italia: 122.667 pari al 2,4% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti moldavi in Italia la maggior parte è occupata nei servizi alla persona (colf e badanti).

(a cura di Paolo Moiola)

Guerra russa e Chiesa ortodossa

La croce e il Cremlino

Le immagini di Vladimir Putin alla messa della Pasqua ortodossa – lo scorso 24 aprile – sono subito state diffuse da Sputnik, l’agenzia di stampa del Cremlino operante in tutto il mondo. Il presidente e novello zar russo è stato immortalato con una candela in mano e mentre si fa il segno della croce. Il tutto si è svolto a Mosca, nella cattedrale di Cristo Salvatore, a poca distanza dal Cremlino.

A officiare la cerimonia pasquale non poteva che essere il patriarca Kirill, dal 2009 primate della Chiesa ortodossa russa. Dopo le sue scandalose omelie in favore della «operazione militare speciale» in Ucraina, in quella occasione il patriarca si è limitato a parole di circostanza.

Nelle sue invettive contro l’Occidente e i suoi vizi, il fustigatore Kirill evita sempre ogni possibile riferimento alla propria persona. Come il sodale Putin, il patriarca ha infatti un passato da agente del Kgb a Ginevra, quando lavorava per il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Come Putin (anche se non ai suoi irraggiungibili livelli), il patriarca ha accumulato ingenti ricchezze personali (famosa la foto del 2009 con un orologio Breguet da trentamila dollari al polso). Proprio come avvenuto con il presidente, in Russia, pochi hanno osato opporsi al bellicismo del patriarca, anche per non incorrere nelle pesanti «attenzioni» della polizia. Come dimostrano le vicende di padre Ioann Burdin (50 anni) e padre Georgy Edelshtein (89), perseguiti per aver parlato contro la guerra in Ucraina.

È proprio in quel paese che il patriarca Kirill ha subito lo smacco più importante: lo scisma del 2018. Nel suo libro La croce e il Cremlino, il professor Thomas Bremer spiega che la storia della Chiesa russa inizia a Kiev nel X secolo. «Le tensioni politiche che emergono talvolta (il libro è del 2007, ndr) tra Russia e Ucraina si comprendono a partire da questa radice storica: per alcuni russi è difficile accettare che Kiev, la “madre delle città russe” e la culla dell’Ortodossia russa, oggi sia terra straniera».

Secondo un altro professore, il francese Antoine Nivière, autore de Gli ortodossi russi (2018), da quando ha raggiunto il più alto grado della gerarchia, Kirill si è radicalizzato, adottando come Putin la teoria dello «scontro di civiltà».

Proprio in questo mese di giugno, papa Francesco avrebbe dovuto incontrare il patriarca Kirill a Gerusalemme. Appuntamento poi sospeso a causa del conflitto. Nel febbraio del 2016, Francesco e Kirill si erano visti a L’Avana, primo ed unico incontro tra leader della Chiesa cattolica e di quella ortodossa russa.

Paolo Moiola

8174121 24.04.2022 Russian President Vladimir Putin attends the Easter service at the Christ The Saviour Cathedral in Moscow, Russia. Sergey Fadeichev / POOL (Photo by Sergey Fadeichev / POOL / Sputnik via AFP)

Archivio MC

 

 




Ucraina. Aggressione e resilienza


Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Un paese giovane con una storia secolare

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.

Tra «Russkij mir» e democrazia

Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).

Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.

Profughi ucraini accolti in un rifugio temporaneo organizzato in un ex edificio storico della stazione ferroviaria di Cracovia, in Polonia, il 28 marzo 2022. Foto Beata Zawrzel – Anadolu Agency – AFP.

La questione Donbass

L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.

Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.

Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.

Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.

Civili in attesa di essere evacuati dalla città martire di Mariupol, quasi rasa al suolo dai militari russi e dai separatisti (26 marzo 2022). Foto Anadolu Agency – AFP.

Il casus belli di Putin

Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.

Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.

Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.

Le milizie ucraine di estrema destra

Stemma del «Battaglione Azov», formazione ucraina neonazista.

Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.

Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.

Che significa neutralità?

Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.

Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.

Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».

La crisi dei migranti

Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.

La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?

Claudia Bettiol*

(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).


La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa

Putin e il patriarca Kirill alla cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo, la principale cattedrale delle forze armate russe, in occasione di una commemorazione, Kubinka (Mosca), 22 giugno 2020. Foto Aleksey Nikolskyi / Sputnik / AFP.

Kirill, il patriarca con l’elmetto

Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.

Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).

Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.

Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).

La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).

Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.

I cattolici ucraini

I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.

Paolo Moiola


Mappa dell’Ucraina con evidenziate le regioni contese: il Donbass e la Crimea.

Ucraina, alcuni dati

  • Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
  • Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
  • Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
  • Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
  • Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
  • Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
  • Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
  • Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
  • Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
  • Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
  • Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
  • Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
  • Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).

(a cura di Paolo Moiola)




Accoglienza profughi dall’Ucraina /5


Carissimi amici e benefattori
un saluto a tutti voi

Dopo una pausa dall’ultima comunicazione vi aggiorno sulla situazione che ci vede impegnati tutti insieme ad aiutare coloro che sono colpiti dalla guerra in Ucraina.

Qui a Łomianki come del resto in Polonia siamo passati ormai ad una seconda fase dall’inizio del conflitto inziato quasi due mesi fa e purtroppo non ancora interrotto. Dopo l’ondata di profughi improvvisa e gigantesca che si faceva notare ovunque nel paese, direi che ora siamo passati a una gestione delle migliaia di persone giunte qui. Qualcuno (pochi) ha provato a rientare nel paese ricongiungendo la famiglia in Ucraina; invece, la maggior parte di donne e di bambini che vivono ormai da 2 mesi presso le famiglie o nei centri in cui hanno trovato alloggio, sono ancora qui tra noi.

Se per fortuna non si notano piu le folle di arrivi di donne e bambini alle stazioni dei treni, tuttavia nei centri di assitenza le code giornaliere sono sempre ben visibili, come capita nella parrocchia di Łomianki, dove ogni giorno continuiamo coi volontari a distribuire generi di prima necessità. Permettetemi di ringraziare molti di voi per le generose offerte che ci avete fatto avere, grazie alle quali possiamo quotidianamente comprare e nuovamente riempire gli scaffali del centro di aiuto della parrocchia, che rapidamente si svuotano.

Ringraziamo anche i volontari che da diverse parti del mondo hanno scelto di vivere nella nostra casa per aiutare in diversi modi, tra questi ricordiamo Clara un’infermiera di Torino, Kessie una dottoressa del Sud Africa e Adriano un volontario di origine italiana abitante in Canada.

Se la situazione in Polonia si puo definire in questo momento di gestione, lo stesso non si puo dire nella vicina Ucraina, dove purtroppo come ben sapete il conflitto continua con una cruenza e una violenza raccapricciante. Le notizie che ascoltiamo dai media e ancor piu le storie dei testimoni che incontriamo sono molto tristi. Per questo motivo stiamo sempre piu organizzando i nostri sforzi non solo qui sul posto ma anche inviando aiuti di vario genere in Ucraina soprattuto nelle zone occupate, escluse da ogni rifornimento.

Sono gia 4 i trasporti partiti, (e per grazia arrivati!) nell’Est del paese come nella zona di Charkow dove proseguono i combattimenti. In quei luoghi ogno genere di aiuti e visto come una manna dal cielo, perche il prolungare del conflitto ha ridotti ogni scorta nei magazzini. Un frate francescano mi ha detto che in quella regione dove abita, per fare benzina alla propria auto con l’aiuto di un amico, sono andati a fare rifornimento da un treno abbandonato che aveva ancor del carburante nel serbatoio. Queste perché i benzinai o sono esauriti i sono stati distrutti.

In questi giorni stiamo organizzando altre spedizioni nella regione di Zaporoze esattamente a Energodar dove si trova la centrale atomica piu grande di Europa. La città è stata occupata.   Prevedo questa estate, se le condizioni lo permetteranno, di recarmi in Ucraina.

In questo momento è difficile fare delle previsioni. La situazione è ancora molto confusa e purtroppo non si vedono ancora spiragli per un cessate il fuoco. Una delle poche cose di cui si e sicuri che purtroppo si continuerà a lungo. Oltre a questo, una cosa che vediamo bene è il rischio che una volta terminata la guerra questa stessa continui nei cuori di molte persone che hanno subito violenza e sopprusi.

Per questo continuaimo a pregare per la fine della guerra chiedendo a Dio il dono della pace e continuando a costruiore pace attorno a noi.
Un saluto a tutti

padre Luca Bovio


Le foto sono da Charkow, in Ucraina. Sono le persone beneficiate dagli aiuti che abbiamo inviato.




A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina


Aggiornamento al 2 aprile 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.

Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.

Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.

La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.

Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.

Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.

Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.

Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.

I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.

Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.

Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…

Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.

padre Luca Bovio IMC




Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia


Aggiornamento al 4 marzo 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Łomianki, 5 marzo 2022, visita del Nunzio apostolico, mons. Salvatore Pennacchio al centro di raccolta che ad oggi ufficialmente segue 1200 rifugiati, tutti ospitati nelle famiglie.

 


Notizie 4 marzo 2022

Carissimi tutti,
condivido qualche aggiornamento sulla situaizone che stiamo vivendo, ringraziando ciascuno (e siete davvero tanti!) per linteresse e gli aiuti che state organizzando.

La situazione in generale, come è ben descritta da tutti i mas media, è quella di un costante e continuo giornaliero aumento di rifugiati specialmente qui in Polonia. Notevole è lo sforzo di accoglienza che si sta organizzando.

Il nostro aiuto, come missionari della Consolata presenti in Polonia (siamo qui da anni attualmente con 6 confratelli provenienti da 5 paesi diversi da tre continenti) come vi ho scritto precedentemnte, si sviluppa in tre direzioni:

  • Accoglienza dei profughi
  • Raccolta di beni
  • Raccolta di offerte

Dove aiutiamo:

Kiełpin – Łomianki (vicino a Varsavia)

La nostra comunità di Kiełpin collabora strettamente con la parrocchia di s. Margherita, sul terreno della quale ci troviamo. Qui il numero di profughi ospitati ad oggi è di oltre 800 persone. Il numero è in costante e regoalre crescita. Questo si spiega per il fatto che siamo a pochi chilometri dalla capitale, Varsavia, dove si trovano le ambasciate di tutti i paesi. Molti profughi, infatti, cercano di raggiungere i propri familiari anche fuori dall’Europa come ad esempio in America e per questo hanno bisogno dei documenti e dei permessi. I rifugiati sono principalmente ucraini, donne e bambini ma con non rare eccezioni. In casa nostra ospitiamo un papà ucraino Pietro con la figlia Anastasia di 9 anni. Sono scappati dalla regione del Donbas in accordo con la moglie inpossibilitata a partire a motivo dell’invalidità della sua mamma che è su una sedia a rotelle. Vorrebbero raggiungere un familiare in America.

I nostri vicini di casa, Raffaele e Giulia da poco sposati, stanno ospitando in casa invece una giovane coppia di nigeriani con un neonato di soli 4 mesi. Essi sono scappati da Kiev dove stavano studiando all’università. Questi sono piccoli esempi di storie ordinarie di questi giorni. La maggiornaza dei profughi qui presenti sono comunque mamme e bambini ucraini.

Białystok

A Białystok gia da mesi stiamo collaborando con la caritas locale con aiuti arrivati dall’Italia a favore dei migranti bloccati sul confine (che ancora ci sono) prima ancora che scoppiasse il conflitto. Di fronte all’emergenza di questi giorni è nostro impegno continuare questa collaborazione. Stiamo preparando una nuova sede piu spaziosa nel centro della città dalla quale potremo in un futuro prossimo organizzare diversi aiuti a seconda delle necessatà ed emergenze. Qui al momento i flussi dei profughi non sono altissimi come in altre regioni della Polonia per un motivo semplicemnete geografico, questa città confina con la Bielorussia con la quale i confini sono rigorosamente chiusi. Tuttavia, già ieri i primi profughi sono arrivati anche a Białystok e se ne prevedono altri.

Ukraina – Konotop

La nostra comunità ha da 5 anni vicino a sé una fondazione di volontariato giovanile missionario col nome: Opera per la missione. In breve, sono i nostri giovani volontari missionari polacchi provenienti da tutta la Polonia con base presso la nostra comunità. Essi tra le tante iniziative, da tempo hanno un contatto sul luogo in Ucraina a Konotop, una cittadina di circa 85.000 abitanti a 250 km. a nord est da Kiev, non lontano dal confine con la Russia. Qui vive un frate francescano p. Romualdo. Prima che iniziasse la guerra, c’era il piano di fare un campo di lavoro lì questa estate, piano che ora inevitabilmente è stato abbandonato. I nostri giovani volontari non si arrendono e sono in contatto in questi giorni con p. Romualdo e insieme stiamo organizzando in quale forma aiutare lì, sul posto, con l’invio di offerte (più probabile) e se riusciremo di beni. Purtroppo, quella zona e fortemente militarizzata e occupata.

Luca Bovio


Notizie 3 marzo 2022

Lavoriamo in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia, sul terreno della quale la nostra comunità di Kiełpin si trova, e con la Caritas. Di fronte alle richieste della situazione, abbiamo creato tre aree di aiuto:

1. Accoglienza dei profughi.

Sono già partite delle macchine dalla parrocchia dirette al confine con lo scopo di portare qui i primi profughi. dalle informazioni che abbiamo si tratterebbero di madri con bambini. Stiamo organizzando l’accoglienza presso le famiglie che si dichiarano pronte per questo. Anche la nostra comunità si è resa disponibile.

2. Raccolta di generi di aiuto.

I beneficiari dei generi raccolti sono sia le persone qui ospitate nelle nostre case,  sia le persone rimaste nel paese. Iniziamo a raccogliere cibo che non si deteriori, indumenti in buono stato (anche per bambini), prodotti per la pulizia della casa, medicinali, ecc…

3. Offerte in denaro

I soldi raccolti serviranno a coprire i costi per i servizi resi alle persone qui sul luogo e in Ucraina come ad. esempio, pagamenti d’affitto di casa se ce ne fosse bisogno, aiuto dato a famiglie che ospitano ma che non hanno le possibilità economiche, cure mediche, ecc.

 

Le immagini sono del centro di raccolta e di distribuzione presso la parrocchia e la nostra comunita di Kielpin. Ad oggi (2 marzo 2022) sono gia ospitate piu di 600 rifugiati nel nostro comune di che conta circa 20.000 abitanti.

Queste sono le prime informazioni che posso darvi in una situazione che, come potete immaginare, è in continuo divenire.

notizie ricevute tramite padre Luca Bovio
superiore del gruppo dei missionari della Consolata in Polonia


Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”