Cina. Stretta sui social network

Il 31 ottobre scorso, diverse piattaforme social cinesi hanno annunciato nuove regole che impongono agli utenti più popolari di rendere pubblici i loro veri nomi. Le nuove disposizioni sono state per ora applicate su Weibo solo agli utenti con oltre un milione di follower, mentre su WeChat, Kuaishou e Douyin, basta averne 500mila. I netizen (persona che partecipa attivamente su internet, ndr) interessati dalle misure – spiegano i gestori delle piattaforme – sono principalmente quelli legati all’attualità, alle notizie militari, alla finanza, al diritto e all’assistenza sanitaria. Chi condivide dettagli della propria vita personale potrà ancora avvalersi di nickname, sebbene ormai da diversi anni chiunque voglia aprire un account social sia già tenuto a registrarsi con il proprio nome legale. Ufficialmente il provvedimento verrà applicato dagli internauti «su base volontaria». Ma, secondo i comunicati emessi dalle piattaforme, la mancata autenticazione da parte dei soggetti interessati potrebbe incidere sul numero dei nuovi follower nonché sulle entrate accumulate con le attività online fino al completamento del processo richiesto.

Prevedibile la reazione degli utenti: c’è chi ha manualmente rimosso migliaia di seguaci per scendere sotto la soglia «rossa», chi invece, per non rischiare, si è completamente tolto dai social. Molti hanno criticato pubblicamente la nuova politica, avanzando preoccupazioni relative alla privacy, soprattutto a fronte del rapido aumento di casi di cyberbullismo. Tra le voci contrarie figurano anche personalità di un certo spessore. Per Lao Dongyan, docente di diritto presso la prestigiosa Università di Tsinghua, le nuove regole agevoleranno l’appropriazione illecita di informazioni riservate. L’esperto ha anche dichiarato che le disposizioni scoraggeranno le persone dall’esprimere opinioni personali contrarie alla linea ufficiale. Con il crescente controllo delle autorità sul web, l’autocensura è diventata un fenomeno piuttosto diffuso negli ultimi anni. Ma ora, dopo la stretta sui nomi, non è più solo il giudizio di Pechino a spaventare. È anche la gogna pubblica a intimorire le voci fuori dal coro.

«l’era del cyberbullismo». «Sono sempre le persone rispettose della legge a rimetterci», recitava un post comparso sull’account e poi cancellato. Ma, secondo Eric Liu, ex censore oggi editor del sito China digital Times, le ultime misure interesseranno soprattutto chi ha conoscenze specialistiche su argomenti, come la scienza e la medicina: pubblicare informazioni contraddittorie rispetto alle narrazioni ufficiali (pensiamo all’origine del Covid-19) potrebbe comportare conseguenze professionali nella vita reale.

Si sa, internet è una giungla: se grazie ai social è diventato più facile informare, ugualmente lo è anche disinformare. Una distinzione che nella Repubblica popolare si colora di connotazioni politiche. A luglio, la Cyber administration of China, il massimo regolatore di internet in Cina, ha emanato direttive ad hoc per regolamentare i cosiddetti «valori sbagliati» o contenuti «fuorvianti» e «pessimistici». «Parlare di declino della Cina serve essenzialmente a creare una “trappola narrativa” o una “distorsione cognitiva”», diceva venerdì scorso il ministero della Sicurezza dello Stato, pochi giorni dopo il taglio dell’outlook cinese da parte dell’agenzia di rating americana Moody’s. Se un tempo bastava astenersi dal parlare di politica, oggi lo spettro dei temi sensibili a rischio censura comprende persino il rallentamento dell’economia cinese.

Il perché è deducibile dall’importanza attribuita al concetto di “guerra cognitiva”. Un termine utilizzato ormai con una certa frequenza dall’intelligence cinese nonché dall’esercito popolare di liberazione (Pla, in ingelse). A febbraio – dopo l’abbattimento del pallone spia cinese negli Stati Uniti – il quotidiano militare Pla daily ha delineato quattro strategie tese a sfruttare i social media come armi di «disturbo dell’informazione». Il messaggio è chiaro: manipolare l’opinione pubblica può rivelarsi una tattica decisiva durante un conflitto. Per Pechino è quindi imperativo non solo imparare come attaccare a colpi di social, ma anche come difendersi.

Alessandra Colarizi




Terzo settore e media, un rapporto in costruzione


La relazione fra mezzi di comunicazione e non profit è stata un argomento della presentazione del rapporto dell’«OsservatorioTerzjus», avvenuta lo scorso 21 settembre a Roma. Ne è emersa l’immagine di un notevole potenziale che, per il momento, appare sfruttato solo in parte.

Il Terzo settore fa audience o no? È questa la domanda che Sara Vinciguerra, responsabile comunicazione dell’Osservatorio giuridico del Terzo settore «Terzjus», ha rivolto ai partecipanti della tavola rotonda di cui era moderatrice, durante l’evento di presentazione del secondo rapporto sul tema che l’Osservatorio ha organizzato a Roma lo scorso 21 settembre@.

Indifferenza?

Stefano Arduini, direttore di Vita, mensile dedicato al mondo no profit, ha risposto sì con convinzione@: facciamo questo da trent’anni, ha spiegato, e ora Vita è anche un’impresa sociale che non starebbe sul mercato se non avesse pubblico. Tuttavia, ha detto Arduini, l’audience da sola non basta, almeno non per provocare effetti concreti nella realtà. La pandemia ha generato picchi inediti di attenzione per il Terzo settore e per il suo operato nell’assistere le persone più in difficoltà a causa delle restrizioni; ora quell’attenzione è diminuita, ma è tutto sommato rimasta alta, eppure i media generalisti non sembrano aver raccolto questo spunto per tradurlo in una maggiore e più stabile copertura delle notizie nell’ambito sociale.

Il Terzo settore, ha commentato Arduini, «ha il vento in poppa, ma naviga contro corrente»: vale il 5% del Pil, ha 900mila occupati diretti e altri 400mila indiretti, eppure sia la politica che l’opinione pubblica sembrano rimanere nel complesso indifferenti rispetto a eventi e pratiche che rischiano di danneggiare le organizzazioni attive nel sociale.

Fra questi eventi e pratiche, Arduino ne cita tre:

  • la tentata riforma del servizio civile proposta lo scorso marzo dalla allora ministra per le politiche giovanili del governo Draghi, Fabiana Dadone, in un disegno di legge poi accantonato, ma inizialmente elaborato senza coinvolgere i diretti interessati, cioè gli enti e i giovani@;
  • il persistere dei bandi al massimo ribasso per la fornitura di servizi socia-assistenziali@ ai quali il mondo della cooperazione sociale si oppone con decisione;
  • il rientro di alcuni enti del Terzo settore (Ets) nel campo di applicazione dell’Iva in seguito alla procedura di infrazione n. 2008/2010, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per garantire il rispetto delle normative sulla concorrenza e che prevede per gli Ets non più l’esclusione dall’imposta sul valore aggiunto ma solo l’esenzione@.

Effetti concreti e produzione di senso

In parziale dissenso da Arduini si è espressa Maria Carla De Cesari, caporedattrice del Sole 24ore per la sezione «Norme e tributi»@. Proprio sulla questione Iva, ha detto De Cesari, i media sono stati capaci di rappresentare le esigenze e le posizioni del Terzo settore e, anche grazie a questa visibilità, «nel giro di poco tempo il legislatore ha preso una pausa», cioè ha inserito nella legge di bilancio 2021 un emendamento che rinvia al 2024 l’entrata in vigore della norma che riporta gli Ets nell’alveo Iva.

Il Sole24 Ore, ha concluso De Cesari, ha creduto nel racconto delle norme perché è il racconto di un mondo che cambia, ma anche nel valore economico di questo racconti. Il Terzo settore «movimenta professionisti che nel cambiamento devono accompagnare gli enti: creare conoscenza e competenza fa parte della mission del Sole, e di Norme e Tributi in particolare».

Di opinione molto diversa è invece Marco Girardo, responsabile dell’inserto di Avvenire «Economia Civile»@, che alla domanda della moderatrice ha risposto con un secco no: «Il Terzo settore non fa audience nell’attuale panorama dell’informazione, perché il “software” di questo panorama è la polarizzazione, che da un lato cerca di assecondare i consumatori per renderli sempre più soddisfatti e dall’altro sobilla cittadini sempre più arrabbiati».

Il Terzo settore sta in mezzo fra questi due poli e i suoi punti di forza sono l’autenticità e la capacità di creare relazioni. Su cento lettori generici di Avvenire, riferisce Girardo, quelli attivi – cioè i lettori che cercano un’interazione, fanno domande e creano una comunità di lettura – sono fra i venti e i trenta. Per il Terzo settore questo numero sale a sessantacinque o settanta su cento, segnando una richiesta di interazione molto più alta, da soddisfare poi attraverso i media più adatti: nel caso di Avvenire, la radio InBlu e i social network.

Nella sua rappresentazione da parte di un media, il Terzo settore in questo momento chiede «un orizzonte di approfondimento culturale forte»: un tempo di cambiamento e di difficoltà come quello attuale genera una forte domanda di senso e, conclude Girardo, «dove c’è una produzione forte di contenuti di senso c’è una riposta» in termini di audience.

Il rapporto con il servizio pubblico

Roberto Natale è intervenuto alla tavola rotonda@ a nome della neonata direzione Rai per la sostenibilità – Esg (= Environment, Social, Governance, ndr), che ha raccolto l’eredità di Rai per il sociale. Il Terzo settore, ha spiegato Natale, fa coesione sociale e questo già sarebbe sufficiente per giustificare l’attenzione da parte del servizio pubblico. A seconda di come viene trattato, poi, può anche fare audience, ma il racconto del Terzo settore è, a prescindere, un tratto costituivo dell’impegno di Rai per la sostenibilità. Quello che manca, constata Natale, è piuttosto il riconoscimento del ruolo politico del soggetto sociale.

Un esempio di questa mancanza è stato la copertura Rai delle consultazioni per la formazione del governo di Mario Draghi nel febbraio 2021, quando per la prima volta un presidente incaricato ha incontrato non solo le forze politiche ma anche i soggetti sociali. La Rai, ricorda Natale, ha seguito con varie dirette le consultazioni con i partiti, ma non quelle con sindacati, rappresentanze ambientaliste e forze sociali. Quella decisione su chi includere e chi escludere dalle dirette è stata indicativa di una sensibilità e la Rai ha bisogno che il Terzo settore la «aiuti a maturare questa sensibilità».

A questo proposito, il Forum del Terzo settore e il ministero del Lavoro, d’intesa con la direzione Rai, stanno cercando di costituire un tavolo di confronto proprio su servizio pubblico e Terzo settore. «Nell’attuale contratto di servizio – il testo che regola gli impegni Rai nei confronti dello Stato e in base al quale la Rai percepisce il canone – è rimasto solo il tema della disabilità e dell’accessibilità, un tema certamente importante ma che non può esaurire il significato del termine “sociale”».

Andare oltre l’immagine di «buoni»

Elisabetta Soglio, responsabile dell’inserto Buone Notizie in edicola il martedì con il Corriere della Sera, è più in linea con Stefano Arduini: se il Terzo settore non facesse audience, se al martedì non avessimo un aumento di copie vendute, ha detto la giornalista, Corriere Buone Notizie non esisterebbe. Si tratta anche di un’audience significativa, come ha dimostrato la presentazione, lo scorso 12 settembre, del libro di Claudia Fiaschi a conclusione del suo mandato come portavoce del Forum Terzo Settore@: nello stesso giorno del dibattito su Corriere TV fra la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il segretario del Pd Enrico Letta, nei giorni della grande attenzione verso il Regno Unito per la morte di Elisabetta II, a seguire lo streaming sul libro di Fiaschi sono state 398mila persone. «Questo vuol dire che se proponi bene il prodotto, se lo spieghi e lo motivi, le persone ti seguono».

Corriere Buone Notizie, ha ricordato Soglio, è nato nel 2017 anche per andare oltre l’idea che il Terzo settore è quello dei «buoni a cui tirare la giacchetta quando c’è bisogno. Non parliamo solo di buone pratiche, ma proponiamo anche temi: questi temi arrivano poi anche sul quotidiano e prima non c’erano».

Cosa fa notizia e come comunicare

Sara Vinciguerra ha poi chiesto ai partecipanti quali aspetti del rapporto Terzjus si prestano a diventare notizie da pubblicare sulle varie testate.

De Cesari e Arduino hanno citato la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020, che rappresenta una rivoluzione nel rapporto fra Ets e amministrazioni pubbliche. In quella sentenza, infatti, la Corte dà piena applicazione al principio di sussidiarietà contenuto nell’articolo 118 della Costituzione, affermando che gli enti riconosciuti come Ets hanno titolo a coprogrammare e coprogettare insieme alle amministrazioni pubbliche, cioè a partecipare alla definizione e realizzazione delle politiche pubbliche e non solo a fornire servizi in cambio di un corrispettivo, come era previsto dal Codice degli appalti@.

Girardo di Avvenire ha invece sottolineato che una notizia rilevante è emersa proprio durante la presentazione del rapporto, quando il presidente di Terzjus, Luigi Bobba, ha letto il messaggio del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, che annunciava l’avvio «dell’interlocuzione con la Commissione europea finalizzata all’invio della notifica delle norme fiscali soggette ad autorizzazione» da parte dell’Ue, autorizzazione necessaria per completare la disciplina fiscale introdotta dalla riforma@.

Roberto Natale della Rai ha individuato come elemento più interessante il valore economico del Terzo settore e il suo ruolo di pilastro dell’economia italiana. Ha poi sottolineato il bisogno di formazione dei giornalisti su temi del sociale: «Vi sento parlare con grande sicurezza, che ammiro, della coppia concettuale coprogrammazione e coprogettazione», ha scherzato: «Ma fermate due giornalisti, uno sono io, e chiedete loro che vi spieghino la differenza». Natale ha fatto presente che da alcuni anni i giornalisti hanno l’obbligo di seguire dei corsi che permettano loro di ottenere crediti formativi: anche per questo, ha sostenuto Natale, se il Terzo settore propone occasioni di formazione i giornalisti le coglieranno.

Elisabetta Soglio di Corriere Buone Notizie ha invece indicato l’impresa sociale come tema «più notiziabile», ma ha anche ricordato il commento, nella tavola rotonda precedente, di Chiara Tommasini della rete CsvNet, che unisce i centri di servizio per il volontariato in Italia. Tommasini ha insistito sull’importanza di dare attenzione agli enti più piccoli e alle difficoltà che si trovano ad affrontare a causa della riforma e anche alla necessità di chiedersi che cosa significhi davvero «piccolo», dal momento che ci sono organizzazioni di dimensioni molto ridotte che hanno però un ruolo fondamentale nel loro territorio.

Comunicare meglio

In chiusura, la moderatrice ha riferito che molti enti si chiedono come fare per comunicare meglio e ha girato la domanda ai partecipanti al dibattito. Fra le risposte, quella di Natale ha sottolineato l’importanza di una comunicazione unitaria da parte degli Ets e ha aggiunto che in questi mesi si definisce il nuovo contratto di servizio Rai, perciò è opportuno che gli «enti si facciano sentire in modo da poter contare negli assetti del servizio pubblico».

Arduini di Vita ha invece ricordato che le oltre 360mila organizzazione del Terzo settore possono aprire profili social a costo zero e ha esortato tutti a immaginare che potenza comunicativa emergerebbe se anche solo un decimo di queste organizzazioni agisse in modo coordinato su un tema al mese.

Chiara Giovetti

 




Il web ti vede


Il social network più popolare si è lanciato alla conquista del mondo. Per far questo stringe accordi con compagnie telefoniche e fornisce servizi gratuiti. Qualche stato, spinto dalla società civile, dice no. Facebook punta al controllo totale della rete e a incamerare enormi quantità di dati su ognuno di noi. Per poi orientare le nostre vite.

Uno scontro tra due delle più popolose potenze mondiali si è consumato tra il 2014 e il 2015: da una parte l’India, con un miliardo e 250 milioni di abitanti, dall’altra Facebook, con un miliardo e mezzo di utenti. I due giganti sono venuti ai ferri corti, legali, per l’iniziativa Facebook Free Basics, lanciata dal social network in 53 paesi in Africa, Medio Oriente, Asia, Oceania e America Latina, economie emergenti in cui la maggior parte della popolazione ha accesso limitato a internet a causa della scarsa diffusione di computer e smartphone, o per la parziale copertura di rete del territorio nazionale, o ancora per i costi proibitivi delle connessioni. Il programma Facebook Free Basics, fortemente voluto da Mark Zuckerberg in persona (fondatore di Facebook, ndr), consiste essenzialmente nella stipulazione di accordi con operatori mobili locali per fornire un accesso a Facebook di default, ovvero senza la necessità di usare un browser (programma per la navigazione in rete, ndr) per aprire il sito del social network, e con costi di navigazione completamente a carico della compagnia mobile.

Facebook o internet?

Il fatto che l’iniziativa si chiamasse precedentemente Internet.org rivela la vera ambizione del progetto: quella di rendere Facebook non solo la porta d’accesso alla rete, ma un vero e proprio sinonimo di internet. Questa tendenza, in realtà, precede il lancio di Internet.org nel 2014 in Zambia. Due anni prima, nel 2012, nel corso di uno studio per l’organizzazione Research ICT Africa, il capo del team di ricerca, Richard Stork, aveva notato un dato bizzarro: il numero degli intervistati che dichiarava di usare Facebook era superiore a quello di chi affermava di usare internet.

Un caso simile si era verificato, nello stesso anno, in Indonesia, dove Helani Galpaya, una ricercatrice per il think tank LIRNEasia, aveva commentato così i risultati del suo studio: «Sembra che, per gli intervistati, internet non esista. C’è solo Facebook». Altre ricerche condotte in Africa e Asia del Sud confermarono questa tendenza: Facebook e internet sono ormai termini intercambiabili. Un fatto incoraggiante alla vigilia dello sbarco di Facebook Free Basics nella frontiera più ambita: l’India. Per Zuckerberg, intenzionato a far crescere la sua creatura nel più grande mercato mondiale ancora disponibile (in Cina Facebook è tuttora proibito) questo era tutt’altro che un problema: del resto, come ribadito dallo stesso fondatore del social network in interventi pubblici, articoli pubblicati su giornali locali e incontri a porte chiuse con autorità politiche indiane, il punto fondamentale del progetto era consentire a centinaia di milioni di persone di restare in contatto e condividere ricordi, notizie e opinioni. Cento milioni sono già utenti di Facebook ma il potenziale è di 800 milioni. Che tutto ciò avvenga all’interno di un recinto è, a detta della multinazionale, secondario. Facebook Free Basics, nelle parole di Zuckerberg, era un regalo. Che però l’India ha rifiutato.

Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari (centro) e il Vice President eYemi Osinbajo (sinistra) posano con Mark Zuckerberg, fondatore di facebook,  2/09/2016. / AFP PHOTO / SUNDAY AGHAEZE

Il controllo del web

La campagna contro l’iniziativa di Zuckerberg ha portato per la prima volta al centro del dibattito pubblico il tema della neutralità della rete, ovvero il principio che i provider di banda larga debbano concedere a tutti i produttori di contenuti lo stesso spazio. Un controllore (in questo caso Facebook) a guardia dell’accesso al web avrebbe potuto decidere a quali organi d’informazione dare la priorità, lasciando in ombra altri. La scelta potrebbe essere dettata da ragioni politiche o di mercato, dando spazio a contenuti che hanno più possibilità di essere cliccati. La mobilitazione di attivisti ed esperti della rete ha così costretto l’autorità indiana per le telecomunicazioni a revocare l’autorizzazione al servizio offerto dal gigante digitale tramite un operatore di telefonia mobile locale. Un no, arrivato a febbraio 2016, che è stato il più traumatico nei 12 anni di esistenza di Facebook. Per Nikhil Pahlwa, fondatore di «Medianama», un sito d’informazione sul settore delle telecomunicazioni indiane, la minaccia principale sarebbe stata quella di rendere la compagnia di Menlo Park (Facebook) l’unica porta d’accesso al web per la gran parte dei cittadini indiani, che così avrebbero attinto prevalentemente alle informazioni disponibili nel social network per farsi delle opinioni sulla politica, l’economia e la società del proprio paese e del mondo intero.

False notizie, che costano

Non si tratta di riflessioni oziose tra addetti ai lavori, perché le conseguenze sono reali e riguardano la vita, e spesso la morte, di migliaia di persone. Sempre in India, nel novembre 2016, il governo di Navendra Modi ha deciso di mettere al bando, da un giorno all’altro, l’86% della carta moneta in circolazione come misura radicale contro la corruzione. Poche ore prima dell’annuncio ufficiale, la notizia del bando circolò a velocità vertiginosa su WhatsApp, il servizio di instant messaging di proprietà di Facebook, usato da 180 milioni di indiani, e sullo stesso Facebook, scatenando un vero e proprio assalto a banche e altri istituti finanziari per cambiare le banconote di piccolo taglio. Inoltre, secondo la voce che circolava sui social media, le nuove banconote da 500 e 2.000 rupie avrebbero contenuto un microchip per tracciarne i movimenti. La notizia era ovviamente falsa, ma aveva contribuito a seminare il panico e a rendere più frenetica la corsa all’accumulo di banconote di grosso taglio prima del passaggio al nuovo formato. Nella ressa, decine di persone hanno perso la vita.

Un effetto ancora più drammatico della diffusione di notizie false su Facebook si è verificato in Sud Sudan, il più giovane paese africano insanguinato da una guerra civile dal dicembre 2013. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso novembre, «i social media sono stati usati dai sostenitori di tutte le fazioni, inclusi alcuni membri del governo, per esagerare incidenti, diffondere falsità e minacce o lanciare messaggi d’odio».

L’uso dei media per incitare alla violenza non è una novità: è nota l’esperienza di Radio Mille Colline, che contribuì attivamente ad aizzare estremisti Hutu nel 1994 in Rwanda contro i propri compatrioti di etnia Tutsi. E l’importanza delle notizie false come strumento di propaganda governativa per coalizzare le masse contro un nemico, o per inventare il nemico tout court, ha una lunga storia alle spalle. Certo, i social media consentono una circolazione più rapida e virale della propaganda, come il recente dibattito sulle fake news, esploso dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni statunitensi, ha messo più volte in luce.

Visitatori al Africa Web Festival (AWF) in Abidjan il 29/11/2016. / AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Cosa sono i Big Data?

Nella discussione sulla rivoluzione in atto nella comunicazione politica, resta sullo sfondo un elemento centrale. Facebook e altri social media consentono di identificare con estrema precisione gli individui non solo più recettivi nei confronti delle fake news, ma anche più autorevoli nella loro rete di contatti, cosicché una bufala rilanciata da loro ha maggiore credibilità. Tutto ciò è reso possibile dalla capacità di social media come Facebook di raccogliere una mole senza precedenti di informazioni personali, i cosiddetti Big Data.

Il tema dei Big Data sta suscitando l’entusiasmo di esperti di cooperazione per lo sviluppo e interventi umanitari, interessati al modo in cui le tecnologie digitali possono aumentare la precisione degli interventi e migliorarne l’efficienza. Meno discusso è il lato oscuro dei Big Data, ovvero quello che la matematica e attivista americana Cathy O’Neil chiama, nell’omonimo libro appena pubblicato, le Weapons of Math Destruction (armi di distruzione matematica, ndr), un gioco di parole sull’espressione Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa. Nel saggio della O’Neil le armi sono gli algoritmi usati per elaborare l’enorme quantità di dati prodotti dalle nostre comunicazioni sui social media, transazioni finanziarie e spostamenti fisici, per costruire dei profili che possono essere sfruttati per gli scopi più vari. Il mercato dei Big Data è particolarmente sofisticato negli Stati Uniti, dove sono usati per predire in quali aree urbane verranno commessi dei crimini, o il tasso di rischio per chi chiede un prestito, o il premio per un assicurato.

Cathy O’Neil sostiene che, attingendo alle reti sociali dei cittadini, questi servizi rischiano di cristallizzare delle disuguaglianze esistenti. Pertanto, una persona che proviene da un quartiere disagiato e ha amici o parenti con una storia di insolvenze alle spalle ha meno possibilità di ricevere un prestito e rischia di essere fermato e perquisito più spesso dalla polizia nella zona in cui vive. Anche nei paesi in via di sviluppo un numero crescente di fornitori di servizi finanziari sta usando dati estratti dai social media per stabilire il livello di rischio dei potenziali clienti: è il caso, ad esempio, di Branch e First Access, due fintech, ovvero compagnie finanziarie che usano tecnologie digitali, che offrono prestiti a centinaia di migliaia di utenti di denaro mobile (mobile money, vedi MC luglio, agosto-settembre e novembre 2014, ndr) in Kenya e Tanzania sulla base dei dati raccolti tra contatti telefonici e su Facebook.

Minaccia alla democrazia

Secondo Frank Pasquale, un giurista dell’Università del Maryland e autore di The Black Box Society, la fiducia cieca nei dati generati dall’uso di tecnologie digitali e soprattutto l’opacità dei meccanismi decisionali fondati sugli algoritmi, nasconde una minaccia al principio fondativo delle istituzioni democratiche, ovvero il «conoscere per deliberare». E qui, per chiudere il cerchio, conviene tornare ai social media, ai due maggiori terremoti politici del 2016, ovvero il referendum sul Brexit britannico e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e al filo rosso che lega questi due eventi.

Lo scorso dicembre, due giornalisti investigativi, Hannes Grassegger e Mikael Krogerus, hanno pubblicato sulla rivista svizzera Das Magazin il frutto di un’inchiesta durata diversi mesi che getta una luce inquietante sul modo in cui i Big Data estratti dai social media possono essere usati per individuare elettori tentennanti e condizionarli in una certa direzione. I due reporter hanno puntato la lente su un’agenzia con sede a Londra, la Cambridge Analytica, che ha prestato consulenza sia per Leave.EU, il fronte anti-europeista nel referendum del 23 giugno sulla permanenza britannica nell’Unione europea, che per la campagna elettorale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. Cambridge Analytica appartiene al Scl (Strategic Communication Laboratories) Group, una società di comunicazione politica che ha seguito le campagne elettorali di partiti e movimenti politici in tutto il mondo, dalle elezioni in Sud Africa nel 1994 a quelle in Kenya nel 2013, passando da quelle in Ucraina nel 2004 a quelle in Romania nel 2008, incluso un progetto di ricerca condotto in Italia nel 2012 per un non specificato partito politico.

Identikit digitali

Guidata dal 41enne britannico Alexander James Ashburner Nix, la Cambridge Analytica è specializzata nella raccolta ed elaborazione di dati per «audience targeting», ovvero per identificare con la massima precisione i membri del corpo elettorale in modo da modulare messaggi politici che tocchino, per così dire, i tasti giusti. I social media offrono un enorme bacino di dati, e la potenza di calcolo degli strumenti a disposizione permette di trasformare questi dati in informazioni leggibili, stabilendo rilevanze statistiche. Ma ciò che trasforma queste informazioni in proiettili che colpiscono nel segno sono delle tecniche psicometriche ispirate alle ricerche di uno psicologo polacco dell’università di Cambridge, Michal Kosinski.

Durante i suoi studi nello Psychometric Centre dell’ateneo britannico, Kosinski si era occupato di ampliare le possibilità offerte da un modello per identificare diverse tipologie di personalità umana sviluppato negli anni ‘80, il cosiddetto modello Ocean, un acronimo dei termini che, in inglese, significano apertura (Openness), coscienziosità (Conscientiousness), estroversione (Extroversion), piacevolezza (Agreeableness) e nevrosi (Neuroticism). Secondo la teoria alla base di questo modello, la personalità di chiunque può essere ricondotta a una miscela, in parti diverse, di queste caratteristiche. Dopo aver messo a punto un test, MyPersonality App, per ricostruire le personalità dei partecipanti, Kosinski l’aveva condiviso su Facebook aspettandosi che poche decine di amici partecipassero al gioco. Aveva raccolto invece milioni di risposte.

Kosinski e il suo team di ricerca avevano lavorato su questa mole mastodontica di dati e, nel 2012, hanno pubblicato un articolo su un giornale accademico dimostrando che, conoscendo una media di 68 «mi piace» cliccati da utenti americani di Facebook, è possibile indovinare, al 95%, il colore della pelle e, all’85%, se il rispondente è democratico o repubblicano. Il ricercatore si spingeva fino al punto di affermare che conoscendo 70 «mi piace» di una persona la si conosce come se fosse un amico, con 150 come se fosse un figlio e con 300 come se fosse una moglie o un marito. Una disponibilità di oltre 300 «mi piace», elaborati secondo il modello Ocean, consente di conoscere l’utente più di quanto questo conosca se stesso.

Programmatori della start-up company Hacklab.in in Bangalore (India). / AFP PHOTO / Manjunath KIRAN

Big Data e politica

Secondo quanto riportato dai due giornalisti svizzeri, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo Kosinski ha ricevuto una minaccia di denuncia e un’offerta di lavoro, entrambe da Facebook. Spaventato dai risultati della sua ricerca, e dalle sue implicazioni politiche, Kosinski però ha declinato l’offerta e, da quel momento, si è dedicato a mettere in guardia sull’impatto dei social media sul dibattito democratico, prevedendo il rischio che questa tecnica possa massimizzare l’influenza delle notizie false sui social media, marcando un pericoloso passaggio dal «conoscere per deliberare» al «conoscere per condizionare». Un incubo che è sembrato realizzarsi quando è emerso che Cambridge Analytica ha usato un metodo ispirato alla ricerca di Kosinski, e basato sull’applicazione del modello Ocean ai dati raccolti sui social media, sia per la campagna della Brexit che per quella di Trump. E che potrebbe rivelarsi molto più di una collaborazione una tantum: uno dei membri del consiglio di amministrazione di Cambridge Analytica è Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, il megafono della cosiddetta Alt-Right, la nuova estrema destra americana, stratega della vittoriosa campagna di Donald Trump e tuttora braccio destro dell’inquilino della Casa Bianca.

La tecnica, usata per la prima volta nel referendum britannico e nelle elezioni americane potrebbe trovare presto applicazione altrove. E potrebbe essere migliorata da agenzie concorrenti. Una delle più avanzate e opache compagnie che operano nel campo dei Big Data applicati alla comunicazione politica e alla raccolta d’intelligence è la Palantir Technologies, creata nel 2004 da Peter Thiel, miliardario tedesco-americano già fondatore di PayPal, il gigante dei pagamenti online nel 1999, e tra i primi a credere in Facebook, di cui tuttora detiene cinque milioni di azioni e siede nel consiglio d’amministrazione. Thiel, a differenza della grande maggioranza degli imprenditori della Silicon Valley, ha preso pubblicamente posizione a sostegno di Trump. La sua Palantir si occupa di analisi di antiterrorismo per il Dipartimento americano della difesa e per altre agenzie di spionaggio e attinge, tra gli altri, ai dati generati dalle comunicazioni sui social media.

Un semplice «mi piace» non dirà poi tanto, ma centinaia possono fornire un profilo completo. Un click non costa nulla ma, come nel famoso slogan forgiato dal video-artista Richard Serra nel 1973 e diventato popolare negli anni ‘90, «Se qualcosa è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu».

Gianluca Iazzolino