Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi /1


Ritorno nel Libano segnato dalla crisi economica e politica, dalla distruzione del porto di Beirut, e dalla presenza dei campi dei palestinesi, arrivati a partire dal 1948 e poi moltiplicatisi con il divampare della guerra in Siria.

Nell’ottobre del 2021 sono tornato in Libano a due anni dal reportage nel campo di Burj El Barajneh di Beirut (vedi MC 8-9/2020) grazie alla collaborazione con Wpa – Women’s program association, un’organizzazione umanitaria palestinese che svolge la propria attività nei campi profughi del paese.

Travolta dalla crisi economica iniziata nel 2018, Beirut è una città profondamente cambiata in termini di organizzazione, condizioni di vita, povertà, disagio sociale, igiene pubblica, livelli di militarizzazione. A contribuire a questo degrado c’è stata anche l’esplosione del porto del 4 agosto 2020 a causa della quale persero la vita 218 persone.

Un po’ di storia

Nel Medio Oriente ci sono 58 campi profughi palestinesi ufficiali. Si trovano in Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano. Molti sono stati creati nel 1948 a seguito della prima guerra arabo israeliana. Altri sono nati dopo le guerre del 1967 e 1973 e, più recentemente, dopo la guerra in Siria, per i palestinesi siriani. Circa 1,5 milioni di rifugiati vivono nei campi ufficiali. I rifugiati palestinesi, secondo la definizione accettata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sarebbero le «persone il cui luogo di residenza era la Palestina nel periodo dal 1° giugno 1946 al 15 maggio 1948 e che hanno perso sia la casa che i mezzi di sussistenza a causa del conflitto del 1948».

Dal 1948 ne sono stati registrati circa 450mila in Libano. Più della metà vive in 12 campi sovrapopolati che avrebbero dovuto fornire loro alloggi temporanei. Tuttavia, settanta anni dopo, centinaia di migliaia di palestinesi apolidi vivono ancora in quelle strutture ormai fatiscenti.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Vita nei campi

Le condizioni di vita nei campi sono pessime. Le abitazioni sono sovraffollate e i campi mancano di infrastrutture di base come strade o servizi igienico sanitari. Spesso, durante i periodi di crisi, rimangono senza elettricità anche per tempi molto lunghi. Circa un quarto delle famiglie non ha il riscaldamento e la maggior parte delle abitazioni sono in condizioni di elevata umidità e hanno perdite d’acqua.

Ad aumentare le precarie condizioni è la carenza di finestre nelle abitazioni. Queste, quindi, hanno una ventilazione molto bassa, oltre all’assenza di illuminazione naturale. Il problema maggiore è il sovraffollamento: quasi la metà delle famiglie vivono in spazi ristretti e con una media di quattro persone per stanza.

Salute, igiene e nutrizione

I rifugiati palestinesi hanno un accesso limitato a cure mediche e farmaci e soffrono di un’alimentazione non adeguata e di una scarsa igiene. La malnutrizione è un problema in tutti i campi del Libano, indipendentemente dalla loro ubicazione. Questa costituisce il principale ostacolo al normale sviluppo dei bambini. Le organizzazioni internazionali e l’Unrwa (United Nations relief and works agency for palestine refugees in the Near East) forniscono assistenza sanitaria di base, ma spesso i rifugiati devono ricorrere a ospedali privati, quindi costosi. Un alloggio fatiscente e una cattiva igiene portano a malattie e problemi di salute che creano altre difficoltà finanziarie per le famiglie e le spingono ancora più nella povertà.

Lavoro

Il tasso di disoccupazione tra i profughi palestinesi arriva al 56% e la quasi totalità dei rifugiati vive con l’equivalente di 6 dollari al giorno. Circa il 50% della popolazione ha solo le competenze minime necessarie per un lavoro. Un altro 10% non ha mai frequentato la scuola. La situazione è particolarmente grave per i profughi palestinesi giunti dalla Siria. In Libano solo il 38% dei rifugiati in età lavorativa ha un impiego. Sebbene nove su dieci siano nati in Libano, questi sono trattati come lavoratori stranieri. Inoltre, per lavorare sono necessari permessi costosi, che pochi datori di lavoro libanesi sono disposti a pagare. I rifugiati non possono svolgere una serie di professioni, come quelle di avvocati, ingegneri e medici. La competizione per i posti di lavoro disponibili è diventata ancora più serrata da quando la crisi siriana ha portato in Libano due milioni di rifugiati siriani. Questi, disperati per sostenere le loro famiglie sono disposti a lavorare spesso per un salario al di sotto del minimo. È difficile per i palestinesi trovare un lavoro diverso da mansioni umili con salari molto bassi in settori come servizi igienico sanitari, agricoltura, edilizia. Le donne trovano invece lavoro come badanti, infermiere o domestiche.

Visita campo profughi di Burj El Barajneh a Beirut

Istruzione non adeguata

Un altro grave problema nei campi è la mancanza di accesso a un’istruzione adeguata. L’Unrwa provvede risorse educative a mezzo milione di bambini nei vari campi, e organizzazioni locali come la Wpa – Women’s program association – offrono risorse e supporto aggiuntivo. Tuttavia, queste risorse sono insufficienti e non forniscono ai giovani palestinesi le competenze di cui hanno bisogno per trovare un lavoro. Nei campi le scuole sono sovraffollate e oltre i due terzi di esse funzionano su doppi turni. Un altro ostacolo all’istruzione è l’impossibilità per i rifugiati di accedere alle scuole pubbliche libanesi. Ciò significa che l’unico accesso all’istruzione è consentito in una di quelle gestite dall’Unrwa o in quelle private, che però vanno al di là dei mezzi finanziari di quasi tutte le famiglie. Le scuole nei campi sono spesso fatiscenti. Ai rifugiati palestinesi non è permesso riparare alcun edificio per questo le strutture sono destinate a un inesorabile degrado.

I tassi di abbandono scolastico in Libano sono più alti che in Giordania, Cisgiordania e Gaza, arrivando a circa il 25% tra i bambini di età superiore ai sei anni. Coloro che nonostante tutte le difficoltà riescono a diplomarsi alla scuola secondaria non proseguono con l’istruzione superiore (collegi professionali o università) sia a causa dei costi per loro inaccessibili, sia perché sentono che non saranno in grado di trovare un lavoro al termine degli studi.

Dan Romeo
(Libano 1 – continua)

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Ecumenismo per le migrazioni


La Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Tavola valdese, insieme alla Comunità di sant’Egidio, stanno sperimentando un metodo per far giungere in sicurezza richiedenti asilo in Italia. Il programma prevede poi un percorso di integrazione. Sono numeri ancora modesti, ma rilevanti. In questo modo intere famiglie siriane possono essere «salvate» e vedere un futuro per i loro figli. Senza pagare trafficanti e senza rischiare vite umane.

Cattolici e riformati insieme per salvare i rifugiati siriani. Una collaborazione dal forte valore ecumenico, quella tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e la Comunità di sant’Egidio. Un sodalizio nato nel 2014, subito dopo l’affondamento di un barcone al largo di Lampedusa nel quale perirono 366 persone (ma c’è chi dice fossero in numero maggiore). «Di fronte a una tragedia simile – ricorda Paolo Naso, responsabile del programma Mediterranean hope della Federazione delle chiese evangeliche -, le nostre chiese si sono interrogate: è possibile trovare un modo per far arrivare i migranti in Europa in modo sicuro? È possibile garantire corridoi umanitari che evitino lo sfruttamento da parte dei trafficanti? È possibile creare percorsi di integrazione in Italia? Da queste domande è nato un articolato progetto sulle migrazioni».

Un osservatorio

Il primo passo della Fcei, d’intesa con la Tavola valdese, è stata la creazione, nei primi mesi del 2014, di un osservatorio a Lampedusa. L’osservatorio, tuttora attivo, lavora su più fronti: monitora gli sbarchi, le condizioni della prima accoglienza, l’impatto delle migrazioni sulla popolazione locale; cura i rapporti con gli isolani, con l’associazionismo, con le istituzioni locali, regionali e nazionali; collabora con la parrocchia cattolica dell’isola; promuove la costruzione di reti nazionali e internazionali per la sensibilizzazione sul tema delle migrazioni. Successivamente è stata creata la Casa delle culture di Scicli (Rg) che conta una quarantina di posti letto e offre ospitalità ai migranti particolarmente vulnerabili (giovani mamme, donne incinte, minori non accompagnati).

La Fcei ha però deciso di andare oltre. «Lo choc della strage di Lampedusa è stato forte – ricorda Naso -. A pochi giorni da quell’evento, insieme alla Comunità di sant’Egidio, ci siamo impegnati a cercare soluzioni per far giungere i migranti in Italia in sicurezza e indirizzarli verso programmi di integrazione efficaci. Abbiamo subito scartato l’idea di chiedere cambiamenti normativi perché non c’erano le condizioni, né in Italia né a livello continentale. Studiando le norme europee abbiamo scoperto che l’art. 25 del Regolamento CE 810/2009 concede ai paesi dell’area Schengen la possibilità di rilasciare visti umanitari validi per il proprio territorio. Una volta in Italia, i beneficiari del progetto possono poi fare regolare richiesta di asilo». Il 15 dicembre 2015, la Fcei e la Comunità di sant’Egidio hanno firmato con i ministeri dell’Interno e degli Affari esteri italiani il primo protocollo che prevede l’arrivo, con un regolare volo di linea, di mille profughi in due anni.

La scelta dei siriani

In Libano, un team di operatori, in collaborazione con organizzazioni umanitarie che operano nel paese, si è occupato di redigere le liste di chi poteva imbarcarsi per l’Italia. «In questi anni – spiega Simone Scotta che lavora per la Fcei a Beirut – abbiamo scelto di far arrivare rifugiati siriani: famiglie sunnite, le più perseguitate in patria, donne sole, persone malate, ragazzi sunniti renitenti alla leva. Ogni due-tre mesi sono stati organizzati voli con un minimo di 60 e un massimo di 80 persone».

Una volta arrivati in Italia questi rifugiati sono stati presi in carico dalla Diaconia valdese che ha offerto loro vitto e alloggio, corsi di italiano, una piccola somma per le spese quotidiane, aiuto per le pratiche burocratiche, assistenza medica e psicologica. «Accoglienza, accompagnamento e assistenza – continua Scotta – non costano nulla allo stato italiano. Tutte le spese sono a carico della Fcei e della Diaconia valdese che attingono ai fondi dell’8 per mille delle Chiese metodista e valdese. Tra i sostenitori del progetto figurano anche donatori internazionali come la Chiesa evangelica della Vestfalia, la Chiesa riformata degli Stati Uniti, diverse comunità evangeliche in Italia e singoli privati in Italia e all’estero».

Il 27 ottobre 2017, con l’arrivo del millesimo rifugiato, si è conclusa la prima sperimentazione. Ma il progetto è andato avanti. Il 7 novembre dello stesso anno è stato infatti firmato il rinnovo dei corridoi umanitari per altri mille profughi per il biennio 2018-2019. «Il progetto continua ed è un dato positivo – conclude Naso -. Segna una forte collaborazione ecumenica tra strutture delle Chiese riformate e cattolica. I corridoi umanitari sono poi un modello unico che si differenzia dagli inserimenti organizzati dallo stato o dagli enti locali. Noi abbiamo definito uno schema di accoglienza diffusa che evita di dar vita a grandi concentrazioni di migranti a favore di un inserimento molecolare. I migranti vengono inoltre accompagnati passo per passo da operatori professionali e da comunità che si prendono cura di ogni loro esigenza. I risultati sono positivi. Crediamo perciò che il modello possa essere preso ad esempio e replicato in futuro».

Enrico Casale
(seconda puntata – fine)