Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio


Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.

La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.

Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.

Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.

I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.

A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».

Hunger map 2020 del World food programme

Il cambiamento climatico è già qui

«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.

Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.

Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.

La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.

Angola, nel territorio di Luacano

Le difficoltà del Wfp

La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».

Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.

Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.

Per questo la partenza dal porto di Odessa della prima nave con 23mila tonnellate di grano diretta in Etiopia, resa possibile dall’accordo Black sea grain
initiative sottoscritto da Ucraina e Russia con la mediazione di Turchia e Nazioni Unite, è stata accolta con sollievo@.

«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».

Borodjanka

La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare

Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.

Al di là della dipendenza diretta dalle importazioni di cibo, che peraltro alcuni commentatori come Ibrahima Coulibaly, della Rete coltivatori dell’Africa occidentale (Roppa), giudicano irrilevanti@, le conseguenze del conflitto riguardano l’aumento dei prezzi e l’inflazione in generale.

La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.

L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.

Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La pandemia da Covid-19 aveva già fatto aumentare di 161 milioni il numero di persone che soffrivano la fame e, secondo la Hunger Map 2020 (mappa della fame) del Wfp, se l’attuale tendenza continua, nel 2030 le persone affamate saranno 840 milioni@.

Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.

Funerale di tre fratelli uccisi dalla guerriglia in Colombia

Clima e guerre, un nodo sempre più stretto

La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.

Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».

C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.

Chiara Giovetti

Campo di girasoli in Ucraina




Clima, un solo fil rouge dall’Australia all’Africa

testo di Chiara Giovetti |


Locuste, siccità, cicloni, inondazioni, incendi. Il 2020 si è aperto come si era chiuso il 2019: con una serie di problemi tutti legati a eventi atmosferici. Come e quanto siano legati al cambiamento climatico è allo studio di numerosi esperti. Ma che abbiano peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone è già fuori di dubbio.

La prima segnalazione risale al settembre dell’anno scorso, quando ha cominciato a circolare un video in cui una donna di cui non è nota l’identità – fra molti «oh my god» e «oh my goodness» – segnala di essere a Livingstone, in Zambia, e mostra immagini delle cascate Vittoria senza acqua, definendole «asciutte come un osso». Aggiunge che ora le chiamerà non più Victoria Falls ma Victoria Rocks (rocce – o sassi – Vittoria) e che la visione è di quelle che «spezzano il cuore»@.

Il video ha provocato velocemente le reazioni di alcuni utenti dei social network – alcuni legati ad agenzie di viaggi locali, anche loro rapide a prender posizione contro l’allarmismo@ – che hanno lanciato l’ashtag #VictoriaFallsIsNotDry e hanno iniziato a condividere immagini e spiegazioni per smentire il quadro catastrofico, sottolineando che la situazione, benché preoccupante, sia stata presentata in modo eccessivo e parziale.

Un documentario della Bbc della fine di novembre 2019@ ha di nuovo portato alla ribalta il problema, suscitando ulteriori accuse di sensazionalismo.

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo

Victoria Falls (Cascate Vittoria), in Zimbabwe, il 10 Decembre 2019.  (Photo by ZINYANGE AUNTONY / AFP)

L’Africa meridionale, chiarisce l’articolo di Agence France-Presse (Afp)@ nel quale si legge la ricostruzione di questo botta e risposta sui social, sta effettivamente attraversando una delle siccità peggiori del decennio. Tuttavia, la quantità di acqua delle cascate Vittoria – così come quella del fiume Zambesi che le alimenta – risente ogni anno dell’alternarsi di stagione delle piogge e secca. L’immagine di ampi tratti di roccia privi di acqua non è un’emergenza di quest’anno ma uno scenario che si è già manifestato. La Zambesi River Authority (Zra), ente congiuntamente gestito dai governi di Zambia e Zimbabwe per il controllo della diga di Kariba, nel bacino dello Zambesi, si occupa anche del monitoraggio dei flussi di acqua delle cascate Vittoria. Nel novembre dell’anno scorso le misurazioni effettuate mostravano in effetti i flussi più bassi dalla stagione 1995/96, che fu la peggiore nell’arco di tempo di cui l’autorità fornisce i dati, cioè dal 1977 a oggi.

Tuttavia, la Zra precisava anche che con l’arrivo della stagione delle piogge i flussi erano destinati ad aumentare. Le misurazioni del mese di febbraio hanno confermato questa previsione, con un flusso che nei giorni dall’11 al 24 febbraio (disponibili cioè alla chiusura di questo articolo) mostravano un flusso medio di 186 metri cubi al secondo più alto rispetto al 2019.

Il grafico messo a disposizione il 24 di febbraio dalla Zra mostra, inoltre, che uno degli anni in cui l’acqua è stata più abbondante è stato il 2017/2018.

Questo non significa che i cambiamenti climatici non abbiano o non possano avere conseguenze sulle cascate Vittoria e sul bacino dello Zambesi, né che l’abbassamento del livello delle acque del lago Kariba da cui dipende la diga non sia già preoccupante. Ma è scorretto dire che le cascate Vittoria si sono asciugate e, conclude l’articolo dell’Afp, ad oggi l’impatto su queste dei cambiamenti climatici non è chiaro.

25/02/2020 vicino a Isiolo Isiolo, Kenya (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Le locuste in Africa Orientale

Lo scorso 10 febbraio le Nazioni unite hanno diramato un’allerta@  sul numero di locuste che stavano invadendo gran parte dell’Africa Orientale. Si tratta, riporta l’Onu, della peggiore infestazione degli ultimi settant’anni per il Kenya, mentre Somalia ed Etiopia non vedevano un’invasione di queste proporzioni da circa un quarto di secolo.

L’invasione, che mette a rischio di carestia una quantità di persone stimata in circa 19 milioni, colpisce paesi – in particolare la Somalia e il Sudan – già notevolmente provati per aver sperimentato dal 2017 a oggi siccità e inondazioni.

Uno sciame di locuste ampio un chilometro quadrato, riporta la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione), può contenere fra i 40 e gli 80 milioni di insetti e consumare in un giorno tanto cibo quanto ne servirebbe per nutrire 35mila persone@.

Keith Cressmann, esperto della Fao che si occupa di monitorare l’invasione di locuste, ha riferito di uno sciame che ha attraversato il Nordest del Kenya a gennaio di quest’anno e che aveva un’ampiezza stimata pari a 60 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza: 2.400 chilometri quadrati, pari a circa il doppio della superficie di Roma. «Un tale numero di insetti», ha sottolineato Cressmann, «può arrivare a mangiare in un giorno più o meno la stessa quantità di cibo che mangerebbero 84 milioni di persone»@.

Immagine scattata dal vescovo Virgilio Pante a Sioto Lokokoyo vicino a Baragoi ai primi di marzo 2020

Danni e costi

La Fao ha stimato in 76 milioni di dollari i fondi necessari per contrastare l’infestazione; a febbraio ne erano arrivati 21 di cui 10 messi a disposizione del Fondo centrale per gli interventi d’emergenza (Cerf) delle Nazioni unite, che serviranno per intensificare sia gli interventi a terra che per utilizzare aerei che spruzzino i pesticidi.

Secondo la rivista Science, la Somalia, per proteggere i propri pascoli e il bestiame, sta tentando con l’aiuto della Fao di combattere le locuste con bio pesticidi@ invece che con pesticidi chimici, utilizzando un fungo – il metarhizium acridum – che produce una tossina in grado di uccidere soltanto le locuste e gli altri insetti della famiglia delle cavallette. L’India si è invece attrezzata acquistando droni per il monitoraggio e, se necessario, l’irrorazione aerea delle zone invase con pesticidi@.

Se in India la situazione è per il momento sotto controllo, il vicino Pakistan si trova a fronteggiare la peggior infestazione di locuste in vent’anni e ha dichiarato lo stato d’emergenza.

I due video qui sotto sono stati girati ad Archer’s Post, cortesia del vescovo Virgilio Pante della diocesi di Maralal, Kenya.

  1. Pante cavallette
  2. Archer's post cavallette
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Le connessioni con gli eventi climatici

A favorire l’attuale invasione di locuste sono stati tre successivi cicloni e le piogge torrenziali che questi hanno portato fra metà del 2018 e la fine del 2019. Nel maggio del 2018, ricostruisce ancora Science, un ciclone – Mekunu – ha colpito la zona del Rub’ al Khali, uno degli erg (deserti di sabbia) più grandi del mondo fra Oman, Yemen e Arabia Saudita, portando inusuali piogge che hanno provocato un altrettanto insolito aumento della vegetazione. Le locuste, che hanno così trovato nutrimento in abbondanza, sono aumentate di quattrocento volte rispetto al loro numero abituale.

A prevenire il calo della popolazione di insetti dovuta alla morte delle piante nel deserto che arriva con la fine delle piogge è intervenuto un secondo ciclone – Luban – nell’ottobre del 2018: nel marzo del 2019 le locuste risultavano così aumentate di ottomila volte.

Attraverso l’Iran meridionale, le locuste si sono poi dirette sia verso Est, in Pakistan e India, che verso lo Yemen, dove a causa della guerra civile nessun intervento è stato messo in atto per bloccarne la proliferazione.

Nell’ottobre del 2019, gli sciami sono passati in Etiopia e in Somalia dove ancora una volta hanno trovato un ambiente accogliente grazie all’arrivo del ciclone Pawan e alle piogge abbondanti che ha portato.

A fine dicembre l’invasione si è diffusa al Kenya per poi raggiungere Uganda e Tanzania i primi di febbraio di quest’anno.

Spencer area in Central Coast, some 90-110 kilometres north of Sydney on December 9, 2019. – Australia. (Photo by SAEED KHAN / AFP)

Una catena che arriva all’Australia

L’ondata di cicloni e le conseguenti piogge torrenziali che hanno colpito la costa orientale dell’Africa favorendo il proliferare delle locuste, sarebbero legati, secondo la Bbc, all’opposto fenomeno dell’estrema siccità in Australia che ha causato la morte di 33 persone e bruciato un territorio delle dimensioni della Corea del Sud.

Il legame climatico fra le due sponde dell’Oceano Indiano è il cosiddetto Indian Ocean Dipole (Iod), il dipolo dell’Oceano Indiano, «un cugino meno noto di El Niño e La Niña»@ che riguarda le variazioni delle temperature nell’Oceano Indiano occidentale e orientale.

Lo Iod varia tra tre fasi: positivo, neutro e negativo. In media ogni fase si verifica circa ogni 3-5 anni. La fase neutra porta temperature nella media. Invece durante la fase negativa i venti da Ovest si intensificano, spingendo le acque più calde a concentrarsi vicino all’Australia e impedendo, nel contempo, all’acqua più fredda di salire dalle profondità dell’Indonesia. Queste acque più calde si spostano verso Est e le nuvole le seguono, favorendo l’arrivo della pioggia nell’Australia meridionale e causando viceversa siccità sul versante africano.

La fase positiva crea le condizioni inverse: i venti occidentali si indeboliscono e talvolta si formano venti orientali, permettendo all’acqua calda di spostarsi verso l’Africa. A Sud dell’Indonesia, le acque più fredde possono ora emergere dalle profondità oceaniche e, combinate con le correnti d’aria discendente nell’Oceano Indiano orientale, riducono la formazione di nuvole sul lato australiano dell’Oceano Indiano. Questo, a sua volta, spesso implica meno pioggia sulle aree centrali e Sud Est dell’Australia, mentre l’Africa è colpita da forti precipitazioni.

Nel 2019 si è verificato il dipolo positivo più forte degli ultimi sessant’anni, portando appunto siccità in Australia e Sudest asiatico e, in Africa Orientale, piogge e inondazioni che hanno provocato la morte di 280 persone e variamente colpite oltre 2 milioni e 800mila@.

Che legame c’è fra il dipolo e il cambiamento climatico? Ancora non è chiaro, ma la comunità scientifica sta tentando di stabilirlo. A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2014 su Nature, riporta la Bbc@, prevede ad esempio che gli eventi climatici estremi causati dal dipolo possano diventare più frequenti con l’aumento delle emissioni di gas serra. Se queste crescono, la frequenza di dipoli estremamente positivi potrebbe aumentare in questo secolo da uno ogni 17,3 anni a uno ogni 6,3 anni.

Chiara Giovetti




Siccità quest’anno diverso


Etiopia, Swaziland, Brasile, solo per citare i paesi nei quali sono presenti i nostri
missionari. Ma ce ne sono molti altri colpiti dall’ondata di siccità che si è verificata fra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 e che ancora fa sentire i suoi devastanti effetti sulle vite di milioni di persone e sulle economie di molte nazioni.

Il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, o almeno del periodo del quale disponiamo di rilevazioni costanti, cioè a partire più o meno da metà Ottocento. L’anno scorso l’aumento delle temperature è stato di 0,76 gradi centigradi sopra la media che si era registrata fra il 1961 e il 1990 e di un grado pieno rispetto all’epoca preindustriale, cioè antecedente al 1865. A questo si è aggiunto El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che ha origine nella fascia tropicale del Pacifico ma che può interessare anche altre parti del globo: nel 2015 si è manifestato in modo particolarmente forte.

Quali siano le relazioni fra El Niño e l’innalzamento della temperatura, se e come possano influenzarsi l’un l’altro e che cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro è qualcosa che la comunità scientifica sta studiando senza approdare, per il momento, a conclusioni definitive. Quel che è certo è che un’ondata di siccità particolarmente impetuosa ha colpito diversi paesi in America Latina e in Africa. Cominciamo dall’Etiopia, che dallo scorso dicembre è l’oggetto di ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie proprio per la quantità di persone che la siccità ha esposto al rischio di carestia.

Etiopia, la peggiore siccità

«Qui siamo benedetti», scrive dall’Etiopia fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata e direttore dell’Ospedale di Gambo, in Oromia. «La siccità ci ha risparmiati. I casi di malnutrizione non sono aumentati». Riporta poi Aljazeera che a Jijiga (o Giggiga, in italiano), nella regione Nordorientale del Somali, lo scorso aprile le piogge sono arrivate addirittura in anticipo e sono state particolarmente impetuose, al punto da provocare inondazioni in cui hanno perso la vita ventotto persone.

Ma già a pochi chilometri dall’ospedale di Gambo, o nei dintorni di Jijiga la situazione è ben diversa. Insieme all’Afar, la regione Somali e l’Oromia sono le regioni più interessate dall’ondata di siccità, e di acqua non se ne vede quasi più.

Secondo i dati della «Direzione generale Europea per l’aiuto umanitario e la protezione civile» (Echo), diffusi lo scorso aprile, «l’Etiopia sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi cinquant’anni in seguito al mancato manifestarsi di due stagioni delle piogge». Più di dieci milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria immediata; nelle zone più colpite fra il cinquanta e il novanta per cento dei raccolti sono andati perduti e centinaia di migliaia di capi di bestiame sono morti. Gli sfollati interni hanno superato il mezzo milione in un paese che ospita anche 732 mila rifugiati eritrei, somali, sudanesi e sud sudanesi. Decine di migliaia di bambini hanno smesso di andare la scuola.

Cristina Coletto, volontaria in Etiopia dell’Ong Lvia, sul sito della suo organizzazione pubblica aggioamenti sulla situazione in Afar; racconta di livelli dei fiumi sempre più bassi, pascoli scomparsi, animali morti e pessime condizioni del bestiame ancora in vita. «I prezzi di alimenti base, come la farina», continua l’operatrice umanitaria, «sono aumentati a causa della scarsa disponibilità nei mercati locali», ai quali la gente è ora costretta a ricorrere non potendo più contare su risorse proprie. «Quasi 10.000 famiglie, cioè il 3% della popolazione dell’Afar, sono già migrate verso le vicine regioni Amhara, Oromia e Tigray, in cerca d’acqua e pascolo».

«In questa situazione», riferisce il superiore della Visitatoria salesiana dell’Etiopia, padre Estifanos Gebremeskel, al portale di informazione sui temi umanitari

Reliefweb, «aumenta il rischio per molte persone di cadere vittima di trafficanti di esseri umani, di essere sfruttate e schiavizzate».

Molti ricorderanno ancora la carestia etiope del 1984, quella la cui eco internazionale portò a una mobilitazione che ebbe la sua massima risonanza nel Live Aid, il concerto di sensibilizzazione e raccolta fondi organizzato da Bob Geldof a Londra nel luglio del 1985. L’Etiopia oggi non è lo stesso paese; il suo governo, insieme alle agenzie inteazionali, ha fissato a 1,4 i miliardi di dollari necessari per far fronte all’emergenza e si è impegnato a investie 380 milioni. A questi si sono aggiunti, ad aprile, i 120 promessi dalla Commissione europea, mentre la Fao, che aveva stimato in cinquanta milioni i fondi necessari per assistere circa due milioni di persone, ne aveva raccolti poco più di otto. Usaid, l’agenzia governativa americana per lo sviluppo internazionale, ha stanziato 267 milioni di dollari per il 2016 e, ad aprile, riportava che il totale dei fondi destinati dal governo etiope e dalle agenzie umanitarie ammontava a 758 milioni, circa metà del miliardo e quattro richiesto.

Swaziland, prezzi alle stelle

Anche quattromila chilometri più a Sud, nello Swaziland, la situazione non è rosea. A febbraio di quest’anno il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza a causa della siccità. La produzione di mais era già diminuita del trentuno per cento nel 2015 e l’inizio del 2016 ha segnato un peggioramento ulteriore. «I prezzi di cereali, legumi e arachidi», scriveva lo scorso marzo l’amministratore della diocesi di Manzini, padre Peter Sakhile Ndwandwe, «fluttuano normalmente seguendo un andamento stagionale. In genere i prezzi di questi alimenti si impennano poco prima del momento del raccolto. Ma quest’anno è diverso: i prezzi sono altissimi perché per il 95 per cento dei contadini che praticano agricoltura di sussistenza nel paese non è previsto alcun raccolto. Dieci chili di cereali costavano un mese fa 81 Lilangeni (valuta locale, un euro vale 17 lilangeni, ndr). Oggi gli stessi dieci chili costano 120 e continuiamo a registrare aumenti di settimana in settimana. Nel 2013 il prezzo per la stessa quantità di cereali era di 41 emalangeni».

Secondo le stime delle agenzie interazionali raccolte da Reliefweb, ad aprile trecentomila persone – pari a un quarto della popolazione dello Swaziland – aveva urgente bisogno di cibo e acqua, quasi novemila bambini soffrivano di malnutrizione da moderata a grave e sessantaquattromila capi di bestiame erano morti. Le persone in condizioni di insicurezza alimentare rischiano di raddoppiare; la semina, che di solito interessa i mesi di ottobre e novembre, è avvenuta in ritardo di due mesi, cioè molto più a ridosso dell’inverno australe (che corrisponde grossomodo alla nostra estate). Il rischio è che fino alla prossima stagione delle piogge, a ottobre 2016, le condizioni della popolazione swazi non migliorino.

Brasile, El Niño Godzilla

El Niño Godzilla – così lo hanno ribattezzato alcuni media – ha fatto danni anche nell’Amazzoni brasiliana: «Siamo molto preoccupati per la siccità terribile che sta causando la morte del bestiame nella savana e della selvaggina che è bruciata negli incendi forestali», ha scritto ai suoi amici nella lettera di Pasqua 2016 fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da Bõa Vista. «Molti ruscelli si sono completamente prosciugati e i villaggi devono spostarsi per poter avere accesso all’acqua. Molti pozzi sono secchi e le piantagioni sono ridotte quasi a zero».

Amazônia Real, agenzia di stampa indipendente brasiliana, riporta le testimonianze di diversi abitanti delle terre indigene Yanomami e Raposa Serra do Sol. «Nei fiumi principali – Uraricoera, Demini e Catrimani – c’è ancora acqua, ma gli affluenti sono secchi, morti», ha detto all’agenzia Dário Kopenawa, cornordinatore delle politiche pubbliche dell’associazione yanomani Hutukara e figlio dello storico leader indigeno Davi Kopenawa Yanomami. Gli incendi sono frequenti e il fumo che invade le aldeias, i villaggi, causa problemi respiratori specialmente ai bambini. Secondo Dário Kopenawa, gli effetti di El Niño si sommano a quelli della distruzione sistematica delle risorse naturali e dei danni ambientali provocati dai cercatori d’oro.

Anche a Raposa Serra do Sol, cinquecento chilometri più a Nord, gli abitanti raccontano di siccità e difficoltà inedite: secondo Geiza Duarte, indigena macuxi, per procurarsi l’acqua necessaria per cucinare e per l’igiene personale, le famiglie camminano per undici chilometri fino alla comunità vicina, dove ancora si trova acqua. Fortunatamente, almeno per Roraima, i nostri missionari ci confermano il ritorno di piogge abbondanti, anche con allagamenti, da aprile.

Rischio rifugiati ambientali?

Anche l’Asia è in difficoltà. In Indonesia, ad esempio, in sedici province su trentaquattro la siccità ha ridotto la disponibilità di acqua e danneggiato la produzione agricola, la pesca e le attività economiche legate alla foresta. Dal novembre 2015 l’Indonesia, terzo paese produttore di riso al mondo, ha iniziato a importare riso per garantire le scorte alla sua popolazione. La siccità, inoltre, ha indirettamente aggravato la piaga degli incendi che hanno distrutto finora due milioni di ettari di foresta, provocando infezioni respiratorie causate dal fumo a oltre mezzo milione di persone. Gli esperti indonesiani calcolano che lo smog generato da questi incendi provocherà perdite economiche per 14 miliardi di dollari fra produzione agricola e foreste danneggiate, danni alla salute, ai trasporti e all’industria turistica.

Davanti agli effetti di questa ondata di siccità, pensando anche agli altri fenomeni climatici che periodicamente infliggono gravi perdite umane ed economiche al pianeta, in molti si chiedono quali saranno in un futuro tutt’altro che lontano le conseguenze in termini di migrazioni umane.

Non esiste una categoria giuridicamente riconosciuta per i rifugiati, o profughi, ambientali. E sul fenomeno della migrazione causata da condizioni ambientali non ci sono statistiche univoche. Tuttavia, a detta dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) il fenomeno sta assumendo una rilevanza che sarà impossibile non tenere in considerazione. Le previsioni future, si legge sul sito dell’Oim, variano dai venticinque milioni al miliardo di migranti ambientali entro il 2050 che si sposteranno sia all’interno del proprio paese che oltre confine, in modo temporaneo o permanente. La cifra più frequentemente citata nelle previsioni è duecento milioni, numero che eguaglia la stima attuale dei migranti inteazionali nel mondo».

Chiara Giovetti