I Perdenti 54. Giorgio Perlasca, diplomatico per amore

testo di don Mario Bandera |


Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio 1910. Dopo qualche mese, per motivi di lavoro del padre Carlo, la sua famiglia si trasferisce a Maserà, in provincia di Padova. Negli anni Venti aderisce con entusiasmo giovanile alla nascente ideologia fascista, in particolar modo alla sua versione dannunziana. Tanto che, per sostenere le idee di Gabriele D’Annunzio, litiga con un suo professore che aveva condannato l’impresa del Vate a Fiume, e per questo motivo è espulso per un anno da tutte le scuole del Regno.

Coerentemente con le sue scelte ideologiche, nel 1936 parte come volontario per la guerra di Etiopia e nel 1937 per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco. Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, nel 1939, il suo rapporto con il fascismo entra in crisi essenzialmente per due motivi: l’alleanza che il governo di Mussolini stringe con la Germania, contro cui l’Italia aveva combattuto una guerra solo vent’anni prima, e per le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Rinuncia quindi alle sue idee giovanili, senza però diventare un oppositore al regime. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trova con permesso diplomatico nei paesi dell’Est Europa come agente di una ditta di Trieste che importa carne per l’Esercito italiano. L’armistizio tra l’Italia e gli Alleati dell’8 settembre 1943, lo coglie mentre si trova a Budapest in Ungheria.

Sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà al Re d’Italia, e nonostante le nostalgie fasciste di gioventù, rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici dove gli viene prospettato il trasferimento in Germania. Nel mese di ottobre del 1944, quando i tedeschi che occupano l’Ungheria affidano il potere alle Croci Frecciate, ovvero ai filonazisti magiari, iniziano le persecuzioni sistematiche e le deportazioni nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica.

Davanti alla grande sinagoga di Busapest

In un contesto così difficile e violento come ti muovesti in quei frangenti a Budapest?

Approfittando di un permesso che mi diedero per andare a Budapest per una visita medica, riuscii a nascondermi e fuggire. Mi nascosi prima presso vari conoscenti, quindi, grazie a un documento che attestava la mia partecipazione alla guerra civile spagnola e al foglio che mi assicurava assistenza diplomatica per il mio lavoro di importatore di carne per l’esercito, trovai rifugio presso l’ambasciata spagnola.

Quel documento della guerra di Spagna, firmato nientemeno che dal Generalissimo Franco, fu fondamentale per te.

Grazie a quello, in pochi minuti diventai cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, e iniziai a collaborare con Ángel Sanz Briz, l’ambasciatore spagnolo che, assieme ad altri ambasciatori di paesi neutrali presenti in Ungheria (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano), stava già rilasciando salvacondotti per proteggere gli ebrei ungheresi.

Già, ma a fine novembre 1944 Sanz Briz lasciò l’Ungheria per il suo rifiuto di riconoscere il governo filonazista appena nato.

Il giorno dopo, il ministero dell’Interno ungherese, venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz, ordinò di sgomberare le case di proprietà della Spagna, dove avevano trovato rifugio molti cittadini ebrei.

E fu a quel punto che tu, Giorgio Perlasca, commerciante italiano di bestiame, con una conoscenza perfetta della lingua spagnola, prendesti la decisione più importante della tua vita.

l documento redatto a mano con le credenziali che accreditano Giorgio Perlasca come diplomatico dell’Ambasciata spagnola in Ungheria, presentato al Ministero degli Esteri d’Ungheria nel novembre 1944.

Infatti, mi precipitai presso il ministero dell’Interno urlando: «Sospendete tutto! State sbagliando tutto! L’ambasciatore spagnolo Sanz Briz si è recato a Berna in Svizzera, per comunicare più facilmente con il suo governo a Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza».

È proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci, difatti fosti creduto e le operazioni di sgombero furono sospese.

Il giorno dopo su carta intestata e con timbri autentici, compilai di mio pugno la nomina ad ambasciatore spagnolo e la presentai al ministero degli esteri dove le credenziali diplomatiche vennero accolte senza riserve.

Nelle vesti di diplomatico tenevi in piedi pressoché da solo l’ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile impostura che ti portò a salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati nelle case protette lungo il Danubio.

Cercavo di tutelarli in ogni modo dalle incursioni delle Croci Frecciate, mi recai più volte con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del re di Svezia, e con il nunzio della Santa Sede monsignor Angelo Riotta, alla stazione per cercare di recuperare più gente possibile.

Protetto dalla mia posizione di diplomatico spagnolo riuscii persino a ingannare il ministro dell’Interno ungherese, minacciando una supposta ritorsione spagnola sui cittadini ungheresi viventi in Spagna e addirittura in America Latina, se avesse autorizzato l’incendio del ghetto di Budapest.

È vero che trattavi ogni giorno con il governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilasciando salvacondotti che dicevano: «Parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non saranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà sotto la protezione del governo spagnolo».

Questi salvacondotti li rilasciavo utilizzando una legge voluta nel 1924 dal ministro spagnolo Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (ovvero di antica origine spagnola) scacciati alcuni secoli prima (31 marzo 1492) dalla regina Isabella la Cattolica dal suolo iberico. Lungo i secoli essi si erano dispersi in tutta Europa.

La legge Rivera in un certo qual modo fornì la base legale dell’intera operazione organizzata coraggiosamente da te, che permise di mettere in salvo più di cinquemila ebrei ungheresi.

Direi proprio di sì.

Perlasca e Cossiga il 30 giugno 1990

Il busto dedicato a Giorgio Perlasca davanti all’Istituto di Cultura Italiana di Budapest

Dopo l’entrata a Budapest dell’Armata Rossa sovietica, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia. Da eroe solitario diventa un «uomo qualunque»: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà. Grazie però ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la Seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca viene alla luce.

Le testimonianze dei sopravvissuti salvati sono numerose e ben documentate, la notizia diventa di dominio pubblico, arrivano i giornali, le televisioni, si pubblicano libri su quella drammatica vicenda.

Lo stesso Perlasca – vincendo la sua naturale riservatezza – accetta di recarsi nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché follie come quella del nazismo non abbiano mai più a ripetersi.

Giorgio Perlasca muore il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova, sulla sua lapide a fianco delle date di nascita e di morte, è incisa un’unica frase in ebraico: «Giusto tra le Nazioni».

Don Mario Bandera

Libro dedicaro a Giorgio Perlasca




I Perdenti 51. Dimităr Pešev, l’uomo che fermò Hitler

testo di Don Mario Bandera |


Dimitar Iosifov Peshev

Dimităr Josifov Pešev (o Peshev – 1894-1973) fu un uomo politico bulgaro che, come tanti, si lasciò affascinare dagli esperimenti totalitari nell’Europa del Novecento. Aveva iniziato la sua carriera come magistrato nel 1921 ed era poi diventato avvocato nel 1932. Nel 1935 accettò la proposta del primo ministro bulgaro Georgi Kjoseivanov di diventare ministro della Giustizia nel nuovo governo. Pochi anni dopo diventò il vicepresidente del parlamento.

Egli era un autentico democratico ma si illuse che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica, quest’ultima messa alla prova, dopo la Prima guerra mondiale, da tentativi di colpi di stato sia di destra che di sinistra.

Fu fautore dell’alleanza con la Germania nazista perché attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall’idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori «ingiustamente» perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13: parte della regione di Dobruja, passati alla Romania, e la Tracia dell’Ovest, alla Grecia.

Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero alla Bulgaria, nel 1940, di far parte dei paesi dell’Asse alleati alla Germania (con il ritorno sotto il dominio bulgaro dei territori perduti), e nel 1941 di approvare le leggi razziali.

Il giorno in cui si tenne in parlamento la discussione sulla politica che si sarebbe dovuta tenere nel paese nei confronti della minoranza ebraica, Pešev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente.

Pensava, in quel momento, che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa.

La visione democratica che tu avevi non ti aiutò a capire che i nazisti che occupavano la tua patria, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.

Una domenica mattina, all’improvviso, ricevetti la visita disperata di un amico che non vedevo da anni. Era un mio vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, una ridente cittadina al confine con la Macedonia dove avevo vissuto la mia adolescenza. Mi informò che il governo, in accordo con i tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica, presente da secoli in Bulgaria.

Questo amico ti mise anche al corrente che i treni erano già stati predisposti nelle stazioni.

Il piano prevedeva che la notte successiva gli ebrei sarebbero stati rastrellati e caricati su vagoni che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz). Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione.

A quel tempo avevi già sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non te ne eri preoccupato più di tanto.

Proprio così, ma di fronte a un amico che – disperato – mi chiedeva di aiutarlo, ebbi come un sussulto, un risveglio della mia coscienza.

Di colpo mi scossi dal mio torpore e subito mi diedi da fare. In quel primo momento pensai anzitutto di aiutare i miei amici di Kjustendil. Mi precipitai in parlamento, radunai altri deputati e con loro entrammo nell’ufficio del ministro dell’Interno, Petar Dimitrov Gabrovski – che condivideva col primo ministro forti simpatie naziste – e, dopo uno scontro drammatico, lo costringemmo a revocare l’ordine della deportazione. Erano le 5,30 del mattino del 9 marzo 1943.

E poi cosa avvenne?

Siccome in Tracia e Macedonia – dove il controllo tedesco era più forte – avevano già cominciato a radunare e deportare gli ebrei, telefonai personalmente a tutte le prefetture del paese per verificare che il contrordine fosse stato ricevuto e quindi rispettato. In questo modo la deportazione fu sospesa, ma non cancellata.

Decisi quindi di lanciare un’offensiva in parlamento. Mi ero reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza di cinquantamila ebrei bulgari.

Non c’era un minuto da perdere allora.

La lettera di protesta.  Sofia, 17 marzo 1943. Central State Archivess

Infatti, stesi una lettera di protesta molto dura e raccolsi le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo, al primo ministro Bogdan Filov e al re Boris III, di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.

Questo gesto di ribellione però ti costò molto caro. Perdesti la tua carica in parlamento e rischiasti di essere consegnato ai tedeschi.

Già, ma raggiunsi l’obiettivo che mi ero proposto: la mia denuncia ebbe un effetto dirompente, che nessuno si sarebbe aspettato. Il re, sentendosi sostenuto, fece marcia indietro e bloccò la deportazione.

Ma il tuo re era filonazista?

No. Anche lui si era illuso che l’alleanza con la Germania e la restituzione dei territori perduti potesse riparare le ingiustizie della conclusione della Prima guerra mondiale, combattuta (e persa) al fianco della Germania e dell’Austria. Ma non concordava con il nazismo e, poi, con lo sterminio degli ebrei. Va ricordato che era in stretto contatto con monsignor Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII), allora nunzio apostolico a Istanbul. Con la sua collaborazione era riuscito a far partire molti ebrei per la Palestina. Aveva anche cercato di evitare la loro deportazione obbligando gli uomini ebrei validi a lavori forzati di pubblica utilità. In più, il re aveva rifiutato, il 14 agosto, la richiesta di Hitler di inviare l’esercito bulgaro alla (disastrosa) campagna di Russia.

Purtroppo però, il re morì improvvisamente il 28 agosto 1943.

(Boris III è il marito di Giovanna di Savoia, sorella di Mafalda che abbiamo «intervistato» sul numero di Gennaio 2020, ndr).

Hitler non accettò volentieri il suo rifiuto e c’è il fondato sospetto che il re fu avvelenato.

In quella situazione anche la mia posizione era tutt’altro che facile. Morto il re, ci fu un reggente, perché il successore era ancora un bambino, poi gli avvenimenti precipitarono con la vittoria dell’Armata Rossa che liberò il paese dai nazisti, ma diede mano libera ai partigiani comunisti.

E tu, continuasti con la politica?

Subito dopo il conflitto mi diedi da fare per riscoprire e valorizzare gli ideali democratici della vita pubblica e m’impegnai per il cambiamento politico nel mio paese e per il suo riallineamento con l’Occidente.

Dimităr Pešev, commise però il «grave errore» di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani comunisti, che stavano consegnando il paese ai russi.

Ciò gli costò molto caro al momento dell’occupazione della Bulgaria da parte dell’Armata Rossa. Pešev fu processato con l’accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l’accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Tale accusa fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo. La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo, Joseph Nissim Yasharoff, estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Pešev nel 1936, quand’era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damian Velchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l’arrivo dell’Armata Rossa.

Pešev ebbe così solo quindici anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag gli fu risparmiato solo grazie all’intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Pešev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.

Dopo la guerra Pešev visse dimenticato da tutti. Gli ebrei, nel ‘49, lasciarono in massa la Bulgaria per trasferirsi in Israele. Negli anni ‘60, superate le difficoltà dell’emigrazione, iniziarono a inviare aiuti a chi li aveva salvati: Pešev ricevette stabilmente del denaro e delle lettere che lo ringraziavano per la sua azione. Gli fu proposto di recarsi in Israele, ma egli rifiutò: voleva prima essere riabilitato nel suo paese. Morì senza avere questa soddisfazione.

Don Mario Bandera

 

Il titolo di questa intervista è stato suggerito dal libro:
Gabriele Nissim,
L’uomo che fermò Hitler. La storia di Dimităr Pešev che salvò gli ebrei di una nazione intera,
Mondadori, Milano 1999.




Etty Hillesum la forza dentro


Etty Hillesum nasce ad Amsterdam, in Olanda, nel 1914 da una famiglia della buona borghesia ebraica. Ragazza vivace, brillante, fin dagli studi giovanili rivela un’intensa passione per la letteratura e la filosofia.

Dopo la laurea in giurisprudenza si iscrive alla facoltà di lingue slave e intraprende lo studio della psicologia. Gli anni in cui frequenta l’università sono quelli in cui divampa la seconda guerra mondiale e con essa la persecuzione del popolo ebraico. Negli ultimi anni della sua esistenza scrive un diario personale, undici quadei fittamente ricoperti da una scrittura minuta, quasi indecifrabile, che narrano gli eventi degli anni 1941 e 1942, anni di guerra e di oppressione, non solo per l’Olanda, ma per l’Europa intera, per Etty un periodo di crescita e paradossalmente di liberazione individuale. Proveniente da una famiglia in cui le relazioni tra i suoi membri erano segnate da diverse incomprensioni, Etty vive un’amara adolescenza con degli sfibranti malesseri fisici, ma non tarda molto a scoprire che essi sono legati a tensioni di ordine spirituale che la lasciano: «Lacerata interiormente e mortalmente infelice».

In quel periodo ha un incontro decisivo con uno psicologo ebreo, Julius Spier, di molti anni più anziano di lei, che nei suoi confronti si rivela ben più di un terapeuta. Attraverso le contraddizioni di una relazione particolarmente complessa, per certi versi anche ambigua, egli la guida in un percorso di realizzazione umana e spirituale.

Etty, prova a raccontarci come si sviluppò la tua storia di ebrea olandese che i tedeschi deportarono nei campi di sterminio.

Dopo aver invaso la Polonia nel settembre 1939, le armate di Hitler irruppero in Olanda il 10 maggio 1940. Da piccola nazione libera e indipendente quale eravamo, diventammo un piccolo satellite nell’orbita nazista.

In un primo tempo la comunità ebraica non pensò che le cose sarebbero volte al peggio come invece avvenne pochi mesi dopo.

Assolutamente no, nonostante con il passare dei mesi venisse rapidamente portata a compimento l’attuazione delle leggi di Norimberga che vietavano agli ebrei, tra le altre cose, di usare trasporti pubblici, telefonare, sposarsi con persone non ebree.

Ma i nazisti non si limitarono a quelle misure.

Nel 1939 venne creato il campo di Westerbork, dove il governo olandese, in accordo con la principale organizzazione ebraica presente in Olanda, decise di riunire i rifugiati ebrei, tedeschi o apolidi, che vivevano nei Paesi Bassi.

Nonostante il cataclisma che stava abbattendosi sull’Europa tu trovasti il modo di non perdere la testa e di mantenerti serena.

Fu il 3 febbraio 1941 che avvenne l’incontro più importante della mia vita, l’incontro con lo psicologo Julius Spier, allievo di Carl Gustav Jung, inventore della psicochirologia, la scienza che studia la psicologia di una persona partendo dall’analisi delle mani.

Che tipo era Julius Spier?

Ebreo tedesco, fuggito da Berlino nel 1939, Spier tenne ad Amsterdam dei corsi serali particolarmente apprezzati e molto frequentati. Nel frattempo, a causa della mancanza di personale tedesco, era giunta un’informativa che permetteva a dei prigionieri di svolgere un lavoro di segreteria. Un giovane studente di biochimica che frequentava i suoi corsi propose a Spier di assumermi come segretaria.

Il vostro incontro fu folgorante e tu decidesti subito di prendere un appuntamento privato per cominciare una terapia.

Subito fin dall’inizio diventai la prima segretaria di Spier e successivamente una sua allieva. Il problema fu che tra noi scoppiò un’attrazione reciproca molto forte, nonostante la notevole differenza di età, 54 anni lui e 27 io. Ma la complicazione peggiore stava nel fatto che entrambi eravamo già impegnati in altre relazioni.

Anche se lavoravi da lui non ti fermavi a dormire per la notte?

No, tornavo al campo dove, attraverso una radio clandestina che i prigionieri avevano costruito, appresi la notizia che i tedeschi si preparavano ad annientare totalmente tutti gli ebrei dal continente europeo.

Nello stesso periodo il campo di Westerbork passò sotto comando tedesco diventando così un «campo di transito di pubblica sicurezza».

I tedeschi volevano fare di quel campo un luogo di raccolta e di smistamento per gli ebrei prigionieri diretti ad Auschwitz. Fu necessario trovare qualcuno che mandasse avanti l’organizzazione a livello amministrativo-burocratico.

Quindi anche per te fu dilatato il tuo campo di azione?

È vero, a Westerbork godevo di una certa libertà e questo mi permise di mantenere contatti con l’esterno e di scrivere delle lettere che si diffusero ovunque in Olanda. Il 15 settembre 1942 Julius Spier morì per un tumore al polmone e, cosa abbastanza strana, le autorità tedesche mi diedero il permesso di andare ad Amsterdam per partecipare al suo funerale.

La relazione con Julius Spier è alla base della tua sensibilità religiosa e, attraverso i tuoi scritti, intuiamo che c’era tra voi una grande tensione spirituale.

Pur proveniente da una famiglia ebraica, io ero per nulla osservante delle leggi della Sinagoga. L’incontro con Julius fu per me come uno squarcio di sereno in una giornata carica di nubi e di dubbi. Con lui posso dire di essermi aperta alla trascendenza e al divino. Mi insegnò a pregare e finalmente riuscii a raccogliermi e a concentrarmi su me stessa. Imparai a ritirarmi nella mia cella personale della preghiera, che diventava ogni giorno una realtà sempre più grande.

Anche la situazione che stavi vivendo imparasti a vederla con occhi diversi?

I nazisti potevano renderci la vita più dura, privarci della nostra libertà di movimento, ma io mi rendevo conto che eravamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori, con un atteggiamento del tutto sbagliato, col sentirci perseguitati, umiliati ed oppressi, col nostro odio e con la millanteria che mascherava la paura.

In un certo senso si può dire che anche attraverso le situazioni più drammatiche possiamo mantenere la nostra dignità, nessuno ce la può portare via.

Se ho imparato qualcosa dalla mia terribile esperienza è che quel Dio che vive in noi soffre con noi. Egli non può fare molto per modificare le circostanze in cui mi trovo, ma io sono sicura che a ogni battito del nostro cuore tocca a noi aiutare Lui, difendere fino all’ultimo la Sua Casa che è in noi. Non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle braccia di Dio.

Anche se non vedevi all’orizzonte la fine dei tuoi tormenti, la scoperta di Dio dentro di te ti spinse a vivere per aiutare altre persone a preparare tempi nuovi.

Ero sicura che i «tempi nuovi» sarebbero venuti e sentivo che stavano crescendo in me con una forza irresistibile ogni giorno di più. Alla sera tardi, quando il giorno si era inabissato dentro di me, mi capitava spesso di camminare lungo il filo spinato e di sentire che dal mio cuore si innalzava una voce, anzi una forza elementare che diceva che la vita è una cosa splendida e grande. Per questo abbiamo il dovere, nonostante tutto, di costruire un mondo completamente nuovo.

Anche quando capisti che Hitler e i suoi sgherri nazisti volevano lo sterminio del tuo popolo.

Per ogni crimine od orrore che si consuma sulla Terra dovremmo essere capaci di opporre un nuovo pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sapremo sopravvivere intatti a questo tempo, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita.

Etty, la tua testimonianza lascia un messaggio sconvolgente e allo stesso tempo meraviglioso.

Sul mio diario scrissi così: «Se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, quel pezzettino di eternità che ci portiamo dentro ci spalancherà un orizzonte nuovo. Sono una persona felice, nonostante la detenzione, lodo questa vita nell’anno del Signore 1942 e combatto la mia battaglia contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine».

Nonostante tutto riesci a dare a tutti un po’ del tuo amore cristallino e sconfinato.

Pur essendo vissuta in un mondo sbagliato, senza dignità, io non odio nessuno, non sono amareggiata perché ho la consapevolezza che, una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a crescere e svilupparsi, in noi questo amore diventa infinito.

Dall’estate del 1943 si moltiplicano i treni carichi di prigionieri che dal campo di raccolta di Westerbork, in Olanda, si dirigono verso Auschwitz. Il 7 settembre 1943 la famiglia Hillesum sale su un convoglio diretto in Polonia. I genitori muoiono di stenti lungo il tragitto, mentre Etty e il fratello Mischa muoiono nel marzo del 1944 entrambi nel campo di sterminio. Il fratello Jaap, deportato nel campo di Bergen Belsen, muore il 27 gennaio 1945 sul treno che evacua i sopravvissuti del campo, da pochi giorni liberato dall’Armata Rossa.

I quadei di Etty con la sua calligrafia minuta vengono da lei affidati a una sua amica che solo nel 1981 riesce a trovare un editore per pubblicarli. Essi diventando immediatamente un grande successo editoriale. La storia di Etty colpisce per la lucidità con la quale questa giovane donna olandese affronta le vicende tragiche del suo tempo opponendo una grande resistenza interiore al male e ricercando con tenacia e fede in Dio tracce di bene anche là dove Egli sembra assente. L’insegnamento che ci lascia è l’unica strada per contrastare l’odio, è un atteggiamento d’amore con cui guardare – nonostante tutto – anche chi ci sta facendo del male.

Don Mario Bandera